Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

INDICE DODICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

(ANSA il 7 novembre 2022) - La decisione della Russia di organizzare un'operazione militare speciale è stata in gran parte influenzata dalle minacce di Kiev di riprendere il suo programma nucleare, ha scritto oggi il vicesegretario del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev sulla sua pagina VKontakte, come riporta la Tass. 

Medvedev ha dichiarato che il regime di Kiev "è profondamente in lutto per la decisione presa in base al Memorandum di Budapest del 1994 di ritirare l'arsenale nucleare ereditato dall'Urss situato sul loro territorio". 

"E inoltre i leader ucraini hanno detto che lo avrebbero usato contro di noi e contro i loro cittadini con grande piacere", ha aggiunto Medvedev. "Cosa che hanno lasciato intendere in modo inequivocabile, minacciando di riprendere il programma nucleare che ha causato in gran parte l'operazione militare speciale", ha scritto.

"Una delle ragioni" dell'avvio dell'operazione militare speciale russa in Ucraina, ha spiegato Medvedev, sono state le aspirazioni dei "burattini squallidi" al potere a Kiev di dotarsi nuovamente di armi nucleari, alle quali aveva rinunciato con l'accordo di Budapest del 1994. Una decisione, quella, rimpianta "con amarezza" dai vari presidenti ucraini, "dal defunto Kravchuk all'attuale malfattore drogato", cioè Zelensky.

L’avanzata sovietica prosegue senza sosta. I nazisti costretti ad abbandonare Kiev. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Novembre 2022.

«Kiev conquistata. Su tutto il resto del fronte l’avanzata sovietica prosegue senza sosta»: il 7 novembre 1943 «La Gazzetta del Mezzogiorno» riporta gli aggiornamenti del conflitto ancora in corso nel resto d’Europa e in gran parte della Penisola. «In un ordine del giorno pubblicato a Mosca oggi, 26° anniversario della rivoluzione, il Maresciallo Stalin ha annunciato che stamattina all’alba le truppe sovietiche hanno occupato Kiev. Alle operazioni che hanno portato all’occupazione di Kiev, è detto nell’ordine del giorno, ha partecipato il 1° corpo ucraino che è entrato primo nella città presa d’assalto».

L’esercito tedesco è stato costretto, stando a quanto riferisce il giornale «Stella Rossa», dall’irruenza dell’Armata Rossa a battere in ritirata. «Le truppe sovietiche occupano ora un territorio considerevole e numerosi villaggi a sud ovest e a ovest della capitale ucraina, con la conquista della quale i russi dispongono di un’importante testa di ponte sulla riva destra del Dnieper, che aiuterà a cacciare i tedeschi dall’Ucraina settentrionale». Il corrispondente della Bbc sul fronte russo, Paul Winterton, informa che tutta la penisola tra la foce del Dnieper e la Crimea è stata rastrellata da ogni residuo di forze tedesche. «L’inizio della campagna invernale trova i tedeschi in una situazione che non promette niente di buono per loro», afferma fiducioso il cronista britannico. Stalin ha definito Kiev «la chiave dell’Europa sud orientale». Il territorio ucraino è da decenni, in realtà, insanguinato da continui contrasti con la vicina Russia, da cui ha invano cercato l’indipendenza: dopo la rivoluzione bolscevica, è stata teatro di violenti scontri fra le forze rosse, legate a Lenin, e le truppe bianche, formate da componenti del vecchio esercito zarista. Nel 1922 si è costituita come Repubblica Socialista Sovietica Ucraina ed è entrata a far parte dell’Urss guidata da Lenin. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, il Paese è diventato presto obiettivo dell’espansionismo di Hitler. Nel settembre 1941 la Germania ha annunciato la caduta di Kiev proclamando: «Questa è la più grande vittoria della guerra».

Più di 500mila soldati russi sono stati fatti prigionieri o giustiziati: la popolazione ebraica è stata quasi interamente sterminata. Con la liberazione della città da parte dell’Armata Rossa del 6 novembre 1943, Kiev ritornerà capitale della Repubblica socialista sovietica e lo rimarrà fino al 24 agosto 1991, quando sarà proclamata l’indipendenza dell’Ucraina, in seguito al crollo dell’Urss. ​​​​Nel febbraio 2022, con l’invasione russa del Paese, la città è stata posta di nuovo sotto assedio.

Perché gli interventi militari Usa sono aumentati dopo la Guerra Fredda. Roberto Vivaldelli il 7 Settembre 2022 su Inside Over.

Iraq, Afghanistan, Libia ma anche Serbia, Pakistan, Yemen, Somalia. Dei circa 400 interventi militari condotti dagli Stati Uniti dal 1776 ad oggi, la metà si è verificata tra il 1950 e il 2019 e oltre il 25% di essi risale al periodo successivo alla Guerra Fredda. È ciò che emerge da uno studio redatto da Sidita Kushi – docente di scienze politiche presso la Bridgewater State University e già direttrice della ricerca del Military Intervention Project (MIP) del Center for Strategic Studies – e Monica Duffy Toft – professoressa di politica internazionale e direttrice del Center for Strategic Studies presso la Fletcher School of Tufts University – e pubblicato sull’autorevole Journal of Conflict Resolution. Lo studio, dedicato all’ascesa dell’interventismo degli Stati Uniti dopo la fine della Guerra Fredda, è stato presentato il 6 settembre 2022 nel corso di un webinar promosso dal think-tank Quincy Institute for Responsible Statecraft, moderato dal politologo Trita Parsi. Ospite speciale il celebre studioso John J. Mearsheimer, Wendell Harrison Distinguished Service Professor presso l’Università di Chicago, dove insegna dal 1982.

Boom di interventi militari Usa dopo la fine della Guerra Fredda

Perché la frequenza degli interventi militari statunitensi è aumentata dopo aver “sconfitto” l’Unione Sovietica e la sicurezza americana era al suo apice durante il “momento unipolare?” È il quesito a cui hanno provato a rispondere gli ospiti del webinar organizzato dal think-tank americano. Innanzitutto, va chiarito cosa si intende per “intervento militare”. In tal senso, s’intende “il movimento di truppe o forze regolari (aviotrasportate, marittime, bombardamenti, ecc.) di un Paese all’interno di un altro, nel contesto di una qualche questione o disputa politica”. Per separare gli interventi di maggiore intensità da scaramucce minori, questa definizione “esclude i paramilitari, le milizie sostenute dal governo e altre forze di sicurezza che non fanno parte dell’esercito regolare”. Vengono presi in considerazione, dunque, “i casi in cui gli Stati Uniti hanno utilizzato le proprie forze armate all’estero in situazioni di conflitto militare o potenziale conflitto o per scopi diversi dai normali tempi di pace”. Non vengono conteggiate, per intenderci, “le operazioni segrete” e non ufficiali.

Alcuni studiosi, osservano Toft e Kushi, hanno spiegato tali crescenti tendenze interventiste come parte della nuova norma di “sovranità contingente”, che sfida esplicitamente il tradizionale principio di non intervento negli affari interni di altri stati. In particolare, spiegano, “per quanto riguarda gli Stati Uniti, una prospettiva è che il Paese si sia evoluto oltre la sua dottrina di contenimento della Guerra Fredda verso l’azione basata sull’intervento umanitario. In effetti, gli interventi militari in Bosnia, Kosovo, Libia e Somalia avevano tutti alcune giustificazioni umanitarie, ma questi interventi in genere non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi umanitari e di democratizzazione” osservano.

Gli obiettivi della politica estera Usa dopo la Caduta del Muro

Altri studiosi sostengono che gli interventi militari statunitensi “danneggiano i cittadini stranieri e riducono gli obiettivi di sicurezza degli Stati Uniti”. Invece di diffondere la democrazia, affermano, “questi interventi tendono a trasformare gli stati bersaglio in democrazie illiberali, nella migliore delle ipotesi”. Dallo studio emerge che, nell’era successiva alla Guerra Fredda, “gli Stati Uniti sono intervenuti per perseguire un minor numero di interessi nazionali vitali poiché le rivalità geopolitiche e le minacce vitali alla sicurezza interna erano svanite. L’era del dopo Guerra Fredda ha visto gli Stati Uniti esercitare la propria forza militare verso più missioni di democratizzazione, applicazione dei diritti umani, interventi umanitari e sostegno a interventi di terze parti nelle crisi interne interne in tutto il mondo”. Un dato significativo: contrariamente alle aspettative liberali, dal 2000 in poi gli Stati Uniti sono intervenuti nei paesi con livelli di democrazia più elevati, secondo i punteggi di Polity che vanno da +10 (piena democrazia) a -10 (piena autocrazia).

L’obiettivo di proteggere i cittadini statunitensi, i diplomatici, le ambasciate e le proprietà all’estero durante una crisi è stato l’obiettivo più frequente degli interventi statunitensi, seguito da vicino dalla protezione sociale e dagli obiettivi economici. La “protezione sociale” implica la protezione di una fazione socioetnica nel paese di destinazione, la protezione generale dei civili dalle violazioni dei diritti umani tramite un intervento umanitario, il ripristino dell’ordine sociale in una crisi o la repressione dei combattimenti tra gruppi armati. Tuttavia, nell’era del Secondo dopoguerra, la costruzione di un regime democratico all’estero è cresciuta tra i primi tre obiettivi degli interventi militari statunitensi. Inoltre, fino alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sono intervenuti frequentemente in America Latina e in Europa, ma a partire dagli anni ’50 Washington ha concentrato la loro attenzione su Medio Oriente e Nord Africa (Mena). Negli anni ’90, il numero di interventi militari nell’area Mena è raddoppiato, e Washington ha diretto la sua attenzione anche sull’Africa subsahariana e sull’Asia meridionale.

L’intervento di Mearsheimer: “L’unipolarismo è finito”

Commentando lo studio redatto da Sidita Kushi e Monica Duffy Toft, John J. Mearsheimer ha sottolineato che quello di oggi è un “mondo multipolare” dove vi è una “grande competizione per la sicurezza”. La rivalità fra grandi potenze, ha notato il celebre studioso, è infatti “viva e vegeta, come vediamo a Taiwan e in Ucraina”. A differenza del periodo “unipolare”, caratterizzato, come ha dimostrato lo studio, da un marcato interventismo militare da parte degli Stati Uniti, “ora gli interventi diminuiranno. Ma c’è un problema: ora un singolo intervento significa un potenziale scontro con una grande potenza, e questa è tutta un’altra storia” rispetto al periodo che ha caratterizzato la fine della Guerra Fredda”.

“Ora gli Stati Uniti devono fare i conti con due grandi potenze rivali, e non solamente una, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Sarebbe decisamente meglio stringere accordi con una delle due potenze, ma ora la possibilità di competere Cina e Russia è reale” ha spiegato Mearsheimer. Durante la Guerra Fredda, ha ricordato lo studioso, “c’è stato un grande dibattito su come contenere l’Unione Sovietica: esistevano due visioni diverse, una più aggressiva dell’altra. Ora la domanda che dobbiamo porci è quanto possiamo davvero essere aggressivi nel contenere la Cina? E la Russia? Siamo in una situazione pessima”.

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Usa: la follia di ripetere sempre gli stessi errori. Piccole Note il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

“L’egemonia americana è ancora in vita. E gli specialisti di terapia intensiva stanno ancora cercando di rianimare il paziente. La famiglia e gli amici dicono che sta ancora lottando. Tuttavia, i becchini di questo ordine morente sono già arrivati ​​e si trovano appena fuori dalla porta: uno si chiama Russia e l’altro Cina”. Inizia così un divertente, quanto intelligente, articolo di Jim Fitzgerald su Antiwar, del quale riportiamo ampi stralci.

La Forza vi farà liberi

“Come ha osservato John Mearsheimer  – scrive Fitzgerald – il momento unipolare successivo alla caduta dell’ex Unione Sovietica è stato un periodo storico assolutamente unico. In quel momento, e per i successivi 30 anni, l’America era l’unica superpotenza rimasta in piedi. La visione di Thomas Woodrow Wilson di democratizzare il mondo si è rivelata una tentazione irresistibile per le élite che guidano la politica estera occidentale. Così gli evangelisti di questo nuovo ordine mondiale si sono proposti di diffondere la democrazia in tutta l’Asia orientale, l’Europa orientale, il Medio Oriente e il Nord Africa”.

“Hanno usato l’architettura fondata sulle istituzioni nate durante la Guerra fredda (l’ONU, la NATO, l’Unione europea, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio) per diffondere i valori liberali e per ‘associare tutti al capitalismo’”.

“Accecati dal loro stesso idealismo, non potevano immaginare che qualcuno avrebbe rifiutato un’offerta tanto generosa. Dopotutto, come si vantava spesso il presidente George W. Bush, ‘la libertà è nel cuore di ogni individuo’. In altre parole, data l’opportunità offerta, tutti avrebbero scelto naturalmente di essere liberi. Tale idea è un’eco del detto del presidente Wilson: ‘Il mondo deve essere messo al sicuro tramite la democrazia [enfasi mia]'”.

“La dottrina Wilson, tuttavia, va interpretata alla luce del pensatore francese Jean-Jacques Rousseau. Rousseau riteneva che ‘l’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene’. Tuttavia, per Rousseau, la condizione umana è tale che gli uomini non sempre sono coscienti di cosa è bene per loro. Quindi, devono essere costretti a essere liberi da altri che lo sanno meglio di loro. Come ha affermato Rousseau, ‘Chiunque si rifiuta di obbedire alla volontà generale, sarà costretto a farlo da tutto il resto del corpo; questo significa semplicemente che sarà costretto a essere libero'”.

“Non è mai stata scritta una frase più precisa per descrivere l’essenza della politica estera americana dell’era post Guerra Fredda. L’America si è dedicata costantemente alla missione violenta volta a costringere gli uomini a essere liberi; eppure questi restano incatenati”.

L’America di guerra e di governo

“Non abbiamo bisogno di guardare oltre l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, la Siria, lo Yemen e l’Iran, per vedere i fallimenti della politica estera americana. Non solo, le élite che guidano la politica estera americana sembrano incoraggiate dai loro fallimenti perché stanno tentando le stesse stanche politiche in Ucraina e Taiwan”.

“La visita della presidente Pelosi a Taiwan e la lettera di Mitch McConnell e altri 25 senatori a sostegno della sua iniziativa sono l’ultimo esempio della politica fondata sulla provocazione propria dell’ordine liberale”.

“Dovrebbe essere ovvio a chiunque vi presti attenzione che, piuttosto che prevenire le guerre, l’egemonia americana crea guerre dove non ce ne sono. In effetti, l’America è stata in guerra per tutta l’era unipolare, e la Pelosi, e gli altri con lei, sembrano voler provocare un’altra guerra”.

“Ma le cose stanno cambiando e cambiando velocemente. La Russia non è più la nazione debole e anemica di 30 anni fa e la Cina non è lo stesso paese povero del secondo Dopoguerra. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha messo in guardia il progetto egemonico americano e ha disvelato gli obiettivi espansionistici di istituzioni come la NATO”.

“Questo è il motivo per cui quasi tutti gli esponenti della politica estera di stanza a Washington, i capi delle istituzioni internazionali e i think tank stanno diventando apoplettici. Il loro ordine sta crollando e le loro decisioni e le loro azioni appaiono dettate dalla disperazione”.

“Sfortunatamente non vi è alcun segno che questi politici siano disposti a cambiare rotta. Sono esempi viventi della definizione di follia data da Einstein: ‘Fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi’. Appaiono del tutto incapaci di uscire da una mentalità che, in termini di politica estera, ha già fatto il suo corso”.

Quindi Fitzgerald conclude spiegando che l’unica via di uscita è tornare a una politica estera basata sul realismo nel quadro di un equilibrio di potere tra potenze.

Kissinger, la diversità di valori e il senso del limite

In una recente intervista, Kissinger declina le due regole base di tale realismo. Anzitutto “l’accettazione della legittimità di valori talvolta contrastanti. Infatti, se credi che il fine ultimo di ogni tua azione debba essere l’imposizione dei tuoi valori, allora l’equilibrio, secondo me, diventa impossibile”. Regola aurea tanto disattesa.

L’altra regola “è l’equilibrio nei comportamenti, il che significa che esistono limiti all’esercizio delle proprie competenze e del proprio potere in relazione a ciò che è indispensabile all’equilibrio complessivo”. Tale senso del limite è fuori dall’orizzonte della politica estera Usa, conseguenza del delirio di onnipotenza conseguente al crollo dell’Unione Sovietica.

Il vacillare delle certezze pregresse porta l’America ad agire d’istinto, spiega ancora Kissinger, senza una visione strategica; il che sta portando il mondo sull’orlo di una guerra con Russia e Cina “per questioni che in parte abbiamo creato noi stessi, senza nessuna idea precisa di come andrà a finire”.

Una situazione resa ancor più difficile perché si è perso il fondamento del dialogo, strumento indispensabile per cercare compromessi. Infatti, spiega Kissinger, gli americani vedono “i negoziati in termini missionari […] cercando di convertire o di condannare i loro interlocutori invece di approfondirne e capirne la mentalità”.

Una lezione di politica che spiega perfettamente la follia e i rischi del momento.

Come gli Usa indussero Mosca a invadere l'Afghanistan. E poi l'Ucraina...Piccole Note il 27 giugno 2022 su Il Giornale.

La Russia ha preso il controllo di Severodonetsk, avendo vinto la “battaglia chiave” del Donbass, come veniva definita della stampa internazionale. Per coprire la notizia negativa, che smentisce la propaganda occidentale sull’esercito russo allo sbando, Bloomberg annuncia il default di Mosca (più virtuale che reale) e l’Occidente annuncia nuove misure restrittive sull’economia russa e le nuove armi.

Tutto ciò serve soprattutto a evitare che si possa riflettere su quanto sta avvenendo e parlare seriamente di un negoziato, parola che risuona vuota nei discorsi della Politica d’Occidente, essendo usata pubblicamente solo e soltanto come esito conclusivo di una vittoria ucraina (cioè della Nato) e non come possibilità reale per chiudere le attuali ostilità, eventualità che necessariamente comporterebbe un compromesso.

D’altronde le guerre infinite, delle quali quella ucraina è solo la più recente, non prevedono la possibilità di un compromesso. La loro prospettiva “infinita”, infatti, è tale proprio perché non prevede un esito diverso dalla vittoria degli Stati Uniti su tutti i suoi antagonisti globali e locali, veri o percepiti come tali.

Tutte le guerre infinite, informate da tale missione ultimativa radicata nell’eccezionalismo americano, assumono così carattere esistenziale e salvifico. A iniziare dalla prima, quella afghana, che doveva salvare il mondo dalla minaccia del Terrore globale (il fatto che, invece, lo abbia incrementato esponenzialmente non ha intaccato il dogma, applicato poi a Saddam, Gheddafi e Assad e altri).

Se abbiamo citato la guerra afghana, è anche per un altro motivo, cioè quanto scrive Patrick Macfarlane sul sito del Libertarian Institute riguardo al playbook sulle guerre per procura di Zbiegnew Brzezinski, già consigliere per la Sicurezza nazionale di Jimmy Carter, le cui prospettive di politica estera sono ormai radicate nell’establishment Usa.

In un’intervista al Nouvel Observateur, Brzezinski si vantò del suo capolavoro: il programma segreto della Cia di armare i mujaheddin contro il legittimo governo afghano era riuscito nello scopo di convincere l’Unione Sovietica a invadere il Paese confinante, attirandola in una trappola che l’avrebbe logorata.

Interpellato su quel programma segreto (da cui, per inciso, nacque al Qaeda), Brzezinski  rispondeva: “Rimpianti? Quell’operazione segreta è stata un’idea eccellente. Ha avuto l’effetto di trascinare i russi nella trappola afgana e vuoi che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici hanno ufficialmente attraversato il confine, ho scritto al presidente Carter: ‘Ora abbiamo l’opportunità di dare all’URSS la sua guerra in Vietnam’. Per quasi 10 anni, infatti, Mosca ha dovuto condurre una guerra insostenibile per il regime, un conflitto che ha portato alla demoralizzazione e infine alla disgregazione dell’impero sovietico”.

E, nell’intervista, spiegava: “Non abbiamo spinto i russi a intervenire, ma abbiamo aumentato consapevolmente le probabilità che lo facessero” (ciò ricorda molto le parole del Papa sull’abbaiare della Nato alle porte della Russia, che ha indotto questa ad agire, con “un’ira che non so dire se sia stata provocata — come si interroga —, ma facilitata forse sì”).

“Nel luglio 2014 – continua Macfarlane  – quasi sei mesi dopo la rivoluzione di Maidan […], Brzezinski ha accennato a un piano simile per l’Ucraina”, sebbene formulato “in termini difensivi”, sul blog del Consiglio Atlantico.

Così scriveva Brzezinski: “Se l’Ucraina deve essere sostenuta in modo che resista, gli ucraini devono sapere che l’Occidente è pronto ad aiutarli a resistere. E non c’è motivo di essere riservati al riguardo. Sarebbe molto meglio essere aperti e dire agli ucraini e a coloro che potrebbero minacciare l’Ucraina che, se gli ucraini resisteranno, avranno le armi. E forniremo alcune di queste armi prima ancora dell’invasione stessa. Perché senza questo, la tentazione di invadere e di anticipare può diventare soverchiante. Ma che tipo di armi è importante. E, a mio avviso, dovrebbero essere armi progettate in particolare per consentire agli ucraini di impegnarsi in un’efficace guerra urbana di resistenza”.

Le prospettive di  Brzezinski sono realizzate in particolare dai neocon repubblicani e dai liberal democratici. Lo evidenzia anche Mcfarlane quando riferisce i discorsi dei senatori John McCain, Lindsey Graham (entrambi repubblicani) e Amy Klobuchar (democratica) nel corso di un incontro con una brigata di militari ucraini.

Graham: “Ammiro il fatto che lotterete per la patria. La vostra battaglia è la nostra battaglia. Il 2017 sarà l’anno cruciale. Tutti noi torneremo a Washington e porteremo avanti la causa contro la Russia. Basta con l’aggressione russa. È tempo che paghino un prezzo più alto… La nostra promessa è di portare la vostra causa a Washington, informare il popolo americano del tuo coraggio e portare la causa contro Putin al mondo”.

McCain: “Credo che vincerete. Sono convinto che vincerete e faremo tutto il possibile per fornirvi ciò di cui avete bisogno per vincere. Riusciremo non per le attrezzature ma per il vostro coraggio. Quindi vi ringrazio e il mondo vi sta guardando perché […] non possiamo permettere a Vladimir Putin di avere successo qui, perché se avrà successo qui, avrà successo in altri paesi”.

Stessi discorsi di oggi, ma allora non c’era ancora l’invasione russa… L’anno cruciale è stato poi rimandato (morte di McCain, pandemia, freno di Trump, etc), ma alla fine il destino ha bussato alle porte dell’ucraina. Tutto come preventivato.

Federico Rampini contro Joe Biden: "La frase con cui ha dato il via alla guerra. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 27 giugno 2022.

E se la quinta colonna di Putin in Occidente non fosse rappresentata dal lamentoso professor Orsini, dal guerrigliero delle parole Di Battista e dai vari opinionisti e intellettuali, lo spocchioso Massimo Cacciari, il capelluto Sandro Teti, il gramsciano Angelo d'Orsi e l'eterno anti-atlantista Giorgio Cremaschi che girano i salotti televisivi facendo le bucce al governo sulla crisi ucraina? Sei migliori alleati dell'invasore russo fossero negli Usa, tra i talebani del progressismo culturale, e in Italia, dove ancora fioriscono, tanto nel mondo cattolico quanto in quello tardo -comunista, gli eredi dell'antiamericanismo? La risposta potrebbe trovarsi tra le righe di "Suicidio Occidentale", l'ultima fatica letteraria di Federico Rampini, firma del Corriere della Sera, inviato da tutto il mondo, con sede preferita negli States...

Il discorso di Putin sul declino dell'Occidente sembra copiato dal tuo libro: allora ha ragione lui?

«Non posso usare Putin come testimonial. Anzi devo riconoscergli la primogenitura. Da molti anni lui articola una requisitoria contro l'Occidente, echeggiando discorsi simili a Xi Jinping. Da tempo i due autocrati vanno dicendo chiaro e forte che considerano l'Occidente una civiltà decadente, un malato terminale incapace di reagire e risollevarsi. Per loro non abbiamo valori da proporre al resto del mondo, solo tante colpe e tanta arroganza. Ma è più grave - questo è il nucleo del mio libro - che mezzo Occidente sia d'accordo con loro. Abbiamo al nostro interno correnti culturali e politiche che descrivono l'America come l'Impero del Male, l'unica vera potenza imperialista, l'unica che ha il Dna dell'aggressione, l'unica ad aver saccheggiato il pianeta e oppresso gli altri popoli».

Demolire l'autostima, colpevolizzarci, flagellarci: come e perché è nata questa ondata masochista e talebana?

«L'Occidente ha sempre nutrito nel suo seno delle correnti autodistruttive. Il nazismo, collegandosi al romanticismo tedesco, identificava nell'Occidente una modernità malsana, perché materialista e mercantile. Un'ostilità profonda verso l'America come baluardo occidentale ci fu nel cattolicesimo. Alcuni papi tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento attaccarono perfino i cattolici americani accusandoli di essere troppo modernisti e liberali, cioè quasi protestanti. Infine c'è la tradizione della sinistra socialcomunista che divenne egemone negli anni Sessanta e Settanta, nel mondo intellettuale e tra i giovani; anche quelli che non erano filosovietici come i socialisti italiani o i gruppuscoli extraparlamentari, consideravano l'Urss o la Cina di Mao come un male minore rii spetto al vero demonio che era l'America. La svolta pro-Nato del Pci con Berlinguer nel 1977 non fu condivisa da una parte della sua base. Molti in quelle famiglie politiche hanno sempre pensato che la prima guerra fredda dovevano vincerla gli altri». 

L'incapacità di reggere un dibattito pubblico che non sia fondato sull'ipocrisia, dalle armi, al ruolo della Nato, al racconto della dialettica Zelensky-Putin è una spia del declino culturale dell'Occidente? Anche l'opinione pubblica viene manipolata e violentata da slogan di comodo e apodittici come prefigurato in 1984 di Orwell? 

«Scivoliamo a gran velocità verso comportamenti tribali. Chi ha accusato l'Italia di armare l'Ucraina non si è mai degnato di controllare quante armi stiamo mandando davvero: pochissime, mentre sosteniamo generosamente Putin comprandogli il gas con cui finanziai suoi massacri. Chi ha abbracciato senza esitazioni la propaganda di Putin sull'accerchiamento della Nato si guarda bene dallo studiare cosa accadde veramente negli anni Novanta: perché i paesi dell'Est vollero aderire all'Ue e al Patto Atlantico; quale ruolo fu offerto alla Russia nel G8. I fatti sono irrilevanti, ci si schiera a priori con la propria tribù».

Ravvisi delle differenze tra il declino occidentale americano e quello occidentale europeo? 

«La cancel culture, il neopuritanesimo sessuofobico, la censura intollerante contro chi non obbedisce al politicamente corretto: tutto ciò è nato in America però sta contagiando l'Europa. L'unico aspetto su cui è l'Europa ad essere ancora più decadente, è il ripudio del tema della sicurezza nazionale. L'Europa si è cullata nell'illusione di diventare la prima superpotenza erbivora della storia umana, rispettata dagli altri per la sua bontà. Ha cancellato il ruolo della forza e della difesa. In questo gli Stati Uniti sono meno auto-distruttivi».

La battaglia di Putin per restituire alla Russia il ruolo di potenza mondiale autonoma non è velleitaria, visto che Mosca ha il Pil della Spagna e alla fine sarà costretta a scegliere tra Occidente e Cina?

«Putin ha già scelto la Cina e gli sarebbe difficile tornare indietro. In quanto all'arretratezza dell'economia russa, è stata una costante nella storia di quel paese. I grandi Zar come Alessandro e Caterina non riuscirono mai a farne una nazione europea alla pari di Inghilterra Francia Germania, però esaltarono il nazionalismo con le conquiste militari. I leader dell'Urss presiedevano un'economia fallimentare ma ciò non gli impediva di invadere di volta in volta la Polonia, l'Ungheria, la Cecoslovacchia, l'Afghanistan».

Dipendiamo più noi dalla Russia o la Russia da noi? 

«La dipendenza è sempre biunivoca. All'epoca del comunismo sovietico, dirigenti pur sclerotizzati come Leonid Brezhnev ebbero l'astuzia di offrirsi quali partner affidabili per l'energia. Noi eravamo scottati dall'embargo petrolifero Opec del 1973 e l'Urss sembrava ben più stabile del Medio Oriente. La costruzione di infrastrutture come i gasdotti ha creato legami solidi di dipendenza. È la politica che conoscevano bene gli antichi romani quando mandavano in Europa le legioni accompagnate dagli ingegneri che progettavano strade ponti e acquedotti. Tutte le strade portavano a Roma, nel senso che le colonie erano costrette a dipendere dal centro dell'impero. Divincolarsi da questa dipendenza strutturale è un'operazione appena cominciata, sarà lunga faticosa e costosa. Ma Putin sta distruggendo una relazione di lunga data e ne pagherà le conseguenze, per esempio sull'accesso alle tecnologie avanzate».

Ritieni che la guerra in Ucraina sia stata in un certo modo cercata o che comunque poteva essere evitata? 

«Putin la pianifica dal 2008, quando invase la Georgia. Poteva essere evitata usando l'unico linguaggio che lui capisce, la forza. Se Biden non avesse detto subito che escludeva l'invio di truppe, se Biden non avesse rifiutato a priori la no-fly zone, se non avesse offerto a Zelensky la fuga in esilio, se al contrario avesse detto ciò che ora dice su Taiwan e cioè che l'America interverrebbe a difenderla da un'invasione cinese; allora è verosimile che Putin si sarebbe fermato. La Nato è forte se vuole. Un pugile che si rifiuta di salire sul ring e si lega le mani dietro la schiena non incute timore all'avversario». Quanto sono divergenti gli interessi degli Stati Uniti rispetto a quelli dell'Unione Europea? 

«C'è una divergenza economica, anche se meno importante di quanto si racconta in Italia. L'America ha una sostanziale autosufficienza energetica, quindi vive la crisi del gas in modo meno drammatico. Però i prezzi dell'energia li determina il mercato mondiale quindi l'automobilista americano è penalizzato quanto quello europeo, e la bolletta della luce sale anche negli Stati Uniti, sia pure un po' meno che in Italia. Per il resto io vedo un allineamento, non solo per la condivisione di valori. L'Europa ha interesse a investire nella sicurezza per potersi difendere dalle aggressioni; gli Stati Uniti hanno interesse a concentrarsi sulla minaccia cinese e quindi una difesa comune europea giova anche a loro».

L'Italia che ruolo può avere nella soluzione del conflitto? E l'Unione Europea?

«L'Italia vista da Washington è il numero quattro in Europa dietro Regno Unito, Germania, Francia. Non sovrastimiamo il ruolo di Roma, anche se Draghi piace alla Casa Bianca per il suo atlantismo. L'Unione europea ha riservato qualche sorpresa positiva quando Ursula von der Leyen ha anticipato Scholze e Macron sulla candidatura dell'Ucraina. Invece è in difficoltà sul dossier energetico dove non decide abbastanza».

Guerra, crisi energetica, inflazione: la tempesta perfetta: quanto e cosa rischia l'Occidente?

«Aggiungiamo la recessione. In America la Federal Reserve sta fabbricando una crisi economica perché per domare l'inflazione è costretta a deprimere la domanda di consumi e investimenti. Però siamo nazioni ricche e abbiamo le spalle larghe abbastanza per reggere una recessione. La crisi congiunturale mi sembra meno seria del dilemma che dobbiamo affrontare sul futuro della globalizzazione: ridurre la nostra dipendenza da potenze ostili non sarà facile né indolore, il conto sarà salato».

Sarà Pechino ad avere il ruolo decisivo per la fine del conflitto?

«Fino al vertice dei Brics appena concluso, Xi ha continuato a sostenere Putin senza se e senza ma. Anche lui paga dei prezzi per questo conflitto ma evidentemente guarda al lungo termine e vuole vedere l'Occidente umiliato».

Viste le premesse, pare che per Taiwan non ci siano molte speranze: verrà hongkongizzata?

«Prima devono riuscire a invaderla. L'Ucraina sta dimostrando a Xi che non sarà una tranquilla passeggiata. Nel lungo termine, certo, il riarmo cinese renderà sempre più difficile un'efficace difesa americana di Taiwan. Inoltre dobbiamo tutti prepararci alla possibilità che in America torni al potere un presidente isolazionista. Costui dirà al resto del mondo: visto che l'impero americano vi faceva tanto schifo, ve ne liberiamo».

La storia si ripete? Le inquietanti similitudini tra l’aggressione all’Ucraina e la guerra in Cecenia. L'Inkiesta il 27 Giugno 2022

L’invasione russa sembra riprendere uno schema già applicato dal Cremlino tra gli anni ’90 e i primi del Duemila nella piccola repubblica del Caucaso. Il timore è che senza un adeguato aiuto occidentale Kyjiv potrebbe capitolare e finire sotto il cappello russo, proprio come Grozny

Nel Donbass lo scontro tra l’esercito russo e quello ucraino va avanti a colpi di artiglieria. I soldati di Kyjiv sono totalmente dipendente dagli aiuti provenienti dall’estero, le forze dell’invasore ogni giorno rischiano di strappare un pezzo di terra, una città, un territorio importante alla resistenza. Sotto la guida di Vladimir Putin, Mosca sta spingendo sull’Ucraina orientale, strappando una pagina dal playbook della campagna militare organizzata in Cecenia tra gli anni ‘90 e l’inizio di questo secolo.

Lo schema è sinistramente simile. C’è già stata una pesante campagna di bombardamenti, città e villaggi sono ridotti in macerie. Migliaia di civili sono già stati uccisi. La Russia lo ha già fatto in passato e ci sta riprovando.

La Cecenia è una piccola repubblica a maggioranza musulmana nel sud della Russia, appena 1,5 milioni di persone. La sua storia di resistenza al dominio russo risale ad almeno due secoli fa, ma in epoca recente i ribelli iniziarono ad alzare la voce per la loro indipendenza dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.

Già nel 1993 Mosca pianifica un’invasione su larga scala, caratterizzata da incessanti attacchi aerei e colpi d’artiglieria pesante. Dura un paio d’anni, perdono la vita migliaia di combattenti e decine di migliaia di civili ceceni, la capitale Grozny è ridotta a un cumulo di macerie.

Sorprendentemente la Russia non ottiene quanto sperato, almeno in un primo momento: il governo del presidente Boris Yeltsin nel 1996 firma un trattato di pace, rimuove tutte le truppe russe dal territorio e concede un’ampia autonomia alla Cecenia, sebbene non un’indipendenza formale.

Tre anni dopo, poco prima di lasciare l’incarico, Yeltsin nomina come suo primo ministro Vladimir Putin. L’attuale leader russo sale in carica il 9 agosto 1999 e già alla fine del mese la Russia torna a farsi avanti con una campagna di bombardamenti contro i ribelli ceceni nel tentativo di cancellare la precedente disfatta. È una seconda guerra cecena. Più brutale, più sanguinosa, anche più efficace di quella precedente: le forze russe prendono il controllo della repubblica separatista in pochi mesi.

A marzo del 2000 Akhmad Kadyrov diventa il reggente della Cecenia, un fantoccio con cui il Cremlino ha intenzione di rafforzare la presa sul territorio. Kadyrov viene assassinato nel 2004, ma suo figlio, Ramzan Kadyrov, è ancora più fedele a Mosca ed è lui l’uomo forte della Cecenia.

«Ci sono alcuni parallelismi piuttosto inquietanti», aveva scritto ad aprile Thomas de Waal del Carnegie Europe, specializzato in Europa orientale, sul Wall Street Journal, parlando delle somiglianze tra passato e presente. «L’uso dell’artiglieria pesante, l’attacco indiscriminato di un centro urbano. Riportano alla mente ricordi piuttosto terribili degli anni ’90», ha scritto. Ma ci sono anche punti di contatto sul piano politico: «Così come c’era un progetto per riportare la Cecenia sotto il controllo russo, oggi ce n’è uno per riportare l’Ucraina nella sfera di influenza russa. E ugualmente non c’è alcun Piano B, non c’era in Cecenia, non sembra esserci ora».

Anche gli errori del primo mese dell’invasione russa dell’Ucraina somigliano sorprendentemente a quelli dei primi due anni della campagna cecena.

È evidente che ci sia una volontà di replicare quel modello. Anche se stavolta Mosca si trova di fronte a una popolazione 40 volte più grande di quella della Cecenia, in un territorio molto più vasto.

L’Atlantic ha individuato a grandi linee le fasi in cui si potrebbe delineare il piano russo, ricalcando quello applicato alla Cecenia. La prima fase è la pacificazione, scrive Neil Hauer, giornalista con sede in Armenia: «La pacificazione, dal punto di vista russo, arriva rapidamente dove può, e più lentamente dove non può. Nel caso dell’Ucraina, era facile portare sotto il proprio controllo il sud del Paese: il terreno aperto e le difese insufficienti hanno offerto poca resistenza all’avanzata russa che ha travolto città come Melitopol e Kherson nella prima settimana dell’offensiva».

Dove non si arriva facilmente si passa alle maniere forti. Così come Grozny, capitale cecena, è stata distrutta dai bombardamenti, in Ucraina lo stesso destino è toccato a Mariupol: una città bella e vivace ridotta in tre mesi di assedio a una rovina fumante.

Una volta completata la fase di conquista, è necessario trovare un tiranno locale adatto e autorizzato a governare la popolazione locale, così come in Cecenia ci sono stati i due Kadyrov. «In Ucraina ci sono stati abbastanza candidati nelle parti già occupate di Donetsk e Luhansk, e altre regioni appena conquistate hanno presentato le proprie candidature: un delinquente locale che vede una possibilità di farsi largo politicamente e farsi grande agli occhi di Mosca o una docile consigliera che è disposta a fornire un surrogato senso di normalità mentre gli occupanti vanno a sradicare la resistenza», si legge sull’Atlantic.

Infine, Putin proverà a costruire un nuovo apparato di dominio. Ma per farlo avrà bisogno che i vinti si assumano la responsabilità di schiacciare la resistenza locale più dura da eliminare. Per far questo, sostengono alcuni esperti, saranno previsti incentivi simbolici, forme di compensazione che il Cremlino è disposto a pagare ai nuovi oligarchi o ai nuovi signorotti locali.

«Ai cittadini traumatizzati – scrive Hauer sull’Atlantic – verrà insegnata una nuova versione della propria storia, in cui l’assorbimento russo è stato del tutto volontario e una salvezza dai “terroristi occidentali”. Alla fine, una nuova generazione dovrebbe crescere con l’idea di servire la madrepatria russa come un obbligo sacrosanto, sotto la guida di un leader che rinomina la strada principale della capitale in onore del presidente russo e si dichiara regolarmente il “soldato di fanteria” di Putin».

Forse l’aspetto più inquietante di questo piano diabolico è la disponibilità e la volontà da parte della Russia di aspettare a lungo, anche anni se necessario. Anche se dovesse essere necessaria una tregua apparentemente duratura: il conflitto con la Cecenia è iniziato negli anni ‘90 e si è concluso nel 2000, con un triennio di cessate il fuoco.

Per ora, il destino dell’Ucraina è in bilico. È una nazione molto più grande della Cecenia e il suo popolo è fortemente impegnato nella lotta. Per fortuna stavolta il flusso di aiuti militari in arrivo dall’Occidente è valido e supera di gran lunga qualsiasi supporto su cui potessero contare i ribelli ceceni.

Ma la logica della guerra di logoramento gioca a favore della Russia, la pazienza strategica di Putin si basa su solidi precedenti. «Mosca – è la conclusione dell’articolo dell’Atlantic – sa perfettamente come vorrebbe che fosse l’esito della guerra nell’Ucraina orientale: molto simile alla Cecenia. Se l’Occidente dovesse abbandonare un’Ucraina devastata a un destino simile, lo scenario sarà esattamente quello».

Da “la Stampa” il 14 Giugno 2022.

Pubblichiamo un estratto della conversazione di Papa Francesco con i 10 direttori delle riviste culturali europee della Compagnia di Gesù, raccolti in udienza presso la Biblioteca privata del Palazzo apostolico. Tra loro, padre Antonio Spadaro, responsabile de La Civiltà Cattolica. Tre direttori erano laici, di cui due donne (per le riviste svizzera e inglese), mentre gli altri erano gesuiti. «Se dialoghiamo - ha esordito il Papa - l'incontro sarà più ricco». 

[…] La Compagnia è presente in Ucraina, parte della mia Provincia. Stiamo vivendo una guerra di aggressione. Noi ne scriviamo sulle nostre riviste. Quali sono i suoi consigli per comunicare la situazione che stiamo vivendo? Come possiamo contribuire a un futuro di pace?

«Per rispondere a questa domanda dobbiamo allontanarci dal normale schema di "Cappuccetto rosso": Cappuccetto rosso era buona e il lupo era il cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro. Un paio di mesi prima dell'inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio, che parla poco, davvero molto saggio.

E dopo aver parlato delle cose di cui voleva parlare, mi ha detto che era molto preoccupato per come si stava muovendo la Nato. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto: "Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro". Ha concluso: "La situazione potrebbe portare alla guerra". Questa era la sua opinione. Il 24 febbraio è iniziata la guerra. Quel capo di Stato ha saputo leggere i segni di quel che stava avvenendo».

«Quello che stiamo vedendo è la brutalità e la ferocia con cui questa guerra viene portata avanti dalle truppe, generalmente mercenarie, utilizzate dai russi. E i russi, in realtà, preferiscono mandare avanti ceceni, siriani, mercenari. Ma il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l'intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l'interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco». 

«Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli».

«È pure vero che i russi pensavano che tutto sarebbe finito in una settimana. Ma hanno sbagliato i calcoli. Hanno trovato un popolo coraggioso, un popolo che sta lottando per sopravvivere e che ha una storia di lotta». «Devo pure aggiungere che quello che sta succedendo ora in Ucraina noi lo vediamo così perché è più vicino a noi e tocca di più la nostra sensibilità. Ma ci sono altri Paesi lontani - pensiamo ad alcune zone dell'Africa, al nord della Nigeria, al nord del Congo - dove la guerra è ancora in corso e nessuno se ne cura. Pensate al Ruanda di 25 anni fa. Pensiamo al Myanmar e ai Rohingya.

Il mondo è in guerra. Qualche anno fa mi è venuto in mente di dire che stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi e a bocconi. Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata. E questo è un aspetto che dovrebbe farci riflettere. Che cosa sta succedendo all'umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali? Io vivo la prima guerra nel ricordo di mio nonno sul Piave. E poi la seconda e ora la terza. E questo è un male per l'umanità, una calamità. Bisogna pensare che in un secolo si sono susseguite tre guerre mondiali, con tutto il commercio di armi che c'è dietro!»

«Pochi anni fa c'è stata la commemorazione del 60° anniversario dello sbarco in Normandia. E molti capi di Stato e di governo hanno festeggiato la vittoria. Nessuno si è ricordato delle decine di migliaia di giovani che sono morti sulla spiaggia in quella occasione. Quando sono andato a Redipuglia nel 2014 per il centenario della guerra mondiale - vi faccio una confidenza personale -, ho pianto quando ho visto l'età dei soldati caduti. Quando, qualche anno dopo, il 2 novembre - ogni 2 novembre visito un cimitero - sono andato ad Anzio, anche lì ho pianto quando ho visto l'età di questi soldati caduti. L'anno scorso sono andato al cimitero francese, e le tombe dei ragazzi - cristiani o islamici, perché i francesi mandavano a combattere anche quelli del Nord Africa -, erano anche di giovani di 20, 22, 24 anni». 

[…] «Vorrei aggiungere un altro elemento. Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: «Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo». Avrei dovuto incontrarlo il 14 giugno a Gerusalemme, per parlare delle nostre cose. Ma con la guerra, di comune accordo, abbiamo deciso di rimandare l'incontro a una data successiva, in modo che il nostro dialogo non venisse frainteso. Spero di incontrarlo in occasione di un'assemblea generale in Kazakistan, a settembre. Spero di poterlo salutare e parlare un po' con lui in quanto pastore».

In Germania abbiamo un cammino sinodale che alcuni pensano sia eretico, ma in realtà è molto vicino alla vita reale. Molti lasciano la Chiesa perché non hanno più fiducia in essa. Un caso particolare è quello della diocesi di Colonia. Lei che cosa ne pensa?

«Al presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Bätzing, ho detto: "In Germania c'è una Chiesa evangelica molto buona. Non ce ne vogliono due". Il problema sorge quando la via sinodale nasce dalle élite intellettuali, teologiche, e viene molto influenzata dalle pressioni esterne. Ci sono alcune diocesi dove si sta facendo la via sinodale con i fedeli, con il popolo, lentamente». (...) «Poi la questione della diocesi di Colonia. Quando la situazione era molto turbolenta, ho chiesto all'arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Perché quando le acque sono agitate, non si può vedere bene. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l'ha data. E ha scritto una lettera di scuse alla diocesi. Io l'ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano». 

(...) Santo Padre, noi siamo una rivista digitale e parliamo anche a giovani che stanno ai margini della Chiesa. I giovani vogliono opinioni e informazioni veloci e immediate. Come possiamo introdurli al processo del discernimento?

«Non bisogna stare fermi. Quando si lavora con i giovani, bisogna sempre dare una prospettiva in movimento, non in modo statico. Dobbiamo chiedere al Signore di avere la grazia e la saggezza di aiutarci a compiere i passi giusti. Ai miei tempi il lavoro con i giovani era costituito da incontri di studio. Ora non funziona più così. Dobbiamo farli andare avanti con ideali concreti, opere, percorsi. I giovani trovano la loro ragione d'essere lungo la strada, mai in modo statico. Qualcuno può essere titubante perché vede i giovani senza fede, dice che non sono in grazia di Dio. Ma lasciate che se ne occupi Dio! Il vostro compito sia quello di metterli in cammino. Penso che sia la cosa migliore che possiamo fare».

La gaffe di Bush e lo stringente confronto tra Iraq e Ucraina. Piccole Note il 28 maggio 2022 su Il Giornale.

Su Middle East Eye un commento di Jonathan Cook, cronista britannico che vive a Nazareth, sulla gaffe di George Bush, il quale, parlando dell’invasione russa dell’Ucraina, ha detto che un uomo ha preso la decisione di ordinare “un’invasione completamente ingiustificata e brutale in Iraq”… correggendosi troppo tardi per rimediare.

Così Cook: se Bush non avesse fatto tale gaffe “i media dell’establishment avrebbero continuato a ignorare tale confronto. E quanti avessero cercato di richiamarlo sarebbero stati ancora liquidati come teorici della cospirazione o come apologeti di Putin”.

“L’implicazione di ciò che ha detto Bush – anche per coloro che beffardamente liquidano l’accaduto come una gaffe freudiana – è che lui e il suo co-cospiratore, il primo ministro britannico Tony Blair, sono criminali di guerra per aver invaso e occupato l’Iraq e, come tali, dovrebbero essere processati all’Aia”.

“Tutto ciò che l’attuale amministrazione statunitense sta dicendo contro Putin, e tutte le punizioni inflitte alla Russia e ai cittadini russi, può essere capovolta e diretta agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna” (e ai loro cittadini).

“Gli Stati Uniti non dovrebbero essere soggetti a severe sanzioni economiche da parte del ‘mondo civile’ per quello che hanno fatto all’Iraq? I suoi sportivi non dovrebbero essere banditi dagli eventi internazionali? I suoi miliardari non dovrebbero essere braccati e privati ​​dei loro beni? E le opere dei suoi scrittori, artisti e compositori morti da tempo non dovrebbero essere evitate dalla società civile?”

“Eppure, i media dell’establishment occidentale non propongono nulla di quanto sopra. Non chiedono che Blair e Bush siano processati per crimini di guerra. Nel frattempo, fanno da cassa di risonanza ai leader occidentali, etichettando ciò che la Russia sta facendo in Ucraina come genocidio ed etichettando Putin come un pazzo malvagio”.

il fatto è che “i media occidentali sono a disagio nel prendere il discorso di Bush alla lettera, come lo era il pubblico che l’ascoltava. E per una buona ragione, perché sono anch’essi coinvolti nei crimini statunitensi e britannici in Iraq. Non hanno mai messo seriamente in discussione la ridicola giustificazione delle ‘armi di distruzione di massa’ per l’invasione. Non si sono mai chiesti se la campagna di bombardamenti ‘Shock and Awe’ su Baghdad fosse di natura genocida”.

“E, naturalmente, non hanno mai descritto né Bush né Blair come pazzi e megalomani e non li hanno mai accusati di aver condotto una guerra imperialista – o per il petrolio – invadendo l’Iraq. In effetti, entrambi continuano ad essere trattati dai media come statisti rispettati“.

“Nel corso della presidenza Trump, i giornalisti di spicco hanno espresso nostalgia per i giorni di Bush, indifferenti al fatto che avesse usato la propria presidenza per lanciare una guerra di aggressione – il ‘supremo crimine internazionale’”.

“E Blair continua a essere ricercato dai media britannici e statunitensi per le sue opinioni sugli affari interni e internazionali. Viene persino ascoltato con deferenza quando esprime opinioni sull’Ucraina”.

“[…] Invadendo l’Iraq, Bush e Blair hanno creato un precedente secondo cui gli stati potenti potevano ridefinire il loro attacco a un altro stato come ‘preventivo’ – cioè come difensivo piuttosto che aggressivo – e quindi giustificare l’invasione militare in violazione delle leggi di guerra”.

“Bush e Blair affermarono in maniera menzognera sia che l’Iraq stese minacciando l’Occidente con le sue armi di distruzione di massa, sia che il suo leader laico, Saddam Hussein, avesse coltivato legami con gli islamisti di al-Qaeda che hanno condotto gli attacchi dell’11 settembre contro gli Stati Uniti. Pretesti che spaziavano dall’essere del tutto infondati al decisamente assurdi”.

“Putin ha sostenuto – in modo in realtà più plausibile – che la Russia è stata costretta intraprendere un’azione preventiva contro gli sforzi segreti della Nato che, sotto la guida dagli Stati Uniti, intendeva espandere la sua sfera di influenza militare fino ai confini della Russia. La Russia temeva che, senza controllo, gli Stati Uniti e la NATO si stessero preparando ad assorbire l’Ucraina” nella Nato (Donbass compreso).

“Anche se le preoccupazioni della Russia fossero state infondate, Mosca aveva chiaramente un maggiore interesse strategico per quello che la vicina Ucraina stava realizzando ai propri confini di quanto Washington ne abbia mai avuto in Iraq, Paese a molte migliaia di chilometri di distanza” dagli essa.

Ora “Putin passerà alla storia come un macellaio”, scrivono i media occidentali. “Ma Bush o Blair sono passati alla storia come macellai? Non è stato affatto così. E il motivo è che i media occidentali sono stati complici nel riabilitare le loro immagini, presentandoli come statisti che ‘hanno sbagliato’ – implicitamente affermando che le persone buone sbagliano quando non tengono conto di quanto sia radicato il male di tutti gli altri nel mondo”.

Così Putin viene presentato come “un macellaio” mentre Bush e Blair sono, al massimo, “un paio di sfigati. Questa falsa distinzione significa che i leader occidentali e l’opinione pubblica occidentale continuano a sottrarsi alla responsabilità per i crimini occidentali in Iraq e altrove”.

Così conclude Cook: “Se prendessimo sul serio le implicazioni delle parole di Bush, piuttosto che trattarle come una “gaffe” e considerare l’invasione dell’Iraq come un ‘errore’, potremmo essere in grado di parlare con autorità morale invece di ostentare – ancora una volta – la nostra ipocrisia”.

Dagospia il 9 giugno 2022. IL LIBRO: ANDREA SPIRI - THE END 1992-1994 - LA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA NEGLI ARCHIVI SEGRETI AMERICANI (BALDINI+CASTOLDI) 

Negli anni della Guerra fredda il rapporto tra l’Italia e gli Stati Uniti assume una valenza decisiva, su ogni altra considerazione prevale l’interesse degli americani per la stabilità di un Paese alleato che riveste una funzione strategica nel quadro degli equilibri geopolitici internazionali.

Poi, dopo l’Ottantanove l’approccio degli Usa si modifica, e con le prime avvisaglie di Mani pulite matura il convincimento che vada esaurendosi la spinta propulsiva delle forze politiche tradizionali. 

La «Repubblica dei partiti» sprofonda nel discredito, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato sembrano guardare con «favorevole predisposizione» alle inchieste dei giudici milanesi, ma cresce al contempo il bisogno di decifrare gli scenari futuri. Si intensifica allora il flusso comunicativo lungo i canali riservati, attraverso il potenziamento delle dinamiche di raccolta e scambio delle informazioni: l’attivismo crescente dei diplomatici e degli agenti della Cia incrocia le varie tappe della «rivoluzione» italiana, dagli avvisi di garanzia che piovono sul capo del vecchio ceto politico fino alla vittoria elettorale del centrodestra berlusconiano, passando attraverso l’attacco della mafia al cuore dello Stato, con le stragi di Capaci e via D’Amelio. 

Sulla scorta del materiale inedito proveniente dagli Archivi di Washington, questo libro ricostruisce il biennio 1992-94, aggiungendo un tassello fondamentale al mosaico interpretativo sulla fine della «prima Repubblica».

Estratto del libro di Andrea Spiri - THE END 1992-1994 - LA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA NEGLI ARCHIVI SEGRETI AMERICANI - BALDINI+CASTOLDI) 

Dall’America è arrivato a Roma il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew, un veterano del Foreign Service, un diplomatico di grande esperienza reduce da missioni nelle aree del mondo più incandescenti, dal Libano alla Bosnia. È il segnale che l’amministrazione Usa guarda con occhi attenti al «dossier Italia», forse teme l’eccessivo indebolimento di un alleato strategico che nel mondo di ieri presidiava la frontiera Est della Nato e oggi dovrebbe continuare a svolgere la sua funzione nel Mediterraneo. 

Il faccia a faccia tra Bill Clinton e Carlo Azeglio Ciampi arriva perciò al momento giusto, è l’occasione per chiedere rassicurazioni, fornire ragguagli, sgombrare il campo da ogni eventuale dubbio. 

Il presidente degli Stati Uniti e il capo del governo italiano si ritrovano a colloquio alla Casa Bianca il 17 settembre del ’93, l’ultimo incontro ufficiale tra i due è avvenuto di recente, al vertice del G-7 di luglio a Tokyo, e in quella circostanza Clinton ha espresso apprezzamento per l’ex governatore della Banca d’Italia, con il quale va maturando «una straordinaria sintonia». 

A Washington, adesso, c’è più tempo per approfondire i dossier: Ciampi si accomoda nello Studio Ovale, dove lo attendono anche il vicepresidente Al Gore, il segretario di Stato Warren Christopher, l’ambasciatore Bartholomew, il consigliere per la Sicurezza nazionale Anthony Lake che, di lì a poco, darà respiro concettuale alla dottrina del Democratic Enlargement, muovendo dall’assunto che occorra rafforzare il binomio democrazia/economia di mercato, dilatandone l’area di legittimità e influenza. 

Un Memorandum of Conversation della Casa Bianca, recuperato tra le carte declassificate del Dipartimento di Stato, svela i contenuti del colloquio: Prime Minister Ciampi: L’Italia sta vivendo un importante momento di ripresa, anche se dobbiamo ancora affrontare sfide cruciali. Il Parlamento ha approvato una nuova legge elettorale. Tanto gli italiani quanto gli stranieri stanno riacquistando fiducia nella nostra economia. 

L’emissione di nuovi bond testimonia il rinnovato credito nelle prospettive economiche del Paese. 

The President [Clinton, N.d.A.]: Tutto ciò è impressionante. 

Prime Minister Ciampi: Dobbiamo gestire con attenzione il quadro economico e creare fiducia nei mercati. Le elezioni politiche si terranno in primavera. È difficile dire quale sarà il risultato. Ci sarà una certa frammentazione, ma il nuovo governo potrebbe non essere molto diverso da quello attuale. 

The President: Quando ci siamo incontrati a Tokyo, sono rimasto colpito da quello che Lei sta facendo. Il mondo ha bisogno di un’Italia stabile e forte. Lei dovrebbe essere orgoglioso dei risultati che avete raggiunto. 

Prime Minister Ciampi: Le riforme economiche devono andare avanti. Abbiamo messo mano alla legge di bilancio per l’autunno senza discussioni preliminari con i partiti politici, e questo rappresenta una novità per l’Italia. Dobbiamo

ridurre i tassi di interesse e il deficit, tagliando la spesa e aumentando al contempo le tasse. Occorre anche migliorare l’efficienza del governo. 

The President: In quali settori avete operato tagli al bilancio?

Prime Minister Ciampi: Ci siamo concentrati su pensioni e assistenza sanitaria.

The President: Tutti i Paesi avanzati hanno sistemi con scarso controllo sui costi sanitari e pensionistici.

Prime Minister Ciampi: Il mio programma è molto simile al Suo.

The Vice President [Al Gore, N.d.A.]: I nostri Paesi hanno anche burocrazie centralizzate obsolete. 

Prime Minister Ciampi: Il governo centrale dovrebbe fornire una direzione alle politiche, ma delegarne la responsabilità per l’attuazione. È importante mantenere il controllo sulla spesa pubblica. In passato, il Parlamento italiano non disponeva di un buon sistema per la definizione del bilancio. 

The President: Siamo entusiasti dei cambiamenti che stanno avvenendo in Italia, e felici di constatare che ve ne sia il sostegno pubblico. Lei è riuscito a garantire stabilità. 

Come si evince da questo primo scambio, il presidente Ciampi ha voluto articolare un’operazione-fiducia, insistendo sui propositi che hanno fatto da bussola alle scelte del governo nei mesi iniziali e che dovranno consentire al sistema-Italia di ritrovare anzitutto un equilibrio economico, orientandosi verso la crescita e la ripresa: gli indicatori sono ancora da Paese malato, ma fanno segnare linee di tendenza incoraggianti. 

Le delegazioni passano quindi in rassegna le tematiche di politica internazionale, focalizzando la loro attenzione sui dossier caldi della Bosnia e della Somalia. Ciampi si dice «scioccato dall’irrazionalità degli eventi» che si succedono nel quadrante balcanico, ma riceve gli elogi per l’impegno dell’Italia che ha fornito «pieno supporto alle operazioni navali e aeree» delle Nazioni Unite lungo la costa orientale adriatica, oltre a un «importante contributo in termini umanitari». Nel Corno d’Africa la situazione è altrettanto difficile, il colloquio nello Studio Ovale risente dell’incertezza sugli sviluppi dell’operazione Restore Hope. 

A giudizio del presidente Clinton, «il punto è trovare una soluzione politica che riesca a interrompere la spirale di violenza in Somalia e consentire alle forze dell’Onu di andarsene senza però inviare un segnale sbagliato». Per l’Italia – ribatte Ciampi – è fondamentale «modificare l’approccio politico alla questione», insistere sul fatto che «la via diplomatica ha più vantaggi delle soluzioni di forza»; vogliamo dare una mano, chiosa l’inquilino di Palazzo Chigi, «ma il nostro Parlamento si oppone». 

Il resoconto stenografico illumina anche la parte finale dell’incontro, dedicata alle riflessioni sul ruolo della Nato nel mondo post Guerra fredda e sulla necessità di mantenere aperti i canali del dialogo con Mosca, sostenendo gli sforzi di Boris Eltsin: La delegazione italiana che accompagna Ciampi è formata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Maccanico, dall’ambasciatore a Washington Boris Biancheri e dal direttore generale per gli Affari politici del ministero degli Esteri Ferdinando Salleo. 

Secretary Christopher: Stiamo valutando un possibile allargamento del perimetro Nato, il ragionamento investe anche i criteri per l'adesione. L'alleanza deve spingersi verso Est. 

Prime Minister Ciampi: Quello che conta nel lungo termine è la comunanza di valori che incarna la Nato. Le condizioni che ne hanno favorito la nascita non ci sono più, ma la Nato esiste ancora. E deve adattarsi ai tempi nuovi. I rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa sono fondamentali per entrambi, abbiamo in comune la cultura e i valori. Ma è difficile sapere cosa sarà l’Europa tra dieci anni. Crescerà naturalmente l’influenza della Germania, la geografia politica sarà molto diversa. L’Alleanza atlantica può rafforzarsi, andando ben oltre le questioni militari. 

The President: Giungere a un accordo in seno alla Nato per l’intervento in Bosnia può rappresentare un precedente importante e facilitare il processo di pace. Gli Stati Uniti non possono dare l’impressione di un ritiro dall’Europa, non mi è

piaciuto il messaggio che è venuto fuori con le divergenze tra europei e americani sulla Bosnia. La Nato guarda verso Est, e questo ci aiuterà a spiegare l’importanza dell’Organizzazione ai nostri elettorati nazionali. Credo che gli Stati Uniti debbano assumere un ruolo guida, ma vogliamo confrontarci con gli alleati e lavorare insieme per costruire una posizione comune. Le difficoltà economiche stanno facendo emergere in America una prospettiva votata all’isolazionismo, secondo la quale dovremmo mantenerci lontani dalla Bosnia, dalla Somalia […]. Le dure lezioni degli anni Venti e Trenta, però, ci sono servite. Altri ancora, negli Stati Uniti, sostengono che ci si debba muovere da soli, mettere in campo azioni unilaterali. Ma questo danneggerebbe la Nato, l’Onu e le altre istituzioni. La grande sfida che ho di fronte è quella di far comprendere alla nostra gente e al Congresso di Washington l’importanza dell’impegno americano nel mondo. Vogliamo assumere un ruolo guida, cooperando con gli altri. Parlerò al mondo, così come parlo agli americani. 

Secretary Christopher: Bisogna gestire l’allargamento della Nato senza isolare la Russia. 

The President: Così come abbiamo dovuto fare attenzione sull’intervento in Bosnia per non creare problemi con Mosca. 

Prime Minister Ciampi: Concordo, l’allargamento della Nato non deve rappresentare una minaccia per la Russia. 

The President: Siamo preoccupati per le prove che deve affrontare Eltsin. Il primo ministro russo è stato qui, prenderemo nuove iniziative sullo spazio, sull’ambiente, sul disarmo atomico. Noi dobbiamo sostenere la spinta riformatrice.

Prime Minister Ciampi: Dobbiamo dare supporto economico in alcuni ambiti specifici, il commercio con l’estero è assolutamente necessario.

The Vice President: Ci stiamo concentrando sul settore energetico, il primo ministro sta cercando di rimettere in piedi la riforma.

The President: Se tutti i Paesi si concentrassero sul settore energetico, ne otterrebbero grandi profitti. Il problema è superare gli ostacoli politici in Russia 

Meeting with Prime Minister Carlo Ciampi of Italy, The White House, Washington DC, 17 September 1993,

Unclassified U.S. Department of State, Case No. M-2017-11993, Doc. No. C06569986.

Mito conteso. Russia e Ucraina si scontrano anche sull’eredità della Seconda guerra mondiale. Linkiesta il 17 Maggio 2022

Due popoli con una storia condivisa hanno costruito narrazioni differenti sulla vittoria contro il Terzo Reich: il regime di Putin ne fa un motivo di eccezionalismo, Kiev lo usa per ricordare che così come è stato vinto quel conflitto si può vincere anche questo, contro l’invasore moscovita.  

A Kiev i giovani scherzano sulla storia comune di Ucraina e Russia, guardano al Monumento alla Patria di epoca sovietica che domina lo skyline della città e dicono che è rivolto verso Mosca perché così può proteggere la città dagli invasori mandati dal Cremlino. L’ironia serve a spezzare una rappresentazione monolitica della Seconda guerra mondiale, a riappropriarsi di quel pezzo di storia scritta solo con un punto di osservazione russocentrico.

Allontanare l’eredità sovietica serve, all’Ucraina contemporanea, soprattutto per creare una contronarrazione alla propaganda del Cremlino, che da anni insiste nel creare analogie e parallelismi tra l’attuale conflitto e la Seconda guerra mondiale.

Nel suo delirante discorso del 24 febbraio, giorno dell’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin ha suggerito che l’Occidente stesse invadendo i confini della Russia creando «minacce fondamentali», facendo quindi eco alle aggressioni della Germania nel 1941; ha dipinto il suo Paese come difensore delle minoranze oppresse, così come l’Unione Sovietica aveva difeso ebrei e slavi nel 1941; ha detto che ha fatto di tutto per evitare la guerra, così come l’Unione Sovietica ci aveva provato fino al 1941, ma poi una «minaccia nazista» l’aveva resa inevitabile.

Le assurdità di Putin non fanno più notizia. Negli ultimi 20 anni il regime si è impegnato a resuscitare e amplificare il “culto della Grande Guerra Patriottica”. Al centro di questo culto c’è l’idea che soltanto la Russia può rivendicare legittimamente la definizione di Paese “antifascista”, perché l’Occidente per sua natura rappresenterebbe l’humus politico e culturale più adatto per far germogliare le fazioni neonaziste. Anche se poi, nei fatti, la Russia foraggia gruppi di estrema destra in tutta Europa.

Il regime di Putin ha fatto della vittoria del 1945 contro il Terzo Reich un pilastro dell’identità russa. «La glorificazione del ruolo dell’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale è sancita dalla Costituzione russa dal 2020 e utilizzata da Vladimir Putin per giustificare l’invasione dell’Ucraina», scrive Le Monde.

Il quotidiano francese ricorda che in un discorso per commemorare la vittoria nel conflitto mondiale, il 9 maggio 2021, Putin ha detto che «il popolo sovietico (…) ha liberato i Paesi europei dalla peste bruna». E nove anni prima, il 9 maggio 2012, aveva detto che «il nostro Paese (…) ha offerto la libertà ai popoli del mondo».

Il ricordo della Seconda guerra mondiale per l’Ucraina ha toni leggermente diversi. Se da un lato è normale che due popoli con una storia comune – dalla prima Rus’ di Kiev al Novecento dell’Unione Sovietica – abbiano narrazioni parzialmente sovrapponibili, dall’altro l’esperienza e la prospettiva ucraina sulla memoria della Seconda guerra mondiale sono molto più sfumate.

«Parti dell’Ucraina si sono impegnate per liberarsi dal mito della guerra a partire dall’indipendenza nel 1991. Le strade sono state ribattezzate con nuovi nomi, le bandiere comuniste bandite e i monumenti demoliti. Un disegno di legge del 2015 approvato dal parlamento ha messo fuori legge un lungo elenco di elementi di propaganda dell’era sovietica. Il ricordo dell’era sovietica di una Seconda guerra mondiale combattuta dall’Armata Rossa e guidata dalla Russia avrebbe dovuto scomparire dalla vista del pubblico», scrive su Foreign Policy Ian Garner, storico e traduttore della propaganda di guerra russa.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ad esempio, ha ripetutamente accusato l’Occidente di aver abbandonato l’Ucraina. In questo riprende e ribalta proprio uno dei miti sovietici, ripetuto spesso nella Russia di Putin, sulla nazione lasciata da sola ad affrontare la Wehrmacht a causa del rifiuto degli Stati Uniti di entrare in guerra.

Tuttavia, i toni più tenui non bastano ad abbattere del tutto i simboli e le figure retoriche della guerra. I monumenti dedicati ai caduti, ad esempio, nel 2015 sono stati esclusi dall’elenco degli oggetti da epurare. E i tentativi della politica di importare narrazioni più occidentali, eurocentriche – il «mai più» che ha animato il pacifismo del Dopoguerra, ad esempio – non hanno mai fatto presa realmente.

«La memoria della Seconda guerra mondiale occupa uno spazio ambivalente nella coscienza ucraina post-sovietica: è divisiva, è vista come qualcosa di imperiale, da dimenticare, ma è sempre presente, essenziale in qualche modo», sottolinea Garner su Foreign Policy.

Gli ucraini usano la retorica sulla guerra anche in funzione difensiva, in un certo senso: per le generazioni più anziane è anche un mezzo per elaborare eventi traumatici o per esprimere una resistenza simbolica. L’83enne Yaroslava Filonenko, che è rimasta senza casa a causa dell’invasione russa, ha detto a Foreign Policy: «Siamo sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale, sopravvivremo a questa». Il confronto con il passato diventa quindi una bussola per orientarsi nel conflitto di oggi, in cui l’Ucraina deve difendersi da un’aggressione inopinata da parte della Russia.

Lo storico ucraino Andriy Portnov già nel 2016 su Open Democracy spiegava che l’atto di cogliere, interpretare e controllare le narrazioni del passato bellico era una caratteristica fondamentale dei movimenti antisovietici dell’Ucraina negli anni ’80. Per il pubblico di massa l’interesse ruotava attorno all’idea di riscoprire eventi e narrazioni che la censura sovietica aveva cancellato o distorto.

Oggi, secondo Ian Garner, sta accadendo di nuovo: gli ucraini stanno attivamente riprendendo la memoria della Seconda guerra mondiale per elaborare e plasmare il corso dell’attuale conflitto. Ma non solo: «Questa resistenza ha un significato più profondo a lungo termine», si legge su Foreign Policy. «L’atto di impadronirsi, appropriarsi e ricostruire leggende e linguaggi è un atto di creazione di una nazione. La futura Ucraina indipendente farà sue alcune storie e alcuni eroi, ne scarterà alcuni, creerà un nuovo mito nazionale di unità e continuità di fronte all’aggressione imperialista. Il culto di Putin della Grande Guerra Patriottica chiede ai suoi cittadini di vivere e ricreare il passato. I nuovi miti di guerra dell’Ucraina la trascineranno, più forte e con radici storiche più profonde, nel futuro».

Dugin's list. Report Rai PUNTATA DEL 16/05/2022 di Emanuele Bellano

Collaborazione di Chiara D’Ambros, Edoardo Garibaldi

Una lettera riservata inviata da Dugin a un suo collaboratore svela il progetto del Cremlino.

L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia era stata teorizzata e prevista dal filosofo e ideologo russo Aleksandr Dugin le cui teorie, secondo molti analisti, sarebbero di ispirazione per la politica di Vladimir Putin. Una lettera riservata inviata da Dugin a un suo collaboratore svela il progetto del Cremlino, messo in atto nell'ultimo decennio: generare un sentimento filo-russo nei Paesi europei, minare dall'interno i valori fondanti dell'Europa, contrastare la gestione unipolare del mondo guidata dagli Stati Uniti. La diffusione di questi valori e la loro penetrazione in Occidente viene spinta da Mosca attraverso un sofisticato quanto poderoso meccanismo di "soft power". Investendo oltre 240 milioni di euro, filtrati attraverso società off-shore e compagnie fantasma, la Russia ha stretto rapporti di collaborazione con forze politiche europee di estrema destra e con esponenti del mondo politico e culturale, indirizzando in alcuni casi perfino le scelte politiche e di governo dei Paesi Europei. 

DUGIN’S LIST di Emanuele Bellano collaborazione Chiara D’Ambros – Edoardo Garibaldi Ricerca immagini Paola Gottardi

ALEKSANDR DUGIN – FILOSOFO Questo tour, questo viaggio attraverso l’Italia questa volta era per me soggettivamente evento perché ho incontrato tanta gente, in tanti luoghi, grande interesse, grande odio, di certi centri dell’influenza globalisti, liberali, che hanno fatto la guerra informatica, la guerra culturale contro me.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo video amatoriale è stato registrato nel tragitto tra Udine e l’aeroporto di Malpensa, nel 2019 al termine del tour di 14 giorni in Italia del filoso e politologo Aleksandr Dugin. Il viaggio ha portato Dugin in 10 città italiane in cui ha partecipato a convegni, incontri e interviste.

GIORNALISTA RETE55 Professor Dugin perché lei fa paura?

ALEKSANDR DUGIN Sono chiamato anche da alcuni giornali americani il filosofo più pericoloso del mondo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dugin è considerato l’ideologo a cui si ispira il presidente russo Vladimir Putin. Secondo gli analisti occidentali le sue teorie sull’Eurasianesimo avrebbero ispirato anche il progetto da parte della Russia di invasione dell’Ucraina.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Io definisco l’Eurasianesimo come una forma di fascismo. Nella logica dell’Eurasianesimo c’è la concezione dello scontro con l’occidente finalizzato non solo a garantire la sopravvivenza della Russia ma a farla tornare grande.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma Dugin ha agito non solo come filosofo e ideologo. Oggi è possibile ricostruire la rete di relazioni che per anni ha tessuto tra il Cremlino e personaggi influenti in Occidente. In questa lettera riservata, spedita a un suo collaboratore elabora un elenco diviso per singoli paesi. Il titolo è di per sé emblematico: “Paesi e persone in cui vi sono motivi per creare un club d’élite o un gruppo di influenza informativa”. Lo scopo è diffondere posizioni filo-russe, coltivare l’ideologia eurasiatica e minare i principi che fondano l’Europa e l’Occidente. Tra i paesi citati da Dugin c’è anche l’Italia. Nella lista, tra i primi, compare Orazio Gnerre. Vicino alla causa dei separatisti filorussi del Donbass, la regione dell’Ucraina orientale in cui in questi giorni si sta concentrando il fuoco dell’esercito russo, Gnerre nel 2014 vola a Donetsk dove incontra Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk.

EMANUELE BELLANO C’è un documento come la Dugin’s List, la lista di Dugin. Tra le persone che vengono citate in questa mail di Dugin c’è il suo nome.

ORAZIO MARIA GNERRE – STUDIOSO Mi scusi ma mi sta dicendo una cosa veramente nuova. I miei rapporti culturali con il professor Dugin sono stati di breve durata e neanche significativi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I rapporti tra Gnerre e Dugin risalgono almeno al 2013. Quell’anno Orazio Gnerre partecipa a una conferenza in Russia presieduta proprio da Alexandr Dugin. Due anni dopo Gnerre è di nuovo in Russia per partecipare a un forum a San Pietroburgo organizzato dal partito nazionalista russo Rodina.

EMANUELE BELLANO L’obiettivo dichiarato di questo forum qual è?

ANDREA FERRARIO - BLOGGER Era quello principalmente di ottenere degli agganci che promuovessero gli interessi di Mosca in Europa e in particolare l’annullamento delle sanzioni che erano state introdotte dopo l’annessione della Crimea.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 22 giugno 2015 Gnerre riceve un sms da parte di Dugin: Orazio, sono a Milano per la conferenza di oggi. Puoi entrare in contatto con Gianluca Savoini? Poche ore dopo Gnerre riceve una telefonata proprio da Savoini

GIANLUCA SAVOINI - SMS Buongiorno Orazio, ci vediamo stasera?

ORAZIO MARIA GNERRE – SMS Assolutamente! Assolutamente, sarò anch’io alla conferenza.

GIANLUCA SAVOINI - SMS Benissimo perché sono qui col professore e volevo confermare. Lei si può fermare con noi a cena? ORAZIO MARIA GNERRE – SMS Molto volentieri

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Applicando in Italia il “soft power” russo Alexandr Dugin contatta le persone della sua lista. Oltre a Orazio Gnerre anche Claudio Mutti, direttore della Rivista Eurasia, con sede a Parma, e anche lui citato nella lista.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In sostanza è l’attuazione del “soft power” russo alle nazioni Occidentali. EMANUELE BELLANO Di cosa si tratta?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Consiste nell’influenzare un paese al fine di renderlo più favorevole alle proprie posizioni. I russi hanno cercato negli anni di fare appiglio sull’agenda noglobal dell’estrema sinistra, sull’agenda antiamericana della sinistra ma anche dell’estrema destra, sull’antimulticulturalismo, ma anche su tutti quei movimenti cristiani ultraconservatori che difendono la visione tradizionale della famiglia.

EMANUELE BELLANO Tutto questo al fine di minare dall’interno i valori fondanti dell’Occidente e dell’Europa?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sì, la “political warfare” è una zona grigia, una via di mezzo tra la pace e la guerra che la Russia ha messo in atto finanziando per anni nei paesi europei le forze politiche contrarie all’establishment.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Orazio Gnerre finito sotto indagine del Ros, perché era sospettato di far parte di una rete internazionale, una rete nera che aveva tra i punti di riferimento Maurizio Murelli, il neo fascista condannato di concorso in omicidio del poliziotto Antonio Marino, durante una manifestazione nel ‘73. Dopo il carcere Murelli aveva rapportI con Dugin, fonda l’associazione culturale Orion, un’associazione che mescolava idee neofasciste con quelle filorusse. Di questa associazione faceva parte anche Gianluca Savoini l’ex portavoce di Salvini coinvolto nello scandalo del Metropol, era una associazione che aspirava al Progetto euroasiatico. L’Europa e l’Asia sotto l’egemonia russa. Orazio Gnerre è stato indagato dal Ros e dalla Procura di Genova perchè sospettato di reclutare miliziani da portare in Donbass per farli combattere al fianco dei filorussi. Ma la vicenda è stata archiviati, è stata la stessa Procura, lo diciamo chiaramente a chiedere l’archiviazione per Gnerre Nella lista di Dugin, facevano parte anche il giornalista e saggista Massimo Fini, il giornalista e politico Giulietto Chiesa, che è deceduto nel frattempo, c’è il movimento politico Fiamma Tricolore, poi una serie di attivisti, associazioni, editori e direttori come Claudio Mutti responsabile di Rivista Eurasia. Si costituisce così, si costituirebbe anzi, quella che l'analista Anton Shekhovstov ha definito “l’internazionale nera”. I rapporti tra Putin, il Cremlino attraverso il soft power e vari stati sono stati intensi. Tra questi c’è Germania, Grecia, Romania, Polonia, Turchia. Uno degli ultimi casi è quello del rapporto con il Front National di Marine Le Pen, diventato nel 2018 diventato Rassemblement National. I rapporti con la Le Pen cominciano nel 2010 diventano più intensi nel 2014 dopo l’invasione russa della Crimea, quando viene indetto un referendum per decretarne l’annessione alla Federazione Russa e a Putin ha bisogno di osservatori internazionali neutrali, insomma neutrali si fa per dire.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il referendum in Crimea è programmato per il 16 marzo 2014. Il Cremlino ha bisogno di politici e osservatori occidentali che diano riconoscimento internazionale al risultato delle urne. Nei giorni immediatamente precedenti due alti esponenti della politica russa si scambiano sms a riguardo.

TIMOR PROKOPENKO – SMS Puoi portare Marine Le Pen in Crimea come osservatore, è estremamente necessario, ho detto al capo che sei con lei.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A scrivere è Timur Prokopenko, vice capo del dipartimento Interno della presidenza russa, vicino a Vladimir Putin. L’sms è indirizzato a Konstantin Rykov, politico e produttore televisivo russo, assiduo frequentatore della Francia e della Costa Azzurra. Il giorno dopo Rykov scrive a Prokopenko

 KONSTANTIN RYKOV – SMS Riguardo a Marine Le Pen: ora ha una campagna elettorale municipale, è in tournée. È improbabile che possa venire lei, ma forse potrebbe qualcuno dei suoi vice.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Infatti Konstantin Rykov, riesce a portare in Crimea per il referendum l’allora consigliere internazionale di Marine Le Pen, membro del Front National, Aymeric Chauprade.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Dal 2014 al 2019 Chauprade è stato parlamentare europeo. In quel frangente la figlia del portavoce di Putin, Dimitri Peskov, è stata stagista presso il suo ufficio al Parlamento Europeo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Aymeric Chauprade è nella lista di Aleksandr Dugin in quanto persona di influenza filorussa, in Francia. Affianco al suo nome Dugin scrive: “Sostiene un'alleanza strategica tra Europa e Russia per contrastare efficacemente la politica mondiale unipolare degli Stati Uniti”. Intervistato ripetutamente dal canale di propaganda russa in Europa RT, Chauprade interviene nel 2014 sulla situazione in Ucraina.

AYMERIC CHAUPRADE – FRONT NATIONAL Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno interferendo nelle questioni politiche ucraine. La posizione dei paesi occidentali è dannosa e può portare a un peggioramento della situazione in Ucraina.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Su RT, la TV di propaganda russa in Europa, interviene più volte anche Marine Le Pen, sostenendo di voler liberare la Francia dai vincoli imposti dall’Unione Europea anche a costo di uscire dall’UE. Ma cosa c’è dietro il legame sempre più stretto che Aymeric Chauprade e Marine Le Pen intrecciano con la Russia di Putin? Nel 2014 Chauprade entra in contatto con l’Oligarca russo, sostenitore di Putin Konstantin Malofeev. Tra aprile e settembre attraverso un complesso giro di società il Front National ottiene un finanziamento da due banche russe per un totale di 11 milioni di euro. 400 mila euro di questo finanziamento sarebbero finiti a Chauprade per finanziare la sua campagna elettorale. Il resto rimane nelle disponibilità del Front National, oggi diventato Rassemblement National.

LAURENT JACOBELLI - PORTAVOCE RASSEMBLEMENT NATIONAL Quando il Front Nationale all’epoca ha deciso di finanziare la sua campagna elettorale ha chiesto un prestito alle banche francesi che hanno rifiutato sistematicamente. Subito dopo abbiamo provato con le banche dell’Unione Europea che si sono comportate nello stesso modo. A quel punto abbiamo trovato una banca russa che ha accettato di prestarci il denaro necessario per fare la nostra campagna elettorale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Una tranche del prestito il Front National lo riceve nel settembre 2014 per un importo di 9 milioni di euro dalla First Czech- Russian Bank. EMANUELE BELLANO È possibile sapere chi ha autorizzato il finanziamento al Front National?

MAXIME VAUDANO – LE MONDE La First Czech-Russian Bank è formalmente una banca privata, ma sappiamo bene che ha stretti legami con il Cremlino. Per questo è impossibile che il prestito fosse concesso senza l’autorizzazione del potere politico di Mosca. Poi c’è un secondo prestito, quello da 2 milioni di euro che è più misterioso perché arriva attraverso una società con sede a Cipro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’aprile 2014 il Front National riceve il denaro dalla Vernonsia Holding Ltd. la società è propaggine a Cipro della compagnia russa VEB Capital. In altre parole, un braccio finanziario del Cremlino. All’epoca a capo di VEB Capital c’era Yuriy Kudimov. Espulso nel 1985 dalla Gran Bretagna con l’accusa di essere una spia russa del KGB, Kudimov è dal 2010 in stretti rapporti con l’oligarca russo amico di Putin, Konstantin Malofeev.

LAURENT JACOBELLI - PORTAVOCE RASSEMBLEMENT NATIONAL Vi assicuro che non c’è nessun legame, nessun legame, tra Vladimir Putin e noi, né politico, né nei contenuti, né in materia di finanziamenti.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando il 24 febbraio la Russia invade l’Ucraina, la Francia è in piena campagna elettorale per l’elezione del presidente. Il giornale Liberation pubblica un articolo in cui rivela che Marine Le Pen ha gettato al macero migliaia di volantini elettorali che la ritraevano insieme a Vladimir Putin. La leader del Ressamblement National supera gli altri candidati e arriva comunque al ballottaggio con Emmanuel Macron.

AYMERIC DUROX - RASSEMBLEMENT NATIONAL NANGIS (ILE DE FRANCE) Questi sono i voti che Marine Le Pen ha preso qui al secondo turno. Sono numeri importanti. Grazie a questi voti ho delle chance di diventare deputato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella 44esima circoscrizione a sud-est di Parigi il Ressemblement National ha preso oltre il 56 per cento dei voti vincendo in 130 comuni su 150.

EMANUELE BELLANO Nei programmi elettorali di Marine Le Pen c’era l’idea di uscire dalla Nato e comunque di svincolarsi in qualche modo dall’Europa. Non avete paura oggi con la situazione internazionale che c’è adesso che la Francia possa prendere con Marine Le Pen una direzione in questo senso?

AYMERIC DUROX - RESSAMBLEMENT NATIONAL NANGIS (ILE DE FRANCE) Non credo che i francesi si facciano condizionare da queste questioni internazionali sull’uscire dalla Nato o no. I francesi in Francia non hanno più potere d’acquisto, sono preoccupati per la loro sicurezza e per questo bisogna criticare l’Europa che ha arricchito la Germania, ha impoverito l’Italia e ha impoverito la Francia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora abbiamo capito intanto che la Guerra fredda non è mai cessata. Caso mai si è trasformata in "political warfare" cioè una sorta di guerra però non combattuta con armi tradizionali bensì con la politica e la propaganda Putin ha bisogno di osservatori internazionali per sancire referendum indetto per l’annessione della Crimena, bene il suo vice capo del dipartimento Interno Timur Prokopenko scrive ad un politico, produttore televisivo Rykov, che vive in Costa Azzurra, dice perchè non coinvolgi Marine Le Pen come osservatore internazionale. Lei non può e in Crimea va il suo consigliere internazionale Aymeric Chauprade. Chauprade risulta poi nella lista di Dughin, come “sostenitore di un'alleanza strategica tra Europa e Russia per contrastare la politica mondiale unipolare degli Stati Uniti”. Nello stesso anno il Front National viene finanziato per oltre 11 milioni di euro. 400 mila sarebbero finite invece nelle case di Chauprade per finanziare la sua campagna elettorale. A elargire il finanziamento, sono istututi finanziari, bracci finanziari del Cremlino. Due milioni in particolare proverrebbero da una società di Kudimov. Kudimov che è stato espulso dalla Gran Bretagna sospettato di essere una spia russa. Insomma la lista di Dugin è molto ricca arriva anche in Polonia. Una Polonia che condivide con l’Ucraina un lungo confine e quindi risente particolarmente di questo con questa conflitto. In Polonia dalla lista di Dugin, spicca Mateusz Piskorski, che è a capo di un misterioso Centro Europeo di Analisi Geopolitica. Anche questo finanziato anche questo dalla Russia. Ma la Russia sarebbe anche intervenuta anche pesantemente sull’esito delle elezioni Polonia protando alla vittoria il partito anti-europeo, il PIS guida di Kaczynski. Galeotta sarebbe stato in particolare un pranzo tra l’allora ministro degli interni j Sienkiewicz, e il presidente della banca centrale Belka, discorsi che sarebbero stati ascoltati da orecchie indiscrete.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questo ristorante di Varsavia stanno pranzando Bartolomiej Sienkiewicz, all’epoca ministro degli Interni polacco e Marek Belka, allora presidente della Banca centrale della Polonia. Il ministro dell’interno polacco manifesta le sue preoccupazioni per la situazione economica.

BARTŁOMIEJ SIENKIEWICZ - MINISTRO DEGLI INTERNI Abbiamo una situazione pessima del bilancio dello Stato che non fa che peggiorare. La spirale avviata dalla crisi economica rischia di far collassare tutto il sistema. Mancano i soldi e attualmente i tagli sono insufficienti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Registrato da una cimice nascosta sotto il tavolo il presidente della Banca centrale promette al ministro dell’Interno un aiuto per far uscire il Paese dalla crisi economica, ma in cambio chiede un sacrificio.

 MAREK BELKA - PRESIDENTE DELLA BANCA NAZIONALE POLACCA Potrebbe essere messa in campo un’azione straordinaria da parte della Banca centrale. però per questa eventualità il governo dovrebbe dire addio al ministro delle Finanze Rostowski e licenziarlo e nominarne un altro che sia gradito alla Banca centrale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La conversazione tra il ministro e il governatore della banca centrale ha generato uno scandalo che ha coinvolto il partito “Piattaforma Civica” di Donald Tusk, allora al governo.

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, nella campagna elettorale del 2015 per le elezioni parlamentari le intercettazioni sono state il tema principale discusso dai partiti e alla fine “Piattaforma Civica”, un partito pro-Europa, ha perso potere e le elezioni sono state vinte dal Pis, un partito antieuropeista.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie alla pubblicazione di queste conversazioni il Pis guidato da Jaroslaw Kaczynski è alla guida della Polonia, e gli europeisti di Piattaforma Civica finiscono all’opposizione.

GRZEGORZ RZECKOWSKI - GIORNALISTA Il primo ministro dell’epoca Donald Tusk, ha detto pubblicamente che quello era stato un piano scritto in un alfabeto estero.

EMANUELE BELLANO Facendo riferimento a cosa?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Alla Russia, suggerendo che tutto lo scenario delle intercettazioni nei ristoranti fosse stato organizzato dalla Russia.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il primo ristorante in cui sono avvenute le intercettazioni era in questo edificio. Secondo le ricostruzioni dei servizi segreti polacchi le spie russe avevano scelto questo posto perché di fronte all’ambasciata americana a Varsavia.

EMANUELE BELLANO I russi originariamente volevano intercettare i funzionari e i diplomatici americani?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, è stato il controspionaggio americano che l’ha scoperto. Hanno avvertito l’ambasciata.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Scoperto dai servizi segreti il locale chiude ma le intercettazioni proseguono in altri due ristoranti

TOMASZ PIATEK - EDITORE ARBITROR Poi siamo venuti a sapere che i ristoranti dove i politici venivano intercettati, quei ristoranti erano fondati da persone legate alla Russia, abbiamo in quegli anni Kaczynski ha dovuto sapere che sta accettando un regalo di Putin che voleva distruggere il partito pro occidentale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma in viceministro Adam Andruszkiewicz, membro del PIS, con un passato nell’estrema destra, di Gioventù Polacca, Andruskiewicz nel 2018 ha lasciato il movimento per essere nominato Vice ministro polacco per la Digitalizzazione e nega interferenze russe sulla vittoria del partito.

ADAM ANDRUSZKIEWICZ – VICEMINISTRO DELLA DIGITALIZZAZIONE Noi non siamo a conoscenza di prove che testimonino che quelle intercettazioni siano state davvero messe in atto dalla Russia. È una cosa questa che compete la procura e il ministero della Giustizia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le indagini non sono riuscite a provare che dietro le cimici ci fosse la mano dei servizi russi. Oggi il governo del PIS si è espresso nettamente contro la Russia sostenendo l’Ucraina. Tuttavia nella lista stilata da Aleksandr Dugin la Polonia è tra i Paesi con maggior numero di contatti. Tra loro Mateusz Piskorski.

TOMASZ PIATEK - EDITORE ARBITROR Mateusz Piskorski ha rapporti amichevoli con funzionari degli ex servizi segreti comunisti. Già negli anni ’90 viaggiava in Russia, a Mosca, dove si svolgevano delle conferenze anti Nato, anti occidentali e ci viaggiava con un suo collaboratore Sylwester Chruszcz che poi era diventato deputato di Kaczynski, di Pis.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Piskorski è stato il principale alleato di Dugin in Polonia. Aveva lo scopo di creare missioni finalizzate a legittimare le finte elezioni organizzate dalla Russia attraverso il Centro europeo di analisi geopolitica.

EMANUELE BELLANO Perché ha fondato questa associazione?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In molti paesi non puoi andare a testimoniare la legittimità delle elezioni individualmente, senza cioè rappresentare alcuna organizzazione. Quindi per far parte di una missione ufficiale, Piskorski ha creato la sua organizzazione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel febbraio 2014 le milizie locali favorevoli a un’annessione alla Russia occupano i palazzi governativi nella regione meridionale dell’Ucraina, la Crimea. Putin ottiene dal parlamento russo il via libera per usare la forza militare in Ucraina. Il 16 marzo 2014, sotto il controllo delle truppe russe, la Crimea vota un referendum per decidere l’annessione alla Federazione Russa. I sì vincono con il 95 per cento dei voti. In quei giorni l’associazione di Mateusz Piskorski è in Crimea per certificare la regolarità dell’elezione.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Matueusz Piskorski ha guidato lì una missione composta da una ventina di falsi osservatori.

EMANUELE BELLANO Quante elezioni come questa ha supervisionato?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In totale più di una ventina.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il Centro europeo di analisi geopolitica di Piskorki è una delle poche organizzazioni per cui è stato possibile ricostruire un flusso di denaro proveniente dalla Russia allo scopo di finanziarne l’attività. Un’indagine del consorzio giornalistico investigativo Occrp chiamata Russian Laundramat, la lavatrice russa, ha individuato 21 mila euro arrivati all’organizzazione di Piskorski da Mosca, transitati attraverso una società di comodo con sede a Cipro.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sono a conoscenza del fatto che il principale supporto finanziario all’associazione di Piskorki è arrivato in contanti.

EMANUELE BELLANO Che prove abbiamo di questi pagamenti?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Ho parlato con uomini che hanno preso parte a queste missioni e mi hanno detto che hanno ricevuto sempre contanti. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piskorski un personaggio misterioso, a capo di qusto Centro Europeo di Analisi Geopolitica, finanziato dai russi. Lo abbiamo visto accompagnarsi con venti falsi osservatori per certificare la regolarità delle elezioni in Crimea. Un po’ come aveva fatto il consigliere internazionale di Le Pen Chauprade. Nel 2016 Piskorski è stato arrestato dalla magistratura polacca con l’accusa di essere una spia al servizio della Russia e della Cina. Il processo è ancora in corso. Comunque questo non ha evitato a Piskorski di costituire un suo partito, Change. Al suo fianco spunta un altro personaggio: Bartosz Bekier è il fondatore del sito internet polacco XPortal, Anche il suo nome rientra nella famigerata lista di Dugin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il sito XPortal di Bekier è citato nel documento di Dugin come portale filo-russo e radicale. Il suo simbolo è costituito da due fucili incrociati su sfondo nero. BARTOSZ BEKIER, XPORTAL In questa foto stavamo proiettando il logo di Xportal col laser su un edificio qui a Varsavia, finché è arrivata la polizia e ce lo ha fatto togliere.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Che cosa rappresenta?

BARTOSZ BEKIER, XPORTAL I fucili incrociati simbolizzano l'alleanza globale degli estremi, ossia tutto ciò che si oppone al liberalismo occidentale: nazionalisti con stalinisti, maoisti e con ultraconservatori.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui un adesivo di XPortal è affisso nel quartiere Esquilino a Roma di fronte alla sede del movimento di destra Casa Pound. In questa foto Bekier posa con i militanti di Hezbollah. Questa fotografia documenta invece miliziani filo-russi del Donbass con il simbolo di XPortal. Bartosz Bekier è anche il fondatore del movimento polacco di estrema destra Falanga, il cui simbolo è usato dai combattenti filo-russi a Donetsk.

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Siamo andati perché volevamo mostrare le azioni terroristiche compiute dall’esercito ucraino contro i separatisti filo-russi del Dombass. Siamo stati testimoni dei bombardamenti dei mig ucraini, per esempio alla stazione e delle morti di civili innocenti. Tutte cose su cui le televisioni polacche dal 2014 mantengono un silenzio assoluto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Donetsk Bekier incontra Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, sostenuta da Putin e nata con la guerra separatista del 2014 con l’Ucraina. Le missioni di Falanga hanno riguardato anche altre aree rilevanti per l’influenza geopolitica della Russia. Da sette anni la Russia è impegnata militarmente nel conflitto siriano al fianco dell’esercito del presidente Bashar Al Assad. Nel 2013 Bartosz Bekier vola in Siria dove incontra il primo ministro siriano Al Halqi.

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Era una missione internazionale e c’era anche una delegazione dall’Italia guidata da Roberto Fiore di Forza nuova e anche il politico nazionalista inglese Nick Griffin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La missione a Damasco è organizzata dal Centro europeo di analisi geopolitica di Mateusz Piskorski.

MICHAL KACEWICZ – GIORNALISTA POLSKA NEWSWEEK Ho ricevuto una chiamata da questa organizzazione in cui mi chiedevano di partecipare alla missione in Siria.

EMANUELE BELLANO E qual era il piano del viaggio?

MICHAL KACEWICZ - GIORNALISTA Ho parlato con dei diplomatici dell’ambasciata siriana e ho capito che il vero scopo era portare giornalisti occidentali al fine di legittimare il regime di Assad. E così ho rifiutato.

EMANUELE BELLANO C’erano legami con la Russia?

MICHAL KACEWICZ - GIORNALISTA Ho iniziato a indagare e ho trovato relazioni con organizzazioni russe che pagavano l’associazione di Piskorski per missioni come questa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma i soldi servono per promuovere anche azioni violente come quella messa in atto nel 2018 a Uzhgorod, città dell’Ucraina occidentale.

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Tre estremisti polacchi connessi all’estrema destra filorussa sono andati in questa città e hanno dato fuoco al centro culturale della minoranza ungherese.

EMANUELE BELLANO Chi era a capo della spedizione?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Michal Prokopowicz, un membro dell’organizzazione di estrema destra Falanga che era anche in contatto con il partito “Change” di Bekier e Piskorski.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ripresi dalle telecamere di sorveglianza i membri del commando incappucciati lanciano alcune molotov e appiccano il fuoco all’edificio. Lo scopo del gesto è aumentare le tensioni etniche in Ucraina e destabilizzare il governo di Kiev.

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Si tratta di ex membri di Falanga perché non fanno più parte del movimento.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questa foto ritrae a sinistra Bartosz Bekier. Al suo fianco Mateusz Piskorski. Seduto all’estremità destra del tavolo Michal Prokopowicz, considerato autore materiale del rogo in Ucraina. In mezzo il giornalista e attivista tedesco di estrema destra Manuel Ochsenreiter.

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Nel processo Prokopowicz, l’uomo accusato di essere autore del rogo, ha dichiarato di aver ricevuto soldi da Ochsenreiter che avrebbe finanziato la missione incendiaria in Ucraina.

EMANUELE BELLANO Ci sono legami tra Manuel Ochsenreiter e la Russia?

GRZEGORZ RZECZKOWSKI - GIORNALISTA Sì, Ochsenreiter innanzi tutto ha collaborato con il filosofo e ideologo russo Alexandr Dugin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con la lista di Dugin il cerchio si chiude. il nome di Manuel Ochsenreiter è citato come uno dei suoi contatti in Germania. Ma Ochsenreiter ha contatti anche con Kateon il think tank di Kostantin Malofeev l’oligarca di Dio.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione russa in Ucraina i servizi polacchi chiudono il sito di Bartosz Bekier, XPortal.

EMANUELE BELLANO Come commenta il fatto che il comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha chiesto alla Polonia di mettere fuori legge Falanga?

BARTOSZ BEKIER - XPORTAL Sono dichiarazioni che vengono da istituzioni che hanno come base il liberalismo che secondo noi è un’ideologia totalitaria che vuole togliere a organizzazioni come la nostra la libertà di espressione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che un ruolo l’ha avuto anche Bartosz Bekier il fondatore del sito XPortal, che ha appoggiato i filo russi combattenti in Donbass, e ha fondato anche il movimento Falanga, un movimento da cui provengono quei membri che hanno realizzato attentati in Ucraina, per destabilizzare il paese che sarebbero stati finanziati da un attivista e giornalista tedesco Ochsenreiter che anche lui appartiene alla lista di Dugin, una lista corposa una rete che si dipana fino in Austria. Proprio seguendo le tracce del partito di estrema destra Austriaco l’FPO che emerge anche il ruolo di un altro Centro Russo di Scienza e Cultura, Rossotrudnichestvo, che sostanzialmente è un’agenzia che serve per aggirare la norma per aggirare il numero fisso di diplomatici presenti nei paesi perchè è un numero fisso posto dalle leggi internazionali. Si sospetta che i diplomatici possano essere delle spie quindi viene messo un limite per non avere in un paese trope spie che lavorano per altri stati. Questo centro servirebbe per avere numero illimitato di spie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo del sofisticato soft power russo. Il cremlino ha investito 240 milioni di euro, anche provenienti da società off-shore, per condizionare le politiche di paesi europei e anche per creare una rete, una sorta internazionale nera. In tutto questo ha avuto un ruolo importante l’ideologo Dugin il quale ha creato una vera e propria lista della quale vi abbiamo dato conto questa sera. Questa azione, questo soft power è stato esercitato anche mettendo in campo delle spie per condizionare l’esito delle elezioni di paesi stranieri e anche siglando dei contratti con i leader di partiti occidentali. Seguendo il filo di questa rete si è arrivati anche in Austria. Uno dei leader che si è lasciato coinvolgere e sedurre dal potere russo è l’ex leader del partito di estrema destra Fpo, Heinz-Christian Strache, il quale credendo, in un resort. di parlare con un’avvenente nipote di un oligarca si è lasciato un po’ andare e ha parlato di appalti in cambio di appoggio elettorale. Si è accorto tardi che era una trappola.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ibiza, isola delle Baleari, in Spagna. In un resort di lusso i due principali esponenti del partito di estrema destra austriaco Fpo incontrano una giovane donna russa. La ragazza dice di essere nipote di un potente oligarca. L'uomo che parla, seduto sul divano, è Christian-Heinz Strache, all'epoca capo del partito di estrema destra austriaco Fpo.

HEINZ-CHRISTIAN STRACHE - POLITICO La prima cosa che posso promettere nel caso di una nostra partecipazione al governo è che la società Strabag che costruisce infrastrutture non riceva più commesse. In questo modo si libera un gran numero di appalti pubblici. Ecco, dille di creare una società come Strabag, così tutti i contratti pubblici che Strabag riceve ora, li riceverà lei.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In t-shirt azzurra c’è Johann Gudenus, numero due in quel momento del partito. Nel video i due politici sembrano promettere alla donna russa gli appalti pubblici fino ad allora affidati al colosso austriaco delle infrastrutture Strabag, in cambio del supporto alla loro imminente campagna elettorale. Durante l’incontro l’avvenente giovane donna russa sostiene di essere interessata a comprare per conto di suo zio il più importante tabloid austriaco per condizionare in vista delle elezioni l’opinione pubblica austriaca. Cosa apprezzata dal capo del partito Strache.

HEINZ-CHRISTIAN STRACHE - POLITICO Se lei davvero riesce a comprare il giornale in tempo e il giornale spinge il nostro partito per due, tre settimane prima delle elezioni, allora sì, non prenderemo il 27 per cento, ma il 34 per cento.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Non è chiaro chi fosse la giovane donna russa, né perché abbia contattato i due esponenti dell’Fpo.

MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Sono caduti in una trappola organizzata da un detective privato con l’aiuto di questa giovane donna russa. Ma ciò che è importante è il modo in cui si sono comportati. Sappiamo che hanno incontrato molte volte oligarchi e uomini d’affari russi. Questa è l’unica volta che vediamo cosa si sono detti e non c’è motivo di pensare che nelle altre situazioni si siano comportati diversamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I primi contatti tra l'Fpo austriaco e Mosca risalgono al 2008. All'epoca tra i membri del partito c'è Barbara Kapple che al tempo stesso è manager della società Austrian Technologies.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Ufficialmente questa società vendeva tecnologia austriaca all’estero, non solo in Russia, ma anche in altri paesi dell’Est come Kazakhstan e Ucraina. non era molto proficua in questo business, ma fu molto attiva nell’organizzare conferenze politiche che avevano lo scopo di sostenere gli interessi della politica estera della Russia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'8 agosto 2008 la Russia lancia un'invasione terrestre, aerea e marittima in Georgia per sostenere le regioni filorusse dell’Ossezia del Sud e dell’Abcazia. Dopo 5 giorni di guerra viene siglato il cessate il fuoco. Anche dopo la fine dei combattimenti la Russia continua a occupare l'Abcazia e l'Ossezia del Sud in violazione dell'accordo con la Georgia.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In quegli anni dal 2008 al 2010 Barbara Kappel faceva parte della fazione filorussa del partito austriaco Fpo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell’Ottobre 2008 Austrian technologies organizza una conferenza a Vienna dal titolo “Europe-Russia-Georgia: Peace Building I”. Barbara Kappel e il leader dell’Fpo HeinzChristian Strache rappresentano la parte austriaca. I partecipanti criticano gli Stati Uniti e il presidente Georgiano anti-Putin Saakashvili. Strache nell’occasione afferma che l’Europa deve perseguire i suoi interessi geopolitici approfondendo e sviluppando la cooperazione con la Russia. A distanza di due anni nel 2010 Austrian Technologies sponsorizza un’altra conferenza a Vienna dal titolo emblematico “Riflessioni sulla prospettiva Russo-Austriaca”. Insieme alla società di Barbara Kappel l’evento è organizzato dall’agenzia federale russa Rossotrudnichestvo.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Il nome per esteso del Rossotrudnichestvo è “Centro russo di scienza e cultura”. Ma è lo strumento principale del soft power russo in Europa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con sedi praticamente in ogni capitale europea il Rossotrudnichestvo è una rete capillare che per anni ha permesso al Cremlino di monitorare i paesi occidentali e promuovere idee filo-russe. Ha una sede a Varsavia, in Polonia e a Parigi. In Austria è in questo palazzo settecentesco nel cuore di Vienna.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In base alle leggi internazionali ogni governo può avere solo un numero ristretto di diplomatici che lavorano in un altro Paese. Ebbene, è piuttosto noto che una parte dei diplomatici russi sono spie. Se in un Paese c’è un un ufficio del Rossotrudnichestvo il numero di funzionari che può lavorare in quell’ufficio è illimitato e così la Russia può avere a disposizione tutte le spie che vuole.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Al punto che Mosca ha finanziato il Rossotrudnichestvo nel 2013 con 48 milioni di euro saliti nel 2020 a 228 milioni di euro.

EMANUELE BELLANO Cosa ha spinto i leader dell’Fpo a legarsi così alla Russia?

MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Entrambi avevano l’interesse comune di indebolire l’Unione Europea. L’Fpo è sempre stato un partito anti-europeista e la Russia da ciò ne ha tratto un evidente vantaggio.

EMANUELE BELLANO Quali sono state le posizioni che hanno animato la politica filorussa dell’Fpo?

MICHEL REIMON – PARLAMENTARE VERDI AUSTRIACI Ogni volta che in parlamento c’era un voto che andasse contro gli interessi della Russia, su Cecenia, Donbass, sull’invasione della Crimea e così via, l’Fpo era dalla parte di Putin, votando contro le risoluzioni sia a livello nazionale che europeo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’artefice del legame tra il partito di estrema destra austriaco e il Cremlino è Johann Gudenus, l’uomo che indossa una t-shirt azzurra nel video trappola dove Strache parla con la giovane donna russa di appalti e appoggio elettorale

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Gudenus all’età di 17 anni con la sua scuola fece uno scambio culturale in Russia. Da lì è nato il suo amore per Mosca, San Pietroburgo e la cultura russa.

EMANUELE BELLANO Qual è stato il suo ruolo nel partito Fpo?

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Era il vice di Strache. Si conoscono da quando erano adolescenti.

EMANUELE BELLANO Come si sono sviluppati questi rapporti con la Russia?

NINA HORACZEK -GIORNALISTA FALTER Una delegazione austriaca di politici dell’Fpo si è recata a Mosca ma anche in Cecenia da Kadyrov, conosciuto come il macellaio di Grozny.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dittatore russo a capo della Repubblica Cecena, Razman Kadyrov è accusato di omicidi e torture soprattutto nei confronti di omosessuali e oppositori politici. Secondo le recenti ricostruzioni ci sarebbero anche le sue truppe dietro al massacro di civili a Bucha, a nord di Kiev nel marzo scorso.

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Successivamente sono stati i russi a venire a Vienna. In particolare Aleksandr Dugin.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Uno dei primi viaggi del filosofo putiniano a Vienna risale al 2014. Un giornale svizzero, ha rivelato che in quell’occasione l’ideologo russo ha partecipato a una cena con i vertici dell’Fpo Heinz Christian Strache e Johan Gudenus. Nel 2018 Dugin è di nuovo a Vienna questa volta per partecipare a una cerimonia di gala.

NINA HORACZEK - GIORNALISTA FALTER Dugin è stato ospite d’onore all’AkademicaBall, una cerimonia che si tiene a Vienna, in cui tutti indossano abiti di gala e ballano danze tradizionali austriache.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I balli si tengono nella prestigiosa cornice del palazzo Hofburg di Vienna. Alcuni di questi balli prendono il nome di “balli russi”. L’organizzazione è nelle mani di Nathalie Holzmuller, cittadina austriaca con passaporto russo, qui fotografata in una di queste cerimonie con Gudenus e Strache. In una lettera del 2015, Holzmuller scrive che i balli sono un progetto voluto e sponsorizzato proprio dall’Fpo. Il legame tra il partito di estrema destra austriaca e il Cremlino raggiunge l’apice un anno dopo. Nel 2016 una delegazione dell’Fpo vola a Mosca per incontrare gli esponenti di “Russia Unita”, il partito di Vladimir Putin.

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY In quel momento il Cremlino decide di firmare un documento di collaborazione con l’Fpo austriaco.

EMANUELE BELLANO Perché era un patto con un partito che sarebbe potuto andare al potere e far parte del governo in Austria?

ANTON SHEKHOVTSOV – DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Questa era l’idea di Russia Unita: avere un accordo con alcune forze in Europa che avrebbero avuto poteri di governo nei loro Paesi. E sappiamo che lo stesso accordo è stato fatto con un medesimo intento anche con la Lega di Salvini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nei giorni successivi all’invasione russa dell’Ucraina l’attuale leader dell’FPO Herbert Kikcl si è scagliato contro la Nato contro gli Stati Uniti, sostenendo che le sanzioni contro Mosca violavano il diritto internazionale. Come abbiamo visto, il partito dell’ FPO è stato infiltrato pesantemente dal soft power russo. Lungo il percorso è emerso anche il ruolo di questo Centro Russo di Scienza e Cultura il Rossotrudnichestvo. Uno strumento sommerso per monitorare l’attività e la politica dei paesi europei, e anche condizionarla. Per questo Cremlino lo ha finanziato complessivamente per oltre 240 milioni di dollari. Ora c’è da chiedersi quanti centri come questo ci sono e quanto condizionano lo svolgimento della nei paesi? 

Casus belli. Report Rai PUNTATA DEL 16/05/2022 di Manuele Bonaccorsi

Collaborazione di Giulia Sabella

Donbass: la Russia vuole annetterlo, l'Ucraina non vuole cederlo.

Il Donbass è la regione contesa, dove la guerra è iniziata ormai otto anni fa. I nostri inviati si sono recati a Donetsk, capitale della Repubblica popolare filorussa, che si è proclamata indipendente dopo la rivolta Euromaidan del 2014, e la cui popolazione continua a vivere sotto i colpi di artiglieria e i missili dell'esercito ucraino. Ma cosa rende il Donbass così importante? Patria dei più ricchi oligarchi ucraini, il suo carbone e le sue acciaierie lo rendono strategico. Non solo per l'Ucraina, ma anche per l'Italia, che a causa della guerra rischia di veder crollare la sua produzione di acciaio.  

CASUS BELLI di Manuele Bonaccorsi collaborazione Giulia Sabella montaggio Riccardo Zoffoli

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Donetsk, capitale della Repubblica Popolare del Donbass russo. Il 14 marzo scorso un missile proveniente dall’Ucraina colpisce il boulevard Puskin: 28 feriti, 20 morti. VEDOVO Il 14 marzo è morta mia moglie. Quella mattina mi aveva detto che sarebbe rimasta a casa. “Ti preparerò delle frittelle”, mi aveva detto. Ma quanto sono tornato a casa, lei non c'era. Ho iniziato a chiamarla al cellulare ma lei non rispondeva. Sono corso in strada, e l'ho vista stesa a terra. Ho una cugina che vive in Ucraina, a Kharkiv. Quando è scoppiata la guerra, il 24 febbraio, mi ha chiamato: “Maledetti – mi ha detto – per colpa vostra e di Putin abbiamo la guerra”. Quando è morta mia moglie l’ho richiamata. “Sarai contenta adesso”, le ho detto. “Peggio per te che hai scelto la Russia”, ha risposto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Vista dal Donbass, la guerra in corso è una guerra civile. Divide le famiglie. E a perderci sono sempre i civili, da entrambe le parti. Arriviamo davanti a questa casa, nella periferia di Donetsk, poche ore dopo lo scoppio di un colpo di artiglieria. MADRE Non abbiamo avuto tempo di prendere nulla, era tutto in fiamme. Mi marito si è ustionato alla schiena e alla mano. UOMO Non abbiamo nulla contro gli abitanti dell'Ucraina. Non gli auguro di vivere sotto le bombe come abbiamo fatto noi negli ultimi otto anni.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il 28 aprile un missile cade in un mercato, a Donetsk, alle 11 del mattino. Due morti e cinque feriti. Lo stesso giorno viene colpito anche il quartiere residenziale di Makeyevka. UOMO Le esplosioni erano ovunque. E qui non c’è alcun obiettivo militare. DONNA L'unica cosa che mi ha salvato è che ero nell'altra stanza. Se fossi stata qui, quella sera sarei morta anch’io. Mi avrebbe colpito uno di questi frammenti.

GIOVANE Questo è un edificio residenziale di nove piani, ci sono stati 19 feriti e due bambini sono morti: uno, Alexey, aveva 11 anni e la bimba, Alina, ne aveva 4. Giocavano nel giardino.

DONNA Lo capite che gli ucraini stanno uccidendo i loro stessi cittadini? Chi hanno ucciso qui? Io sono ucraina. Perché ci uccidiamo tra noi?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una guerra che, secondo le stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha contato, ha provocato 14 mila morti, 3 mila civili, dura da lunghi 8 anni. Da quando cioè nel 2014, a Kiev, si è scatenata la rivolta delle forze pro Europa, la rivolta nota come Euromaidan, che ha portato alla destituzione del presidente Yanukovich, presidente ucraino ma filorusso. Questo ha comportato delle violente proteste nelle province di Donetsk e Lugansk e ha comportato poi, con l’appoggio della Russia, anche l’istituzione di due Repubbliche autonome. Per cercare di sedare gli scontri violenti è intervenuta anche la comunità internazionale con due accordi a Minsk, uno nel 2014, l’altro nel 2015, dove l’Ucraina si impegnava a riconoscere una vasta autonomia alle due Regioni, dall’altra parte i filorussi si impegnavano a deporre le armi. Ma questi accordi sono rimasti lettera morta, la miccia è rimasta accesa. Il nostro Manuele Bonaccorsi è andato in Donbass per vedere perché questa Regione interessa così tanto a Putin, perché una guerra civile si è trasformata in una guerra tra potenze, in una Regione che rischia di essere la causa della terza guerra mondiale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dall’altro lato del fronte, nella repubblica separatista di Donetsk, la guerra è iniziata otto anni fa e l’odio tra cittadini che vivevano nello stesso Paese si è ormai incancrenito. Donetsk, un milione di abitanti, era la capitale sovietica del carbone. In piazza Lenin la statua del fondatore dell’Unione Sovietica lo ricorda in una effige: senza il Donbass, il socialismo resterà solo un sogno. Carbone vuol dire energia, elettricità, acciaio. E negli anni dell’industrializzazione forzata, ai tempi di Stalin, centinaia di migliaia di cittadini russi vengono a lavorare qui.

ALEXEY YURIEVICH NICONOROV – GOVERNO REPUBBLICA POPOLARE DI DONETSK Il Donbass è un territorio in cui la cultura e le tradizioni russe sono tramandate di generazione in generazione. Nel 2014, a seguito di un colpo di stato, chi è salito al potere a Kiev ha detto: “Tutte le tue tradizioni sono ora fuorilegge. Se qualcuno continua a vivere allo stesso modo, sarà sottoposto a repressioni”. Tutto questo il popolo del Donbass non poteva accettarlo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nella narrazione degli esponenti politici di Donetsk, l’Euromaidan del 2014 sarebbe semplicemente un colpo di stato. La decisione di non firmare un accordo di partenariato con l’Unione Europea a favore di un trattato con la Russia aveva suscitato dure proteste di piazza, l’occupazione del Parlamento, la cacciata del presidente Yanukovich. Un cambio netto di regime politico, teso a tagliare i ponti con la Russia. In tutto il Sud e l’Est dell’Ucraina, zone a maggioranza di lingua russa, scoppiano proteste di segno opposto che si tramutano in scontri violenti con gruppi nazionalisti ucraini. A Odessa 48 persone vengono uccise nella casa dei sindacati. A Mariupol si registrano duri scontri armati tra esercito ucraino e militanti filorussi. A Kharkiv vengono occupati gli uffici del governo locale. A Donetsk e Lugansk, nell’estremo est dell’Ucraina, nascono invece due repubbliche autonome, sostenute da Mosca.

FULVIO SCAGLIONE – GIORNALISTA LIMES La narrazione russa è: qui c'è una popolazione russofona e russofila che viene pesantemente discriminata e anzi è a rischio genocidio. Di là dicono: no, non è vero. Qui c'è una popolazione che stava benissimo in Ucraina e che è oppressa e strumentalizzata da una minoranza che a sua volta è eterodiretta da Mosca. Le due narrazioni sono diametralmente opposte.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Alla fine del 2014 a Minsk, in Bielorussia, sotto l’egida dell’Osce e alla presenza del presidente francese Hollande e della cancelliera Merkel, i belligeranti si siedono a un tavolo, per cercare la pace.

FULVIO SCAGLIONE – GIORNALISTA LIMES Gli accordi di Minsk prevedevano degli impegni per entrambe le parti. Le repubbliche del Donbass avrebbero dovuto accettare che il confine con la Russia tornasse sotto la gestione degli ucraini e avrebbero dovuto disarmare. La parte ucraina aveva tutto sommato un impegno politicamente più gravoso, perché si chiedeva agli ucraini – che gli ucraini si erano impegnati a farlo, firmando – si chiedeva di concedere una vasta autonomia sostanzialmente al Donbass, con una modifica della Costituzione. E poi di svolgere, di organizzare elezioni politiche nel Donbass perché anche il Donbass potesse nominare i propri rappresentanti nel Parlamento ucraino.

ALEXEY YURIEVICH NICONOROV - GOVERNO REPUBBLICA POPOLARE DI DONETSK Ero membro della delegazione, ho partecipato a tutti questi otto anni di trattative. Posso dire con assoluta sicurezza che l'Ucraina ha categoricamente rifiutato di discutere tutti gli aspetti politici degli accordi di Minsk.

MANUELE BONACCORSI Di chi è la colpa della mancata applicazione degli accordi di Minsk?

FULVIO SCAGLIONE – GIORNALISTA LIMES C’è un concorso di colpa. Né l'uno né l'altro hanno mai creduto che, soprattutto, che fosse nel loro interesse rispettarli, per ragioni evidentemente diverse. Gli ucraini, che peraltro alla fine, prima della guerra, nei mesi precedenti, hanno denunciato gli accordi di Minsk, hanno detto: non li rispetteremo mai, perché per loro avrebbe significato accettare, anzi promuovere la disgregazione del Paese. E il Donbass, diciamo ispirato dalla Russia, vuole l'indipendenza, non vuole… sì, l'autonomia va bene ma, diciamo, l'obiettivo, il desiderio vero è sempre stato quello dell’indipendenza.

 MANUELE BONACCORSI Se non l’annessione alla Russia…

FULVIO SCAGLIONE – GIORNALISTA LIMES Ecco.

MANUELE BONACCORSI Se Zelensky si sedesse al tavolo e dicesse: concederò immediatamente con un voto del Parlamento un’ampia autonomia alla regione del Donbass, voi vi sedereste a firmare un accordo che prevede questo?

ALEXEY YURIEVICH NICONOROV - GOVERNO REPUBBLICA POPOLARE DI DONETSK Non lo accetteremmo. L'unica via d'uscita da questa situazione è il riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica Popolare di Donetsk nei suoi confini costituzionali.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, durante gli otto anni di guerra in Donbass, nei due lati del fronte sono morte oltre 14 mila persone, tra cui 3 mila erano civili. Nella lotta contro i separatisti un aiuto all’Ucraina è arrivato anche da gruppi nazionalisti, milizie private che coprono le iniziali debolezze dell’esercito regolare di Kiev. Il più famoso è il battaglione Azov.

FULVIO SCAGLIONE – GIORNALISTA LIMES A finanziare il battaglione Azov e a finanziare questi gruppi concorsero alcuni dei più importanti oligarchi ucraini. In prima fila Igor Kolomoinsky, proprietario del gruppo mediatico dove Zelensky divenne famosissimo con la sua situation comedy Servo del popolo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Kolomoinsky è originario dell’Est dell’Ucraina, precisamente di Dnipropetrovsk, di cui è stato anche governatore. Ex proprietario della PrivatBank, nel 2021 viene sanzionato dagli Usa con l’accusa di aver usato il suo incarico pubblico per interessi personali. Ha una tripla cittadinanza: ucraina, israeliana e cipriota. Kolomoinsky non è l’unico oligarca che proviene dall’Est, la parte più ricca e produttiva dell'Ucraina.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo a Makeevka, a mezz’ora da Donetsk. Questa è una delle più importanti miniere di carbone di tutto il Donbass.

GEORGHIY YAHNKOV – SINDACATO MINATORI MAKEEVKA Da qui entrano i lavoratori per raggiungere la miniera.

MANUELE BONACCORSI Quanto è profondo il pozzo?

GEORGHIY YAHNKOV – SINDACATO MINATORI MAKEEVKA Quando la miniera è stata aperta il carbone era quasi in superficie, ora lo troviamo a 750 metri di profondità. Ma in Donbass ce ne sono alcune che superano i 1.000 metri. Ventilarle non è per nulla facile.

MANUELE BONACCORSI Che cosa sono queste montagne? Se ne vedono ovunque a Donetsk.

GEORGHIY YAHNKOV – SINDACATO MINATORI MAKEEVKA Non è una montagna, è un tiricone. Qui va a finire la pietra estratta dalle gallerie. E questo è il nostro carbone. È un buon carbone, quello che vedete è grezzo, ma quando viene arricchito arriva all’80% di purezza. Quando è cominciata la guerra molte miniere si sono fermate, ma da qui abbiamo estratto 45 mila tonnellate di carbone. Sono state usate per il riscaldamento di tutto il Donbass.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma questa è una miniera pubblica, le più produttive sono state privatizzate e le hanno acquistate gli oligarchi.

MANUELE BONACCORSI E chi le ha comprate?

GEORGHIY YAHNKOV – SINDACATO MINATORI MAKEEVKA Akhmetov è stato il più veloce e abile. Le azioni erano state date ai lavoratori ma dopo la fine dell’Urss la crisi economica era terribile. Le ha comprate a molto meno del loro valore. Carbone, coke, metallo: ha capito che controllando l’intero ciclo, avrebbe aumentato il suo profitto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Akhmetov è l’uomo più ricco di Ucraina, il proprietario dello Shakhtar Donetsk, la squadra più forte del Paese, e dell’Azovstal, la fabbrica distrutta a Mariupol. Fino al 2014 Akhmetov aveva il suo quartier generale proprio a Donetsk. Il suo stadio oggi è chiuso, la squadra si è trasferita a Kiev. Dopo le rivolte del 2014 l’oligarca, infatti, ha scelto l’Ucraina, e le sue acciaierie nella regione sono passate alla gestione pubblica dei separatisti filorussi. Come questo stabilimento che si trova nei pressi di Donetsk, che dà lavoro a 4.800 operai.

MAXIM ALEKSANDROVICH PERA – DIRETTORE FABBRICA METALLURGICA DI YENAKIEVO Il carbone proviene sia dalla Russia che dalla Repubblica Popolare di Donetsk. Il ferro invece proviene tutto dalla Russia. In questa fabbrica si svolge l’intero ciclo, dalle materie prime alla trasformazione in ghisa. Oggi esportiamo solo in Russia ma se questa situazione politica si risolverà, riusciremo a esportare anche in Europa. Naturalmente, l’apertura del porto di Mariupol sarà un grande vantaggio nella logistica.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La Azovstal di Mariupol, oggi praticamente rasa al suolo dai bombardamenti, era il centro industriale dell’impero di Akhmetov. Dal suo porto salpavano le navi dirette ai mercati occidentali, compresa l’Italia. Con la città occupata, i vantaggi per Mosca saranno evidenti.

MANUELE BONACCORSI Pensa che ci sia una relazione tra la guerra e le risorse di questo territorio?

MAXIM ALEKSANDROVICH PERA – DIRETTORE FABBRICA METALLURGICA DI YENAKIEVO Naturalmente la guerra è anche causata da motivi economici. L'intera industria ucraina era concentrata al 60% sul territorio dell'ex regione di Donetsk.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Le mire di Putin sono chiare: vuole tutto il Donbass e i porti del sud. E dall’altro lato gli oligarchi e Zelensky non possono cedere neppure un millimetro. A partire proprio da Akhmetov, che a causa della guerra rischia di perdere 20 miliardi di dollari di capitalizzazione. La sua storia merita di essere raccontata: dopo il crollo dell’Unione Sovietica si sarebbe accompagnato, secondo le cronache, con Akhat Bragin, imprenditore in odor di mafia e all’epoca proprietario dello Shakhtar. Nel ‘95 Bragin viene ucciso in un attentato e Akhmetov ne prende il posto come presidente della squadra. In poco tempo arriva a controllare, tramite la holding Metinvest, le più importanti acciaierie e miniere dell’Ucraina, e tramite la DTEK, la più importante azienda energetica. Quando nel 2014 scoppia il conflitto armato in Donbass, si schiera con l’Ucraina. Gli abbiamo chiesto un’intervista, e lui ci ha risposto per iscritto.

RINAT AKHMETOV Ho condannato il separatismo. A Mariupol ho chiamato la gente a scendere in strada, per cacciare i separatisti dalla città. Per me sono terroristi. Il Donbass può essere felice solo come parte dell’Ucraina unita, allora come adesso.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Lei ha dichiarato che ricostruirà Mariupol. Lo farà anche se fosse annessa alla Russia? RINAT AKHMETOV Per me, Mariupol sarà sempre una città ucraina e sarà ricostruita solo sotto il controllo ucraino. Le mie aziende non opereranno mai sotto il controllo russo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La fede ucraina di Akhmetov oggi non pare in discussione. Ma quando Zelensky, nel 2019, viene eletto presidente, Akhmetov era uno dei suoi principali avversari. Il presidente ucraino aveva varato una legge “anti-oligarchi”, e i rapporti tra i due raggiungono quasi un punto di non ritorno lo scorso anno, quando Akhmetov viene tirato in ballo in un presunto colpo di stato orchestrato da Mosca, denunciato pubblicamente dal presidente Zelensky.

FULVIO SCAGLIONE – GIORNALISTA LIMES L’anno scorso Zelensky denuncia un tentativo di colpo di Stato ai suoi danni e dice: abbiamo delle registrazioni, delle intercettazioni telefoniche in cui questi congiurati dicono che Rinat Akhmetov sarebbe stato disponibile a mettere tot milioni di dollari per la causa. E poi Zelensky dice: ma io non voglio, non voglio credere che un personaggio come Akhmetov potrebbe fare una cosa di questo genere, perché altrimenti verrebbe immediatamente accusato di tradimento dello Stato, che era una maniera molto...

MANUELE BONACCORSI Velata, diciamo.

FULVIO SCAGLIONE - LIMES Neanche tanto velata di dire: occhio che, come ti muovi, ti fulmino.

MANUELE BONACCORSI Lei è stato accusato di essere coinvolto in un colpo di Stato.

RINAT AKHMETOV È una menzogna e non c’è alcuna prova. Sono il maggior investitore e contribuente dell’Ucraina. Voglio un’Ucraina unita, dentro l’Unione Europea. Questa è la strada per la vittoria.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Akhmetov è proprietario anche di alcuni stabilimenti in Italia. Qui, in provincia di Verona, c’è uno dei più grandi. Attualmente è fermo, in manutenzione. Manca la materia prima, che proveniva proprio dall’Azovstal di Mariupol. Un altro impianto di Akhmetov si trova nei pressi di Udine, a San Giorgio di Nogaro. Anche qui, i magazzini sono vuoti.

GIANNI VENTURI – RESPONSABILE NAZIONALE SIDERURGIA FIOM CGIL Il 74% delle importazioni di brame italiane viene dall'Ucraina.

 MANUELE BONACCORSI Quindi vuol dire che l'industria di lavorazione dell'acciaio in Italia con la guerra in Ucraina si è bloccata?

GIANNI VENTURI – RESPONSABILE NAZIONALE SIDERURGIA FIOM CGIL Molto veniva da Azovstal e nel nostro Paese di produzione di acciaio a ciclo integrale ormai abbiamo soltanto lo stabilimento di Taranto, e questo significa che non c'è ghisa disponibile nel nostro Paese. Tutto questo si riversa ovviamente negli utilizzatori finali dell'acciaio, in particolare per quanto riguarda il settore dell'automotive ma anche il settore, per esempio, dei semiconduttori. Perché non tutti sanno che nella produzione di acciaio da ciclo integrale si liberano dei gas particolarmente pregiati come il neon, che vengono utilizzati dai laser per il tracciamento dei semiconduttori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La carenza dei semiconduttori rischia di bloccare l’industria mondiale, compresa quella della Silicon Valley. Ora, il controllo delle risorse minerarie, quello del ciclo completo della lavorazione dell’acciaio rappresenta un concentrato che vale oltre il 21% dell’export dell’Ucraina. Ora, questi sono dati che risalgono addirittura a prima della guerra, al 2013, giusto per significare le potenzialità. Mariupol è diventata la città martire perché c’è l’acciaieria Azovstal, quella che più esporta acciaio in Europa, e perché poi c’è lo sbocco sul mare che è strategico per il commercio. Insomma, stringi stringi, nella declinazione di questa guerra, al di là del sentiment filorusso, c’è il sentiment economico. Insomma, nulla di nuovo. Il problema è che ora siamo in un vicolo cieco: Putin vuole tutte quelle risorse, Zelensky non può rinunciare a tutte quelle risorse perché verrebbe meno una parte importante dell’economia del Paese. Come se ne esce? Insomma, ripartire dagli accordi di Minsk non sembra possibile, perché il governo del Donbass non si accontenta più dell’autonomia, vuole l’indipendenza se non l’annessione alla Russia.

Dagli accordi di Budapest a quelli di Minsk: Mosca e tutti i trattati diventati carta straccia. Angelo Allegri il 23 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il riferimento al pericolo di un "genocidio" e il precedente del Kosovo.

Diceva Angela Merkel che Vladimir Putin usa nel ventunesimo secolo i metodi del diciannovesimo. I metodi e i principi. Tra cui uno molto pragmatico: le ragioni del più forte prevalgono su quelle del diritto internazionale.

La questione ucraina è un buon esempio di trattati e di norme validi fino a quando lo decide, in modo del tutto unilaterale, Mosca. A cominciare dal Memorandum di Budapest del 1994. L'intesa siglata a suo tempo nella capitale ungherese regolava un tema delicato: il controllo delle armi nucleari dell'ex Unione Sovietica stazionate in territorio ucraino. Con il trattato l'Ucraina, insieme a Bielorussia e Kazakistan, aderiva al trattato per la non proliferazione dell'armamento atomico e restituiva al controllo fisico della Russia (che ne aveva sempre avuto il controllo operativo) i missili nucleari. In cambio quest'ultima si impegnava a rispettare integrità territoriale e indipendenza di Kiev.

A trasmettere il testo all'Onu fu lo stesso ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov che allora era rappresentante del suo Paese alle Nazioni Unite. Alla fine del 2014, dopo l'invasione del Donbass, a Putin fu chiesto durante una conferenza stampa perchè aveva deciso di non rispettare il vecchio accordo. La risposta fu che le proteste di Piazza Maidan a Kiev erano state l'equivalente di una rivoluzione, con la relativa rottura nella continuità statale ucraina e che con il nuovo Stato Mosca non aveva firmato alcun'intesa.

Ora, con il riconoscimento delle due regioni secessioniste dall'Ucraina, Mosca butta a mare gli accordi di Minsk (i cosiddetti accordi di Minsk Due) firmati dopo la guerra, nel febbraio del 2015, con il patrocinio dell'Onu e la partecipazione dell'Osce. L'intesa prevedeva il ritorno di Donetsk e Luhansk alla sovranità dell'Ucraina con il coinvolgimento di Mosca e la concessione di una sostanziale autonomia.

Almeno in questo caso le inadempienze possono essere attribuite ad entrambe le parti e nascono in via di principio dal fatto che l'Ucraina vuole il ritorno alle vecchie frontiere e poi autonomia ed elezioni; e che al contrario Mosca vuole prima controllare le elezioni e poi permettere il ritorno degli ucraini.

Con la mossa dell'altro giorno Mosca infrange comunque una lunga sfilza di articoli della Carta delle Nazioni Unite che la Russia ha sottoscritto come Paese fondatore. Il più importante è l'articolo due che tutela l'integrità degli altri Stati e vieta di ricorrere alla forza o alla minaccia, considerata implicita nella volontà di riconoscere due regioni secessioniste e nella volontà di stazionare truppe sul loro territorio.

I media e le autorità russe parlano a questo proposito del pericolo di un genocidio della popolazione russofona in Donbass che giustificherebbe il diritto all'intervento umanitario delle truppe di Mosca. Il precedente, citatissimo, è quello del Kosovo, e con questo si spiega anche l'evacuazione, praticamente forzata, di donne e bambini della zona del Donbass decisa dai russi nei giorni precedenti il riconoscimento delle repubbliche secessioniste.

Memorandum di Budapest. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza. Il presidente degli Stati Uniti Clinton, il presidente russo Eltsin e il presidente ucraino Kravčuk dopo aver firmato la dichiarazione trilaterale a Mosca il 14 gennaio 1994.

Il memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza è un accordo, firmato il 5 dicembre 1994, con il quale l'Ucraina accettò di rinunciare alle armi nucleari in suo possesso che aveva ereditato in seguito alla dissoluzione dell'URSS, aderendo al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Le testate nucleari (1.900) furono di conseguenza inviate in Russia per lo smantellamento nei successivi due anni.

In cambio, l'Ucraina ottenne assicurazioni da Russia, Stati Uniti e Regno Unito, successivamente anche da Cina e Francia, per la sua sicurezza, indipendenza ed integrità territoriale; benché di fatto sin dall'invasione russa della Crimea Kiev abbia lamentato la violazione del memorandum, l'effetto vincolante di questo impegno è discusso, anche soltanto nella parte in cui farebbe scattare il casus foederis a carico del Regno Unito.

Contenuto dell'accordo.

Secondo il memorandum, la Russia, gli Stati Uniti e il Regno Unito concordano, in cambio dell'adesione dell'Ucraina al trattato di non proliferazione delle armi nucleari e del trasferimento del suo arsenale nucleare in Russia a:

Rispettare l'indipendenza e la sovranità ucraina entro i suoi confini dell'epoca.

Astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l'Ucraina.

Astenersi dall'utilizzare la pressione economica sull'Ucraina per influenzare la sua politica.

Chiedere l'approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite se vengono usate armi nucleari contro l'Ucraina.

Astenersi dall'usare armi nucleari contro l'Ucraina.

Consultare le altre parti interessate se sorgono domande su questi impegni.

Effetti.

Durante la crisi di Crimea del 2014, l'Ucraina ha fatto riferimento a questo trattato per ricordare alla Russia che si è impegnata a rispettare i confini ucraini e agli altri firmatari che ne sono garanti e gli Stati Uniti che hanno sostenuto che il coinvolgimento russo viola i suoi obblighi nei confronti dell'Ucraina ai sensi del Memorandum di Budapest e in palese violazione della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Ucraina.

Protocollo di Minsk. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Protocollo di Minsk era un accordo per porre fine alla guerra dell'Ucraina orientale, raggiunto il 5 settembre 2014 dal Gruppo di Contatto Trilaterale sull'Ucraina, composto dai rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Doneck (DNR) e Repubblica Popolare di Lugansk (LNR). È stato firmato dopo estesi colloqui a Minsk, la capitale della Bielorussia, sotto l'egida della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).

Succeduto a diversi tentativi precedenti di cessare i combattimenti nella regione di Donbass (Ucraina orientale), prevedeva un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l'impegno, da parte dell'Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk. Tuttavia, nonostante abbia portato ad un'iniziale diminuzione delle ostilità, l'accordo non è stato rispettato.

Processo e stesura del protocollo.

L'accordo è stato formulato dal Gruppo di contatto Trilaterale sull'Ucraina, composto da rappresentanti di Ucraina, Russia e l'OSCE. Il gruppo è stato creato nel mese di giugno come un modo per facilitare la risoluzione dei conflitti in Ucraina orientale e meridionale. Le riunioni del gruppo, insieme con i rappresentanti informali delle repubbliche secessioniste di Doneck e di Lugansk, si sono svolte nel 31 luglio, il 26 agosto, il 1º settembre e il 5 settembre. I dettagli dell'accordo siglato il 5 settembre assomigliano in gran parte al piano di pace di 15 punti proposto dal presidente ucraino Porošenko il 20 giugno. I seguenti rappresentanti hanno firmato il documento:

L'inviata speciale svizzera e rappresentante dell'OSCE: Heidi Tagliavini;

L'ex presidente dell'Ucraina e rappresentante ucraino: Leonid Kučma;

L'ambasciatore russo in Ucraina e rappresentante russo: Mikhail Zurabov;

I leader delle Repubblica Popolare di Doneck (DNR) e Repubblica Popolare di Lugansk (LNR): Aleksandr Zacharčenko e Igor' Plotnickij.

Il testo del protocollo

Il testo del protocollo è composto da dodici punti:

Assicurare un cessate il fuoco bilaterale immediato.

Garantire il monitoraggio e la verifica del cessate il fuoco da parte dell'OSCE.

Una decentralizzazione del potere, anche attraverso l'adozione di una legge ucraina su "accordi provvisori di governance locale in alcune zone delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk ("legge sullo status speciale").

Garantire il monitoraggio continuo della frontiera russo-ucraina e la loro verifica da parte dell'OSCE, attraverso la creazione di zone di sicurezza nelle regioni di frontiera tra l'Ucraina e la Russia.

Rilascio immediato di tutti gli ostaggi e di tutte le persone detenute illegalmente.

Una legge sulla prevenzione della persecuzione e la punizione delle persone che sono coinvolte negli eventi che hanno avuto luogo in alcune aree delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk, tranne nei casi di reati che siano considerati gravi.

La continuazione del dialogo nazionale inclusivo.

Adozione di misure per migliorare la situazione umanitaria nella regione del Donbass, in Ucraina orientale.

Garantire lo svolgimento di elezioni locali anticipate, in conformità con la legge ucraina (concordato in questo protocollo) su "accordi provvisori di governo locale in alcune zone delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk" ("legge sullo statuto speciale").

Rimozione di gruppi illegali armati, attrezzature militari, così come combattenti e mercenari dal territorio dell'Ucraina sotto la supervisione dell'OSCE. Disarmo di tutti i gruppi illegali.

Adozione dell'ordine del giorno per la ripresa economica e la ricostruzione della regione di Donbass, in Ucraina orientale.

Garantire la sicurezza personale dei partecipanti ai negoziati.

Memorandum supplementare.

Nelle due settimane dopo la firma del Protocollo di Minsk, ci sono state frequenti violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti in conflitto. I colloqui sono continuati a Minsk. Un memorandum supplementare è stato concordato il 19 settembre 2014. Questo memorandum ha chiarito l'applicazione del protocollo. Tra le misure di pacificazione concordate, sono state incluse le seguenti:

Divieto di operazioni offensive (punto 3 del memorandum).

Rimozione di tutte le armi di calibro superiore a 100 mm, 15 km dalla linea di contatto, da ogni parte del conflitto, per creare una zona smilitarizzata di 30 km; tale distanza era, inoltre aumentata per portare alcuni sistemi d'arma fuori della gittata massima rispetto alla linea di contatto (punto 4: inter alia obice D-30 a 16 km, sistemi lanciarazzi multiplo da 21 a 120 km, missili tattici a 120 km).

Divieto di voli sopra la zona di sicurezza di aerei da combattimento e di UAV stranieri ad eccezione di quelli in uso alla Missione speciale di osservazione dell'OSCE in Ucraina (punto 7).

Schieramento di una missione di osservazione OSCE (punto 8)

Ritiro di tutte le formazioni armate straniere, veicoli da combattimento stranieri, milizie armate e mercenari stranieri dalla zona di conflitto (punto 9).

Il 26 settembre, i membri dell Gruppo di Contatto Trilaterale sull'Ucraina sono nuovamente incontrati per discutere la delimitazione della zona demilitarizzata dove le armi pesanti sarebbero state eliminate dalle parti coinvolte nel conflitto. La linea di demarcazione tra la DNR e l'Ucraina è stata concordata tra i rappresentanti della DNR e negoziatori ucraini, secondo il Vice-Primo Ministro di Ucraina, Vitali Yarema. Il 2 dicembre 2014, il parlamento ucraino ha modificato unilateralmente la "legge sullo statuto speciale" che era stata proposta nel Protocollo di Minsk, anche se questo Parlamento ha approvato alcuni aspetti della legge concordata a Minsk come parte del cessate il fuoco.

Efficacia

Dopo la firma del memorandum, è scoppiata la seconda battaglia per l'Aeroporto di Donec'k, ed entrambe le parti si accusano a vicenda di continue violazioni del cessate il fuoco. L'Aeroporto di Donec'k è chiuso a tutto il traffico dal 26 maggio 2014, a causa dei combattimenti tra le forze del nuovo governo ucraino e i separatisti filo-russi. Alla fine di ottobre, il primo ministro della DNR, negoziatore e firmatario del Protocollo di Minsk, Aleksandr Zacharčenko, ha detto che le forze sotto il suo controllo avrebbero riguadagnato i territori che avevano perso in favore delle forze governative ucraine durante l'offensiva di luglio, e che le forze della DNR erano disposte a lottare in battaglie "pesanti" per raggiungere i loro obiettivi. In seguito, Zakharchenko ha sostenuto di essere stato frainteso, e che, in realtà, intendeva dire che queste aree sarebbero state recuperate attraverso "mezzi pacifici". Durante la sua campagna durante il periodo precedente alle elezioni generali in Donbass condotte dalla DNR e dalla LNR, in presunta violazione del Protocollo di Minsk, Zakharchenko ha dichiarato: "Questi sono tempi storici." "Stiamo creando un nuovo paese! È un obiettivo pazzesco."

Il presidente dell'OSCE Didier Burkhalter ha confermato che le elezioni sono state "in contrasto con la lettera e lo spirito del protocollo di Minsk" e ha detto che loro "complicherebbero ulteriormente la sua applicazione". Parlando il 5 dicembre, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha detto che le elezioni generali in DNR e le elezioni generali in LNR, condotte in 2 novembre 2014, erano "esattamente nel range che era stato negoziato a Minsk", e che il parlamento ucraino, presumibilmente, avrebbe dovuto adottare un progetto di legge di amnistia dei leader delle DNR e LNR, dopo le elezioni parlamentari in Ucraina in ottobre 2014. Secondo Lavrov, un più stretto monitoraggio del confine russo-ucraino, come specificato nel Protocollo di Minsk, poteva avvenire solo dopo che fosse stata approvata una legge di questo tipo di amnistia. Lavrov ha detto che si pensava che un decreto presidenziale emanato il 16 settembre, che presumibilmente vieta la persecuzione di combattenti separatisti in Donbass, sarebbe rispettato dal governo ucraino, ma che un progetto di legge proponente la revoca di tale decreto era stato presentato.

Una successiva fase dei colloqui di pace tenutasi a Minsk è stata sospesa il 26 dicembre 2014. Tuttavia, ambo le parti hanno confermato, dopo ore di trattative, di aver accettato lo scambio di prigionieri, che coinvolge almeno 375 prigionieri su entrambi i lati.

Il 12 febbraio 2015 a Minsk in esito ai colloqui dei leader di Francia e Germania, Russia e Ucraina, i rappresentanti del Gruppo di contatto trilaterale hanno sottoscritto il pacchetto di misure per l'attuazione del protocollo di Minsk, noto come protocollo di Minsk II.

Quando l’Ucraina era la terza potenza nucleare al mondo. Il Post il 2 marzo 2022.

Dopo la fine dell'Unione Sovietica il paese si disfece delle armi in cambio della garanzia che i suoi confini sarebbero stati rispettati: non è andata così.

I presidenti degli Stati Uniti, della Federazione russa e dell'Ucraina Bill Clinton, Boris Yeltsin e Leonid Kravchuk firmano l'accordo con cui l'Ucraina acconsente a disfarsi del proprio arsenale nucleare

Nelle ultime settimane di crisi in Ucraina, e in questi giorni di invasione del paese da parte della Russia, vari analisti hanno ricordato che l’Ucraina, per pochi anni dopo la fine dell’Unione Sovietica, fu una delle più grandi potenze nucleari del mondo. Questa condizione terminò nel 1994 con il Memorandum di Budapest: l’accordo con cui l’Ucraina acconsentì a disfarsi delle armi nucleari rimaste sul suo territorio dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, in cambio della garanzia che i suoi confini sarebbero stati sempre rispettati, tanto dalla Russia quanto dall’Occidente.

Com’è ovvio, quell’accordo è stato platealmente violato dal presidente russo Vladimir Putin, sia con l’invasione di questi giorni sia nel 2014, quando la Russia invase e annetté la penisola di Crimea. Oltre a chiedersi cosa sarebbe successo se l’Ucraina avesse tenuto le sue armi atomiche, vari analisti hanno notato che questo non è per niente un segnale incoraggiante per il processo di disarmo nucleare di altri paesi del mondo.

Il memorandum del 1994 non riguardava soltanto l’Ucraina, ma anche il Kazakistan e la Bielorussia: tutti stati diventati indipendenti dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica (nel 1991), e che si trovarono ad avere sul proprio territorio una serie di armi nucleari che erano appartenute all’URSS. Dei tre stati in questione, l’Ucraina era quello che ne aveva di più: con circa 1.800 ordigni nucleari di vario tipo, la neonata Ucraina si trovò a essere la terza potenza nucleare del mondo.

All’accordo – firmato con Russia, Stati Uniti e Regno Unito – si arrivò solo dopo lunghi negoziati, più accordi e numerosi dibattiti: benché il controllo operativo degli ordigni nucleari presenti sul territorio ucraino fosse in mano soprattutto alla Russia, infatti, l’Ucraina esitò molto di più del Kazakistan e della Bielorussia prima di convincersi a disfarsene: tutte quelle armi, di fatto, rendevano senza alcuno sforzo l’Ucraina uno stato forte e temibile, che entrava nel sistema della deterrenza nucleare e che avrebbe potuto preservarsi da attacchi e invasioni.

Il primo passo per arrivare al memorandum di Budapest del 1994 fu la firma, nel 1992, del trattato START I (Strategic Arms Reduction Treaty). Il trattato era stato originariamente firmato da Stati Uniti e Unione Sovietica, che però si era sciolta appena cinque mesi dopo: i suoi obblighi furono quindi assunti dagli stati che ne avevano ereditato le armi.

L’Ucraina accettò di firmarlo solo dopo numerosi e accesi dibattiti interni e si impegnò, come il Kazakistan e la Bielorussia, a smaltire le armi nucleari sul proprio territorio entro sette anni per poi aderire, come stato non-nucleare, al Trattato di non proliferazione nucleare (trattato del 1968 in cui gli stati che non hanno armi nucleari si impegnano a non dotarsene).

Tra la firma e la ratifica del trattato START I, però, ci fu una serie di altri dibattiti in Ucraina, sia sulle modalità con cui disfarsi delle armi nucleari che sulla possibilità di mantenterne almeno una parte. Alla fine, e anche a seguito delle pressioni degli Stati Uniti, l’Ucraina accettò di ratificare il trattato START I e di smaltire tutte le armi nucleari presenti sul proprio territorio in cambio di sostegno economico e di una serie di garanzie.

Prima di aderire al Trattato di non proliferazione nucleare, però, l’Ucraina pretese ulteriori garanzie sulla propria sicurezza e sul rispetto dei propri confini, garanzie che le vennero date proprio con il memorandum di Budapest del 1994, il cui titolo completo era “Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza”.

Il memorandum, in sintesi, comprendeva 6 punti: che i paesi firmatari (Russia, Stati Uniti e Regno Unito) avrebbero rispettato la sovranità, l’integrità territoriale e i confini esistenti dell’Ucraina; che non l’avrebbero attaccata se non per difendersi; che non avrebbero adottato misure di coercizione economica per piegarla al proprio volere; che non avrebbero usato armi nucleari contro di lei (a meno che l’Ucraina non li avesse attaccati alleandosi o associandosi in qualche modo con uno stato armato nuclearmente); che l’avrebbero assistita se fosse stata attaccata con armi nucleari; e che, in sostanza, avrebbero fatto in modo che tutti questi punti venissero rispettati, consultandosi nel caso in cui fossero sorti problemi in relazione agli accordi presi.

L’accordo non obbligava i paesi firmatari a intervenire in difesa dell’Ucraina nel caso in cui fosse stata attaccata: la formula usata, «fornire assistenza» era piuttosto vaga, e comunque non vincolante, come lo è l’articolo 5 del trattato della NATO, di cui l’Ucraina non fa parte.

Ma la questione più importante, soprattutto alla luce di quello che sta succedendo oggi, è che con quell’accordo la Russia si impegnava a non minacciare mai la sovranità nazionale e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Ed è solo in cambio di molte rassicurazioni in questo senso, ribadite e riformulate in vari modi, che l’Ucraina accettò di disfarsi del grosso arsenale nucleare a sua disposizione (cosa che finì di fare nel 1996). Rassicurazioni che Stati Uniti e Russia offrirono nuovamente nel 2009, con una dichiarazione congiunta in cui dicevano che il contenuto del memorandum di Budapest sarebbe stato rispettato anche dopo la scadenza del trattato START I.

La prima volta che la Russia violò gli accordi di Budapest fu nel 2014, con l’invasione e l’annessione della penisola di Crimea. Alle accuse di Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina, il ministro degli Esteri russo rispose che «le rassicurazioni sulla sicurezza [dell’Ucraina] erano state date al governo legittimo dell’Ucraina, e non alle forze politiche salite al potere con un colpo di stato». Il governo russo si riferiva al governo nominato con la rivoluzione di Euromaidan.

E quando Stati Uniti e Regno Unito si accordarono per incontrarsi con la Russia a Parigi per discutere, come previsto dall’ultimo punto dell’accordo, della situazione, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, che pure si trovava a Parigi, non si presentò.

La seconda volta in cui la Russia ha violato quegli accordi è oggi, con l’invasione su larga scala, e da più fronti, dell’Ucraina.

Secondo Mariana Budjeryn, esperta di armamenti nucleari dell’Università di Harvard, nell’opinione pubblica ucraina c’è un certo rammarico rispetto alla scelta fatta con gli accordi di Budapest. Tenere e mantenere quell’arsenale nucleare, ha detto Budjeryn a NPR, sarebbe stato costoso e rischioso, ma la «narrazione pubblica dell’Ucraina è “avevamo il terzo arsenale nucleare più grande del mondo, lo abbiamo ceduto per questo pezzo di carta, e guardate cosa è successo”».

È anche per questo che in questi giorni si parla molto del memorandum di Budapest del 1994. Come ha scritto The Intercept, la guerra in corso è un segnale tutt’altro che incoraggiante per quanto riguarda le politiche del disarmo nucleare: vedendo cosa è successo all’Ucraina, i paesi più piccoli che possiedono armi nucleari, che mirano ad averne come l’Iran o che, come la Corea del Nord, stanno lavorando per potenziare il proprio arsenale, saranno molto meno inclini a disfarsene in cambio di garanzie di pace e stabilità. 

CHE FINE HANNO FATTO GLI ACCORDI DI MINSK?  KHRYSTYNA GAVRYSH  l'8 marzo 2022 su sidiblog.org.

Gli accordi di Minsk hanno costituito un passaggio importante nella momentanea – e nemmeno così netta – soluzione del conflitto sorto a seguito dell’impeachment dell’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich, notoriamente vicino al Governo russo, nel 2014. La reazione della Russia fu, infatti, quella di annettere la Crimea mediante un referendum privo di crismi di democraticità (Peters) e di invadere le regioni del Donbass, invocandone la remedial secession. In siffatto contesto, gli accordi di Minsk rappresentano un compromesso tra le aspirazioni imperialiste della Russia e l’esigenza dell’Ucraina a preservare la propria integrità territoriale.

Analizzando più da vicino questo strumento sorge l’esigenza di fare alcune precisazioni. Anzitutto, gli accordi di Minsk sono due: mentre il primo accordo (Protocollo di Minsk) adottato il 5 settembre 2014 (e seguito da un memorandum esplicativo del 19 settembre) è un accordo-quadro, che stabilisce una serie di principi da attuare al fine di conseguire una risoluzione pacifica della controversia sui territori del Donbass, il secondo (Pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk), adottato il 12 febbraio 2015, è un accordo di attuazione di questi principi, contenente una serie di misure più dettagliate da adottare in tempi brevi. Tali accordi sono stati firmati dai rappresentanti della Russia, dell’Ucraina e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), meglio conosciuti come gruppo di contatto trilaterale sull’Ucraina, oltreché dai due rappresentanti delle regioni separatiste. La conclusione di questi accordi è stata altresì favorita tramite i negoziati promossi in seno al c.d. Formato Normandia, composto dai rappresentanti dell’Ucraina, Russia, Germania e Francia, che hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta sull’impegno di attuare gli stessi contestualmente all’adozione del Pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk. Tale dichiarazione è stata anche inserita nell’allegato n. 2 alla risoluzione n. 2202/2015 del Consiglio di sicurezza che recepisce altresì il secondo accordo di Minsk, rendendo peraltro l’organo delle Nazioni Unite un ulteriore garante, oltre all’OSCE, dell’esecuzione di quanto disposto negli stessi.

Tra gli obblighi più rilevanti degli Accordi di Minsk vi è il cessate il fuoco da ambo le parti, il ritiro delle truppe da parte della Russia e una riforma costituzionale sul decentramento territoriale in capo all’Ucraina entro la fine del 2015. Quest’ultimo obbligo, in particolare, è sancito dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk ed è indicato dall’art. 9 dello stesso come presupposto necessario affinché la Russia ceda il pieno controllo sulla frontiera nelle zone del conflitto al Governo ucraino, creando così una subordinazione normativa tra le due disposizioni.

Orbene, spesso si è sentito dire che non c’è alternativa agli accordi di Minsk, ma se si analizzano bene i fatti emerge che non solo – come ormai è ben noto a tutti – la loro estinzione è stata invocata a gran voce da Putin, ma nell’ordinamento giuridico ucraino sono stati avanzati forti dubbi circa la loro validità giuridica. Pertanto, prima di passare alla valutazione del fondamento giuridico dell’invocata estinzione da parte del presidente russo, occorre indagare sulla effettiva validità degli stessi nell’ordinamento internazionale.

Anzitutto, va subito posto in evidenza che il successivo governo ucraino ha mostrato un atteggiamento piuttosto ambiguo in relazione agli accordi. In effetti, Petro Poroshenko – l’ex presidente ucraino che ha promosso la loro stipula, conferendo all’uopo i poteri di rappresentanza a Leonid Kuchma – è stato sottoposto ad un procedimento penale per alto tradimento per fatti connessi alla conclusione degli stessi e, in particolare, per gli accordi di fornitura di carbone con le regioni separatiste. Il procedimento però è finito con un’assoluzione. C’è stata anche un’inchiesta parlamentare sulla possibile violazione della Costituzione ucraina connessa sempre alla stipula degli accordi di Minsk e alle successive riforme promosse proprio da Poroshenko per adeguarvisi. D’altro canto, Volodymyr Zelenskij – subentrato a Poroshenko nel 2019 – ha più volte confermato l’intenzione di attuarli, ma anche l’esigenza di rinegoziarli, mai presa in considerazione dalla Russia. Al di là di questi rilievi, rimane però intangibile un dato fattuale: la riforma costituzionale sull’autonomia territoriale – seppur oggetto di una specifica proposta di legge costituzionale n. 2217а del 1° luglio 2015, che avrebbe apportato significative modifiche all’art. 133 della Costituzione ucraina in materia di organizzazione territoriale – a favore delle regioni separatiste, imposta dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk, non è mai stata attuata per eccessive divergenze politiche in seno al Parlamento ucraino, venendo definitivamente revocata il 29 agosto 2019.

Ma veniamo ora alle ragioni sovente invocate nell’ordinamento ucraino, sia dalla dottrina che in seno al Parlamento ucraino, per asserire la carenza di vincolatività giuridica degli accordi di Minsk e, dunque, la loro mera valenza politica (Markov et al., “Legal Nature Issues of the Minsk Agreements (International and Legal Analysis)”, Law and Safety, no. 4, 2020, p. 20 ss.). Gli argomenti principali sono due: mancata espressione della volontà a vincolarsi mediante la ratifica, ai sensi dell’art. 9, par. 1, della Costituzione ucraina, da parte del Parlamento ucraino (Verchovna Rada) e mancato conferimento di pieni poteri a Leonid Kuchma e, dunque, violazione degli articoli 3, 5 e 6 della legge ucraina n. 1906-IV del 29 giugno 2004 sugli accordi internazionali (recanti norme sul procedimento interno da rispettare  in  materia di conclusione dei  trattati) in combinato disposto con l’art. 103, par. 3, della Costituzione ucraina sulla competenza del Presidente a concludere gli accordi internazionali.

Entrambi questi argomenti potrebbero essere spesi per invocare la nullità relativa degli accordi per violazione manifesta di una norma interna di natura fondamentale concernente la competenza a concludere trattati ai sensi dell’art. 46 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (Convenzione di Vienna). Questa disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 7 della medesima Convenzione riguardante i pieni poteri a rappresentare lo Stato nella conclusione dei trattati. Per comprendere se il conferimento dei pieni poteri fosse incompleto o viziato, occorre, dunque, analizzare il documento con il quale esso è stato effettuato. Orbene, si tratta dell’ordine n. 953 dell’8 luglio 2014, intitolato «Sull’autorizzazione di Kuchma a partecipare al gruppo di contatto tripartito per la risoluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk. Al fine di attuare il piano del Presidente dell’Ucraina sulla soluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk e di raggiungere accordi sulla sua attuazione». Dal testo del documento non paiono esserci dubbi che si tratti di un vero e proprio conferimento di pieni poteri.

Passando, invece, al secondo argomento, ossia quello della mancata ratifica ai sensi dell’art. 9, par. 1 da parte del Parlamento ucraino, va precisato che in effetti la fattispecie in oggetto – ossia la stipula di un accordo di pacificazione– ricade nelle ipotesi in cui l’atto di ratifica è richiesto dall’art. 9, par. 2, lett. a), della legge n. 1906-IV/2004 sugli accordi internazionali. Tuttavia, la conclusione degli accordi in forma semplificata e, dunque, attraverso l’espressione del consenso mediante la firma, rappresenta una prassi piuttosto consolidata nel diritto internazionale. Pur non conoscendo la tradizione ucraina in materia di accordi semplificati, si può trarre insegnamento dalla pronuncia della Corte internazionale di giustizia sul caso Somalia c. Kenya del 2 febbraio 2017 (Vitucci, “La competenza a rappresentare lo Stato nella conclusione dei trattati e la validità degli accordi fra diritto interno e diritto internazionale”, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 3, 2018, p. 715 ss.). In applicazione dei principi ivi sanciti, si può giungere alla conclusione che il conferimento dei pieni poteri e il testo degli accordi mediante l’utilizzo di una terminologia assolutamente imperativa faccia pensare senz’altro alla volontà di creare un vincolo giuridico sul piano internazionale. D’altro canto, l’Ucraina avrebbe perso la possibilità di invocare l’invalidità dell’espressione del proprio consenso, in quanto mediante i suoi comportamenti – rectius le dichiarazioni di Zelenskij sulla loro importanza e la congiunta dichiarazione sull’impegno di attuarli dell’allora presidente Poroshenko unitamente ad altri leader politici del formato Normandia, oltreché le riforme da quest’ultimo promosse per adeguarvisi – avrebbe prestato acquiescenza alla validità del Memorandum of understanding, in ossequio ai dettami dell’art. 45, par. 2, della Convenzione di Vienna. Del resto, l’Ucraina non ha mai invocato ufficialmente la nullità degli accordi di Minsk.

Fugati i dubbi sulla validità degli accordi oggetto di questa disamina, occorre interrogarsi circa la loro possibile estinzione, ufficialmente invocata da Putin nella conferenza stampa del 22 febbraio, concessa a seguito del discorso alla nazione in cui riconosceva pubblicamente le Repubbliche indipendenti di Donetsk e Luhansk. Il presidente russo adduce due argomenti a supporto di tale estinzione. Anzitutto, egli afferma che «questo compromesso [rappresentato dagli accordi] è rimasto lettera morta per colpa dell’attuale Governo ucraino. Gli accordi di Minsk sono stati uccisi ben prima del riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk, ma non da me e nemmeno dal Governo delle Repubbliche, bensì dal Governo ucraino. Già da tempo il Governo di Kiev ha pubblicamente affermato che non era intenzionato a rispettare tali accordi (…). A questo punto gli accordi di Minsk non esistono più» (posizione assunta anche dall’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Vasily Nebenzia, in seno al Consiglio di sicurezza e in qualità di suo presidente, all’incontro n. 8974 del 23 febbraio 2022, UN Doc. S/PV.8974). L’estinzione in questo caso rappresenterebbe una reazione all’inadempimento da parte dell’Ucraina ai sensi dell’art. 60 della Convenzione di Vienna. In secondo luogo, il leader russo ribatte ai giornalisti che insistono sull’importanza degli accordi: «Cosa dobbiamo rispettare se abbiamo riconosciuto l’indipendenza di queste regioni?!», facendo così leva sul mutamento fondamentale delle circostanze previsto dall’art. 62 della Convenzione di Vienna.

Partiamo, dunque, da quest’ultimo argomento. Il mutamento fondamentale delle circostanze sarebbe dovuto al riconoscimento da parte delle Russia delle regioni separatiste come entità statali indipendenti. Non c’è dubbio che si tratti di circostanze che hanno costituito la base essenziale per la conclusione del trattato, come richiesto dall’art. 62 della Convenzione di Vienna, trattandosi dell’oggetto principale della disputa tra i due Stati. Tuttavia, come precisa l’art. 62, par. 2, lett. b), tale mutamento non può essere invocato come motivo per porre termine ad un trattato quando è dovuto alla violazione da parte dello Stato che lo invoca “o di un obbligo del trattato o di qualsiasi altro obbligo internazionale nei confronti di qualunque altro Stato che sia parte del trattato”. Sicché il riconoscimento delle Repubbliche separatiste da parte della Russia – peraltro privo di alcun valore giuridico per il diritto internazionale, in quanto non aderente al principio di effettività, essendo tra l’altro intervenuto su un territorio più vasto rispetto a quello controllato (Kilibarda) – si pone in violazione del principio di sovranità territoriale dell’Ucraina, che la Russia era vincolata a rispettare non solo in funzione di un obbligo consuetudinario di eguaglianza tra gli Stati, ma anche in funzione dell’impegno assunto da Putin nella già menzionata dichiarazione congiunta del 12 febbraio 2015. Inoltre, la Russia ha agito anche in violazione del Memorandum on Security Assurances in connection with Ukraine’s accession to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons firmato a Budapest nel 1994 relativo alla smilitarizzazione nucleare dell’Ucraina, nel quale si assumeva l’impegno di rispettarne la sovranità territoriale (art. 2) ed, anzi, di fornirvi l’assistenza nel caso di rischio di subire un attacco nucleare (art. 4).

Tornando poi alla prima motivazione utilizzata da Putin, egli ne invoca l’estinzione per reazione al mancato inadempimento degli obblighi in capo all’Ucraina e, dunque, in applicazione della clausola inadimplenti non est adimplendum ai sensi dell’art. 60, par. 1, della Convenzione di Vienna (Cimiotta, “La Corte internazionale di giustizia e le reazioni alla violazione di trattati bilaterali: la sospensione del trattato e gli altri rimedi”, in Rivista di diritto internazionale, fasc. 1, 2013, p. 48 ss.). Tale norma regola l’inadempimento dei trattati bilaterali, permettendo allo Stato vittima della violazione di porvi termine o di sospenderne completamente o parzialmente l’applicazione. Il ricorso a siffatto strumento richiede che si tratti di una violazione sostanziale del trattato, che ai sensi dell’art. 60, par. 3, lett. b) riguarda la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell’oggetto dello scopo del trattato. In effetti, difficilmente si può negare che la riforma costituzionale sul decentramento territoriale (art. 11 del secondo accordo di Minsk) fosse un passaggio essenziale dei trattati, oltreché sinallagmaticamente legata ad obblighi incombenti sulla Russia.

Tuttavia, l’ipotesi di estinzione del trattato, oltre che essere in conflitto con il principio di conservazione dei valori, in quanto nel diritto internazionale generale le reazioni all’illecito dovrebbero essere funzionali ad assicurare l’effettività della norma violata (Salerno, Diritto internazionale. Principi e norme6, Milano, 2021, p. 222 ss.), trova la sua ragion d’essere solo in relazione ai trattati bilaterali proprio perché in siffatte ipotesi nessuno Stato terzo o la comunità internazionale hanno alcun interesse alla loro esecuzione (Dörr et al., Vienna Convention on the Law of Treaties. A Commentary2, Springer, Berlino, 2018, 1095 ss., p. 1098, par. 5). Diversa è, però, l’ipotesi degli accordi di Minsk. Infatti, il secondo accordo di Minsk è stato integrato nella già menzionata risoluzione n. 2202/2015 del Consiglio di sicurezza (risoluzioni simili sono già state adottate in passato, v.: nn. 1031/95, 1378/2001 e 1386/2001; in dottrina v. Forlati, “Coercion as a Ground Affecting the Validity of Peace Treaties”, in The Law of Treaties Beyond the Vienna Convention (a cura di Cannizzaro), Oxford University Press, Oxford, 2011, p. 220 ss.). Non è certo se tale risoluzione sia stata adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e, dunque, se possa beneficiare del primato della stessa ai sensi dell’art. 103 della medesima, seppur il suo contenuto sembra confluente rispetto ad obiettivi individuati dall’art. 39 della Carta di mantenimento o ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. In effetti, non vi è alcuna espressa menzione a riguardo e anche la terminologia non risulta univoca, essendo utilizzati sia termini immediatamente precettivi come endorse (par. 1), ma anche quelli meramente raccomandatori – peraltro prevalenti – come call on (par. 3) e welcome (par. 2).

Tuttavia, a prescindere dalla potenziale copertura da parte dell’art. 103 della Carta, sembra ragionevole ritenere che già il semplice recepimento nella risoluzione del Consiglio di sicurezza del secondo accordo di Minsk faccia sorgere, in relazione alla sua attuazione, l’interesse dell’intera comunità internazionale, mutando la natura degli obblighi ivi contenuti da impegni meramente reciproci ad obblighi erga omnes. Siffatta mutazione fa venir meno la logica soggiacente all’art. 60, par. 1, della Convenzione di Vienna, sottraendo alla disponibilità delle parti l’invocazione dell’estinzione del trattato per inadempimento dell’altra parte. Sulla scorta di tali ragionamenti, si può giungere alla conclusione che gli accordi di Minsk sono tuttora validi ed efficaci per il diritto internazionale e la Russia li sta deliberatamente violando. In ogni caso, anche laddove la pretesa estinzione da parte di Putin trovasse conforto nel diritto internazionale, egli sarebbe pur sempre vincolato dall’obbligo di soluzione pacifica delle controversie sancito dall’art. 33 della Carta delle Nazioni Unite, non potendo adottare contromisure lesive degli obblighi imperativi di diritto internazionale, in ossequio all’art. 50, par. 1, lett. d), del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati, tra cui rientra anche quello attinente al divieto dell’uso della forza sancito dall’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite.

Ucraina, il diritto internazionale russo e il caso del Memorandum di Budapest. Andrea Mainardi su STARTMAG il 27 febbraio 2022.

La guerra della Russia in Ucraina, lo stato dell’ordinamento giuridico internazionale e il dossier da sbrogliare del Memorandum di Budapest. 

Lo sfacciato atto di aggressione della Federazione Russa ha spinto funzionari e commentatori ad ammettere che le dighe si stanno rompendo. Il moderno ordinamento giuridico internazionale sta crollando. Poche ore prima dell’invasione, ad esempio, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha predetto: “L’inizio di una guerra su larga scala in Ucraina sarà la fine dell’ordine mondiale come lo conosciamo”. Nel frattempo, Susan Glasser del New Yorker ha twittato: “Purtroppo, non c’è ordine internazionale”. Oltretutto con la Russia presidente di turno del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Con l’ambasciatore russo che mentre presiede spiega che non è una guerra, ma una “operazione militare speciale”.

Ma mentre l’invasione ordinata da Vladimir Putin è in diretta violazione del principio fondamentale dell’ordinamento giuridico internazionale – il divieto dell’uso della forza – è troppo presto per scrivere il necrologio del sistema internazionale del dopoguerra. Per Oona Hathaway e Scott Shapiro, di Yale, l’invasione di Putin non è sufficiente, da sola, a distruggere l’ordine mondiale. La risposta internazionale alla Russia è la prova che il sistema sta cercando di funzionare, dal momento che gli stati hanno risposto all’aggressione con la condanna e l’azione.

Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui Joe Biden ha tenuto in riserva alcune sanzioni ed è stato attento a non criticare l’Europa per non essersi mossa così rapidamente contro la Russia come avrebbero voluto molti americani. Tra i piani suggeriti da Hathaway e Shapiro ci sono modi per cancellare il potere della Russia sull’Europa e proteggere i paesi più piccoli, come quelli dei Paesi baltici, che temono che la Russia possa muoversi contro di loro in seguito.

È però un fatto che l’Ucraina ha rinunciato alle armi nucleari nel 1994 con il Memorandum di Budapest, in cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Russia hanno offerto garanzie di sicurezza alla nazione che aveva ottenuto l’indipendenza quando l’Unione Sovietica si è sciolta. Era il tempo del dopo Guerra Fredda, quando la storia la si dava per “finita”. Circa 1.800 armi nucleari erano sul territorio ucraino. L’Ucraina era la seconda repubblica più potente dell’ex Unione Sovietica, con un terzo dell’arsenale nucleare sovietico. All’epoca il terzo più grande al mondo. L’Ucraina accetta di distruggere il suo arsenale e di aderire al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, in cambio dell’assistenza finanziaria e delle garanzie di sicurezza fornite da Stati Uniti e Regno Unito.

I due, insieme alla Russia, riaffermano il loro obbligo di astenersi dalla minaccia e dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Ucraina. Si impegnano inoltre a “cercare un’azione immediata del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per fornire assistenza” in caso di “atto di aggressione” contro il Paese.

L’Ucraina mantiene l’impegno. Putin ha reso lettera morta il Memorandum di Budapest già con l’invasione della Crimea nel 2014, ora riconoscendo come regioni indipendenti le cosiddette “repubbliche popolari” di Luhansk e Donetsk e infine con l’attacco militare. Anche in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e degli accordi di Minsk.

Da notare che la Cina – oggi stretto partner dell’invasore russo –non firmò il Memorandum, ma nella dichiarazione congiunta sino-ucraino del 6 settembre 1994, riconosce e rispetta l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina.

Usa e Uk hanno mantenuto con efficacia la promessa del 1994 di proteggere la sicurezza? Le mire di Putin erano evidenti da tempo. La protezione non ha funzionato, vedremo con la reazione all’invasione. Le sanzioni per l’annessione della Crimea documentano di una guerra che va avanti da anni, registrando migliaia di morti e più di un milione di profughi.

L’inquilino della Casa Bianca ha già elencato un’escalation di misure per l’attacco a Kiev. Compresi i recentissimi 600 milioni in fondi immediati stanziati per la difesa, che porta a circa un miliardo complessivo l’impegno Usa. La Gran Bretagna fornisce all’Ucraina armi anticarro e veicoli corazzati. Anche altri paesi hanno annunciato aumenti degli aiuti militari a Kiev. La NATO si affretta a rifornire l’Ucraina via terra; una no-fly è del tutto esclusa. La misura è pericolosa. Equivale a dichiarare guerra.

Mettere gli aerei americani e degli alleati NATO nel cielo sopra l’Ucraina comporterebbe la decisione di entrare in uno scambio militare con le forze russe, con tutti i rischi che comporta.

Sabato i leader occidentali hanno deciso di imporre ulteriori sanzioni finanziarie alla Russia per l’invasione dell’Ucraina, inclusa la rimozione di “banche russe selezionate” dal sistema di pagamenti internazionali SWIFT. Solo il tempo ne giudicherà l’efficacia.

Piuttosto, il Memorandum è giuridicamente vincolante quanto un Trattato? Per molti politici, diplomatici e osservatori, no. A differenza dell’articolo 5 della Carta della NATO, il Memorandum non richiede una risposta specifica da parte degli Stati Uniti o di altri. Scrive il Washington Post: “Sebbene fornisca garanzie di sicurezza, non include promesse specifiche in merito a una potenziale invasione”.

E comunque, se per impegno nella sicurezza si deve includere anche un coinvolgimento militare diretto, le cose negli Usa erano già state chiarite ai tempi della firma del Memorandum. A un giornalista che gli chiedeva: “Ci si aspetta che gli Stati Uniti inviino truppe, ad esempio, per difendere il possesso ucraino della Crimea in una disputa con la Russia?”, il Segretario di Stato Usa dell’epoca, Warren Christopher diede una risposta decisamente negativa. L’accordo – disse – prevede che le potenze nucleari non avrebbero usato tali armi contro l’Ucraina. Gli fu anche chiesto specificamente se gli Stati Uniti fossero ora “un garante dei confini dell’Ucraina”. Rispose in modo obliquo: “Le garanzie di sicurezza si riferiscono a quell’argomento e forniscono garanzie al riguardo”.

Nemmeno all’epoca, quindi, si fa avanti l’idea di un’America che intende rischiare la sicurezza di New York o Washington per proteggere Kiev. E, come Biden oggi, tutti temono che a usare le armi – e forse anche a spingere troppo l’acceleratore su altri provvedimenti – scatenerebbe la terza guerra mondiale.

Rimane la domanda sulla credibilità dei trattati internazionali. Negli Usa è diffuso il giudizio secondo cui l’Ucraina è stata tradita sugli impegni del Memorandum, già strappato da Putin nel 2014. Non questa settimana.

Osserva il Wsj: “Il Memorandum di Budapest mostra ancora una volta la follia di fidarsi delle promesse di carta. Più dannoso è il messaggio che le nazioni rinunciano ai loro arsenali nucleari a loro rischio e pericolo. Questa è la lezione che la Corea del Nord ha imparato e l’Iran sta seguendo lo stesso schema di connivenza per costruire la bomba”.

L’incapacità degli Stati Uniti di far rispettare i propri impegni di Budapest – già dall’invasione della Crimea – echeggerà anche nelle capitali alleate che fanno affidamento sulle assicurazioni militari americane. Non sorprende se il Giappone o la Corea del Sud cercano il proprio deterrente nucleare. Prosegue il Wsj: “Se gli americani vogliono sapere perché dovrebbero preoccuparsi dell’Ucraina, la proliferazione nucleare è una delle ragioni. Il tradimento ha delle conseguenze, poiché il mondo sembra destinato a imparare di nuovo nel modo più duro”. Ovvero attrezzandosi con una difesa nucleare.

Un’altra domanda scomoda quanto urgente è: la Russia potrebbe attaccare un membro della NATO? Putin ha quasi promesso di metterla alla prova. Una cosa è che invada l’Ucraina, che non fa parte della NATO. Sarebbe qualcosa di completamente diverso muoversi contro un membro della NATO più piccolo, come gli stati baltici di Estonia, Lettonia e Lituania. Secondo l’articolo 5 della Carta della NATO, un attacco a un membro è un attacco a tutti. Gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e il Regno Unito, insieme al resto dell’alleanza di 30 membri, dovrebbero rispondere.

Gli Stati Uniti difenderanno ogni centimetro del territorio della NATO con tutta la forza della potenza americana, ha garantito il presidente Biden. Putin ha organizzato un attacco informatico contro l’Estonia nel 2007, quasi senza ripercussioni. Che tipo di attacco russo attiverebbe un intervento dell’articolo V? Una volta che  avrà istituito il suo stato fantoccio in Ucraina e avrà spostato le sue forze ai confini della NATO – osserva il Wsj – il russo cercherà il momento giusto per smascherarla come un’alleanza solo di nome.

LA DISINFORMAZIONE SULL’ATTUALE CONFLITTO RUSSIA-UCRAINA: SETTE MITI SFATATI. Da euvsdisinfo.eu il 24 gennaio 2022.  

L’alba di nuovo giorno porta con sé una nuova bugia sull’Ucraina e sulle attuali tensioni in prossimità del confine tra Russia e Ucraina. Dalla sua annessione illegale della penisola di Crimea nel 2014 alla continua aggressione militare contro l’Ucraina, la Russia ha intrapreso una campagna di disinformazione duratura e coordinata sotto il controllo dello Stato rivolta alla popolazione russa, ai paesi vicini alla Russia, all’Unione europea e non solo, puntando in particolare a condizionare l’opinione pubblica. Appoggiate da organi di informazione controllati dallo Stato e da un «ecosistema» di più ampio respiro composto dagli organi di informazione pro-Cremlino, le autorità russe si sono prodigate a denigrare l’Ucraina, raffigurandola come una minaccia per la sicurezza globale, attaccando la comunità internazionale per il sostegno alla sovranità, all’integrità territoriale e all’indipendenza dell’Ucraina all’interno dei propri confini riconosciuti a livello internazionale. La campagna russa ha inoltre preso di mira in modo diretto il ruolo svolto dall’Unione europea e da altri attori, in particolare la NATO, distorcendone il ritratto per delineare un loro presunto atteggiamento minaccioso e aggressivo dinanzi alle «legittime preoccupazioni per la sicurezza» espresse dalla Russia. Il recente crescendo di forze militari russe, iniziato nella primavera del 2021 presso il confine ucraino e nella penisola di Crimea annessa illegalmente, ha solo intensificato il dilagare della disinformazione.

Nel corso di questa panoramica, daremo uno sguardo ai miti predominanti e più pericolosi, che spesso si rivelano vere e proprie bugie, in merito al conflitto tra Russia e Ucraina.

Mito numero uno: «Le tensioni in atto sono il frutto di un comportamento insistentemente aggressivo dell’Ucraina e dei suoi alleati in Occidente. La Russia non fa altro che difendere i suoi legittimi interessi e non è affatto responsabile di questo conflitto.»

Falso. Il fatto è che la Russia continua a violare il diritto internazionale e altri accordi che si è impegnata di rispettare. Con l’annessione illegale della penisola di Crimea e il compimento di atti di aggressione armata ai danni dell’Ucraina, la Russia, che figura tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha violato almeno 12 trattati internazionali e bilaterali. Tra questi si annoverano lo Statuto delle Nazioni Unite, l’Atto finale di Helsinki e la Carta di Parigi, che garantiscono la sovrana uguaglianza e l’integrità territoriale degli Stati, l’inviolabilità delle frontiere, la rinuncia al ricorso alla minaccia o all’uso della forza e la libertà degli Stati di scegliere o modificare le proprie disposizioni in materia di sicurezza.

In altre parole, le azioni della Russia volte a minare e minacciare l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina e, in particolare del Donbas, sono illegali. Queste azioni continuano a minacciare l’ordine di sicurezza europeo nella sua essenza e a mettere a repentaglio l’ordine internazionale basato su norme.

In termini di vittime, l’Ucraina ha subito ingenti perdite nel conflitto in corso con la Russia. L’aggressione della Russia è costata la vita a circa 14 000 cittadini ucraini e ne ha feriti molti di più. Il conflitto ha inoltre costretto più di 1,5 milioni di residenti (sfollati all’interno del paese) a lasciare la Crimea e l’Ucraina orientale.

Mito numero due: «La situazione in Ucraina ha innescato questo conflitto. Ci sono prove a conferma delle atrocità commesse dall’Ucraina nei confronti della popolazione di lingua russa nella regione orientale del paese. La Russia ha il dovere di intervenire, soprattutto perché Ucraina e Russia costituiscono una “singola nazione”, e, in fin dei conti, l’Ucraina appartiene alla “sfera privilegiata di influenza” della Russia.»

Falso. Le insinuazioni secondo cui l’Ucraina stia sferrando attacchi al proprio territorio e perseguitando i propri cittadini hanno dell’assurdo. Per spronare il sostegno in patria all’aggressione militare russa, gli organi di informazione russi controllati dallo Stato si sono dedicati indefessamente a diffamare l’Ucraina, incolpandola di perpetrare un presunto genocidio(opens in a new tab) nell’Ucraina orientale, tracciando infondati parallelismi con il nazismo e la Seconda guerra mondiale(opens in a new tab), fabbricando storie mirate a suscitare emozioni negative nel pubblico.

Sono numerosi i casi di storie fabbricate di questo genere, il cui esempio più famoso è rappresentato da un servizio televisivo russo che accusava le forze ucraine della crocifissione di un ragazzo nell’Ucraina orientale all’inizio del conflitto. I verificatori dei fatti hanno rapidamente dimostrato che la storia era del tutto inventata di sana pianta. Storie simili continuano a essere sfornate.

In effetti, non esistono prove ad avvalorare il fatto che i residenti di lingua o etnia russa nell’Ucraina orientale siano vittima di persecuzione, né tantomeno di genocidio, per mano delle autorità ucraine. Ciò è stato confermato in alcune relazioni pubblicate dal Consiglio d’Europa(opens in a new tab), dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani(opens in a new tab) e dall’OSCE(opens in a new tab).

La spesso decantata dichiarazione secondo cui l’Ucraina e la Russia siano «una singola nazione» è uno dei miti più antichi e profondamente radicati impiegati contro l’Ucraina. Questa argomentazione non regge nemmeno da un punto di vista storico a lungo termine. Sebbene i due paesi abbiano radici comuni risalenti alla Rus’ di Kiev, esistita dal IX secolo fino alla metà del XIII secolo, non è assolutamente vero che ucraini e russi costituiscano una singola nazione 800 anni dopo. Nonostante lunghi periodi di dominazione straniera, l’Ucraina possiede un forte cultura e identità nazionali ed è un paese sovrano.

La nozione di una «nazione interamente russa» priva di confini politici fa riferimento a un concetto ideologico risalente all’epoca imperiale(opens in a new tab) ed è stata adoperata come strumento per indebolire la sovranità e l’identità nazionale ucraina. Dal 2014, il governo russo ha coltivato questo mito con rinnovato slancio nel tentativo di razionalizzare e giustificare la sua aggressione militare contro l’Ucraina.

I concetti di «sfere di influenza» non hanno alcuna ragione d’essere nel XXI secolo. Analogamente a tutti gli altri Stati sovrani, l’Ucraina è libera di decidere il proprio percorso, le proprie politiche e alleanze estere e di sicurezza, la propria adesione a organizzazioni internazionali e alleanze militari.

Per promuovere l’idea dell’appartenenza dell’Ucraina alla «sfera di influenza» della Russia, di frequente le autorità russe e gli organi di informazione controllati dallo Stato sostengono che l’Ucraina non sia uno Stato «a tutti gli effetti». La propaganda russa sponsorizzata dallo Stato cerca di fornire una rappresentazione non veritiera della storia allo scopo di legittimare l’idea che l’Ucraina appartenga alla sfera naturale di interessi della Russia.

Mito numero tre: «In ogni circostanza, l’Ucraina deve rivolgersi alla Russia poiché l’UE e l’Occidente non nutrono alcun interesse per il paese e l’hanno abbandonato a sé stesso.»

Falso. L’UE ha instaurato un partenariato strategico con l’Ucraina. L’Ucraina è infatti diventata uno dei partner più stretti dell’UE: si tratta di un partenariato consolidato negli ultimi anni dall’accordo di associazione UE-Ucraina e dalla zona di libero scambio globale e approfondita(opens in a new tab). Ad oggi, l’UE è il più importante partner commerciale dell’Ucraina, responsabile di oltre il 40 % delle sue attività commerciali. L’UE sostiene un ampio ventaglio di programmi in Ucraina nell’ambito del partenariato orientale(opens in a new tab) dell’UE, appoggiando l’Ucraina nell’attuazione del suo programma di riforme. Dal 2014, l’UE ha fornito all’Ucraina 17 miliardi di euro sotto forma di prestiti e sovvenzioni.

A partire dal 2014, l’UE sostiene con decisione la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Ucraina all’interno dei propri confini riconosciuti a livello internazionale, imponendo misure restrittive(opens in a new tab) alla Russia per la sua deliberata azione di destabilizzazione dell’Ucraina, compreso nella penisola di Crimea. Inoltre, l’UE sostiene l’Ucraina nel rafforzamento della sua resilienza contro la disinformazione e gli attacchi informatici.

Mito numero quattro: «L’attuale crisi è colpa della NATO e dell’Occidente. Se avessero tenuto fede alla promessa di non allargare l’alleanza, la Russia non si sentirebbe minacciata.»

Falso. Una promessa del genere non mai stata fatta né richiesta alla NATO. Gli organi di informazione russi controllati dallo Stato hanno spesso dichiarato che il leader sovietico Mikhail Gorbaciov avesse ricevuto una promessa «verbale» dalla NATO della rinuncia di espansione oltre i territori della Germania riunificata. A dire il vero, Gorbaciov stesso negò il fatto durante un’intervista(opens in a new tab) nel 2014, affermando che «la questione dell’“espansione della NATO” non fu affatto discussa né menzionata in quegli anni. Mi assumo la piena responsabilità di ciò che dico: nessun paese dell’Europa orientale ha sollevato la questione, neanche dopo che il patto di Varsavia cessò di esistere nel 1991».

Questi cosiddetti accordi verbali sono pura fantasia. I membri della NATO non hanno mai preso alcun impegno politico o giuridicamente vincolante riguardante la rinuncia all’estensione dell’alleanza oltre i confini della Germania riunificata.

L’asserzione secondo cui la NATO avrebbe promesso di non allargarsi travisa in modo sostanziale la natura dell’alleanza. La NATO, in qualità di alleanza di difesa, non si «espande» nel senso imperialistico. Le decisioni relative all’appartenenza alla NATO spettano a ogni singolo paese candidato e agli attuali 30 paesi alleati della NATO. Ogni paese sovrano ha la facoltà di scegliere il proprio percorso e gli Stati confinanti, in questo caso la Russia, non hanno alcun diritto di intervenire.

Mito numero cinque: «Data l’aggressiva espansione della NATO, la Russia si trova ora “accerchiata da nemici” e si vede costretta a difendersi.»

Falso. Nessun paese o alleanza sta tramando per invadere la Russia. Nessuno sta minacciando la Russia. In realtà, l’UE e l’Ucraina sono convinte sostenitrici dell’ordine di sicurezza europeo costituito. È importante ricordare che la Russia è il più vasto paese al mondo dal punto di vista geografico, con una popolazione di oltre 140 milioni di persone, e possiede il più grande esercito al mondo, nonché il più alto numero di armi nucleari. Risulta pertanto paradossale dipingerla come un paese sotto una grave minaccia. In termini geografici, meno di un sedicesimo del confine terrestre della Russia lambisce i territori dei membri della NATO. Dei 14 paesi confinanti con la Russia, appena cinque sono membri della NATO.

Inoltre, nessuna tesi potrebbe suggerire che la violenza militare sia l’unica soluzione. Sono presenti diverse organizzazioni internazionali, accordi bilaterali e piani a cui la Russia può partecipare instaurando un dialogo collaborativo e pacifico, ad esempio aderendo al quadro e ai regimi di controllo delle armi dell’OSCE. L’UE mantiene aperti i canali di comunicazione con la Russia quale aspetto integrante della politica dell’UE nei confronti della Russia basata su cinque principi guida. Non mancano infatti piani consolidati per la comunicazione. Tuttavia, quale paese sovrano, l’Ucraina ha tutto il diritto di scegliere le proprie politiche e alleanze. La nozione che la Russia possa esercitare il potere di veto sulle decisioni sovrane dell’Ucraina non ha alcun fondamento. A tale proposito, né l’UE né la NATO affermano di poter imporre un veto su quali Stati possono diventare membri dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC), poiché non sono parti di quel trattato.

Mito numero sei: «In ogni caso, la Russia non è responsabile delle tensioni in corso in Ucraina. L’Ucraina ha deliberatamente violato gli accordi di Minsk e l’Occidente sta fornendo ulteriori armi all’Ucraina. La Russia deve reagire rapidamente difendendo i propri confini. La provocazione scaturisce dall’Occidente.»

Falso. Difatti, la Russia ha ammassato 140 000 truppe ed equipaggiamenti al confine con l’Ucraina, compreso nella penisola di Crimea annessa illegalmente.

La Russia è una delle parti degli accordi di Minsk, che costituiscono i documenti formali più recenti in cui la Russia riconosce la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Tuttavia, dal canto suo, la Russia non ha rispettato l’attuazione degli accordi di Minsk. La Russia e i suoi delegati non sono riusciti ad attuare un cessate il fuoco, a ritirare tutte le armi pesanti, a eseguire lo scambio di tutti i prigionieri politici o a garantire la fornitura di assistenza umanitaria basata su un meccanismo internazionale. Al contrario, si è dedicata al rafforzamento di formazioni armate illegali nell’Ucraina orientale. Per di più, la Russia non concede l’accesso illimitato agli osservatori SMM dell’OSCE, compreso al confine tra Ucraina e Russia, dove la missione di monitoraggio (molto limitata) è stata interrotta a causa del veto russo nell’estate 2021.

Senza la piena attuazione del cessate il fuoco, il ritiro delle armi pesanti nonché l’autorizzazione per il pieno accesso a tutti i territori per la missione di monitoraggio dell’OSCE, si dimostra difficile discutere l’attuazione delle parti politiche del protocollo di Minsk II. Ciononostante, l’Ucraina ha attuato gli accordi di Minsk quanto più ragionevolmente possibile, pur non avendo il controllo del territorio, affrontandone ogni punto. Ha approvato, e prorogato con rinnovi, la legislazione sullo statuto speciale e l’amnistia (2014) e ha preparato una proposta di legge sulle elezioni locali (2014). L’Ucraina ha approvato emendamenti costituzionali per fornire maggiore autonomia ai territori attualmente al di fuori del suo controllo (2015).

Mito numero sette: «L’UE è comunque debole e irrilevante: perché scomodarsi a parlare con essa?»

Falso. La classe politica russa ha lavorato duramente per convincere il mondo della debolezza e della mancanza di interesse dell’UE nel promuovere la pace e la sicurezza a livello internazionale. I funzionari e gli organi di informazione statali russi dipingono regolarmente l’UE come irrilevante e incapace di gestire le crisi, sia che si tratti del conflitto tra Russia e Ucraina, che di qualsiasi altra questione internazionale. A gennaio 2022, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov è arrivato ad accusare l’UE di «impotenza».

Il fatto che l’Europa goda di un clima di pace dalla fine della Seconda guerra mondiale si conferma una prova sufficiente per confutare tale affermazione. L’UE, in collaborazione con le Nazioni Unite, la NATO, l’OSCE, il Consiglio d’Europa, i membri del G7 e altri partner internazionali, ha contribuito in modo tangibile alla pace e alla sicurezza nella regione europea di più ampio respiro e oltre, compresa l’Ucraina.

L’UE è inoltre il più grande spazio economico integrato e il più importante partner commerciale dell’Ucraina. L’ambizioso accordo di associazione tra l’UE e l’Ucraina le avvicina ancora di più grazie al sostegno alle riforme in Ucraina, aprendo il mercato unico dell’UE e favorendo l’armonizzazione di leggi, norme e regolamenti in diversi ambiti.

IL COPIONE DEL CREMLINO: FABBRICARE PRETESTI PER INVADERE L’UCRAINA. Da euvsdisinfo.eu il 19 febbraio 2022.  

Di recente, abbiamo analizzato e sfatato sette dei miti predominanti e più pericolosi relativi all’Ucraina.

Nel bel mezzo dell’intensificarsi del crescendo di forze militari russe lungo i confini ucraini, gli organi di informazione russi controllati dallo Stato continuano a seminare resoconti di disinformazione riguardanti l’esecuzione di atrocità imminenti o persino in atto ai danni della popolazione nel Donbass. Tutto ciò, ovviamente, in un tentativo di creare un «casus belli», ovvero un pretesto per invadere e mantenere aperta l’opzione di una rinnovata e diretta aggressione militare contro l’Ucraina.

Nel corso degli anni, ipotesi false accusanti Kiev di «atrocità» nel Donbass hanno costellato gli organi di informazione pro-Cremlino. Gli organi di disinformazione, compresi quelli comprovati detenere legami con i servizi segreti russi(opens in a new tab), hanno incolpato l’Ucraina di «epurazione etnica» e «genocidio» in numerose occasioni in passato, ad esempio nel 2014(opens in a new tab), 2015, 2016, 2017, 2018, 2019, 2020 e nel 2021.

Adesso, tali falsità sono riciclate dai massimi vertici del Cremlino(opens in a new tab).

Di seguito è riportata una panoramica di alcuni resoconti di disinformazione pro-Cremlino predominati che sono o possono essere adoperati come pretesto per esacerbare l’aggressione militare contro l’Ucraina.

Mito: «Le forze ucraine sono in procinto di avviare un’offensiva di grande portata nel Donbass.»

Fatti: «L’Ucraina valorizza la vita di ogni cittadino e non pianifica alcuna azione aggressiva» – il messaggio del ministero ucraino della Difesa(opens in a new tab) non potrebbe essere più chiaro. «L’esercito ucraino non ha intenzione di pianificare azioni offensive e non utilizzerà armi se queste possono rappresentare una minaccia per i civili. Tutte le attività condotte nella zona dell’Operazione delle forze congiunte(opens in a new tab) sono di natura prettamente difensiva.»

Gli organi di informazione statali(opens in a new tab) russi hanno rinvigorito le ipotesi circa offensive(opens in a new tab) segrete dell’Ucraina. Ciò è culminato nella diffusione di messaggi video quasi identici(opens in a new tab) e sincronizzati (secondo quanto riferito pre-registrati due giorni prima) da parte dei leader dei militanti sostenuti dalla Russia nelle cosiddette regioni «DNR» (Donetsk) e «LNR» (Lugansk). Questi messaggi esortavano a evacuazioni di massa, o meglio a una ricollocazione ordinata, verso la Russia. Utilizzando il termine «evacuazione», i militanti locali tentano di dipingere le proprie azioni come umanitarie, quando in effetti si riferiscono allo sradicamento di civili dalle proprie case e dalla propria vita quotidiana. Le dichiarazioni degli organi di informazione statali(opens in a new tab) russi, secondo cui si contano 700 000 persone in fase di evacuazione, suggeriscono un tentativo(opens in a new tab) di invocare la responsabilità di fornire protezione, tracciando una sorta di parallelismo con la guerra del Kosovo.

Dove l’abbiamo già visto? Per anni, gli organi di informazione pro-Cremlino sono stati inondati da dichiarazioni sui piani offensivi di Kiev contro il Donbass, raffigurando l’Ucraina come un aggressore spietato. È possibile vederne numerosi esempi qui. Al tempo stesso, gli organi di informazione pro-Cremlino negano il verificarsi del recente bombardamento di un asilo(opens in a new tab) in un territorio controllato dall’Ucraina. 

Presunti piani di un’offensiva militare ucraina trasmessi da un’emittente televisiva russa controllata dallo Stato. Pervyi Kanal, 17 febbraio 2022.

Mito: «L’Ucraina sta escogitando di inscenare o condurre un attacco terroristico nel Donbass o in Russia (provocando numerose vittime tra la popolazione civile).»

Fatti: questa e insinuazioni analoghe rientrano nella categoria delle cosiddette narrazioni relative a operazioni svolte sotto falsa bandiera, in cui l’Ucraina è accusata di inscenare o di condurre violenti attacchi («terroristici»). Alcuni esempi recenti annoverano affermazioni in merito a piani di fare saltare in aria stabilimenti industriali pericolosi, edifici amministrativi nel Donetsk, nonché riferimenti a «mercenari polacchi»; per un’analisi più approfondita, vedere il DFR Lab(opens in a new tab).

Un elemento costante in questa varietà di dichiarazioni risiede nella lampante assenza di qualsiasi tipo di prova attendibile. Nessuno degli osservatori indipendenti è riuscito a verificare tali dichiarazioni e nessun testimone affidabile si è fatto avanti. Ciò comprende l’esplosione di un’auto nel Donetsk, notizia trasmessa in modo capillare il 18 febbraio 2022, dove una cronista di un’emittente televisiva russa controllata dallo Stato è ripresa accanto a un’auto dilaniata senza la benché minima presenza di una qualche indagine forense credibile in atto nei paraggi. Una storia(opens in a new tab) simile riguardante esplosioni di bidoni derelitti di sostanze liquide risulta allo stesso modo priva di prove valide.

Il governo ucraino ha categoricamente confutato(opens in a new tab) simili dichiarazioni all’insegna della disinformazione.

Le dichiarazioni delle fonti pro-Cremlino sui presunti attacchi terroristici ucraini si sono moltiplicate in seguito ai resoconti di organi di informazione internazionali(opens in a new tab), basati su informazioni dei servizi segreti pubblicamente divulgate, che indicavano la possibilità in base alla quale la Russia inscenerebbe un attacco terroristico falso per giustificare l’invasione dell’Ucraina.

Dove l’abbiamo già visto: la Russia, già in passato, aveva accusato l’Ucraina di «attacchi terroristici» (nel 2016(opens in a new tab)), mentre gli organi di informazione pro-Cremlino avevano inoltre ipotizzato che l’Ucraina fosse governata da una «giunta terrorista» e fosse impegnata ad «addestrare terroristi» per l’esecuzione di operazioni in Europa e Medio Oriente. Non esiste alcuna prova ad avallare tali dichiarazioni. 

In alto: presunti attacchi: esplosioni di un’auto e di depositi di sostanze chimiche. In basso: ricollocamento forzato di civili. Pervyi Kanal, TASS, 18 febbraio 2022.

Mito: «L’Ucraina sta compiendo un genocidio contro la popolazione di lingua russa nelle regioni orientali.»

Fatti: addossando la colpa dei più fatali crimini contro l’umanità sul governo ucraino, il Cremlino non tenta solo di ritrarre Kiev come il peggiore dei criminali, ma utilizza anche in maniera impropria un termine che è chiaramente definito nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio delle Nazioni Unite, adottata nel 1948.

Dichiarazioni del genere sono state smentite senza mezzi termini, tra gli altri, proprio da organi di informazione indipendenti russi(opens in a new tab). Nessuna delle tante relazioni sulla situazione dei diritti umani in Ucraina(opens in a new tab), che vengono regolarmente pubblicate dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, o delle relazioni della missione di vigilanza speciale dell’OSCE(opens in a new tab), si avvicinano minimamente a fare riferimento all’imperversare di un genocidio in Ucraina.

Dove l’abbiamo già visto: nel corso degli anni, gli organi di informazione pro-Cremlino hanno adoperato il termine «genocidio» molto alla leggera per descrivere eventi che non hanno nulla a che spartire con violazioni dei diritti umani su vasta scala, snaturando così un termine del diritto internazionale. Tra gli esempi figurano i presunti «genocidi» di acqua e visti in Crimea e il «genocidio» dei cittadini ucraini a causa del rifiuto di acquistare il vaccino Sputnik V.

Mito: «L’Ucraina impiegherà armi chimiche e armi vietate di altro tipo contro i civili nel Donbass. Gli Stati Uniti stanno pianificando un attacco con armi chimiche sotto “falsa bandiera” nel Donbass.»

Fatti: l’Ucraina non ha mai fabbricato, accumulato o utilizzato armi chimiche(opens in a new tab). Gli Stati Uniti sono inoltre firmatari della Convenzione sulle armi chimiche e non ne fanno uso.

Gli organi di informazione pro-Cremlino hanno pure accusato l’esercito ucraino di usare munizioni contenenti fosforo(opens in a new tab) bianco, una sostanza proibita dalla Convenzione di Ginevra, mentre i canali Telegram affiliati ai servizi segreti russi(opens in a new tab) hanno diffuso pettegolezzi su bombe radioattive di fattura artigianale. Tali narrazioni false sono promosse per instillare timore e innescare emozioni, denigrando le forze armate ucraine.

Dove l’abbiamo già visto: gli organi di informazione pro-Cremlino hanno alle spalle una lunga tradizione contraddistinta dalla distorsione dei fatti in merito alle armi chimiche, che comprende il diniego di attacchi con armi chimiche da parte del regime siriano. Gli organi di informazione pro-Cremlino si sono inoltre dimostrati determinanti a insabbiare i fatti riguardo all’uso di armi chimiche da parte della Russia nel tentativo di assassinio di Alexei Navalny e nel caso di avvelenamento di Salisbury.

Mito: «L’esercito ucraino sta commettendo atrocità nel Donbass.»

Fatti: le insinuazioni riguardo a cosiddette atrocità nel Donbass sono strazianti e, talvolta, accompagnate da immagini raccapriccianti trasmesse dai canali televisivi russi più importanti(opens in a new tab). Ciononostante, anche in questi casi latitano dettagli credibili. A causa delle continue restrizioni imposte agli spostamenti della missione di vigilanza speciale dell’OSCE(opens in a new tab), non vi è modo per gli osservatori indipendenti di svolgere indagini sulle dichiarazioni.

Dove l’abbiamo già visto: gli organi di informazione pro-Cremlino si sono avvalsi di messaggi intrisi di emotività e fabbricati ad arte per accendere l’odio e la paura nei confronti della popolazione ucraina, in particolare nel pubblico russo in patria. Dopo la famigerata fabbricazione della notizia di un «ragazzo crocifisso», messa in circolazione dagli organi di informazione pro-Cremlino nel 2014, sono spuntate insinuazioni folli su «safari umani» organizzati dalle forze armate ucraine durante i quali i ricchi occidentali potevano acquisire il diritto di ammazzare civili nel Donbass (2018). Dichiarazioni analoghe su presunti «safari nei panni di cecchini(opens in a new tab)» sono apparse anche di recente, a febbraio 2022. Nella primavera del 2021, gli organi di informazione statali russi hanno pesantemente posto sotto i riflettori la storia di un bambino di quattro anni del Donbass presumibilmente ucciso da un drone ucraino. A quanto pare, il motivo della sua morte non è altro che un falso. I messaggi di disinformazione di questo genere sono strettamente legati a un resoconto di disinformazione predominante di un’Ucraina «nazista», coltivata sia da personaggi mediatici(opens in a new tab) che da funzionari russi.

Cos’erano gli accordi di Minsk? Chi ha fatto sfumare la possibilità di risolvere il conflitto? Michele Armellini il 15 Aprile 2022 su Butac.

Ormai l’invasione russa dell’Ucraina sta per compiere i due mesi, ma continua ad esserci una notevole confusione su quali siano state le cause scatenanti del conflitto. C’è chi parla dell’allargamento della NATO, chi dell’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, e i più fantasiosi sostengono che sia stato un complotto ordito dagli USA allo scopo di potere sostituire la Russia come fornitore di gas all’Europa. Sono pochi quelli che citano gli accordi di Minsk, ma tra quei pochi una buona parte ha sostenuto che sia stata Kyiv a tradire l’intesa raggiunta con le regioni che volevano staccarsi dal territorio ucraino. Vediamo se è davvero andata così, ma prima capiamo cosa sono gli accordi Minsk.

Gli accordi di Minsk

Nel settembre 2014 il governo ucraino e i separatisti del Donbass si incontrarono a Minsk per stabilire un cessate il fuoco, lo scambio dei prigionieri e il ritiro delle armi pesanti. Ben presto però ci si rese conto che l’accordo sarebbe rimasto lettera morta, con violazione da entrambe le parti (almeno secondo Al Jazeera).

Nel febbraio del 2015 rappresentanti della Russia, dell’Ucraina, dei separatisti del Donbass e dell’OSCE siglarono una nuova serie di intese note come Minsk II. L’accordo prevedeva una serie di clausole relative al cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri, ma i punti più delicati erano i seguenti:

2) Ritiro delle truppe da entrambe le parti per creare una zona di sicurezza (50 km nel caso di sistemi di artiglieria del calibro di 100 mm, e più di 140 km per i lanciarazzi).

4) Dopo il primo giorno successivo al ritiro delle truppe, iniziare un dialogo sul tema dello svolgimento delle elezioni locali in conformità con la Legge ucraina e con la legge “sulla modalità temporanea dell’amministrazione locale nelle repubbliche regionali di Donetsk e Lugansk” (adottata l’anno precedente, dopo la firma del primo accordo di Minsk, prevedeva l’introduzione di uno status speciale per le autorità locali, della durata di tre anni, insieme all’esenzione dalle responsabilità penali per coloro che avevano partecipato agli eventi; in seguito Poroshenko ritirò la Legge, poiché i ribelli non avevano rispettato le condizioni del trattato di Minsk).

9) Ritorno all’Ucraina del pieno controllo del confine in tutta l’area del conflitto. Il processo sarebbe dovuto iniziare il primo giorno dopo le elezioni locali e terminare entro il 2015.

10) Ritiro delle unità militari di altri Paesi, tecnologie e mercenari dal territorio dell’Ucraina, sotto la supervisione dell’OSCE. Tutti i gruppi di combattenti illegali dovrebbero essere disarmati.

11) Realizzazione della riforma costituzionale in Ucraina. I cambiamenti dovevano entrare in vigore entro la fine del 2015. Doveva essere preparata la decentralizzazione (tenendo conto delle caratteristiche specifiche delle repubbliche di Donetsk e Lugansk), così come l’introduzione di una legge sullo status particolare delle diverse regioni di Lugansk e Doentsk entro la fine del 2015.

12) Sulla base della legge ucraina “sulla modalità temporanea dell’amministrazione locale nelle repubbliche regionali di Donetsk e Lugansk” le questioni relative alle elezioni locali sarebbero state discusse e concordate con i rappresentanti delle diverse regioni di Donetsk e di Lugansk nei contesti di un gruppo di contatto trilaterale. Le elezioni si sarebbero tenute nel rispetto degli standard OSCE e sotto il suo monitoraggio.

13) Intensificazione delle attività del gruppo di contatto trilaterale, nella realizzazione di gruppi di lavoro per l’attuazione dell’accordo di Minsk.

(I punti sono presi dal Fatto Quotidiano ed è stata mantenuta la numerazione originale presente nell’articolo.)

Perché questi punti erano particolarmente delicati? Uno dei problemi è che la Russia non si considerava parte in causa nel conflitto e dunque non si sentiva tenuta a rispettare gli accordi raggiunti; quindi non c’era alcuna garanzia che un eventuale accordo tra Kiev e i separatisti avrebbe portato al cessare delle ostilità e al ritiro delle truppe russe.

Il secondo problema è che Kyiv e Mosca interpretavano molto diversamente le tempistiche previste dagli accordi: gli ucraini pensavano che prima della concessione dell’autonomia e delle elezioni nel Donbass si sarebbero dovute ritirare le truppe russe e ripristinare il controllo delle frontiere. Naturalmente i rappresentanti del Donbass e la Russia interpretavano gli accordi esattamente al contrario.

La questione era particolarmente problematica perché non essendo specificato con chiarezza in cosa consistesse l’autonomia delle regioni separatiste, ognuna delle parti dava a questa un peso diverso: per Kyiv si trattava di concedere un limitato autogoverno, mentre per Mosca e i ribelli il Donbass avrebbe dovuto ricevere una larga autonomia e la capacità di determinare la politica interna ed estera dell’Ucraina. (Per un maggiore approfondimento di tutta la questione potete leggere qui).

Non essendosi trovata un’intesa tra queste due posizioni inconciliabili, gli accordi Minsk non hanno potuto essere implementati.

Quindi gli accordi di Minsk non hanno avuto alcun effetto?

Benché l’intesa raggiunta non sia stata sufficiente a risolvere definitivamente la situazione del Donbass, nondimeno aveva permesso una lenta ma continua de-escalation del conflitto. Possiamo apprezzare bene l’effetto degli accordi grazie a questo grafico dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (la fonte la trovate qui): 

Come è possibile notare facilmente, dopo il momento più caldo del 2014-2015, proprio grazie agli accordi di Minsk si era venuta a configurare una progressiva diminuzione delle vittime civili a causa degli scontri, segno di una minore intensità del conflitto. Oltre al diminuire del numero delle vittime anche le violazioni del cessate il fuoco erano in costante e notevole diminuzione. 

Come si vede dal grafico, a partire dal 2019 le violazioni del cessate il fuoco si sono dimezzate anno dopo anno. Gli accordi di Minsk a conti fatti non sono stati così inefficaci, se pensiamo a tutta la morte e la distruzione che imperversano oggi nel Donbass e nel resto dell’Ucraina.

Quindi? Di chi è la colpa del fallimento degli accordi?

Non è possibile attribuire la colpa specifica per il fallimento degli accordi di Minsk a una delle parti. I punti dell’intesa erano volutamente ambigui e vaghi, nella speranza che col tempo il conflitto avrebbe perso d’intensità e che questo avrebbe potuto permettere di stringere un accordo più forte e duraturo.

Se non è possibile trovare un “colpevole” rispetto alla mancata soluzione del problema del Donbass, non si può però tacere la responsabilità di Mosca nell’aver riacceso un conflitto che da anni stava diminuendo d’intensità. Michele Armellini

Il terrore dello zar per il fascino discreto dell’ovest. Putin e la radice del conflitto a Kiev: tra impero atavico e Occidente portatore del peccato, gli ucraini hanno scelto il secondo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Ho visto con emozione alcuni reportage rarissimi di chi ha seguito la guerra seduto sui carri armati russi parlando con i soldati di Putin e condividendone soprese e amarezze, paure e speranze. Credo di aver capito di più sulle ragioni profonde di questa guerra e il suo significato epocale, chiamatelo pure strategico, che ha a che fare con qualcosa di più profondo che la pretesa rissa fra Nato arrogante, Putin impazzito, Biden ignorante con cui si sono disegnate in fretta e furia le nuove figurine Panini per rendere puerile qualcosa di molto profondo e che spiega almeno in parte la ragione del fallimento in cui l’armata di Putin è incappata.

Il nocciolo è questo ed è semplice: non soltanto gli ucraini di lingua ucraina, ma anche la maggior parte dei russi di lingua russa che vivono in Ucraina, hanno accolto il corpo di spedizione mandato per una semplice Operazione militare speciale, come un’invasione barbarica. Da che cosa si vede questa inaspettata realtà? Dalle urla nelle famiglie divise di lingua russa in cui nonne e madri urlano contro i figli e i nipoti per la loro scelta degli usi e costumi occidentali: “Come potete rinnegare la vecchia patria per un Occidente che non vi appartiene?” A questa domanda la maggior parte degli ucraini russi, di lingua tradizione ninne-nanne russe, hanno risposto di non voler tornare a un passato si cui non sono in grado di provare la più larvale nostalgia; e di aver scelto uno stile di vita fatto di oggetti, costumi, consumi, modi di vivere del tutto occidentali. Non americani, si badi, ma occidentali, Più precisamente europei.

È questo ciò che Putin aveva intuito e temuto e denunciato come se fosse l’avvento di Satana. Ed è questo in fondo l’idea del grande complotto di cui parla come una imminente aggressione militare. Ricordiamo come si espresse soltanto poche settimane fa il presidente russo, quando si riferiva a quei russi che si erano lasciati abbagliare dai modi, le tradizioni, lo stile di vita occidentali? Disse: “Sono come moscerini finiti nelle nostre gole e che saranno risputati per sempre”. Ieri, sulla Piazza Rossa, nel discorso tanto atteso – in parte deludente ma in gran parte tranquillizzante che ha pronunciato – Putin ha detto seriamente che la sua operazione militare doveva sventare un’aggressione armata già pronta contro la Russia. Parlava sul serio e sono sicuro che nessuno di noi pensi che ci fosse qualcosa di vero. Infatti, non c’era pronta alcuna aggressione armata ma qualcosa di molto più totalizzante: la vittoria dello stile di vita occidentale fatto di piccole cose buone quotidiane, fatto di 100 stazioni radio e televisive diverse, di concerti e teatri sempre pieni come lo erano ancora mentre cadevano i missili su Kiev perché quella gente che aveva scelto di essere occidentale aveva fatto non una scelta ideologica ma umana, radicale, quasi inconsapevole.

I soldati russi parlavano dicendo di essere sicuri di vedersi venire incontro le donne con massi di fiori per acclamarli come liberatori. Dicevano di essere sicuri che gli ufficiali e soldati ucraini sarebbero venuti a ingrossare le loro file e che un gruppo di canaglie naziste che opprimevano con la violenza i cittadini di Mariupol sarebbe stato spazzato via dall’ira popolare punto è che Zelensky si sarebbe dovuto suicidare o sarebbe stato linciato dai suoi sudditi liberati. E che gli ucraini avrebbero riconosciuto i fratelli russi come importatori delle antiche radici che univano un solo popolo e una sola lingua. Era ciò che credeva Putin e lo ha detto. Ma che cosa è successo? E’ successo che nessuno a Mosca avesse previsto uno scontro diretto e mortale tra quel che vuole la gente dell’est e quella dell’ovest. E qui è prudente fermarsi perché si rischierebbe il pistolotto su quanto è bella la libertà rispetto al pensare unico.

Tutto ciò è diventato geopolitica, strategia militare, sconfitta. Il corpo di spedizione che doveva compiere una facile operazione militare speciale non era minimamente sufficiente per fronteggiare l’entità imprevista: quella nazione Ucraina nuova di zecca che secondo Putin non è mai esistita e quindi non c’era caso che potesse esistere.

Putin ha avvertito giustamente che la Russia era minacciata alle fondamenta, come lui stesso ha detto. Era minacciata nella sua identità e nella sua cultura tradizionale. Ed aveva ragione. Dove non aveva ragione, ma è chiaro che per lui si trattasse di una metafora, era Il grande sospetto del grande complotto dalla grande armata che avrebbe intrapreso non si sa perché una grande guerra contro la grande Russia. Nota a margine: sulle colonne di questo giornale ho difeso l’immagine del presidente Donald Trump, il quale era pronto a qualsiasi compromesso con la Russia di Putin purché fosse tutelato il diritto americano di vendere, fare profitti e che ognuno se la vedesse con i propri demoni.

Trump detestava noi europei antiamericani che non spendiamo una lira per la nostra difesa, tanto poi se spunta un nemico vengono loro a inquinarci i cimiteri di guerra. Ma le sinistre di corta memoria hanno preferito tifare in coro per i “guerrafreddisti” del Partito democratico e oggi si stupiscono delle loro stesse scelte che sono state di natura estetizzante, più che politica. Ma ciò che colpisce di più in questo quadro è stato il tono non enfatico del discorso di Putin mentre esprimeva con frustrazione la consapevolezza di un fallimento: quello di una visione del suo mondo sconfitto, prima che dalle armi, dalle scelte umane per vita occidentale comune agli europei, agli americani, al moderno Giappone. La sconfitta, o la mancata vittoria, è dipesa dal fatto che gli ucraini – “carne della nostra carne, discendenti dalla stessa culla” – hanno scelto l’Europa e aperto il fuoco contro l’Armata Rossa.

Putin vede dal proliferare delle manifestazioni e dal numero degli arresti, quanto cresca l’inevitabile e inarrestabile infiltrazione delle notizie autentiche sullo stato della guerra goffamente camuffate dalla censura. La Russia si trova quindi a fare i conti con se stessa di fronte al bivio: se sceglier ciò che gli esseri umani scelgono quando hanno la possibilità di farlo, oppure l’autocrazia dell’impero nelle sue tradizioni ataviche con il culto del complesso di inferiorità nei confronti di un Occidente pagano e portatore del peccato del benessere. Questa è la radice del conflitto, altro che aggressione militare della Nato che semmai esiste come somma delle paure collettive di chi non vuole avere il fiato russo sul collo, compresi i giovani nati in terra ucraina dopo il 1991, quando un tratto di penna fece nascere paese indipendente detto Ucraina.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Nato, "i documenti segreti consegnati a Eltsin". Ecco perché Putin ha attaccato l'Ucraina. Libero Quotidiano il 26 aprile 2022.

Quanto il processo di allargamento a Est della Nato ha influito nella decisione della Russia di invadere l’Ucraina? È sostanzialmente una delle questioni che il Foreign Affairs ha posto a una sessantina di esperti, la cui maggioranza si è espressa a favore della Nato: d’altronde l’adesione all’Alleanza atlantica è del tutto spontanea, anche se non si può ignorare il problema di sicurezza posto dalla Russia per l’interesse di diversi Paesi dell’Est a entrare nella Nato.

Nei commenti riportati dal Foreign Affairs, in molti pongono l’accento su due colloqui avvenuti tra Stati Uniti e Russia negli anni Novanta. Era il 1990 quando James Baker e Michail Gorbaciov, al tempo rispettivamente segretario di Stato americano e presidente dell’Unione sovietica, affrontarono la questione di un eventuale allargamento a Est della Nato: Gorbaciov venne rassicurato che l’Alleanza atlantica non si sarebbe allargata nemmeno di un centimetro verso la Russia. Un altro colloquio su questo argomento è poi avvenuto il 22 ottobre 1993 tra Christopher Warren e il presidente russo Boris Eltsin.

I due parlarono del futuro partenariato per la pace tra Occidente e Russia che avrebbe incluso quest’ultima insieme ai Paesi europei in un nuovo patto alternativo all’allargamento Nato. “Splendido”, risposte Eltsin, che all’epoca non poteva sapere che la proposta non si sarebbe mai realizzata. Nelle sue memore Warren affermò però che il presidente russo aveva frainteso il suo discorso, nel quale si specificava che il problema dell’allargamento non era risolto, ma che sarebbe stato posto più avanti.

Estratto del libro Fronte Ucraina di Francesco Battistini pubblicato dal Corriere della Sera il 27 aprile 2022.

Due mesi fa, scoppiava la guerra in Ucraina. Un’immensa trincea che ci ha riportato a incubi che credevamo dimenticati. Ma era davvero imprevedibile? «Fronte Ucraina» (Neri Pozza) è un instant book che ripercorre 30 anni di crisi nel racconto di Francesco Battistini, l’inviato del «Corriere» che a lungo se n’è occupato. In questo brano, i mesi in cui Mosca comincia a preparare l’invasione: esattamente un anno prima di quel 24 febbraio che ha cambiato le nostre vite. 

Rieccoli. A Voronezh, i villeggianti delle dacie li vedono arrivare tutte le estati. I battaglioni dalla Siberia, i logisti da Mosca, i soldatini di Murmansk. Rieccoli qui: ovvio che si svolgano esercitazioni militari, da quelle parti, scontato che l’Armata russa pianti le tende lì vicino, l’hanno sempre fatto. E poi questa è terra loro, mica sconfinano... Rossiya v glubinakh , la Russia è nelle sue profondità, e le radici militari affondano in questi oblast’ lontani dai corrispondenti stranieri, dagli osservatori diplomatici, dai troppi ficcanaso.

«Voronezh? Where is Voronezh?», chiederà un giorno la ministra britannica Liz Truss, perplessa e confusa, durante un incontro al Cremlino in cui si parlerà proprio di queste truppe ammassate. Eccola qui, Voronezh: una troupe televisiva inglese s’aggira pigra, è autorizzata a intervistare i vacanzieri, va nei supermercati a raccontare come i russi convivano ogni anno con le truppe di Putin. «Why Voronezh?». Nemmeno i giornalisti sanno bene perché li abbiano mandati lì: che cosa c’è poi di tanto strano, in queste esercitazioni annuali? Nelle interviste, pochi si preoccupano. «Questa volta, in effetti, i soldati sono comparsi molto in anticipo rispetto al solito», dice solo un po’ stupito Yuri, mentre beve da una tazza sulla veranda della sua dacia, «e di sicuro sono di più che l’estate scorsa...». 

A ben vedere, ci sono anche altre cose strane: i genieri di Putin si sono messi a risistemare i binari della vecchia ferrovia, che non usava più nessuno da anni. E nella foresta si sta aprendo una strada. E a che cosa servono tutti quegli ospedali da campo, se questa dovrà essere una normale esercitazione? (…).

Qualcosa non torna. Sono trascorsi cinque mesi da quei tremila parà inviati in sordina, dalle sette del mattino del 21 febbraio 2021 quando il ministero della Difesa russo pubblicò una burocratica nota di poche parole per annunciare un piccolo dispiegamento al confine con l’Ucraina. Non era uscita una riga d’agenzia, quel giorno, e pochi ci avevano fatto caso: di lì a un anno esatto, sarebbe cominciata l’invasione. (…) 

Lungo le linee di Voronezh, adesso vanno a schierarsi ottantamila uomini. Soldatini di leva e professionisti delle guerre cecene. E poi quelle specie d’enormi scatole di fiammiferi d’acciaio, i Buratini montati sui vecchi carri T-72: le piccole atomiche usate in Siria, missili incendiari e termobarici che sbriciolano i palazzi. Nella Russia profonda, si muove anche l’occhio dei satelliti americani: che se ne fanno i russi di tutta quella roba? C’è una certa inquietudine. Anche perché la risposta del Cremlino è asciutta, poco rassicurante: «Un legittimo e ordinario trasferimento di truppe all’interno delle nostre frontiere».

Ci sono diverse, strane coincidenze. E la più lampante, allarmante, non consiste in un’arma segreta o in un contingente militare. È in un saggio storico. L’ha scritto proprio in questi giorni un gruppo di ricercatori dell’Università di San Pietroburgo, pagato dal regime. E l’ha firmato Putin in persona, per celebrare i trent’anni d’indipendenza dell’Ucraina. Titolo: «Sull’unità storica di russi e ucraini». Più che un articolo culturale, sembra una dichiarazione di guerra. (…). Appena viene pubblicato, l’articolo finisce nelle note diplomatiche di tutte le ambasciate. «Io lo segnalai subito», racconta l’ambasciatore italiano a Kiev, Pierfrancesco Zazo, un’antica conoscenza di cose russe, «perché quelle di Putin apparvero a tutti, e subito, affermazioni molto gravi. Capimmo che si trattava di una svolta politica, e non solo, nella realizzazione d’un progetto che Putin non aveva mai abbandonato».

Mappe militari più geografia politica: secondo Washington questa miscela, delle strane esercitazioni militari al confine ucraino e delle rivendicazioni storiche, è pura nitroglicerina. La pistola fumante che s’aspettava. (…). Gli americani hanno una gola profonda al Cremlino, qualcuno che riferisce tutto a Bart Gorman, viceambasciatore a Mosca. E al Pentagono ne sono sicuri: «Ingiustificato, non spiegato e profondamente preoccupante» lo schieramento di tutte quelle unità militari. Ma perché adesso? Putin sta testando l’uomo nuovo della Casa Bianca? I due si conoscono bene: fin da quand’era vicepresidente con Obama e gli era affidato il dossier Ucraina, Joe Biden ha sempre considerato Putin un killer. «La sto guardando negli occhi», gli aveva detto una volta, «e non credo che lei abbia un’anima» (e Putin, di rimando: «Vedo che noi ci capiamo benissimo...»). (…)

All’inizio, pochi in Europa credono davvero all’allarme americano. E pochissimi si muovono per andare a vedere. A fine marzo 2021 c’e solo la troupe inglese, incuriosita, che approfitta dei rari permessi speciali ottenuti dai russi per girare nei dintorni di Voronezh. Una mattina, la macchina della tv avanza oltre i checkpoint e finisce per spingersi un po’ più avanti. Troppo avanti. Finché le telecamere non superano il valico militare e non entrano proprio negli attendamenti. Attenzione! Che errore, che leggerezza, meglio ingranare la retromarcia... All’agitazione improvvisa di chi guida non corrisponde una simile reazione dei russi.

E nessuno del campo, a guardar bene, sembra farci troppo caso. Chi se ne accorge, ci scherza: «Buongiorno, spie!», è a un certo punto il saluto d’un soldato ai giornalisti. Reclute che stendono le magliette ad asciugare, altre che fumano all’ora del tramonto, qualcuno al cellulare. No, nell’accampamento di Voronezh non tira certo l’aria d’un esercito pronto a un’invasione. È solo un caldo, sonnacchioso giorno di primavera. Fra i carri armati, un cartello in cirillico: «Ciò che è difficile nelle esercitazioni, sarà più facile nel combattimento».

A caccia di terre rare. Il ruolo delle materie prime nella guerra di Putin. Giuseppe Sabella su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Le mire del dittatore russo hanno, oltre alle deliranti ragioni ideologiche, anche degli aspetti molto concreti. Al centro ci sarebbe il cosiddetto “scudo ucraino”, territorio noto per i suoi importanti giacimenti di litio.

In questo processo di progressivo distacco dall’Europa, per la Russia è fondamentale avvicinarsi alla Cina. Tra Mosca e Pechino non vi è un’alleanza formale ma è come se ci fosse. Non è un caso che siano d’accordo su tutti i dossier internazionali: Libia, Medio Oriente, Iran, Via della Seta, Corea del Nord, Hong Kong, sfruttamento dell’Artico, sfruttamento delle Terre Rare, Africa, diritti umani, etc. E, anche sulla crisi ucraina, da Xi Jinping nessuna parola di condanna. Se poi guardiamo alla fase della grande crisi mondiale da pandemia, Russia e Cina si sono mosse all’unisono: hanno prestato soccorso e, così facendo, hanno ottenuto gratitudine dall’opinione pubblica e accresciuto la loro influenza politica. Lo scoppio della pandemia in Cina, con conseguente chiusura della frontiera orientale russa, è stato un banco di prova molto duro. Ma l’asse Mosca-Pechino ha retto anche questo: evidentemente la relazione tra le due potenze è alquanto solida.

Dal punto di vista economico, non vi sono grandi scambi. L’obiettivo di Putin è proprio questo. E come può essere utile alla più grande potenza manifatturiera? Con le materie prime: la Russia è, infatti, tra i principali estrattori ed esportatori al mondo di materie prime. In particolare, gas naturale e petrolio. Il gas viene estratto principalmente nella Siberia e nella zona del Caucaso settentrionale. I giacimenti petroliferi più importanti si trovano invece negli Urali, nel bacino del fiume Volga e in quello dell’Ob.

In Europa, nel 2021 la Russia ha esportato 155 miliardi di metri cubi di gas naturale, pari a circa il 45% delle importazioni di gas dell’UE e quasi il 40% del suo consumo totale di gas. Il secondo paese fornitore di gas è la Norvegia, che però conta solo per il 16%. Poi, in percentuali minori, vi sono Algeria, Regno Unito, Qatar e Libia. Vi sono Paesi in Europa che sono totalmente dipendenti dal gas russo (Macedonia, Bosnia Erzegovina, Moldavia), altri che ne dipendono quasi totalmente (Finlandia 94%), altri ancora che ne sono dipendenti in modo significativo (Bulgaria 77%, Germania 49%, Italia 46%, Francia 24%), altri che non ne sono dipendenti per nulla (Olanda 11%, Romania 10%, Giorgia 1%).

Invece, per quanto riguarda il petrolio russo, l’Unione europea importa il 97% di ciò che consuma e il 25,7% arriva dalla Russia, circa 440,3 mega tonnellate contro i 18,7 mega tonnellate di greggio prodotti. Il 12,5% del greggio importato dall’Italia è di origine russa, percentuale che posiziona il nostro Paese all’ottavo posto in Europa con 5,6 Mt di petrolio, mentre i Paesi che ne ricevono di più nel continente sono la Germania (28,1 Mt), la Polonia (17,9), l’Olanda (13,1), la Finlandia (9) e il Belgio (8,2). Diversi i livelli di dipendenza dal petrolio russo che vedono molta dipendenza per la Slovacchia, seguita da Polonia e Finlandia.

Tuttavia, Mosca non è solo gas e petrolio: secondo i dati dell’Osservatorio economico del Ministero degli Esteri, la Russia dispone di vaste riserve di ferro (seconde solo a quelle australiane), di PGM (Metalli del gruppo del platino), oltre che di oro, nickel e alluminio. La vastità del territorio, infine, la pone al primo posto al mondo anche per riserve di legname (sul territorio russo è presente oltre il 20% delle foreste al mondo).

Non che la Cina, a differenza nostra, in questo momento sia in crisi di materie prime, ma nella prospettiva del decoupling – il disaccoppiamento delle catene del valore e la conseguente creazione di una catena occidentale e di una asiatica – la competizione diverrà molto forte. Al di là del fatto che gli scambi si ridurranno, il punto è che per stare al passo, da una parte e dall’altra del globo, le catene del valore avranno bisogno di essere alimentate e fornite senza rischi di rallentamenti.

Dentro questo processo, Putin ha un obiettivo molto chiaro: vuole rendere la Russia un fornitore privilegiato della Cina. Già dal 2019, i russi forniscono gas naturale alla Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia, oltre che attraverso spedizioni di gnl (gas naturale liquefatto). Nel 2021 la Russia ha esportato 16,5 miliardi di metri cubi di gas verso Pechino, ma entro il 2025, questa quantità dovrebbe salire fino a 38 miliardi di metri cubi l’anno. 

In sintesi: la Russia è il Paese più grande del mondo e ha quasi 150 milioni di abitanti. È un paese molto ricco di materie prime che oggi ha un’industria che le estrae ma non che le trasforma, come invece avviene in Cina, Usa, Germania, Francia e Italia. Il pil della Russia equivale circa a quello del nostro Paese (!). E l’economia russa dipende dall’export di petrolio, gas e materie prime. Un bel problema ora che si chiude l’era del mercato globale – che, negli ultimi 20 anni, alla Russia ha fatto guadagnare molto – e rallenta il commercio con l’Europa.

Per questo l’Ucraina è così importante per Putin. Non è un caso che i territori già occupati siano strategici in questo senso: l’Ucraina orientale è la seconda più grande riserva d’Europa di gas naturale; in Luhansk e Donetsk vi sono enormi giacimenti di shale gas; in Crimea, già annessa dal 2014, vi sono rari giacimenti energetici offshore.

Ma l’obiettivo vero di Putin è quello che i geologi chiamano “scudo ucraino”: si tratta di quella Terra di mezzo compresa tra i fiumi Nistro e Bug che si estende fino alle rive del Mar d’Azov, nel sud del Donbas. L’area totale della sua superficie è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerarie generali, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa e nel mondo. All’interno di questa zona geologica si trovano grandi riserve di minerale di ferro, di uranio e di zirconio, oltre che pietre preziose e semipreziose, materiali da costruzione (tipo granito estratto di alta qualità). Non solo “Terre Rare” (vedi paragrafo successivo), nello scudo ucraino si estraggono anche uranio (l’Ucraina è tra i primi tre esportatori al mondo), titanio (decimo esportatore), minerali di ferro e manganese (secondo esportatore): tutte materie prime fondamentali per le leghe leggere (titanio) e anche per acciaio e acciaio inossidabile (minerali di ferro e manganese).

Inoltre, secondo gli studi del servizio geologico ucraino, nelle antichissime rocce di questo territorio si nascondono giacimenti di litio. Sulla base di queste ricerche, l’Ucraina, insieme alla Serbia, in questo momento ha probabilmente il maggior potenziale di “oro bianco” – così chiamano il litio in ambito finanziario – dell’intera regione europea. Questi ritrovamenti di litio sono stati individuati soprattutto attorno all’area di Mariupol, la città portuale del Donbas oggi dilaniata dai bombardamenti russi.

Il litio è fondamentale per lo sviluppo dell’industria delle batterie – gli attuali leader nella produzione delle batterie sono Giappone, Corea del Sud, Cina e Australia – tra gli obiettivi più importanti del Green Deal europeo, che ha proprio nell’auto elettrica uno dei suoi simboli.

Per queste ragioni, l’Ucraina è stata ufficialmente invitata a partecipare all’Alleanza europea sulle batterie e le materie prime con lo scopo di sviluppare l’intera catena del valore dall’estrazione alla raffinazione e al riciclo dei minerali nel Paese. A luglio dell’anno scorso, il vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič si è recato a Kyiv per incontrare il primo ministro Denys Shmyhal. In quell’occasione, è stato firmato un partenariato strategico sulle materie prime.

A novembre 2021, come riportato dalla stampa specializzata e come confermato dalla stessa azienda, la European Lithium Ltd – società australiana di esplorazione e sviluppo proprietà minerarie che ha sede a Vienna – si è accordata con la Petro Consulting Llc – azienda ucraina con sede a Kyiv – che dal governo locale ha ottenuto i permessi per estrarre il litio dai due depositi che si trovano a Shevchenkivske nella regione di Donetsk e a Dobra nella regione di Kirovograd, vincendo la concorrenza dell’azienda cinese Chengxin.

European Lithium, il cui obiettivo è quello di diventare il primo fornitore locale di batterie al litio in una catena di fornitura europea integrata, ha acquisito la Petro Consulting Llc dalla società australiana Millstone & co. In cambio, Millstone acquisirà una partecipazione del 20% in European Lithium.

Quello che segue è parte di una comunicazione ufficiale di European Lithium dopo l’accordo con Millstone:

Siamo entusiasti dell’opportunità di acquisire i due giacimenti di litio ucraini. La domanda di litio – che al momento significa una grave situazione di dipendenza per l’industria europea – sarà più che raddoppiata in pochi anni. Questo accordo crea le condizioni per la nascita del più grande gruppo di litio del continente e contribuirà in modo sostenibile a garantire la domanda europea di litio.

È il 3 novembre 2021: un caso internazionale che coinvolge, quindi, anche la Cina. Poco più di tre mesi dopo, Putin manda l’esercito in Ucraina “per un’operazione di pace”.

da “La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino. Ecco perché l’Europa è nel mirino di Putin”, di Giuseppe Sabella, Rubbettino editore, 2022, pagine e-book 34, euro 1,99

Giuliano Ferraino per il "Corriere della Sera" il 10 aprile 2022.

Il Centro di studi storici Zhistorica ha pubblicato sul suo sito una cartina dell'Ucraina del 1921, scovata nell'incredibile archivio digitale del collezionista americano di mappe David Rumsey. Osservandola si capisce subito perché il Donbass è così ambito dal presidente russo Vladimir Putin: le sue risorse minerarie e industriali dalla fine del XIX secolo hanno rappresentato un centro nevralgico per l'economia e industria zarista e poi sovietica. 

Ma oggi c'è un motivo in più: il Donbass è una delle regioni dell'Ucraina più ricche non solo di carbone, gas e petrolio, oltre che di ferro, manganese, titanio e uranio, ma è anche l'area dove si trovano le maggiori riserve in Europa di metalli e terre rare, che sono alla base dell'industria del futuro, perché utilizzati nell'industria hi-tech e nella green economy.

Metalli e terre rare sono indispensabili, ad esempio, per la produzione di convertitori catalitici, ma sono componenti che entrano anche in molti dispositivi tecnologici, come i magneti permanenti, le batterie ricaricabili, gli smartphone, le fotocamere digitali, le luci led, l'energia pulita e gli aerei da combattimento. 

La Cina detiene oltre il 62% della produzione globale di metalli e terre rare e il 36,6% delle riserve mondiali, seguita dagli Usa con il 12,3%, il Myanmar con il 10,5% e l'Australia con il 10%, secondo i dati 2020, gli ultimi disponibili, dello US Geological Survey. Il processo per estrarre e rifinire questi minerali richiede alta intensità di manodopera e genera forte inquinamento, perché si trovano spesso con sostanze radioattive.

L'Ucraina, pur essendo uno dei Paesi al mondo più ricchi di risorse minerarie, non le ha ancora sfruttate appieno. Complessivamente in Ucraina, che ricava il 42% del Pil dalle risorse minerarie, sono censiti 20 mila depositi e siti minerari, che comprendono 97 tipi di minerali. Più di 8 mila depositi sono stati testati e quasi la metà sono attualmente in fase di estrazione. Per un valore stimato complessivamente in 7,5 trilioni di dollari. 

L'Ucraina è la più grande riserva in Europa di manganese, con 2,26 miliardi di tonnellate, localizzate soprattutto nel bacino del Dnipro. Possiede oltre 30 miliardi di tonnellate di ferro, pari al 6% delle riserve mondiali. Degli 88 giacimenti in tutto il Paese, la maggior parte sono nel Donbass: a Kremenchuk, Kerch, Mariupol, Belozersky e Kryvyi Rih.

Il Paese slavo ha poi la più grande riserva d'Europa di manganese (550 mila tonnellate nel 2020). È al primo posto in Europa per le riserve di titanio: nell'ex Unione sovietica era lo Stato con il monopolio per la produzione di titanio concentrato e oggi rappresenta il 20% del mercato globale. Idem per i depositi di uranio: non a caso qui sono state costruite le maggiori centrali nucleari.

L'Ucraina detiene inoltre il 20% delle risorse mondiali di grafite e il primato mondiale del caolino, un'argilla usata nell'edilizia, in agricoltura e nella cosmesi, con il 18% delle riserve globali. Poi ci sono i combustibili fossili: nelle miniere del Donbass, soprattutto nella zona di Donetsk e nel bacino del Dnipro, sono custodite oltre 100 miliardi di tonnellate di carbone. In questa regione si trovano giacimenti per 135 milioni di tonnellate di petrolio e 1,1 trilioni di metri cubi di riserve di gas naturale.

Ma il vero tesoro sono i metalli e le terre rare, che includono tra gli altri berillio, litio, tantalio, niobio, neon, zirconio. È una ricchezza ancora da sfruttare, promette un vantaggio competitivo nell'economia del futuro. Per questo è ambita dallo zar di Mosca.

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.  

Sergey Karaganov è stato consigliere di Vladimir Putin. Ancora oggi resta molto vicino al dittatore russo, al punto che le sue proposte vanno sotto il nome di "dottrina Putin". Nel 2019, è stato il primo a teorizzare l'invasione totale dell'Ucraina.

Putin ha detto che interveniva per impedire l'ingresso dell'Ucraina nella Nato. Ma per l'adesione di Kiev nel migliore dei casi sarebbero occorsi molti, molti anni. Come può spiegare l'attacco su queste basi?

«Putin ha detto che se l'Ucraina fosse entrata Nato, non ci sarebbe più stata l'Ucraina. Nel 2008 c'era un piano di rapida adesione. Fu bloccato, ma da allora l'Ucraina è stata integrata nella Nato. È stata riempita di armi e le sue truppe sono state addestrate dalla Nato, il loro esercito è diventato sempre più forte. Abbiamo assistito a un aumento del neonazismo, l'Ucraina stava diventando come la Germania nel 1936-'37.

La guerra era inevitabile. Abbiamo deciso di colpire prima che la minaccia diventasse ancor più letale». 

Come può pensare che l'Ucraina attacchi una superpotenza nucleare come la Russia? E che sia nazista, con un presidente ebreo?

«L'Ucraina è stata costruita dagli Stati Uniti e altri Paesi Nato come una punta di diamante per avvicinare la macchina militare occidentale al cuore della Russia. Vediamo ora quanto fossero preparati alla guerra. E il nazismo non riguarda solo l'essere contro gli ebrei. Nazismo è supremazia di una nazione sull'altra. Nazismo è umiliazione delle altre nazioni». 

I Paesi d'Europa centro-orientale hanno chiesto loro stessi di entrare nella Nato. E Mosca nel 1997 ha accettato l'allargamento.

«Fu un errore commesso perché eravamo poveri, al collasso. Ma io sono rimasto scioccato quando ho visto lo stupro della Serbia ad opera della Nato nel 1999. Poi una guerra atroce in Iraq e un'aggressione in Libia da parte della Nato. Quindi non ci fidiamo delle parole. Sappiamo che l'articolo 5 della Nato, che afferma che un attacco a un Paese dell'Alleanza è un attacco a tutti, non funziona. Non c'è garanzia automatica che l'Alleanza intervenga. Ma questo allargamento è quello di un'alleanza aggressiva. È un cancro e noi volevamo fermare la metastasi». 

L'Iraq fu un errore grave, che non ne giustifica un secondo. E gli americani poi hanno eletto un nuovo leader, Obama, contro quella guerra. I russi possono farlo?

«Non credo che avremo un cambio, perché stiamo combattendo una guerra di sopravvivenza contro l'Occidente in cui la gente si raccoglie intorno al leader. E negli Stati Uniti nessuno ha pagato per la guerra in Iraq, quindi abbiamo i nostri dubbi sulla democrazia». 

In Libia, Gheddafi bombardava le manifestazioni di protesta. La Nato applicò una no-fly zone richiesta dal Consiglio di Sicurezza Onu, senza veto di Mosca.

«Sì, credemmo alle rassicurazioni. Poi abbiamo visto un'aggressione devastante che ci ha portato verso una totale sfiducia verso l'Occidente».

L'intervento in Serbia nel '99 fermò una guerra per cui Slobodan Milosevic fu processato per crimini contro l'umanità da un tribunale dell'Onu.

«Il processo a Milosevic fu un triste e umiliante spettacolo di meschinità europea». 

Perché lei dice che la vera guerra ora è contro l'espansionismo occidentale?

«Vediamo l'espansione occidentale in atto e una russofobia simile all'antisemitismo tra le due guerre. Quindi il conflitto stava già diventando probabile. E abbiamo visto divisioni e problemi strutturali nelle società occidentali, così il Cremlino ha deciso di colpire per primo. Tra l'altro, questa operazione militare sarà usata per ristrutturare la società russa: diventerà più militante, spingendo fuori dall'élite gli elementi non patriottici».

Mussolini non riconosceva l'ordine del Trattato di Versailles del 1919. Il Cremlino riconosce la legittimità dell'ordine europeo dopo la caduta del Muro?

«Non dobbiamo riconoscere un ordine costruito contro la Russia. Abbiamo cercato di integrarci, ma era una Versailles 2.0. Dovevamo distruggere quest' ordine e quando la nostra ultima richiesta di fermare la Nato è stata respinta, si è deciso di usare la forza». 

La guerra mira a rovesciare la presenza della Nato in Europa centro-orientale?

«La maggior parte delle istituzioni sono, per noi, unilaterali e illegittime. Minacciano la Russia e l'Europa orientale. L'avidità e la stupidità degli americani e la miopia degli europei ci hanno rivelato che questi attori non vogliono una pace giusta.

Dobbiamo correggere i loro errori». 

Si aspetta un'escalation della guerra?

«Purtroppo diventa sempre più probabile. Gli americani e i loro partner Nato continuano a inviare armi all'Ucraina. Se va avanti così, degli obiettivi in Europa potrebbero essere colpiti o lo saranno per interrompere le linee di comunicazione».

Putin voleva la demilitarizzazione, invece l'Ucraina si è riempita di armi. La Germania si riarma, la Nato ha spostato truppe più vicino alla Russia, l'Occidente si è unito e le sanzioni sono sempre più dure. La guerra è un successo?

«Demilitarizzazione significa distruzione delle forze ucraine, che sta accadendo.

Naturalmente se l'Ucraina viene aiutata, ciò prolunga l'agonia. Possiamo parlare di "vittoria" solo tra virgolette, perché ci sono molte vittime sia da parte russa che ucraina. La guerra sarà vittoriosa, in un modo o nell'altro».

Ma l'esercito russo ha dovuto ritirarsi, dopo aver assediato Kiev.

«E se l'operazione su Kiev mirasse a distrarre le forze ucraine dal teatro a sud e sud-est? Lo sbocco probabilmente sarà un nuovo trattato, forse con Zelensky ancora lì. Comporterebbe la creazione di un Paese nel sud e sud-est amico della Russia e forse ci saranno due Ucraine». 

I civili sono stati presi di mira e uccisi dai russi a Mariupol, a Bucha e altrove: crimini deliberati. Vanno perseguiti?

«La storia di Bucha è una messinscena». 

Ci sono le prove.

«È una messinscena, al 99%. Ma c'è una guerra e i civili soffrono. Le forze neonaziste hanno usato i civili come scudi umani, soprattutto a Mariupol».

È l'esercito russo che non ha aperto corridoi umanitari.

«Li abbiamo aperti. Sono stati bloccati dalle forze nazionaliste». 

Lei parla come fosse stato un altro Paese a cominciare la guerra.

«Siamo stati noi. Ora siamo sullo stesso terreno dell'Occidente. L'Occidente ha scatenato diverse aggressioni. Ora siamo sullo stesso terreno morale, siamo uguali. Mi dispiace che abbiamo perso la nostra superiorità morale, ma stiamo combattendo una guerra esistenziale». 

Le sanzioni si stanno inasprendo. La Russia diventerà più dipendente dalla Cina?

«Saremo più integrati e dipendenti dalla Cina. Non ho molta paura di diventare una pedina della Cina, tuttavia non siamo contenti, avrei preferito avere migliori relazioni con l'Europa». 

Perché lei dice che la Cina sarà vincente in questa guerra?

«Vinceremo noi, perché i russi vincono sempre. Ma intanto perderemo molto. Perderemo persone. Perderemo risorse e diventeremo poveri, per ora. Ma siamo pronti a sacrificarci per costruire un sistema internazionale più giusto e sostenibile. Ora ci stiamo tutti fondendo nel caos. Vorremmo costruire la Fortezza Russia per difenderci da questo caos, anche se per questo diventeremo più poveri. E il caos potrebbe investire l'Europa, se l'Europa non agisce in base ai suoi interessi: quel che fa ora è suicida».

È una minaccia? Non crede che esista la dissuasione nucleare?

«So che in certe circostanze, gli Stati Uniti potrebbero usare armi nucleari per la difesa dell'Europa. C'è un 1% di possibilità che accada, quindi dobbiamo stare attenti. Ma se un presidente degli Stati Uniti prendesse una simile decisione, sarebbe un folle». 

Quali sono gli elementi per concordare almeno un vero cessate il fuoco in Ucraina? «L'Ucraina deve diventare neutrale e demilitarizzata. Ciò dovrebbe essere garantito da potenze esterne, compresa la Russia, e nessuna esercitazione dovrebbe aver luogo nel Paese se uno dei garanti è contrario».

Non deve potersi difendere?

«Mi spiace, anche l'Italia e la maggior parte dei Paesi europei non sono in grado di difendersi. Hanno risparmiato sulla sicurezza. Si sono messi in questa posizione scomoda e l'Europa non è considerata più un attore serio». 

Con ciò che lei dice, in Italia si vorrà spendere di più nella difesa

«Siete i benvenuti. Uno dei gravi errori degli europei è che non hanno investito in sicurezza, con il loro ideale di pace eterna. Le nazioni europee dovrebbero potersi difendere, perché ci sono minacce reali che vengono da Sud e il mondo sta diventando pericoloso. Se dipendete dall'America, state svendendo la vostra sicurezza perché gli americani fanno i loro interessi».

Maria Scopece per startmag.it l'8 aprile 2022.

Perché la Russia punta ad un’annessione di fatto del Donbass? E si va verso due Ucraine, di cui una sotto il controllo di Putin? 

Alla prima domanda – nel giorno della strage alla stazione ferroviaria di Kramatorsk – c’è (anche) una motivazione economica ed energetica. Ecco perché. Mentre un putiniano oggi ha detto: “Forse ci saranno due Ucraine”. Ecco tutti i dettagli. 

Le materie prime energetiche dell’Ucraina

L’Ucraina detiene oggi le seconde riserve di gas conosciute in Europa. Alla fine del 2020, le riserve ucraine conosciute ammontavano a 1,09 trilioni di metri cubi di gas naturale, seconde solo alle risorse conosciute della Norvegia di 1,53 trilioni di metri cubi.

Solo nell’area del Donetsk i giacimenti stimati conterrebbero fino a 113 miliardi di metri cubi di gas. Tuttavia, come riportato dal dossier Ucraina: la guerra russa per il gas e le materie prime dell’ufficio studi di FdI al Senato, oggi l’Ucraina ha un basso tasso di utilizzo della riserva annuale di circa il 2%. 

Carbone: la ricchezza del Donbass

Nelle intenzioni dichiarate di Mosca l’operazione speciale condotta in Donbass sarebbe finalizzata a portare soccorso alla popolazione russa schiacciata e discriminata dal governo di Zelensky. 

Pura propaganda: il Donbass è anche un territorio molto ricco dal punto di vista minerario. Secondo un report della Banca mondiale, in Donbass ci sono 900 siti industriali, 40 fabbriche metallurgiche, 177 siti chimici ad alto rischio, 113 siti che usano materiali radioattivi, 248 miniere, 1.230 chilometri di tubature che trasportano gas, petrolio e ammoniaca, 10 miliardi di tonnellate di rifiuti industriali.

Le due Ucraine

Sergey Karaganov è stato consigliere di Vladimir Putin. Ancora oggi resta molto vicino al dittatore russo, al punto che le sue proposte vanno sotto il nome di “dottrina Putin”. Nel 2019, è stato il primo a teorizzare l’invasione totale dell’Ucraina. 

“E se l’operazione su Kiev mirasse a distrarre le forze ucraine dal teatro a sud e sud-est? – ha detto oggi Karaganov al Corriere della Sera – Lo sbocco probabilmente sarà un nuovo trattato, forse con Zelensky ancora lì. Comporterebbe la creazione di un Paese nel sud e sud-est amico della Russia e forse ci saranno due Ucraine”. 

Del resto perdere il controllo di questa zona vorrebbe dire consegnare all’Europa i giacimenti di carbone, togliendo a Mosca una risorsa mineraria fondamentale per l’affermazione della potenza economica russa. 

Passato e Presente. Alle radici del conflitto Russia - Ucraina. Da Raiplay St 2021/22.

La storia del conflitto tra Russia e Ucraina ha radici antiche che risiedono in motivazioni geopolitiche e strategiche. Un nodo irrisolto che attraversa i secoli, dai tempi degli Zar nel XVI secolo fino alle incandescenti tensioni di questi giorni. In questa puntata di "Passato e Presente", Paolo Mieli e il professor Adriano Roccucci ricostruiscono le ragioni del conflitto così drammaticamente esploso. Terra di confine tra la Russia e l'Occidente, l'Ucraina è percorsa da una contrapposizione tra una parte del suo popolo che storicamente guarda verso l'Europa e un'altra parte, filorussa, attratta dall'orbita di Mosca. Una successione di tappe drammatiche segna il cammino della questione ucraina nel Novecento: dalla Grande Guerra alla rivoluzione bolscevica, dalla Seconda guerra mondiale all'epoca staliniana, l'aspirazione all'indipendenza degli ucraini ha sempre dovuto fare i conti a Est con il suo potente vicino. Nel 1991, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, l'Ucraina ha avviato il processo verso l'indipendenza completato nel 2014 con la cosiddetta rivoluzione arancione. Ma i risultati raggiunti in quei giorni drammatici ora sono di nuovo in bilico.

UCRAINA/ Dal 2004 all’invasione di Putin: le radici profonde di una guerra annunciata. Vincenzo Sansonetti, int. Simone Attilio Bellezza l'08.03.2022 su ilsussidiario.net.

Lo storico Simone Attilio Bellezza, autore del saggio “Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa” (Scholé), aiuta a capire l’origine del conflitto in Ucraina

Dopo l’annessione unilaterale della Crimea nel 2014 da parte della Russia e la guerra fratricida nel Donbas, che si è trascinata per otto anni, alla fine – “annunciata” da mesi di preparativi e ammassamento di truppe – la temuta invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte di Putin e dell’apparato bellico di Mosca è purtroppo avvenuta, senza che la diplomazia occidentale sia riuscita ad evitarla. Aldilà della cronaca e della terribile contabilità delle vittime, dei rifugiati, delle città bombardate e distrutte, per comprendere le dinamiche profonde che hanno portato all’escalation del conflitto è essenziale conoscere la storia recente dell’Ucraina.

A partire dal complesso rapporto di questa martoriata terra prima con l’Impero russo, poi con l’Unione Sovietica e l’attuale Federazione Russa. Simone Attilio Bellezza, ricercatore di storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Napoli Federico II, esperto di appartenenze nazionali, nel saggio appena pubblicato Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa (edito da Scholé) racconta in modo ampio e ben documentato l’evoluzione storica dell’Ucraina post sovietica, tenendo presente il continuo cambiamento degli equilibri geopolitici.

Professore, come siamo arrivati alla tragica situazione attuale? 

L’incompiuta Rivoluzione arancione del 2004 e la cosiddetta Rivoluzione della Dignità del 2013 hanno avvicinato l’Ucraina all’Occidente, favorendo l’avvio di un percorso di democratizzazione ed europeizzazione che di fatto ha aperto una crisi profonda con la Russia, con riflessi sia interni che internazionali. L’allontanamento dal polo di attrazione russo e l’avvicinamento progressivo alla sfera di influenza occidentale hanno portato a uno scontro inevitabile e spinto Putin a cercare di riconquistare il terreno perduto con mezzi sempre più violenti, fino ad arrivare all’ingiustificato ed efferato atto di aggressione di questi giorni.

Mosca ha dichiarato di doversi difendere dall’accerchiamento in cui la Nato la vuol stringere puntando a far entrare anche Kyiv nell’Alleanza atlantica.

Secondo la Russia gli Stati Uniti avrebbero promesso a suo tempo a Gorbačëv che la Nato non si sarebbe mai allargata ad Est se l’allora segretario del Pcus avesse acconsentito alla riunificazione tedesca. Per questo Putin denuncia oggi come un palese tradimento che siano entrati nell’Alleanza atlantica quasi tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale ed esige la chiusura delle basi militari. Ma dimentica che quello fu soltanto un accordo verbale mai formalizzato e quindi non vincolante, e soprattutto che a lungo quegli stessi Stati (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, poi anche Croazia e Albania, ndr), finalmente indipendenti e sottratti al controllo sovietico, ambivano ad entrare nella Nato avendone piena legittimità politica. La Russia stessa all’epoca avviò programmi di collaborazione con la Nato, con cui era in ottimi rapporti, mirati, se non a un ingresso, almeno a un’associazione con il Patto Atlantico.

Russi e ucraini sono due popoli così diversi, al punto di odiarsi? 

No. Almeno fino agli anni Novanta l’Ucraina era molto simile alla Russia, socialmente e culturalmente. Una parte consistente della popolazione ucraina è di madrelingua russa. Nelle campagne la popolazione è prevalentemente ucrainofona mentre è russofona nelle città, anche se è molto diffuso il bilinguismo. Con l’indipendenza viene concessa a tutti la cittadinanza ucraina, anche a russi e russofoni, a differenza di quanto avvenuto in Lettonia. Ma dal 2001 gli ucraini imboccano con sempre maggior decisione un percorso di riforme e rivoluzioni politiche che li differenzia dai russi, nella speranza di poter finalmente entrare in Europa. Il distacco definitivo avviene con la rivoluzione dell’Euromajdan, o Rivoluzione della Dignità: l’esito di questa frattura è il conflitto a bassa intensità nelle regioni orientali, dove uno scontro delle realtà locali con la capitale viene sfruttato da Putin per infiltrare le sue forze militari e innescare una guerra ibrida che avrebbe dovuto destabilizzare il nuovo corso politico, di segno nazionalista, che si era affermato a Kyiv. In quel periodo Mosca occupa e annette anche la Crimea, alimentando così il sentimento popolare antirusso.

Cosa è successo negli ultimi otto anni? Dove ha sbagliato l’Occidente?

Il passare del tempo e il succedersi di vari presidenti eletti democraticamente hanno dimostrato che l’avvicinamento all’Europa non era una sbandata ma una vera e propria scelta di campo. E l’intervento russo nelle regioni di Donec’k e Luhans’k anziché indebolire ha rafforzato il senso di comunità e appartenenza nazionale degli ucraini. L’Occidente ha sbagliato ad accettare l’annessione della Crimea e le infiltrazioni nel Donbas, lasciando che una situazione così delicata rimanesse aperta e mostrandosi debole, vulnerabile agli occhi di Putin, che ha pensato così di approfittarne. I primi due mandati presidenziali del “nuovo zar” sono da considerare apprezzabili, al punto di godere di largo credito a livello internazionale, poi ha prevalso una deriva autoritaria, con un peso crescente assegnato alle forze armate, che l’ha fatto sempre più assomigliare a uno spietato dittatore.

Come uscire da questa terribile situazione? Un conflitto interno a un Paese, l’Ucraina, è diventato un conflitto internazionale combattuto con le armi, ma non solo.

Non sarà facile. Gli ucraini oppongono resistenza. Non vogliono arrendersi e intendono combattere fino alla morte. Gli armamenti che stiamo loro inviando saranno probabilmente utilizzati dalle forze di difesa territoriale, una milizia su base volontaria costituita da 300mila civili pronti a tutto pur di salvare la loro patria dalle grinfie dell’invasore. C’è il rischio concreto di una prolungata guerra partigiana, come in Afghanistan o in Cecenia, supportata dalla Nato: sarà un bagno di sangue. Certo, non possiamo non aiutare l’Ucraina ed è giusto schierarci al suo fianco, fornendo ciò che serve per difendersi. Per essere presi sul serio da un politico violento come Putin, dobbiamo mostrare forza e determinazione. Ma il fine della nostra azione non può consistere nell’organizzare o sostenere una sorta di guerriglia. Per avviare un dialogo è necessario ripensare la politica energetica europea includendo la Russia. Ovviamente nel mentre dobbiamo aiutare il popolo ucraino anche sul piano della solidarietà e dell’accoglienza dei profughi, cosa che sta già avvenendo.

Qual è l’obiettivo di Putin? Avrà successo un’azione diplomatica?

Il capo del Cremlino vuole umiliare l’Ucraina, dimostrare che è un Paese fallito e pertanto uno smacco per l’Occidente. È indubbio che Kyiv in questo momento rappresenti un baluardo dei valori democratici e civili dell’Europa contro l’avanzare di un regime autoritario che si sta mostrando sempre più dispotico, anche al proprio interno. Il potere di Putin non è solidissimo, ma è difficile che cada, almeno nell’immediato; il dissenso interno può contribuire a favorire qualche cambiamento, ma non di più. Perciò l’auspicio è che si trovi presto un accordo equo, una ricomposizione pacifica del conflitto, ma ci sarà bisogno di negoziatori abili.

Il presunto genocidio dei russofoni in Ucraina. Una verità storica o una bufala inventata dal regime? Da filodiritto.com il 09 Marzo 2022

Il presunto genocidio dei russofoni in Ucraina

Come sappiamo, uno dei motivi che avrebbero spinto Putin ad invadere l’Ucraina sarebbe il presunto genocidio perpetrato, a partire dal 2014, alle popolazioni residenti in Ucraina russofone, sterminate, stuprate e torturate per otto anni.

Questo genocidio sarebbe alla base dell’intervento armato, nonostante non vi siano prove ufficiali sia mai avvenuto.

Lo stesso Vladimir Putin, nella sua dichiarazione di guerra all'Ucraina, ha dichiarato di voler “smilitarizzare e denazificare” l’Ucraina, inviando l’esercito per proteggere “le persone che sono state oggetto di bullismo e genocidio da parte del regime di Kiev per otto anni” e per “assicurare alla giustizia coloro che hanno commesso numerosi crimini sanguinosi contro i civili” nelle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, appena riconosciute dal Cremlino. Il riferimento è alle formazioni politiche e paramilitari di estrema destra che si sono moltiplicate e rafforzate nel Paese ex-sovietico dalla sua indipendenza dall’Unione sovietica nel 1991

Difatti, come riferisce il sito Professione Reporter nell’articolo comparso il giorno 7 marzo scorso dal titolo “Ucraina, le dieci bufale russe: il genocidio, il nazismo, l’asilo bombardato nel Lugansk”, tra le falsità mai provate ci sarebbe proprio il genocidio ucraino ai danni sei russofoni.

“La Corte Penale Internazionale, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa hanno tutte riferito di non avere mai trovato prove di un presunto genocidio nel Donbas, la regione dell’Ucraina orientale in parte occupata dai separatisti sostenuti dalla Russia dal 2014. Nel 2021, un rapporto dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha accusato le autorità delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk di aver compiuto vari abusi, tra cui gravi restrizioni alla libertà di movimento, l’imposizione della cittadinanza russa, il divieto per gli esperti di visitare detenuti e arresti arbitrari. Allo stesso tempo, le Nazioni Unite hanno denunciato tre casi di detenzione arbitraria e maltrattamenti perpetrati dall’Sbu (i servizi segreti ucraini) e 13 casi simili nelle repubbliche autoproclamate. Un rapporto del 2016 della Corte Penale Internazionale ha rilevato che gli atti di violenza presumibilmente commessi dalle autorità ucraine nel 2013 e nel 2014 potrebbero costituire un “attacco contro una popolazione civile”. Tuttavia, il rapporto ha anche affermato che “le informazioni disponibili non hanno fornito una base ragionevole per ritenere che l’attacco fosse sistematico o diffuso”.

Sulla base di quanto sopra, pare difficile, allo stato, parlare di genocidio. Certo, comportamenti ostili tra le parti sono innegabili e comprovati dai rapporti citati. 

Presunto genocidio in Ucraina: le parole del generale russo catturato

Di falso genocidio ha parlato anche il tenente colonnello della guardia nazionale russa Astakhov Dmitry Mikhailovich, catturato insieme ad altri due soldati, il quale ha svelato un insieme di bugie a loro raccontate dai superiori rispetto all’Ucraina, che a detta loro era governata da un regime fascista e che nazionalisti e nazisti avevano preso il potere.

Il militare, in un video pubblicato qualche giorno fa, ha chiesto profondamente scusa all’Ucraina.

 "Mi vergogno che siamo venuti in questo paese", ha detto il tenente colonnello. “Non so perché lo stavamo facendo. Sapevamo molto poco. Abbiamo portato dolore in questa terra”.

Il militare ha aggiunto: "Ribellatevi al vostro comandante. Ma questo è un genocidio", ha dichiarato. “La Russia non può vincere in Ucraina, anche se arrivassimo fino alla fine. Possiamo invadere il territorio ma non possiamo invadere le persone”.

Per correttezza segnaliamo che il video è stato criticato fortemente, e le autorità ucraine condannate per aver ridicolizzato un prigioniero di guerra, in sfregio delle convenzioni in vigore. 

Presunto genocidio in Ucraina: le origini

Ma da dove nasce lo scontro tra Ucraina e Russia?

Per rispondere a questa domanda, prendiamo in prestito le parole dell’articolo comparso su Gariwo.net, dal titolo “Holodomor”. 

Holodomor è il nome con il quale si designa il genocidio per fame di oltre 6 milioni di persone, perpetrato dal regime sovietico, a danno della popolazione ucraina negli anni 1932 – 1933. Gli ucraini subirono una terribile punizione, perché accusati di contestare il sistema della proprietà collettiva. Tutte le risorse agricole furono requisite e la popolazione affamata. Un quarto della popolazione rurale, uomini, donne e bambini, fu così sterminata per fame. I cadaveri giacevano per strada senza che i parenti, anch'essi ormai in fin di vita, avessero la forza di seppellirli. La carestia determinò, insieme all'annientamento dei contadini, lo sterminio delle élites culturali, religiose e intellettuali ucraine, tutte categorie considerate "nemiche del socialismo”.

La "Grande Carestia" (Holodomor in ucraino significa "infliggere la morte mediante la fame"), organizzata intenzionalmente dal regime sovietico, colpì l'Ucraina negli anni 1932-1933. Secondo i dati dei ricercatori, le regioni più colpite dalla carestia sono state: l'attuale regione di Poltava, la regione di Sumy, la regione di Kharkiv, la regione di Cherkasy, la regione di Kyiv, la regione di Zhytomyr, con il 52,8% delle vittime. In realtà Holodomor si estese a tutto il Centro, Sud, Est e Nord dell’Uc.

La bandiera Ucraina

Secondo gli storici è indubbio che l'Holodomor sia stato un atto di genocidio, risultato delle decisioni politiche del regime totalitario di Stalin per schiacciare il popolo ucraino. Ultimamente l'Ucraina ha reso noti numerosi documenti tratti dagli archivi dell'ex KGB, i quali hanno rivelato gli obiettivi e i meccanismi operativi della politica che ha portato alla morte di milioni di ucraini. In diversi Paesi del mondo sono state svolte ricerche e sono stati pubblicati materiali di archivio in Gran Bretagna, Italia, Francia etc. Essi testimoniano che, nel caso dell'Ucraina e delle regioni limitrofe, la fame è stata provocata premeditatamente.

Per quanto concerne il discorso sulle formazioni neo naziste in Ucraina, la più terribile è da ricondursi al battaglione Azov. Questo corpo nacque nel maggio 2014 a Mariupol per opera di Andriy Biletsky, un militare noto con l’appellativo di “Führer bianco” e sostenitore della purezza razziale della nazione ucraina.

"Si trattava inizialmente di una milizia irregolare composta da ultras neonazisti che combattevano contro i ribelli ucraini filorussi, macchiandosi secondo diverse fonti (tra cui Amnesty international e l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) di numerose atrocità anche contro la popolazione civile, tanto nel settore di Mariupol quanto negli oblast orientali, da Kharkiv a Lugansk". (fonte: Europatoday.it)

Adesso la Brigata Azov, formata  da 1.260 membri effettivi, è un reggimento di forze speciali e viene addestrato da istruttori Nato, ma ha mantenuto le insegne che ricalcano gli emblemi delle Ss naziste sopra al cosiddetto sole nero, un altro simbolo caro a Hitler. Ma ulteriori prove di atti di genocidio contro i russofoni non ci sono.

Insomma, l’unica prova di genocidio, allo stato, pare essere quello Russo perpetrato ai danni dell’Ucraina 90 anni fa.

Da Focus. Holodomor, la strage degli innocenti uccisi dalla fame in Ucraina.

Ogni anno, il 23 novembre, si ricorda l'Holodomor, la carestia provocata dall'URSS di Stalin che colpì l'Ucraina tra il 1932 e il 1933, causando milioni di morti.

Fu una tragedia così grande che gli ucraini inventarono una nuova parola per descriverla: Holodomor o "sterminio per fame". Si riferisce alla morte, provocata negli Anni '30 dalle politiche di Stalin, di milioni di ucraini. Un'ecatombe che ancora oggi è una delle ragioni del risentimento di Kiev verso Mosca. La tragedia ebbe inizio quando Stalin, tra l'autunno del 1932 e la primavera del 1933, decise la collettivizzazione agraria, costringendo anche i kulaki, i contadini agiati (coltivatori diretti o piccoli proprietari terrieri), ad aderirvi contro la loro volontà.

CHE COSA SI INTENDE PER HOLODOMOR. La collettivizzazione forzata delle terre innescò una gigantesca carestia che colpì varie parti dell'Unione Sovietica, dal Caucaso alla Siberia, dal Kazakistan all'area del fiume Volga. Gli ucraini tuttavia furono quelli che ne soffrirono di più le conseguenze, poiché lo sterminio dei contadini s'intrecciò con la persecuzione dell'intellighenzia e con la lotta al patriottismo di un intero popolo. Per l'Urss, la fertile Ucraina, soprannominata non a caso "il granaio d'Europa", era un Paese da sfruttare e per questo Stalin decise di "spezzare la schiena" ai kulaki, forti oppositori della collettivizzazione.

E così, alla fine degli Anni '20, come gli altri coltivatori dell'Unione Sovietica, anche i contadini ucraini furono costretti ad aderire ai kolchoz, le fattorie collettive di Stato, mentre le loro terre venivano confiscate. «La prima mortalità di massa fu causata direttamente dal fatto che le autorità sovietiche, indifferenti alle naturali variazioni di produzione, mantennero percentuali altissime di requisizioni (circa il 20%)», scrive lo storico francese Bernard Bruneteau nel suo libro Il secolo dei genocidi (Il Mulino).

UCRAINA: FAME E MORTE.  «In Ucraina fu collettivizzato il 70% delle fattorie contro il 59% della Russia», scrive ancora Bruneteau. In molti si opposero alle requisizioni, si rifiutarono di cedere i raccolti, nascosero le derrate alimentari e uccisero il bestiame piuttosto che darlo ai kolchoz. Questo atteggiamento degli ucraini fu considerato dal Politburo sovietico un gravissimo atto di ribellione e, pur conoscendo la preoccupante carenza di cibo per gli abitanti delle campagne, agenti e attivisti locali del partito furono mandati a fare requisizioni e confiscare derrate nelle case e nelle fattorie.

Inoltre, per evitare che i contadini si rifugiassero nelle città, queste vennero isolate. «La necessità di sfamarsi era considerata un crimine contro lo Stato», spiega Bruneteau. La situazione era difficile in tutto l'Urss, la popolazione era stremata e affamata, tuttavia Stalin rifiutò qualsiasi aiuto dall'esterno e accusò i contadini che stavano letteralmente morendo di fame di essere i colpevoli della loro stessa situazione. E come se non bastasse promulgò leggi draconiane che non fecero altro che aumentare la tensione, il terrore e il numero di vittime: chiunque fosse stato trovato a nascondere qualcosa da mangiare, anche solo delle bucce di patata, sarebbe stato fucilato.

LA STRAGE DI BAMBINI. Fu un massacro: in tutta l'Urss circa cinque milioni di persone – deliberatamente private dei mezzi di sostentamento – morirono di fame. Di questi, secondo le stime, quattro milioni erano ucraini. «Le epidemie si diffusero e si registrarono casi di cannibalismo, tutti fatti di cui il governo tenne un bilancio preciso. Quasi la metà delle vittime era costituita da bambini», racconta ancora lo storico. Cifre che naturalmente rimasero ben chiuse negli archivi di Mosca.

Mosca soffocò qualsiasi forma di dissenso e non riconobbe mai questo spaventoso crimine: manipolando i dati demografici riuscì a nascondere l'improvvisa scomparsa di milioni di esseri umani. L'insabbiamento delle responsabilità fu totale non solo all'epoca dei fatti ma anche in seguito. Dopo la morte di Stalin (1953), il suo successore Nikita Krusciov avviò alla "destalinizzazione" e denunciò i crimini del predecessore, soprattutto le epurazioni all'interno del partito, le "purghe", avvenute con processi farsa tra il 1936 e il 1938.

LE GRANDI PURGHE STALINIANE. Tuttavia non fece mai parola del dramma ucraino – che fu il più grande sterminio della storia europea del XX secolo dopo l'Olocausto degli ebrei – poiché nonostante le aperture di Krusciov negli Anni '50 il partito andava ancora protetto per il bene dello Stato sovietico. Proprio in quegli anni però una voce si alzò: fu quella dello scrittore russo di origini ucraine Vasilij Grossman. Nel suo famoso romanzo Tutto scorre, scritto tra il 1955 e il 1963, uno dei personaggi, Anna Sergeevna, racconta i terribili anni della collettivizzazione, della carestia e dello sterminio dei kulaki in Ucraina. Il libro, come è facile immaginare, ebbe una vicenda editoriale complessa. Negli Anni '60 agenti del Kgb sequestrarono il manoscritto, ma l'autore lo riscrisse. La copia, ritrovata dopo la sua morte (1964), fu poi pubblicata nel 1970, a Francoforte. Mentre in Russia il romanzo apparve solo nel 1989, all'epoca di Gorbaciov in piena glasnost, la "politica della trasparenza".

Qualche anno prima, nel 1986, in Inghilterra e negli Stati Uniti, era uscito il saggio Harvest of Sorrow dello storico inglese Robert Conquest, nel quale per la prima volta l'Holodomor veniva documentato e descritto nei particolari. Secondo Conquest la carestia non fu provocata dalla collettivizzazione delle terre ma dalla confisca del cibo, dalle liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi e dai blocchi stradali che impedivano gli spostamenti della popolazione. Lo sterminio di milioni di kulaki, per lo storico inglese, fu insomma un atto deliberato di genocidio.

LA VERITÀ NASCOSTA NEGLI ARCHIVI SOVIETICI. La verità su quanto accadde in quegli anni, tuttavia, iniziò a diffondersi su vasta scala soltanto dopo la dichiarazione di indipendenza dell'Ucraina (1991) e l'apertura degli archivi sovietici. Nel 2003 le Nazioni Unite hanno stabilito che l'Holodomor è stato "il risultato di politiche e azioni crudeli che provocarono la morte di milioni di persone". Cinque anni dopo, nel 2008, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale lo sterminio ucraino viene classificato come crimine contro l'umanità. Tuttavia non è mai stato riconosciuto come genocidio, per non irritare la Russia.

Dal punto di vista storiografico il dibattito è tuttora aperto e gli studiosi si dividono ancora oggi sulle cause scatenanti di quella tremenda carestia: fu la conseguenza dei piani quinquennali di Stalin che ridussero alla fame i contadini? O fu creata ad arte da Mosca per decapitare il nazionalismo ucraino? E poi è corretto definirla "un atto di genocidio", con le inevitabili implicazioni politiche che ne deriverebbero?

GENOCIDIO DIMENTICATO. Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima di Conquest, era stato il giurista polacco Raphael Lemkin, che nel 1944 coniò il termine "genocidio" e che in seguito si è battuto per inserirlo nel diritto internazionale. Ne è convinto anche lo storico Ettore Cinnella, autore del recente saggio Ucraina: il genocidio dimenticato 1932-1933 (Della Porta editori), che non ha dubbi: «Fu sicuramente un genocidio sociale, ovvero un tentativo di sterminare buona parte del mondo contadino sovietico, quindi non solo gli ucraini ma anche i russi.

Tuttavia Stalin cercò anche di distruggere il carattere nazionale del popolo ucraino attraverso le persecuzioni antireligiose, la sconsacrazione e la distruzione delle chiese. Sia il mondo contadino ucraino sia l'intellighenzia del Paese furono colpiti per cercare di cancellare la loro memoria storica, a cominciare dai maestri di scuola e dalla Chiesa, che era allora indipendente da Mosca. Mettendo insieme tutti questi tasselli, considerando che ci fu la volontà deliberata di ridimensionare e reprimere quel popolo, ritengo che sia lecito parlare di genocidio».

OLOCAUSTO UCRAINO. Esiste tuttavia un problema di carattere giuridico che impedisce l'inclusione della tragedia ucraina dell'Holodomor nella lista dei genocidi ufficialmente riconosciuti dalla comunità internazionale. È quanto spiega la studiosa statunitense Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer e autrice del recente saggio Red Famine: Stalin's War on Ukraine: «Ciò che accadde in Ucraina tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di genocidio di Raphael Lemkin, ma non può rientrare nella formulazione redatta nel 1948 con la Convenzione sul genocidio. L'Unione Sovietica contribuì alla stesura di quel documento in modo decisivo proprio al fine di escludere l'Olocausto ucraino». Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato, l'Holodomor continuerà a essere formalmente escluso dall'elenco dei genocidi.

Tratto da Raccolto amaro di Riccardo Michelucci, pubblicato su Focus Storia 139, disponibile solo in versione digitale.

Ucraina, Massimo Fini: "Vladimir Putin ha le sue ragioni, ecco quali". Una teoria-choc. Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.

Massimo Fini, giornalista e scrittore firma del Fatto Quotidiano, pensa a una Unione europea armata e nucleare, equidistante e neutrale fra Stati Uniti e Russia. "La verità è che la Nato non ha più senso da quando è caduto l’impero sovietico. Da allora, è diventata l’arma con cui gli Stati Uniti tengono l’Europa in stato di minorità militare, politica e alla fine anche culturale", spiega in una intervista a Il Giornale. Non solo, prosegue Fini. "A mio parere qualche ragione Putin ce l’aveva, nel sentirsi accerchiato dalla Nato. Il precedente di Cuba, quando Krusciov ebbe il buonsenso di ritirare i missili per scongiurare una guerra atomica, dovrebbe illuminarci. La questione vera è l’Europa, che dovrebbe dotarsi di una forza militare autonoma, il che vuol dire togliere l’anacronistico divieto di riarmo atomico alla Germania". 

Insomma, continua il giornalista, "l’Europa dovrebbe seguire la linea a suo tempo proposta da Angela Merkel: l’equidistanza fra i due poli, difesa grazie al nucleare (faccio notare, fra parentesi, che il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, con le sue quattro bombette, viene lasciato tranquillo). Anche se bisogna pur dire che, in tempo normali, noi avremmo tutto l’interesse ad avvicinarci più a Mosca, per ragioni geografiche, economiche, energetiche e anche, voglio sottolinearlo, culturali. La letteratura russa fa parte integrante del nostro bagaglio di europei". 

Secondo Massimo Fini, quella che è scoppiata in Ucraina, in realtà, "è solo una guerra fra due potenze nucleari, Russia e Usa, con l’Europa letteralmente in mezzo, che come al solito ci rimette. La Russia ha abbracciato da tempo il nostro modello di sviluppo economico. Come la Cina". 

Da tg24.sky.it il 9 marzo 2022.

La colpa della guerra in Ucraina è degli Stati Uniti. Non usa mezzi termini il portavoce del ministro degli Esteri cinese Zhao Lijian: “Sono state le azioni della Nato guidata da Washington che hanno gradualmente spinto” Mosca e Kiev fino al punto di rottura.  

“Ignorando le proprie responsabilità”, continua Zhao Lijian, “gli Usa accusano invece Pechino della propria presa di posizione sulla vicenda e cercano margini di manovra nel tentativo di sopprimere la Cina e la Russia, per mantenere la propria egemonia”

Ucraina, Xi Jinping a Macron e Scholz: "Sanzioni dannose per tutti"

Sul fronte sanzioni la Cina sottolinea come non abbiano fondamento nel diritto internazionale. “Non porteranno pace e sicurezza” ha detto Zhao Lijian “ma avranno la sola conseguenza di provocare gravi difficoltà all’economia e ai popoli dei Paesi interessati intensificando ulteriormente la divisione e il confronto”.

La Società della Croce Rossa cinese, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, ha inviato un lotto di materiali per aiuti umanitari, inclusi cibo e necessità quotidiane, per un valore complessivo di cinque milioni di yuan (circa 723mila euro). Il lotto, ha aggiunto Zhao Lijian, è stato spedito oggi da Pechino, e sarà consegnato in Ucraina "il prima possibile".

Da liberoquotidiano.it il 9 marzo 2022.

"Vladimir Putin nasce dallo sfacelo dal tentativo di trasformare l'ex Unione sovietica in una democrazia occidentale". Michele Santoro, in studio a DiMartedì a La7, si concentra sugli errori dell'Occidente, della Nato, degli Stati Uniti. 

E arriva a dire che a convincere il presidente russo a invadere l'Ucraina è la crisi della democrazia occidentale: "In Italia non eleggiamo più Presidenti del Consiglio da 15 anni, però siamo una grande democrazia... Io non ho un Partito in Italia! Datemi un partito come quello spagnolo, che non manda le armi in Ucraina!". Floris sgrana gli occhi, davanti a Zio Michele c'è l'ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Ispi, che prova a glissare concentrandosi su una prospettiva più ampia.

"L'Ucraina è solo un campo di battaglia di un disegno più ampio di Putin, perseguito lucidamente, che nasce da lontano. Lui vuole tornare a una politica di forza e di sfere d'influenza: noi non abbiamo altra soluzione che opporci, nei limiti della Terza Guerra mondiale".

Ma Santoro lascia sul campo una domanda inquietante: "Vogliamo sostituire Putin? E se dopo è peggio? Come con Saddam Hussein e Gheddafi? Non possiamo leggere i russi alla luce della nostra cultura, non possiamo costringere altre parti del mondo ad essere come noi. Ogni volta che abbiamo provato a fare questo, abbiamo fatto disastri: in Afghanistan siamo stati 20 anni e siamo scappati. In Siria abbiamo costruito l'Isis per combattere Assad".

E ancora: "L'Ucraina vuole entrare nella Nato? Nessuno può permettersi di violare l'indipendenza dell'Ucraina, ma entrare nella Nato può essere concepito da qualcuno come atto ostile. Non posso considerarlo solo autodeterminazione, altrimenti i cubani potevano mettersi i missili per difendersi dagli americani. Non possono diventare uno Stato neutrale? Devono avere per forza le truppe della Nato dentro? Per fermare Putin dobbiamo trovare una soluzione". 

Riccardo Panzetta per Dagospia il 10 marzo 2022.  

La guerra in Ucraina era ineluttabile? Gli americani hanno fatto il possibile per evitarla? Putin era disponibile a una trattativa diplomatica? Quale ruolo giocherà la Cina e cosa può fare l’Italia per ritagliarsi uno spazio nello scontro a distanza tra le grandi potenze? Lo abbiamo chiesto all’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri e ex direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.

Ambasciatore, in un articolo del 4 marzo scorso, sulle pagine del “Corriere della Sera”, Guido Olimpio ha rivelato che il direttore della Cia, William Burns, a inizio novembre 2020, è volato a Mosca per far capire ai russi che Washington era a conoscenza dei piani di attacco all’Ucraina. A metà novembre, i servizi segreti americani hanno condiviso le informazioni con i paesi alleati. Da quel momento, e fino al 24 febbraio giorno dell’inizio delle operazioni militari, è stato fatto tutto il possibile per evitare la guerra?

Putin ha fatto delle richieste inaccettabili alla Comunità internazionale e all’Occidente, e lui lo sapeva. 

Ha chiesto che gli stati dell’ex Unione sovietica che confinano con la Russia non avessero sovranità nelle scelte di politica internazionale. Ha chiesto di riconoscere la Crimea, che è stata annessa con le armi. Ha chiesto di riconoscere pseudo-staterelli di etnia russia dell’Ucraina (le repubbliche di Donetsk e Luhansk, ndr) che lui stesso ha prima creato e promosso e poi occupato e riconosciuto unilateralmente. 

Poi ha sostenuto che un governo liberamente eletto di un paese europeo, l’Ucraina, dovesse cedere il passo solo perché sgradito. Erano richieste che, fin dall’inizio, non potevano essere accolte. E di certo Putin non rifiuta di perseguire i suoi obiettivi: come ha dimostrato, se non si accettano le sue condizioni, passa all’uso delle armi.

I servizi segreti americani e il presidente Biden sono stati determinati nello scoprire il suo gioco, facendo un uso pubblico delle informazioni di intelligence. Hanno provato a ostacolarlo. 

In Europa, però, c’era una percezione meno pessimistica. L’opinione dominante, fatta eccezione per gli inglesi, era che Putin non avrebbe tentato un’invasione ma si sarebbe accontentato - come accaduto in Georgia con l’Abkhazia e l’Ossezia e in Moldavia con la Transnistria - di negoziare i futuri assetti dell’Ucraina e della sicurezza europea sulla base di una posizione di forza. Invece gli allarmi americani si sono dimostrati concreti e Putin ha puntato su un intervento diretto che rappresenta un enorme rischio.

Ieri sera, ospite a “DiMartedì”, lei ha dichiarato: “Non possiamo lasciare campo libero a Putin. Cerchiamo di impedirgli che il rischio che si è assunto paghi troppo”. Ma se l’Ucraina, come ipotizzato dalle dichiarazioni di Zelensky, accettasse di riconoscere la sovranità del Donbass e della Crimea e si autoimponesse uno stato di neutralità, accantonando il progetto di entrare nella Nato, Putin non avrebbe vinto su tutta la linea?

E’ chiaro che questo scenario dovrà essere, prima o poi, oggetto di negoziato. Ora abbiamo un campo di battaglia, l’Ucraina, e due prospettive future. La prima è l’assetto dell’Ucraina quando l’attuale situazione avrà trovato un esito sul campo. La seconda prospettiva, legata a quello che verrà fatto per l’Ucraina, è un riesame dell’ordine di sicurezza complessiva in Europa. 

Dire oggi, senza sapere quale sarà stato l’esito sul campo, quale compromesso sia accettabile per l'Ucraina è prematuro. Ora bisogna puntare a rendere la situazione più difficile possibile a Putin, e parallelamente cercare di alleviare le conseguenze umanitarie. Quel che è certo che non possiamo impedire a un popolo di combattere per la sua libertà. 

Probabilmente Putin non riuscirà a spingersi dove voleva anche se, essendo soverchiante il rapporto di forze, andrà avanti nell’offensiva. Ma non fin dove aveva pianificato all’inizio. Solo a quel punto, quando si sarà definita la situazione, si possono innestare i negoziati. Nel frattempo quello che si può fare, oltre che complicargli la vita, è "far fare buoni uffici”. Mi riferisco alle iniziative diplomatiche di Erdogan, dell’israeliano Bennett o al coinvolgimento dei cinesi.

Quindi l’autodeterminazione dell’Ucraina, la sua volontà a entrare nella Nato, va subordinata al risultato sul campo?

Da parte dell’Occidente non si possono fare sconti sul principio di autodeterminazione dei popoli e della sovranità dei governi. Poi sta a ciascun governo fare i conti con le circostanze: deve inglobare nelle decisioni tutti i fattori che possono influire su questi processi. Chiedersi oggi in quale direzione debba andare Zelensky è prematuro. In questo momento non ci sono le condizioni per cui Kiev possa prendere una decisione in materia. 

E’ d’accordo con chi, evocando la Storia, chiede di riconoscere l’esistenza di “sfere d’influenza”, russe americane o cinesi, che diano coordinate e limiti chiari alla politica internazionale? 

Le “sfere d’influenze” in politica estera mi sanno tanto di ritorno all’Ottocento e a una parte del Ventesimo Secolo che credevamo superatI. Siamo figli di un ordine mondiale liberale scaturito dalla vittoria dell’Occidente nella Guerra fredda. 

Non si può fare finta, e neanche Putin può farlo, che l’Unione Sovietica non abbia perso la Guerra fredda. 

Certo, il mondo è cambiato. L’ordine di sicurezza di cui parlo ha provocato delle tensioni: vi è una percezione russa di dover riparare a dei torti subìti negli anni successivi alla disgregazione dell’Unione sovietica.

L’Occidente ha dato l’impressine di essere più incline a badare alle situazioni interne dei vari paesi che a collaborare agli aspetti più ampi di politica internazionale. La crisi economica prima e la pandemia poi, hanno spinto a pensare che l’ordine di sicurezza europeo avesse bisogno di manutenzione. 

Però va detto che:

1) non si può negoziare quanto la controparte ammassa ai tuoi confini un esercito di 200 mila soldati. Non si tratta con la pistola alla tempia.

2) prima di pensare alle sfere d’influenza bisogna rivedere, forse ricreare, meccanismi di fiducia reciproci. Dobbiamo imparare a dare lo stesso significato alla parola “minaccia”. 

Se Putin si sente minacciato da una democrazia c’è qualcosa che non va. Bisogna rivedere anche gli accordi relativi ai movimenti delle truppe, alle manovre militari, e soprattutto ai missili nucleari a raggio intermedio, i cosiddetti “missili da teatro”, che in questo momento non hanno la copertura di un preciso accordo. Questo creerà nuove sfere d’influenza? Io spero di no.

L’ex presidente americano Donald Trump ha dichiarato: “Sotto la mia amministrazione, Putin non avrebbe mai fatto quello che sta facendo ora”. Le sembra una millanteria o effettivamente il Cremlino si è concesso uno spazio di manovra, considerando più debole la presidenza di Joe Biden?

Il risultato sarebbe stato identico. L’obiettivo di Putin era quello di lavare l’onta della sconfitta della Guerra fredda e delle umiliazioni che lui crede che la Russia abbia subìto. Fin dall’inizio il suo scopo è stato di riscrivere la storia. Non dipende da chi c'è alla Casa bianca.

Le riporto due punti di vista sull’aggressione russa all’Ucraina. Edward Luttwak ha sostenuto che “gli 007 russi non volevano la guerra” e che Putin abbia forzato la mano con il suo stesso “deep state”. In un’intervista al “Fatto”, Lucio Caracciolo ha sostenuto che Putin abbia “attaccato per errore”, convinto che gli ucraini lo accogliessero da liberatore. Queste due letture la convincono?

Sono complementari. Che Putin abbia sottovalutato la resistenza ucraina, la compattezza dell’Occidente e qualche scricchiolìo nel suo stesso entourage, è evidente. Di fronte all’ampiezza di quel che è accaduto presumo che all’interno del Deep State russo un dibattito ci sia stato. Ma non lo sapremo mai con certezza e comunque, a quelle latitudini, le controversie di un dibattito le dirime una sola persona…

Oggi la Cina ha accusato la Nato e il suo allargamento a est come principale causa della crisi in Ucraina. Pechino difende la Russia oggi per prendere Taiwan domani? 

Credo che l’Occidente abbiamo dimostrato una compattezza che la Cina non s’aspettava. Non mi sembra che l’atteggiamento americano possa portare Pechino a equivocare quale sarebbe la reazione nel caso di un’azione su Taiwan. 

Non credo che in una fase di acuta crisi internazionale, e in un momento in cui la Cina intravede la possibilità di sfidare gli Stati uniti con la forza economica e tecnologica, e a pochi mesi da un Congresso del partito che dovrebbe incoronare Xi Jinping per un nuovo mandato, Pechino possa muoversi in modo ostile su Taiwan.

La Cina, come tutte le grandi potenze, sfrutta gli spazi, cerca di inserirsi e di attirare la Russia dalla sua parte, sapendo che Mosca è più debole. Nel mega-disegno cinese di riordino complessivo degli equilibri globali, che vanno oltre l’Europa, la Cina si vede protagonista e supportata da una Russa di seconda classe. Per questo Putin deve stare attento: rischia una vittoria di Pirro. 

Potrebbe portare a casa qualche successo temporaneo fra Ucraina e zone vicine ma rischia di finire abbracciato da un paese molto più potente di lui che gli farebbe fare il gregario.

Nello scontro a distanza tra le grandi potenze, in che modo l’Italia può ritagliarsi un ruolo?

Al di là delle ambizioni, nessuno dei paesi europei, da solo, va lontano. Credo che questo debba essere il momento di spingere verso politiche di sicurezza, di difesa, energetiche e migratorie europee. E’ l’unica soluzione che abbiamo. Non è possibile un ruolo autonomo per i singoli paesi. Fino ad allora, è necessaria la collaborazione tra i paesi maggiori: Francia, Italia e Germania.

Sul “Corriere della Sera” Federico Rampini ha lanciato l’allarme sulla “smobilitazione ideologica dell’Occidente”. Una sorta di processo, storico e etico, che le società occidentali si auto-infliggono, mostrando agli occhi di Russia e Cina una “decadenza irreversibile”. Il modello liberal-democratico non è più così seducente?

Le autocrazie hanno il fascino dell’efficienza ma è da escludere che anch’esse, prima o poi, facciano i conti con la loro piazza. Preferisco un meccanismo decisionale più lungo e articolato, che possa sembrare più fragile ma dal consenso popolare più ampio, alle decisioni autocratiche che rischiano di essere molto effimere nella loro durata.

Dopo la guerra in Ucraina, arriverà la faida al Cremlino? Putin rischia di essere deposto?

Non si può escludere, è una delle sue sottovalutazioni. I suoi referenti non sono solo gli oligarchi e i pezzi di opinione pubblica che lo sostengono in nome dell’orgoglio nazionale. Ci sono anche il deep state, l’apparato di difesa, quello di polizia e i servizi di sicurezza. 

Dovrebbe cedere questo blocco per provocare un’implosione in Russia e non è detto che non avvenga. Le dittature e i regimi autocratici ci hanno abituato a crolli improvvisi. Al momento, per quanto riguarda Putin, avverto scricchiolii ma non sento ondeggiare la casa… 

L'ex comandante di Gladio e dei servizi segreti: “Sto con Putin, il problema della guerra è Zelensky”. Il Tempo il 06 marzo 2022.

«Credo che nessuno possa avere dubbi sul mio sentimento anti russo, però questa volta sono piuttosto perplesso e più ‘putiniano’ che non ‘zelenskyano’. Sono più dalla parte di Putin che non da quella di Zelensky». Esordisce così il Generale Paolo Inzerilli, Capo di Stato Maggiore del Sismi e per 12 anni comandante della Gladio, struttura militare segreta appartenente alla rete internazionale Stay-behind creata per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica. «Io ho due pallini, la storia e la geografia - spiega il Generale -, ma in genere la gente evita di ricordare ciò che è successo nel passato. La Russia, fin da quando era zarista, è sempre stato un Paese a disagio perché si è sempre sentita circondata, in qualche modo bloccata, sentivano di non avere libertà di movimento. Con l’Unione Sovietica era lo stesso, perché è stata creata la Nato contro l’eventuale espansionismo sovietico. La situazione, dunque, si è tramandata. Tutto quello che sta succedendo adesso, perciò, è sempre dovuto al fatto che la Russia, non più Unione Sovietica, ha paura, si sente circondata da Paesi ostili. E il presidente dell’Ucraina, Zelensky, a mio parere fa una dimostrazione di forza quando in effetti tutto quello che la Russia ha chiesto è la dichiarazione ufficiale di non ingresso dell’Ucraina nella Nato e la demilitarizzazione del Paese. Ecco, non mi sembrano richieste assurde, ma Zelensky non ne vuole sapere».  

L’assurdità, per il Generale Inzerilli, sta altrove: «Un paio di settimane fa - dice - si è riunito il Consiglio atlantico della Nato, e i mass media, riportando una dichiarazione del segretario generale Stoltenberg fatta prima della riunione, hanno scritto ‘Stoltenberg gela l’Ucraina’, nel senso che secondo il segretario generale non c’era in agenda nessun argomento che riguardasse l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. È dunque Zelensky che vuol far vedere di essere in gamba, bravo, super indipendente, costi quel che costi, il che per un Capo di Stato mi sembra leggermente folle. Ma se gliel’hanno detto ufficialmente che al momento non se ne parla, perché non se n’è stato buono e tranquillo, senza agitarsi, invece di fare scoppiare questo caos? L’esercito russo contro quello ucraino… Viene da ridere». Per l’ex capo della Gladio, però, c’è un altro punto importante. «Prima che iniziasse il conflitto, gli Stati Uniti dissero che se la Russia avesse invaso l’Ucraina, loro, come Stati Uniti e non come Nato, sarebbero intervenuti per difenderla. Poi hanno cambiato le dichiarazioni, cominciando a parlare di invio di aiuti, che significa quattrini, ed è ben diverso. Ecco perché - afferma senza indugio il Generale - valutando la situazione attuale mi sento più russo che ucraino, perché penso sempre che il compito di un presidente di un Paese è prima di tutto quello di salvare la pelle dei cittadini e non di compiere gesti di forza per una libertà che in pratica esiste e che invece secondo Zelensky non esiste. Per quel che mi riguarda oggi il problema di questa guerra si chiama Zelensky».  

L’obiettivo finale di Putin, per il Generale Inzerilli, è dunque chiaro: «Lui vuole solo fare in modo di non avere i Paesi Nato al confine. Se l’Ucraina entrasse nella Nato significherebbe avere i missili a 180 chilometri da Mosca, e onestamente voglio vedere chi ha qualcosa da protestare. Non dico a cannonate, ma coi missili di oggi 180 chilometri sono una distanza ridicola. L’Ucraina, dunque, fa storia a sé». Arrivati a questo punto, come si fermano le ostilità? «Io credo che nessuno in questo momento sia disposto a farsi ammazzare per bloccare Putin - osserva il Generale Inzerilli -, dunque oggi la Nato dovrebbe concedere a Putin la demilitarizzazione dell’Ucraina insieme a una dichiarazione ufficiale di non ingresso nella Nato. Non si fa la guerra, con già migliaia di morti da una parte e dall’altra, per un principio primo di una parte, non un principio primo del mondo». Anche perché, aggiunge il Generale, «il rischio nucleare potrebbe essere serio, ma anche lì attenti alle fake news. Giornali e tv dicono che i russi hanno bombardato la centrale nucleare e che non c’è stato nessun morto. Ora, per quello che so visto il mestiere che ho fatto, un bombardamento può anche non fare morti, ma certamente distrugge l’obiettivo, ma qui non è stato distrutto un accidente. Se hanno bombardato, allora hanno devastato la centrale, la quale invece è intonsa. Allora c’è qualcosa che non quaglia».

Articolo di Paul Krugman pubblicato da “la Stampa” - Traduzione di Anna Bissanti il 5 marzo 2022.

Il miracolo ucraino potrebbe non durare. Il tentativo di Vladimir Putin di vincere in fretta e con poca spesa, conquistando le città più importanti con forze relativamente leggere, ha dovuto far fronte a una considerevole resistenza, ma i carri armati e le armi pesanti stanno guadagnando terreno. E, malgrado l'incredibile eroismo del popolo ucraino, è ancora più plausibile che implausibile che, alla fine, tra le macerie di Kiev e di Kharviv sarà piantata la bandiera russa. Anche se ciò dovesse accadere, tuttavia, la Federazione Russa si ritroverebbe più fragile e più povera di prima dell'invasione. La conquista non paga.

Perché? Se si risale indietro nella Storia, ci si accorge di innumerevoli esempi di potenze arricchitesi con il valore militare. Di sicuro, i Romani trassero grandi benefici dalla conquista del mondo ellenistico, come fu poi per la Spagna con la conquista di Aztechi e Incas. Il mondo moderno, però, è diverso e per "moderno" mi riferisco quanto meno all'ultimo secolo e mezzo. 

Nel 1909 l'autore britannico Norman Angell diede alle stampe il suo famoso saggio "La grande illusione" nel quale sosteneva che la guerra era diventata obsoleta. Il suo libro perlopiù fu frainteso: si pensò che dicesse che una guerra non poteva più scoppiare, dichiarazione rivelatasi tragicamente errata nelle due generazioni successive. Di fatto, Angell aveva scritto che nemmeno i vincitori di una guerra potevano più ricavare benefici dal loro successo militare.

Non ci sono dubbi: aveva pienamente ragione. Siamo tutti grati agli Alleati che hanno avuto la meglio nella Seconda guerra mondiale, ma la Gran Bretagna ne uscì come una potenza minore e soffrì anni di austerità cercando di superare la penuria di valuta estera. Perfino gli Stati Uniti ebbero un periodo di assestamento postbellico più difficile di quanto molti si siano resi conto, e dovettero far fronte a un picco di aumenti dei prezzi che per un certo periodo spinsero l'inflazione sopra al 20 per cento.

Viceversa, nemmeno una disfatta completa riuscì a impedire a Germania e Giappone di conseguire alla fine una prosperità senza precedenti. Perché e quando la conquista divenne non remunerativa? Angell sosteneva che tutto era cambiato con l'affermarsi di una «vitale interdipendenza tra le nazioni», che «superava trasversalmente le frontiere internazionali», e suggerì che quel fenomeno «fosse in buona parte l'esito degli ultimi quarant' anni», un processo iniziato dunque intorno al 1870.

Sembra una supposizione corretta: intorno al 1870, le reti ferroviarie, i battelli a vapore e il telegrafo resero possibile la creazione di quella che alcuni economisti chiamano la prima economia globale. In un'economia globale di questo tipo, è difficile conquistare un altro Paese senza estrometterlo a caro prezzo (ed estromettersi) dalla distribuzione

internazionale del lavoro, per non parlare del sistema finanziario internazionale. 

Oggi questa è la dinamica in atto in Russia sotto i nostri occhi mentre ne parliamo. Angell puntualizzava anche i limiti delle espropriazioni in un'economia moderna: non è possibile impossessarsi di asset industriali come i conquistatori preindustriali fecero in un lontano passato con la terra, perché le espropriazioni arbitrarie annientano gli incentivi e il senso di sicurezza che una società avanzata ha bisogno che restino produttivi. Ancora una volta, la Storia rende giustizia alla sua analisi.

Per un certo periodo, la Germania nazista occupò altre nazioni dal prodotto interno lordo prebellico complessivo più o meno doppio rispetto al suo ma, nonostante uno sfruttamento spietato, sembra che i territori occupati abbiano ripagato le spese di guerra della Germania soltanto nella misura del 30 per cento circa, in parte perché molte economie che la Germania cercò di dissanguare a suo vantaggio crollarono sotto quel peso. 

Piccola digressione: non è impressionante e orribile ritrovarci in una situazione in cui i fallimenti economici di Hitler ci insegnano qualcosa di utile riguardo le prospettive per il futuro? Tuttavia, è questo il punto in cui ci troviamo. Grazie, Putin. Vorrei aggiungere altri due motivi che spiegano perché le conquiste sono inutili. La prima è che la guerra moderna fa uso di una quantità inverosimile di risorse.

Gli eserciti premoderni usavano una quantità limitata di munizioni e potevano, in certa qual misura, vivere delle risorse della terra. Ancora nel 1864, il generale dell'Unione Army William Tecumseh Sherman poteva sganciarsi dalle linee dei rifornimenti e marciare attraverso la Georgia portandosi dietro razioni militari per soli venti giorni. Gli eserciti moderni, invece, richiedono enormi quantità di munizioni, di pezzi di ricambio e, soprattutto, di carburante per i loro veicoli.

In effetti, dalle ultime valutazioni del Ministro britannico della Difesa risulta che l'avanzata russa su Kiev si sia temporaneamente fermata «in conseguenza, probabilmente, di continue difficoltà logistiche». Ciò che questo implica per gli aspiranti conquistatori, qualora avessero poi la meglio, è un costo altissimo, con pochissime probabilità di essere pagato. In secondo luogo, oggi viviamo in un mondo di nazionalismo infervorato. Nell'antichità e nel Medioevo i contadini probabilmente non facevano caso più di tanto a chi li sfruttava. Gli operai di oggi sì.

Il tentativo di Putin di impossessarsi dell'Ucraina sembra basarsi non soltanto sul principio secondo cui una nazione ucraina non esiste, ma anche sul presupposto che gli stessi ucraini possano essere convinti a considerarsi russi. Sembra molto improbabile che una cosa del genere possa accadere. 

Quindi, anche se Kiev e altre importanti città ucraine dovessero cadere, la Russia si troverebbe a cercare per anni e anni di tenere a freno una popolazione ostile. Una conquista, pertanto, è una prospettiva perdente. Ciò è vero da almeno un secolo e mezzo ed è ovvio a chiunque sia disposto a guardare ai fatti di più di un secolo. Peccato che vi siano ancora pazzi e fanatici che si rifiutano di crederci, e che alcuni di loro comandino nazioni ed eserciti.

La guerra Russia-Ucraina. Sanders giustifica Putin ma dovrebbe ripetere la storia: l’invasione dell’Ucraina arriva 18 anni dopo l’allargamento della Nato. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Bernie Sanders, senatore del Vermont e fervente democratico, più volte in competizione per ottenere la candidatura del suo partito nelle elezioni presidenziali, si è profuso in un’analisi che non lascia scampo a quanti oggi solidarizzano con la resistenza ucraina. Ovviamente Sanders non esita a condannare l’invasione della Russia, che, a suo avviso, non è una risposta; come – ha scritto sul Guardian – non “lo è l’intransigenza della Nato”. «Sono estremamente preoccupato quando sento i familiari tamburi a Washington – dichiara Sanders – la retorica bellicosa che viene amplificata prima di ogni guerra, chiedendo che dobbiamo “mostrare forza”, “diventare duri” e non impegnarci nella “pacificazione”. Un semplicistico rifiuto di riconoscere le complesse radici delle tensioni nella regione mina la capacità dei negoziatori di raggiungere una soluzione pacifica».

A dire il vero, sembra che questi tamburi di guerra li senta suonare solo lui, poiché l’inquilino della Casa Bianca, da giorni non fa che ripetere la classica formula del “non aderire né sabotare”. Sanders ritiene che «uno dei fattori precipitanti di questa crisi, almeno dal punto di vista della Russia, è la prospettiva di un rafforzamento delle relazioni di sicurezza tra l’Ucraina e gli Stati Uniti e l’Europa occidentale (ne esiste una orientale? ndr), compresa quella che la Russia vede come la minaccia dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, un’alleanza militare originariamente creata nel 1949 per affrontare l’Unione Sovietica». E a questo punto il senatore invita a ripassare la storia ricordando che quando l’Ucraina divenne indipendente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i leader russi chiarirono le loro preoccupazioni sulla prospettiva che gli ex stati sovietici entrassero a far parte della Nato e schierassero forze militari ostili lungo il confine della Russia.

I leader statunitensi riconobbero, allora, la legittimità di queste preoccupazioni, che secondo Bernie Sanders, lo sarebbero ancora. Poi il senatore si lancia in una rievocazione della linea di politica internazionale degli Usa, dalla Dottrina Monroe (“l’America agli americani” considerata dall’amministrazione Trump “viva e vegeta”) in poi, passando per la crisi di Cuba del 1962, fino all’appoggio ai golpe sudamericani, indicando come esempio politicamente corretto il caso della Finlandia, «uno dei paesi più sviluppati e democratici del mondo, confina con la Russia e ha scelto di non essere membro della Nato’’. Come gli Usa hanno di fatto delle “sfere di influenza” è ipocrita – ecco la dottrina Sanders – non concedere a Putin il diritto di intervenire contro qualsiasi paese che possa minacciare gli interessi russi. Per dare credibilità alla sua analisi, Sanders termina con un paradosso: «qualcuno crede davvero che gli Stati Uniti non avrebbero qualcosa da dire se, ad esempio, il Messico dovesse formare un’alleanza militare con un avversario degli Stati Uniti?».

In realtà è il senatore che dovrebbe ripassare la storia, perché nella sua ricostruzione ignora parecchi passaggi importanti nelle vicende degli ultimi trent’anni. Anche ammettendo che il gentlemen’s agreement tra Bush e Gorbaciov sia avvenuto (Der Spiegel ha pubblicato persino dei documenti) e che la Nato si fosse impegnata ad accontentarsi dell’adesione della Germania unificata senza spingersi troppo ad Est, inglobando come è avvenuto dal 1999 a 2004 tutti i paesi ex satelliti e le Repubbliche baltiche, Vladimir Putin ha impiegato 18 anni per ritenere intollerabile il nuovo assetto determinatosi dopo l’implosione dell’Urss (l’Impero sovietico fece tutto da solo, mentre l’Occidente stava a guardare meravigliato)? E non è neppure vero che nei confronti della Federazione russa vi siano stati degli atteggiamenti ostili da parte delle potenze occidentali.

Nel 2002 furono sottoscritti tra i premier dei 19 Paesi della Nato e Putin gli accordi di Roma, in base ai quali venivano individuati ambiti importanti di collaborazione tra cui la lotta al terrorismo, la difesa e la collaborazione militare; rafforzando, così, i rapporti amichevoli stabiliti in precedenza. Dal 1989 ai lavori dell’Assemblea dell’Onu partecipavano rappresentanti dei Parlamenti dei paesi dell’Unione europea e dell’Europa centro-orientale, cui venne attribuito lo status di membri associati (Armenia, Austria, Azerbaijan, Bosnia Erzegovina, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Federazione russa, Finlandia, Georgia, Moldavia, Montenegro, Serbia, Svezia, Svizzera, Ucraina). Il G7 fu allargato alla Russia fino a quando nel 2014 Putin decise di annettere la Crimea. La Georgia e l’Ucraina sono considerati dalla Nato “paesi attenzionati” da quasi un decennio. Putin ha cambiato atteggiamento dopo la cosiddetta rivoluzione dell’Euromaidan, quando gli ucraini, nel 2014, rovesciarono il governo filo-russo e si avvicinarono alla Ue e alla Nato.

Se gli Usa non hanno mai rinunciato – come ha scritto Sanders – alla Dottrina Monroe, Putin ha riattivato gli accordi di Yalta? I Paesi vicini della Federazione russa devono essere osservanti ai diktat del Cremlino come il boss della Bielorussia? Altrimenti arriva l’Armata rossa come – ai tempi delle “zone di influenza’’ – in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968)? Diciamoci la verità. I casi della Crimea, della Georgia, fino alla pratica annessione del Donbass sono gravi violazioni del diritto internazionale, ma secondo la realpolitik potevano essere interpretate come azioni a scopo precauzionale e difensivo. Ma l’invasione dell’Ucraina è un atto di guerra che non può avere alcuna “comprensione”. Putin con quest’azione ha riscritto la storia del “secolo breve”. Si è arrogato il diritto di “denazificare” l’Ucraina; ma questo è un percorso insidioso. Absit iniuria verbis perché – come ha scritto Sansonetti è assurdo paragonare Putin a Hitler – ma anche il nazismo in Germania costruì la propria “resistibile” ascesa sulle condizioni capestro che le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano inflitto alla Germania sconfitta.

Oggi gli storici riconoscono che furono commessi gravi errori da parte delle potenze vincitrici della Grande Guerra nei confronti della Germania, che fu privata del bacino della Ruhr, sottoposta a un debito di guerra esorbitante che condizionò in modo negativo la Repubblica di Weimar (un’eccellenza di democrazia per quei tempi). Poi a Versailles si disegnarono i confini degli Stati creando otto milioni di apolidi. Oltre al caso Danzica, fu costituita a tavolino la Cecoslovacchia, dove – nella regione dei Sudeti – vi erano tre milioni di tedeschi (sui 12 milioni di cittadini del nuovo Stato). Se è politicamente comprensibile la guerra scatenata da Putin in difesa della popolazione russofona, ci tocca di rivalutare Neville Chamberlain che a Monaco riconobbe le pretese di Adolf Hitler sulla Cecoslovacchia allo scopo di salvaguardare la pace in Europa.

Se un Paese crede di aver diritto ad uno “spazio vitale”, pretende di rivendicare i confini “naturali” di un “glorioso” passato (lastricato di milioni di morti e piagato da un regime di feroce oppressione), vuole superare lo status di potenza regionale (copyright Barack Obama) per ritornare al medesimo rango degli Usa e della Cina, il mondo deve stare a guardare imbelle? Nel 1938, Gran Bretagna e Francia – disse Winston Churchill – persero l’onore per evitare la guerra; ed ottennero sia il disonore che la guerra. Ma almeno si fecero garanti (pur inutilmente) dell’indipendenza della Polonia, la nazione oggi aderente alla Nato, ai confini della Russia. Al pari delle Repubbliche baltiche. Forse l’Alleanza atlantica dovrebbe “battere un colpo”. Come fanno i fantasmi.

Si fa un gran parlare della ritrovata compattezza dell’Occidente, dimenticando che in Europa (adesso si spiegano le ragioni degli aiuti finanziari ad alcune forze politiche e le incursioni informatiche) Putin ha disseminato in alcuni paesi, dove si andrà presto a votare, delle “quinte colonne’’ che potrebbero vincere le elezioni o condizionare comunque la politica estera. Siamo sempre lì. Arriva un momento, nella storia, in cui alle democrazie viene chiesto se sono disposte a morire per Danzica. Chi offre l’altra guancia prende solo due schiaffi. Giuliano Cazzola

Letizia Tortello per “la Stampa” il 4 marzo 2022.

Per capire dove siamo, dobbiamo fare un salto indietro alla fine del Secolo breve, alla fine della Guerra Fredda. Leggere il Putin nazionalista e aggressivo, autore di una devastante guerra in Europa che spinge il mondo sull'orlo del precipizio e apre le porte «di un'epoca nuova di cui non riusciamo a immaginare i confini», significa rileggere la Storia da dopo la caduta del Muro di Berlino. 

«Quando la Nato ha promesso che non si sarebbe allargata a Est, e invece poi l'ha fatto. E quando abbiamo rinunciato a tirare la Russia verso il nostro Continente, entrandone in qualche modo a fare parte e normalizzando i rapporti». 

Donald Sassoon condanna in ogni modo l'attacco russo all'Ucraina, che definisce «un disastro totale dagli esiti terribili e incerti per tutti» e al tempo stesso una «miscalculation» del Cremlino, un errore di calcolo che non lo porterà a vincere, comunque vada. Però, per il 75enne storico britannico, professore emerito di Storia Europea alla Queen Mary University di Londra, autore di Sintomi morbosi e del recente Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo (Garzanti), la fine del Comunismo ha lasciato un'eredità con molti errori fatali.

Sassoon, da cittadino britannico ed ex europeo dopo la Brexit, come sta vivendo questi giorni angoscianti della guerra ucraina?

«Ci tengo subito a dire che io nel cuore sono europeo, mi sento ancora europeo. L'invasione di Putin mi ha colto di sorpresa perché pensavo che non l'avrebbe fatto». 

Cosa glielo faceva credere?

«Il calcolo razionale di opportunità e variabili. In che risultati può sperare, Putin? Anche se vincesse subito, cosa che vediamo non accadere, come potrebbe tenere sotto occupazione un Paese di 40 milioni di abitanti, il più grande che ci sia in Europa, pensando che una porzione significativa della popolazione accetti un governo non democratico? Non è stupido. Dunque o ha informazioni che non stanno in piedi o notizie cattive che lo riguardano, o consiglieri tanto balordi da averlo indotto a prendere questa decisione totalmente dissennata».

Ogniqualvolta il leader russo ha spostato il confine più in là, però, l'Occidente si è sempre piegato, per poi presentarsi disponibile con la speranza di siglare un accordo. Non crede che anche stavolta contasse su questo?

«Se la sua motivazione è che si sentiva circondato, ora lo è senz' altro di più, con conseguenze catastrofiche. Spiego perché: nulla fa aumentare il nazionalismo ucraino più di un'invasione, inoltre la Nato non si è mai ritrovata così compatta come ora, e Stati come Finlandia e Svezia, che ritenevano più prudente starne fuori, valutano se entrare a farne parte. La Germania non voleva vendere armi all'estero e dare il suo contributo militare, e ha dovuto ripensarci.

Il Giappone non voleva testate nucleari sul territorio, per ovvi motivi storici, e ci ripensa. Biden ora è osannato, quando aveva metà Congresso contro. Putin è riuscito a trasformare la Russia, che non ingiustamente si sentiva minacciata, in un Paese isolato sotto ogni punto di vista, anche economico, che gli porterà disastri sul lungo termine».

L'invasione è stato un clamoroso autogol, dunque?

«Per me sì, certo le conseguenze saranno pesantissime e ignote al momento. Supponiamo che, come esito di questa catastrofe, riesca a conquistare oltre a tutta la Crimea e il Donbass che era già sotto il suo controllo, anche l'intero Paese. Le sanzioni porteranno quelli che gli sono vicino a dire "vogliamo sbarazzarci di lui, ci porta alla rovina". Il problema dell'Occidente, fin da ora, è cosa fare con la Russia post Putin. Il post Guerra Fredda ha comportato un gigantesco errore, a partire dall'avanzata della Nato. 

Se gli americani l'avessero sciolta, dissolto il Comunismo, non avrebbero ricevuto così tante proteste dagli Stati dell'Europa occidentale. Che non ci si dovesse allargare lo dicevano in tanti, all'epoca. Negli Anni 90 si pensava che, nonostante l'allargamento, si potessero intavolare discussioni con Mosca. Abbiamo costretto la Russia, invece, ad allinearsi con la Cina. Abbiamo fatto con la Russia quel che non abbiamo fatto con la Germania dopo la Seconda guerra mondiale, in modo più assennato».

Il piano Marshall?

«Ad esempio. Abbiamo trattato la dissoluzione dell'Urss come una sconfitta della Russia, come se non fosse stata una decisione dei russi stessi, di Gorbacev, la fine dell'impero sovietico. Abbiamo spinto lontano la Russia, anziché avvicinarla sempre più con rapporti normalizzati». 

E questo secondo lei porta al nazionalismo espansionistico di oggi?

«Putin ha costruito una "narrative", un racconto, selezionando dalla Storia solo ciò che gli faceva comodo. Quando dice che l'Ucraina non è mai stata una nazione non ha torto, nel senso che le nazioni, anche le nostre, sono invenzioni recenti, dell'800. Kiev era la capitale della Russia medievale, quando Mosca era un villaggio e San Pietroburgo non esisteva. Krushev, che era un ucraino, nel 1954 diede la Crimea alla Repubblica ucraina, ma allora non faceva effetto, perché era un po' come spostare più in là il confine della Toscana». 

C'è qualche ragione legittima, in questa pur folle rivendicazione? Intende questo?

«No, ma dico che Putin ha violato i confini di uno Stato, non quelli di una nazione. Inoltre, la risposta di Putin è: "Voi non avete invaso l'Iraq? l'Afghanistan? Non siate ipocriti". Dopodiché, alla storia che lui racconta credono in pochi, anche in Russia. E qui sta il suo pericolo più grande». 

Il nemico interno?

«Se invadi, devi tornare a casa trionfante e vincere. Se i morti russi cresceranno, se le sanzioni colpiranno duro, lui avrà la sua rovina. Quando gli americani fecero finire la guerra in Vietnam? Di fronte ai troppi morti americani. E come diceva Sun Tzu, "Bisogna sempre fare in modo di lasciare al nemico una porta da cui scappare". Penso alle trattative diplomatiche o al riconoscimento del Donbass e della Crimea. L'Ucraina dovrebbe pensarci seriamente».

Da blitzquotidiano.it il 3 marzo 2022.   

L’obiettivo di Putin è di prendersi tutta l’Ucraina. Lo dicono fonti dell’Eliseo dopo la telefonata tra il presidente francese Emmanuel Macron e Vladimir Putin.

La telefonata

La telefonata di un’ora e mezzo fra Emmanuel Macron e Vladimir Putin è stata voluta dal presidente russo ed è stata l’occasione di verificare “la determinazione del presidente russo ad andare fino in fondo nell’operazione in Ucraina”. Lo si è appreso da fonti dell’Eliseo, secondo le quali Putin ha telefonato a Macron “per informarlo sulla situazione e sulle sue intenzioni nel quadro del dialogo che Mosca e Parigi continuano a mantenere”. 

Putin e le accuse agli occidentali

Secondo la ricostruzione delle fonti dell’Eliseo, il disaccordo fra Macron e Putin è emerso in tutta la sua evidenza. Putin “ha indicato che le operazioni in Ucraina procedono secondo i piani” russi ed è tornato a lungo sulle sue motivazioni: “il rifiuto degli ucraini di applicare gli accordi di Minsk e la denazificazione dell’Ucraina”. Secondo Putin, in tutto quello che sta succedendo “è grande la responsabilità degli occidentali”, che si comportano “come nella ex Jugoslavia, con i bombardamenti di Belgrado”. 

“Per questo – ha detto Putin – sono stato costretto ad agire”. Il presidente russo ha accusato gli ucraini di “crimini di guerra nei villaggi”, affermando che “si comportano come nazisti”. “Sono disponibile al negoziato ma – ha insistito Putin citato dall’Eliseo – questo deve essere basato sul disarmo dell’Ucraina. Se gli ucraini non lo accettano con metodi politici e diplomatici, lo otterremo per via militare. La campagna subirà adattamenti via via che gli obiettivi saranno raggiunti. Ordinerei una sospensione delle operazioni soltanto se gli ucraini accettassero le condizioni”.

La risposta di Macron: “Tu racconti delle storie a te stesso e cerchi un pretesto”

Secondo l’Eliseo, Macron ha risposto che “Putin commette un errore grave sul regime politico ucraino, non si tratta di nazisti” ha insistito Macron, dicendo in modo chiaro a Putin: “Tu racconti delle storie a te stesso, cerchi un pretesto, quello che dici non è conforme alla realtà e in ogni caso non giustificherebbe la violenza. Così – ha proseguito Macron – il tuo Paese finisce isolato e indebolito, con sanzioni sul lungo periodo”. 

Il presidente francese ha ribadito che “tutta la responsabilità” del conflitto ricade su Putin ma che se il presidente russo “decidesse di fare altrimenti, di percorrere un’altra strada, è ancora possibile dialogare, in particolare tenendo conto degli interessi della Russia, della sua sicurezza”. 

Quanto alle operazioni sul terreno, Putin ha negato i bombardamenti a Kiev, affermando in particolare che quelli contro la torre della televisione sono stati “tiri mirati che non hanno colpito civili”. “Se la situazione si aggrava – ha detto ancora Putin a Macron – la colpa è degli ucraini che non accettano le condizioni. Bisogna negoziare adesso, e alle condizioni poste” da Mosca, ha concluso.

Per lo Zar "russi e ucraini unico popolo". La propaganda di Putin in tv: “Ucraini hanno subito lavaggio del cervello, nazisti li usano come scudi umani”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

L’allarme lanciato dal presidente francese Emmanuel Macron dopo la conversione telefonica avuta con Vladimir Putin, con quest’ultimo che gli aveva comunicato che in Ucraina “il peggio deve ancora venire” e che il suo scopo “è di prendere il controllo dell’intero Paese”, viene ‘amplificato’ dalle parole dello Zar del Cremlino in un nuovo discorso alla nazione.

Ricorrendo nuovamente alla propaganda che il mondo ha imparato a conoscere in questi giorni, Putin ha rimarcato per l’ennesima volta che non ha alcuna intenzione di tornare indietro rispetto alle sue dichiarazioni che “russi e ucraini sono un unico popolo”.

Secondo il numero uno del Cremlino infatti la popolazione ucraina starebbe subendo  un “lavaggio del cervello” da parte del governo di Kiev guidato da Volodymyr Zelensky e da “neonazisti ucraini” che impediscono ai militari russi di fornire “corridoi sicuri per i civili”, trattando i cittadini “come scudi umani”.

Putin ha aggiunto inoltre che “migliaia di stranieri sono tenuti in ostaggio in Ucraina”, “l’anti Russia” creata dall’Occidente che Mosca distruggerà. Il presidente russo ha rivendicato come “l’operazione speciale”, il nome con cui Putin ha sempre chiamato l’invasione delle sue truppe in Ucraina, “è condotta in accordo con i nostri programmi. Stiamo raggiungendo gli obiettivi e avendo successo”.

Il suo discorso trasmesso sulla tv di Stato si è quindi concluso con la proposta di onorare la memoria di coloro che sono morti in guerra con un minuto di silenzio, con la trasmissione interrotta e la riunione del Consiglio di sicurezza proseguita a porte chiuse. Lo Zar aveva infatti definito i soldati gli ufficiali russi che combattono in Donbass “eroi”.

Le parole di Zelensky

Prima dell’intervento in tv di Putin era stato il presidente ucraino a lanciare l’allarme sull’evoluzione del conflitto in corso, mentre in Bielorussia, nella foresta di Belovezhskaya Pushcha, è in corso il secondo round dei negoziati.

Per il presidente Zelensky dopo l’Ucraina nel mirino della Russia finirebbero “Lettonia, Lituania ed Estonia”. “Se Kiev dovesse cadere, la Russia si prenderà i Paesi Baltici e l’Europa orientale: ricordate questo momento“, ha detto il numero uno di Kiev alla Cnn. A sorpresa era arrivato anche un appello al rivale Putin, un invito al dialogo: “Vieni e parliamone, è necessario per fermare la guerra”, ha detto il leader ucraino. “L’obiettivo della Russia è di vederci in ginocchio”, ma in realtà “ha paura della nostra unità”.

Poi l’accusa nei confronti dell’esercito russo di aver portato con sé “un forno crematorio” per bruciare i corpi dei soldati e “non doverli mostrare alle loro madri”. “I soldati russi stanno morendo e nessuno conta i corpi”, ha detto in conferenza stampa Kiev, accusando Mosca di voler nascondere il numero dei morti fra i militari perché il popolo russo ignori il vero costo de conflitto.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Gettata via la maschera buonista. Tutti gli errori di Europa e Usa: considerare Putin un alleato affidabile. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Siamo francamente sorpresi della sorpresa che ha caratterizzato molte posizioni nel mondo occidentale e in Italia rispetto a Putin. Evidentemente ci riferiamo a quelle prese in buona fede e senza scelte o interessi precostituiti. Non a quelle derivanti da situazioni assai pesanti che riguardano Trump a livello mondiale e, a nostro avviso, Salvini a livello nazionale (del tutto diversa come vedremo è la linea assunta da Giorgia Meloni).

Per fare un esempio a noi vicino, chi era Putin dal punto di vista ideologico e politico-strategico fu spiegato già nel 2017 in un convegno di Riformismo e Libertà con relazioni di Vittorio Strada, uno dei massimi studiosi della cultura e della storia russa purtroppo scomparso, e di Garry Kasparov. Putin è caratterizzato da una forte componente ideologica che ha il suo punto di riferimento essenziale in Aleksandr Dugin, un ideologo reazionario che presenta l’Eurasia come una sorta di “terza Roma”, una grande Russia distinta dal comunismo, ma anche dall’Occidente libertino e decadente e segnata da un autoritarismo totalizzante. In questo quadro i punti di riferimento spaziano da zar come Pietro il Grande e Ivan il Terribile fino a Stalin, ma non riguardano e coinvolgono Lenin. Le conseguenze politiche di questa ideologia erano e sono molto nette. In genere a questo proposito ci troviamo spesso di fronte a nostalgici riferimenti al Putin di Pratica di Mare, spesso evocato da Silvio Berlusconi. Per molteplici ragioni però il Putin di Pratica di Mare è molto diverso da quello successivo.

Allora Putin si trovava a gestire una Russia ridotta ai minimi termini dall’implosione dell’Urss, per cui andava in giro col piattino in mano pur di rientrare nel salotto buono della politica mondiale. Una volta che ciò gli è riuscito, anche con il contributo degli Usa, gradualmente Putin ha buttato via la maschera buonista. L’errore fatto nei confronti di Putin è stato esattamente l’opposto di quello imputato da Massimo D’Alema all’Occidente. Da questo punto di vista, nel corso degli anni D’Alema non si è fatto mancare nulla in nome di una spregiudicatezza che sconfina con il trasformismo. Prima rispetto all’Urss egli ha tenuto la stessa posizione contraddittoria seguita da Enrico Berlinguer; poi nel 1999, dopo essere diventato presidente del Consiglio anche grazie a Cossiga, si è schierato su una posizione così filoamericana e atlantica da mandare i nostri aerei a bombardare la Serbia prima di avere il consenso del Parlamento; più recentemente è diventato un ascoltato consulente della Cina, adesso invece imputa agli Stati Uniti di avere accettato l’adesione alla Nato di una serie di paesi ex comunisti, il che avrebbe provocato la reazione di Putin.

In primo luogo quei paesi (Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia) sapendo bene con chi avevano a che fare, sono stati loro a richiedere questa adesione: fortunatamente essi sono stati accettati perché almeno adesso una copertura ce l’hanno. In effetti l’errore commesso degli Usa, dalla Ue (e in essa specialmente dalla Germania) è stato di segno opposto a quello denunciato da D’Alema. In secondo luogo in Medio Oriente gli errori commessi per eccesso di interventismo da Bush jr., per altro verso da Obama (che si fece dissennatamente spingere da Sarkozy a intervenire in Libia e invece si fece convincere dallo stesso Putin a non intervenire nel 2013 in Siria) hanno consegnato a Putin un ruolo fondamentale proprio nel Medio Oriente. Ma a quel punto era chiaro qual era la posizione di fondo assunta da Putin: egli ha affermato che la caduta dell’Urss è stata la maggior catastrofe geopolitica avvenuta nel XX secolo.

Egli fa questa affermazione non perché sia nostalgico del comunismo, ma perché era venuta meno la Russia come grande potenza contraltare degli Usa. Di qui la sua linea ai confini con l’Europa del Nord. Subito l’Ucraina è stata messa nel mirino non tanto per l’eventualità assai remota che anch’essa aderisse alla Nato, ma perché, diversamente dal Kazakistan e dalla Bielorussia, era stato cacciato dalla rivolta popolare del Maidan il quisling Yanukovich, e così l’Ucraina diventava per gli stessi russi un punto di riferimento liberal-democratico, posizione che Putin contesta alla radice.

Di qui è in corso da alcuni anni l’attacco asimmetrico all’Ucraina iniziato con autentiche violazioni del diritto internazionale in Georgia e specialmente in Crimea. Tutto ciò è stato funzionale ad una linea politica assai precisa e assai pericolosa: utilizzando senza alcuna remora lo strumento militare Putin punta a costruire nel cuore dell’Europa del Nord una costellazione di Stati, anche facendo leva sulle minoranze russe, intorno alla “grande Russia”. Di conseguenza, dopo quello che aveva fatto in Crimea, l’errore tragico commesso dagli Usa e dall’Unione europea è stato quello di considerare Putin come un alleato recuperabile con il quale era possibile tornare a Pratica di Mare. Così la Germania e l’Italia hanno commesso incredibili errori sul terreno della politica energetica. Così si è consentita una penetrazione economica-finanziaria, compreso il calcio, in molti paesi da parte di oligarchi che non giocavano solo una partita in termini di arricchimento privato, ma una linea che aveva il risvolto politico della costruzione di sfere d’influenza. Il caso Schroeder non è isolato: anche in Italia, evidentemente a un livello più basso, ci sono stati e ci sono leaders politici e spezzoni di forze politiche che sono stati letteralmente comprati.

Molto recentemente c’è stato un altro fraintendimento. Gli Usa, che con il tragico errore commesso con il ritiro in Afghanistan hanno dato la sensazione di poter sfondare in molteplici direzioni senza tanti danni, in occasione di questa crisi avevano capito almeno da un paio di mesi che si era alla vigilia di un attacco totale. Ebbene, essi sono stati contestati da molti osservatori, in primo luogo dai tedeschi. Poi si è visto chi aveva ragione. È risultato evidente a tutti da un lato per l’estrema gravità dell’attacco e dall’altro per la sua incredibile pretestuosità (il rischio di un’adesione alla Nato, l’esistenza di un gruppo dirigente ucraino di drogati e di nazisti e specialmente il rifiuto di riconoscere all’Ucraina di essere una nazione autonoma), che Putin sta giocando una partita di estrema pericolosità. Per la prima volta nel cuore dell’Europa viene sferrato un attacco contro uno Stato autonomo da parte di chi in effetti non ha intenzione di fermarsi, ma piuttosto sta saggiando il terreno per cui, se non si trova di fronte ad una risposta forte, ci si può trovare a passi ulteriori, dalla Moldavia alla Transnistria, alla Lituania e all’Estonia con minacce dichiarate anche per la Svezia e la Finlandia.

Di qui il paradosso espresso esplicitamente da Biden e dall’Ue: non potendosi dare nell’immediato, anche per ragioni di contiguità geografica, una risposta sul piano militare a chi invece sente solo il linguaggio delle armi, proprio per evitare una terza guerra mondiale, bisogna ricorrere a sanzioni così dure che nel medio periodo colpiscano davvero il sistema di potere putiniano. Certamente si tratta di una risposta che apre una serie di problemi e di interrogativi. Ma di qui non si scappa: la storia è sempre imprevedibile (neanche Hitler era stato mai previsto), ma anche per gli errori degli Usa, della Germania e dell’Unione europea in Russia è nato un mostro assai pericoloso.

La sua pericolosità è dimostrata da un altro elemento: per primo Putin ha capito che l’uso politico di internet può produrre conseguenze sconvolgenti sulle democrazie aperte e libere dell’Occidente. Così nel corso di questi anni l’apparato russo sul web ha influenzato il referendum in Catalogna e quello su Brexit e ha svolto un ruolo rilevante anche nelle elezioni americane del 2016 dando a Trump un fortissimo sostegno. Allora bisogna capire che dopo la pandemia il mondo si deve misurare con un altro gravissimo problema: per la prima volta dopo il 1945 c’è oggi il rischio di una terza guerra mondiale. Solo nel 1962 si corse un rischio simile, ma francamente Kruscev e il Pcus erano molto meno avventuristi di Putin. I riferimenti fatti da Putin in queste ore alle armi atomiche costituiscono un segnale sinistro.

Tutto ciò è piombato con un effetto deflagrante sulla politica italiana.

È in atto una prova della verità per tutti al di fuori di ogni schema precostituito e anche al di là di ciò che è avvenuto per l’elezione della presidenza della Repubblica e delle sue più immediate conseguenze. Passata una prima fase di incertezza, Draghi ha capito fino in fondo la gravità della situazione e sta facendo i conti con essa forte anche del suo retroterra tecnico. Bisogna dare atto a Enrico Letta, finora deludente su una serie di questioni, in primo luogo la giustizia, di avere avuto un autentico scatto e di aver dato una risposta incisiva e all’altezza della gravità della situazione. Sul polo opposto non possiamo fare a meno di rilevare che il discorso di Giorgia Meloni negli Usa, perdipiù con un Trump assai ambiguo per molteplici ragioni, è stato ineccepibile e di grande livello ed è andato al di là degli aspetti consueti del confronto fra maggioranza e opposizione. Anche Renzi, Calenda, la Bonino e i centristi hanno risposto in modo positivo. Bisogna dare atto anche a Conte e a Di Maio di aver superato precedenti ambiguità e di aver dimostrato finora di capire qual è la posta in gioco.

Finora Forza Italia non ha brillato, ma fortunatamente non ha creato problemi. Del tutto deludente, invece, risulta Matteo Salvini: non ha mai pronunciato la parola Putin per esprimere un giudizio esplicito su quello che il leader sovietico sta facendo, ha assunto una posizione banalmente contrattuale sulle sanzioni dimostrando anche di non aver capito che proprio l’incisività di esse può evitare il peggio. Ha anche contrastato l’appoggio militare agli ucraini in nome di un ridicolo pacifismo. Diciamoci la spiacevole verità: visti anche i rapporti pregressi espliciti e impliciti Matteo Salvini costituisce il punto debole dell’Italia. D’altra parte, però, qualunque forza politica che venisse meno all’esigenza, sentita fortemente da tutto il mondo occidentale e dall’Ue, di fare i conti con la minaccia costituita dal mostro che è ai confini dell’Europa perderebbe totalmente la faccia, anche perché su questo terreno le discriminanti di destra, centro e sinistra purtroppo non hanno molto senso. Fabrizio Cicchitto

Domenico Quirico per “la Stampa” l'1 marzo 2022.

La guerra lampo, rapida brutale implacabile. Che cosa assomiglia di più ai dittatori, agli autocrati? Schiacciare il nemico come un maglio, non lasciagli il tempo di riflettere discutere e fare distinguo, seminare morte, la guerra che dura poco più di un respiro. Piazza pulita, tutti gli angolini ripuliti, come si è già opportunamente eseguito all'interno dei confini. Tutti gli implacabili, i prepotenti, i signori della guerra descritti come pratici, realisti, machiavellici l'hanno sognata, organizzata, ordinata ai generali. Perfino quelli più derelitti, con i soldati in ciabatte e fasce mollettiere, i fucili vecchi: una settimana e tutto deve esser finito, eseguire.

Marsch! Bisogna approfittare delle occasioni della Storia. Il modello è sempre stato il nibelungico stato maggiore tedesco, i generali che cronometravano le avanzate come fossero convogli ferroviari. Ordine numero uno: non perdere tempo, al padrone serve subito la vittoria. Masse di acciaio si precipitano nelle pianure come una valanga stormi di aerei precedono l'apocalisse annientando ogni ostacolo, le fanterie seguono con il cuore in gola solo per prendere atto, per alzare le bandiere della vittoria su edifici distrutti e per scopar via gli improbabili superstiti imbambolati, increduli che non sono riusciti a sparare nemmeno un colpo. Resta da celebrare solo il trionfo assiro babilonese.

Questo è lo schema della guerra perfetta, l'illustrazione a colori della guerra. E i cortigiani in uniforme, le trippe cariche di medaglie preventive, si ingegnano meglio che si può a far sì che la guerra somigli a quella guerra perfetta che gli è stata ordinata ruvidamente. Loro si sforzano di seguire le regole che si sono dati, attaccare sempre, spietatezza, decisione. Potrebbe darsi così che la guerra acconsenta, obbediente e collaborativa, a rassomigliare a se stessa. È la guerra che solo i dittatori possono fare, senza esitazioni collettive, noiose catene di comando, incertezze, dubbi riflessioni, mugugni.

Un annuncio in tv o dal balcone e via si colpisce e distrugge. Loro vogliono spazio, spazio sempre più grande. Ma hanno contro di sé il tempo. Sono le democrazie ovviamente imbelli e tentennanti che hanno bisogno di dividere le responsabilità e i meriti, riflettono sulla possibilità e i rischi della sconfitta. Gli autocrati tutto scatto brio spavalderia sono obbligati a vincere subito e a vincere trionfalmente.

Il successo è il loro unico carisma, costruito sulla sottomissione degli individui al culto dell'Uomo. Se la vittoria non arriva e subito, e gli staterelli resistono allora cominciano i mormorii, gli incerti prendono coraggio, le madri e gli affaristi protestano, quelli che fino al giorno prima erano pronti a morire e i fidatissimi si defilano, discutono, orribile arroganza, forse perfino congiurano. Respinto il raiss o lo zar nel nulla del mancato trionfo, plasmano a poco a poco la necessità di non condividerne la sconfitta.

Forse a Putin "palkin", il bastonatore, restano pochi giorni prima che la unzione del vittorioso inizi a seccarsi, subentri nei russi un acre sconforto: ma come! Aveva promesso di restaurare l'Urss e non riesce a battere neppure gli ucraini! Il disfattismo osa alzare gli occhi fin alle supreme stanze del Cremlino, subentra una lasciva pigrizia. 

Le pianure che portano a Kiev sembrano perfette per queste cavalcate trionfali, autostrade senza fine per le masse dei carri russi che abbracciano le città e le scavalcano, costringendole a una rapida resa. La vecchia antica guerra di massa e non quella di colpi di mano e specialisti che sembrava ormai la normalità del ventunesimo secolo. Poi la guerra ha sconvolto i piani, rovesciato le carte dei generali. Accade sempre. La guerra non è una avventura, è una malattia.

Appena un giorno sembra essere rimasta in piedi la blitzkrieg putiniana. Poi è entrato in azione il fattore che i generali sempre omettono, la eterna implacabile usura della guerra. Sul campo di battaglia e sulle truppe brevemente vittoriose piano piano è calata la nebbia. Non quella meteorologica (anche se talvolta è stata sufficiente per scombinare ingegnose strategie). Ma la nebbia dell'imperfezione e dell'imprevisto che avvolge i progetti umani. Come ingranaggi perfetti che la frizione dell'uso deforma e inceppa. Gli ucraini che i generali avevano previsto nei piani alla voce: truppe mediocri mal addestrate e armate sommariamente, incredibile! resistono.

Quel villaggio derelitto e insignificante che alla fine della prima giornata di battaglia doveva esser già alle spalle di molti chilometri è ancora lì che sputa fuoco, blocca le colonne, costringe a perdere tempo. La distruzione degli aeroporti non è stata così definitiva come annunciavano i primi bollettini dei comandanti che hanno, è umano, la tendenza ad abbellire le cose , a dar per raggiunto quello che è solo per strada. 

E poi i rifornimenti: si consumano più proiettili del previsto ma a causa dei combattimenti i convogli sono in ritardo, bisogna fermarsi e attendere. Maledetti poltroni dell'Intendenza, scansafatiche della retrovia. Lo Stato maggiore spedisce minacce e ordini che non arrivano da nessuna parte. Le strade sono imbottigliate, i telefoni guasti. Le informazioni sulle posizioni del nemico è il nemico stesso a fornirle, mitragliando e spezzonando. L'intelligence ha fatto delle ipotesi. Ma adesso sono diventate solo ipotesi.

Non possiamo mica assumerci l'incarico di spiegare noi la guerra allo stato maggiore, replicano piccati alle accuse. Spetnatz e paracadutisti, isolati, si arrendono e si perdono come si perdono bagagli nell'arruffarsi delle coincidenze ferroviarie. Le perdite aumentano e le morti dei soldati non sembrano più maestose ed eroiche ma solo strazianti, inutili. Non sono che il segno dell'impotenza, il risultato dell'impotenza. 

Forse nel giudicare la rinata potenza militare russa abbiamo dimenticato che gli eserciti come tutte le istituzioni valgono quanto valgono gli uomini. E i sistemi oligarchici secernono spesso i mediocri, scelgono gli obbedienti i furfanti astuti per legarli con una complicità che i migliori rifiutano.

Eppure Putin ha preparato la sua armata che doveva iniziare a ridisegnare gli equilibri in Europa con sette anni di prove generali in Siria: lì ha provato le nuove armi pagate con gas e petrolio che hanno sostituito i vecchi arsenali della arrugginita Unione sovietica. Gli ufficiali hanno scaldato i muscoli e le ambizioni bombardando i siriani, jihadisti e non. In fondo la Siria è stata la gigantesca Guernica di Putin di cui ha approfittato, lesto come Franco negli anni Trenta, l'alleato Bashar. Un poligono zeppo di gente e bersagli veri, città su cui collaudare tranquillamente l'efficacia delle distruzioni prodotte dalle super bombe. Cavie. Si pensava già agli ucraini.

Ucraina, l'ambasciata russa elogia Marco Travaglio: "Guerra nata dalla troppe bugie". Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.

"Un’analisi delle ragioni del conflitto. Da leggere." Così si legge nel sorprendente tweet dell'Ambasciata russa in Italia che elogia - e rilancia - l'articolo de Il Fatto quotidiano firmato da Barbara Spinelli, giornalista ed ex eurodeputata, intitolato: "Una guerra nata dalle troppe bugie". Una lettura "filo-russa" del conflitto in Ucraina scoppiato dopo l'invasione ordinata da Vladimir Putin alle forze armate di Mosca.

In quel pezzo, osserva Hoara Borselli su Il Tempo, la giornalista se la prendeva con gli Stati Uniti e con l'Europa, colpevoli entrambi di non essere riusciti a prevedere e prevenire l'aggressione della Russia in Ucraina nonostante Putin avesse "già mostrato tutti i sintomi di un'insofferenza evidentemente sottovalutata. L'Europa - scriveva la Spinelli - riconosca i suoi errori e le bugie come responsabili del massacro che sta avvenendo in Ucraina. L'articolo spiega per filo e per segno tutte le ragioni di Putin, anche se poi le definisce 'smisurate'".

E con questo elogio a Travaglio e Spinelli, la Russia, conclude la Borselli, "usando un linguaggio travagliano, fa una bella leccata al Fatto Quotidiano, indicandolo come la vera fonte dell'informazione giusta, in alternativa a quelli che Travaglio (e forse anche Putin) chiama i giornaloni. Ma questa leccata, è chiaro, è la conseguenza della leccata precedente, quella del Fatto verso Santa Madre Russia". Da notare, infine "il voltafaccia. Ma Marco non era il giornalista più filoamericano di tutt'Italia? Una volta dicevano addirittura che fosse l'allievo di Montanelli".  

Il Colonnello Macgregor: “Putin ha avvisato per 15 anni la Nato”. Roberto Vivaldelli su Inside Over l'1 marzo 2022.

L’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha sempre apprezzato e tenuto in grande considerazione le opinioni fuori dal coro del colonnello Douglas Macgregor, tanto da essere stato vicinissimo a indicarlo come consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca dopo l’addio di John Bolton, nel 2019. Veterano della guerra del Golfo, Macgregor è autore di Breaking the Phalanx, testo che proponeva di riformare l’esercito americano e che interessò, nell’autunno del 2001, l’allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Dopo aver lasciato l’esercito nel 2004, Macgregor è stato spesso invitato a commentare in tv – su Fox news, in particolare – la politica estera americana, spesso da una posizione tutt’altro che convenzionale, criticando con parole molto dure l’immigrazione illegale e il magnate liberal, George Soros.

Il 27 luglio 2020, la Casa Bianca annunciò l’intenzione di Donald Trump di nominare Macgregor ambasciatore degli Stati Uniti in Germania ma i media liberal americani lanciarono una dura offensiva contro il veterano dell’esercito americano proprio per via delle sue posizioni, che portò la sua nomina a impantanarsi nella commissione per le relazioni estere del Senato. Tramontata così l’ipotesi di trasferirsi a Berlino, l’11 novembre 2020 venne nominato consulente senior del Segretario alla Difesa ad interim, Christopher Miller. Oggi il colonnello Macgregor torna a fare notizia, ancora una volta per via della sue posizioni decisamente “controcorrente” sull’invasione russa dell’Ucraina espresse su Fox News. Lo abbiamo raggiunto per porgli qualche domanda in merito.

Macgregor: “Putin ha avvisato per anni l’occidente”

Secondo il veterano dell’esercito americano, l’invasione russa dell’Ucraina era pianificata da mesi. L’obiettivo di Vladimir Putin, spiega, “è garantire che gli Usa e i loro alleati non possano stazionare missili e forze da combattimento al confine” con la Federazione russa. Nel suo discorso del 24 febbraio, il presidente russo sottolineava che “quello che sta succedendo è una misura necessaria. Non ci è stata lasciata alcuna possibilità di fare diversamente”. Una lettura corretta, secondo il Colonnello Macgregor. “Sì. Putin ha cercato ripetutamente, per almeno 15 anni, di segnalare l’opposizione della Russia all’avanzata della Nato verso i confini della Russia”.

Il Colonnello spiega quali sono gli obiettivi del Cremlino in Ucraina: “Mosca vuole un’Ucraina neutrale, non allineata, che non sia ostile alla Russia. Il modello è l’Austria e il suo Trattato di Stato del 1955. Non è propensa ad attraversare il Dnepr e dirigersi a ovest. Ha già circondato e tagliato fuori le forze ucraine a est del fiume Dnepr. Vorrebbe una risoluzione come descritto. Se ciò fallisce, schiaccerà le forze ucraine, avanzerà oltre il Dnepr e annetterà o dichiarerà l’Ucraina orientale una Repubblica russa indipendente. Questo gli darebbe il ‘cuscinetto’ che vuole” spiega Macgregor. “Vista la conformazione dell’Ucraina occidentale, può tenere al di là del Dnepr qualsiasi forza occidentale che tenti di attraversarlo, che andrebbe incontro a una distruzione certa con mezzi convenzionali”. Ma quanto potrà resistere l’esercito ucraino all’avanzata russa? L’esperto non ha dubbi: “Al massimo 30 giorni”. E le sanzioni economiche non fermeranno Mosca: “Le sanzioni hanno costretto Mosca a lasciare la Crimea? Le sanzioni hanno indotto l’Iran a sottomettersi alle richieste degli Stati Uniti e di Israele. No. Le sanzioni non cambiano i governi”.

“Biden ha provocato la Russia”

L’ex consulente senior del Pentagono durante l’amministrazione Trump spiega quali sono stati gli errori dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden. Che tutto avrebbe cercato di fare fuorché di instaurare un dialogo diplomatico con la Federazione russa: “Biden ha iniziato il suo mandato condannando Putin e il suo governo. Ha minacciato senza sosta Putin e spinto i governi europei ad unirsi a lui”. Cosa ancor più grave, osserva Macgregor, “le forze statunitensi hanno condotto esercitazioni e operazioni militari entro 50 miglia nautiche da San Pietroburgo”. Al contrario, l’ex Presidente Donald Trump “ha ascoltato il presidente Putin, cercando di avere migliori relazioni con la Russia”. Tuttavia, osserva, “Putin ha capito che il presidente Trump era stato sovvertito dal suo stesso governo e ha concluso che avrebbe dovuto prepararsi per una nuova amministrazione americana ostile. Anche in questo caso, il risultato è l’azione in corso nell’Ucraina orientale”.

Altro tema fondamentale riguarda l’ordine mondiale che nascerà dopo la fine del conflitto. L’isolamento dall’occidente e le dure sanzioni economiche spingeranno la Russia sempre più verso la Cina, ma attenzione: non si tratta, al momento, di una vera e propria “alleanza”. “Mosca e Pechino non sono alleate” spiega il Colonnello Macgregor. “Sono partner strategici con una relazione economica reciprocamente vantaggiosa. Entrambi sono minacciati dagli Stati Uniti e, naturalmente, collaborano per motivi di sicurezza”.

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Francesco Boezi per “il Giornale” l'1 marzo 2022.

«Disgraziati! Sciagurati!». Marcello Pera, nel bel mezzo di una giornata concitata per le sorti dell'Occidente, è infuriato. L'ex presidente del Senato c'era ai tempi di Pratica di Mare, quando il clima di pacificazione è stato concreto. Lo stesso clima a cui poi, per il filosofo ed accademico italiano, non è stato dato seguito. 

Presidente Pera, la guerra è di nuovo alle porte dell'Europa.

«Mille volte abbiamo messo in guardia i leader dell'Occidente. Abbiamo chiesto loro il riconoscimento di radici, di destino, di sentire. Li abbiamo implorati di darsi un'identità spirituale e culturale. Ci hanno risposto che eravamo razzisti, bellicisti, teo-conservatori ed intolleranti. Ci hanno propinato la cultura della cancellazione della storia».

E ora c'è l'ennesimo «ritorno della storia»?

«Ci hanno scomunicato in tutti i modi. E ora che si raccolgono i frutti delle loro omelie della resa, mica fanno atto di contrizione, no, ci dicono che Putin l'abbiamo creato noi? E come noi?» 

Con chi ce l'ha?

«Non li sente gli "analisti"? "La Nato ha accerchiato la Russia, che si è spinta troppo oltre; se vai verso le mura del Cremlino, Putin ha diritto di bombardarci...". Mica ricordano che, caduto il Muro, c'era la fila ad entrare nell'Ue e nella Nato! E tutti i popoli dell'Est? Quando loro bevevano cocktail nei salotti, quelli subivano la zampata dell'orso comunista. Li chiamano sovranisti: sempre lì a dar le carte e a barare». 

C'è la necessità che l'Ue parli con una voce sola?

«Ora che i nostri bravi politici ed intellettuali sono stati toccati nel portafoglio e nei consumi, hanno iniziato a fare la voce grossa. Dicono anche che l'Ue deve avere una propria forza. Ma guarda un po'! Dopo aver predicato e praticato l'arrendevolezza, ora fanno il ruttino. Lo vadano a dire alla signora Merkel, che si è sempre più attaccata alla cannuccia del gas russo». 

Ce l'ha con la Merkel?

«Ha fatto più danni lei all'Europa che Obama agli Stati Uniti. Non mi faccio illusioni sulla ripresa dell'Occidente. Le stesse manifestazioni nelle città europee sono "per la pace", non contro l'aggressione russa».

E Putin?

 «La Russia aveva le sue mire e Putin le ha perseguite. Non ha mai ammesso la morte del comunismo, non ha mai cercato la strada di un po' di democrazia. E qui è il caso di fare una considerazione seria anche sul popolo russo. La Germania è passata attraverso il nazismo e lo vive, con dolore, come una responsabilità collettiva. Gli italiani lo stesso. I russi hanno difficoltà a misurarsi con lo stalinismo. Perché? Hanno la nostalgia, il mito del dittatore, si chiami zar o presidente? Non so darmi una spiegazione». 

E il quadro interno russo?

«Invocare la censura della dittatura putiniana non basta. Mi è chiaro però che se tra i russi non nasce un'opinione pubblica forte, se non emerge una borghesia con la consapevolezza del proprio ruolo, se non si fanno avanti movimenti alternativi, allora saranno destinati a passare da un boiardo all'altro».

Abbiamo un problema energetico. Come ci siamo arrivati?

«Perché scavare, trivellare e perforare era peccato. Lo pensava la minoranza antimoderna dei verdi. Il dramma è che le classi dirigenti li hanno assecondati. Un tubo in mare? Per carità, muoiono i pesciolini. Una centrale nucleare? Dio ci liberi, ci potremmo contaminare tutti! Una galleria? Siete pazzi? Rovina l'ambiente. Si diventa dipendenti degli altri e si aumenta il debito? È vero, ma questa è logica, che c'entra con la politica!».

Concorda con le sanzioni?

«Concordo sulla necessità di prendere sanzioni. Dure, punitive, mirate, efficaci. E poi concordo che occorra mostrare qualche muscoletto militare. Se servisse ad un cambiamento di regime in Russia, avremmo fatto cadere il muro un'altra volta». 

Negoziati tra Ucraina e Russia, la soluzione che metterebbe tutti d’accordo. Denys Shevchenko su recnews.it l’1 Marzo 2022.

La Crimea ceduta alla Russia, ma smilitarizzata. L’Ucraina che diventa la Svizzera dell’Est e dimentica ogni intromissione esterna. La via d’uscita c’è, finché siamo ancora in tempo.

Portare la Pace in Ucraina e non la guerra, finché il mondo è ancora intero. Spero che questo messaggio arrivi a voi governanti, Amici e Fratelli. La guerra non la fanno i politici ma le famiglie, i padri, i figli. Nessun Paese la vuole. La guerra si fa per le risorse, per creare una crisi economica o per affermare la supremazia di un organismo o di uno Stato sull’altro. Quando passa, rimane solo dolore e odio. Macerie e disperazione. Tutto quello che è stato fatto con sudore e intelligenza viene distrutto. L’Ucraina è in condizione di difficoltà: Putin rivendica parti di territorio e vuole evitare l’intromissione della NATO. Il rischio concreto è però che a farne le spese siano come sempre i civili. Questo fa in modo che sia difficile, oggi, per gli ucraini pensare ai russi come un popolo fratello e amico.

Ma gli ucraini sono un popolo forte e intelligente, da sempre, che sa considerare nel giusto modo le pressioni che provengono dalla Russia e dalla stessa Ue. Un popolo fiero, che rivendica il proprio diritto a essere libero da ogni pressione esterna e a ottenere la propria completa neutralità. L’Ucraina non deve essere più una corda da tirare in attesa che si spezzi, ma deve diventare la Svizzera dell’Est. Se la Russia lavora all’autonomia ucraina, avanzi proposte e rimedi ai propri recenti errori, senza cedere alle provocazioni di un’Unione europea che mette ora l’ingresso dell’Ucraina sul tavolo per allontanare i negoziati e le trattative.

Gli interventisti lodano l’invio di armi a Kiev e trattano le notizie come se raccontassero la trama di un film, con le immagini degli sfollati e le dichiarazioni sui bombardamenti a tappeto, senza rassicurazioni, senza dare spazio a resoconti seri sui negoziati. Qualcuno ha idea di quale isteria sta provocando questa narrazione in Ucraina e quali preoccupazioni sta creando nella comunità ucraina presente in tutto il mondo? Cosa succederà se si parla continuamente e impropriamente di bombe e di bombe atomiche? Chi si sente costantemente minacciato, farà partire davvero la bomba. Non bisogna fare l’errore di mettere qualcuno all’angolo, come se non ci fosse via d’uscita, perché le cose non stanno così. Ci sono dei negoziati avviati e c’è, per ora, la possibilità di conservare la propria integrità e di fermare una guerra che diventerebbe europea e mondiale.

Non ci sono vincitori e vinti in momenti come questi, ma solo la volontà di preservare la Pace nel mondo, anche se questo significa rinunciare a qualche territorio conteso. Se la Russia vuole la Crimea se la prenda, assumendo però l’impegno scritto che nessuna arma deve essere presente sul suo territorio. E’ una soluzione bilanciata che ha vantaggi reciproci. E’ una buona soluzione di compresso. L’Ucraina staccherebbe i legami con la Crimea, e la Russia dal canto suo consentirebbe il transito delle persone, considerandolo un territorio di frontiera.

Chi è morto per l’Ucraina, lo ha fatto sognando un terra libera, che usa le sue risorse per la sua ricchezza e la sua crescita, che è in grado di restituire prosperità al suo popolo. Vi racconto l’Ucraina di oggi: mentre centinaia di migliaia di persone scappano verso l’Europa, chi è in Ucraina vive momenti di preoccupazione estrema. Manca il latte per i bambini e le madri sono gettate nella disperazione. Gli aiuti si fermano al confine, pronti, in alcuni casi, a essere oggetto di speculazioni. Le città sono isolate. Sono le basi giuste per esasperare un popolo, che non farà l’errore di voler trovare un nemico a tutti i costi, ma saprà individuare le responsabilità della politica. L’Ucraina non sarà il cimitero della Russia e dell’Europa, e nemmeno il loro deposito di armi. Pensiamo al futuro, alla vita e alla pace per tutti, conviene a tutti.

Denys Shevchenko. Ha svolto gli studi presso il College professionale dell’Università Nazionale di Dnipropetrovsk, specializzandosi in Managment e Marketing (sviluppo economico-territoriale, ricerca di mercato, sviluppo nuovi prodotti, politica dei prezzi e distribuzione, pubblicità, pubbliche relazioni, sviluppo nuovi mercati e segmenti di mercato). Già manager Import/Export e appassionato di Economia. Per Rec News è Autore e si occupa del reperimento di fonti internazionali.

Ucraina, alle origini del conflitto una pericolosa tecnologia di estrazione del gas. Denys Shevchenko su recnews.it il 27 Febbraio 2022.

Obama e la corsa americana agli idrocarburi che rischiò di lasciare fuori gli ucraini del Donbass dalle loro case. I Biden e l’altra faccia della Crimea. La lettura degli eventi del nostro Denys Shevchenko, Contributor di Rec News e Manager ucraino

Si deve scongiurare a tutti i costi la terza guerra mondiale. Non lascerebbe immune l’Europa e sarebbe l’ultima, ma è invocata da un presidente a rischio demenza che ha già avuto due aneurismi cerebrali. L’Ucraina è il teatro privilegiato delle manovre belliche degli USA e delle ansie di annessione della NATO per ovvi motivi. E’ sempre stata sull’orlo di una guerra che poi è avvenuta davvero e si è sempre misurata con crisi economiche strutturate e spaventose, che oggi sono aumentate e che rischiano di sfociare in carestia. Eppure il suo popolo fiero e orgoglioso – di cui faccio parte – è sempre uscito dalle situazioni critiche a testa alta. Il peggio è arrivato con le cosiddette rivoluzioni gialloblu. Yushenko, Yanukovich e poi gli scandali che tutti ricordano e che hanno portato alla vittoria del primo, con la felicità di George Soros e di chi ha usufruito dei suoi investimenti politici.

E Obama, l’ex presidente americano? Pochi lo sanno, ma c’entrano anche le sue pretese di espansione economica in territorio ucraino attraverso una tecnologia per l’estrazione di idrocarburi (gas e petrolio) potenzialmente molto pericolosa. E’ il cosiddetto Fracking o hydrofracking, che negli USA ha già provocato contaminazioni delle falde acquifere e concentrazioni di vapori di benzene e di toulene nell’aria. Qualcuno ricorderà le immagini delle fiamme che escono dai rubinetti delle case in Pennsylvania. L’Ucraina – già scossa dal disastro di Chernobyl del 1986 – era stata scelta come territorio sperimentale di questo progetto, rifiutato categoricamente dalla gente del posto. E’ lì, in realtà, che tutto è iniziato, anche prima del conflitto del 2014. Yushenko sapeva che non sarebbe stato facile cacciare i cittadini dalle loro case. Il tentativo è fallito e quando si è insediato Yanukovich – proveniente da Donetsk, nel Donbass, è iniziata una nuova fase, ma altrettanto problematica dal punto di vista economico.

Eppure Yanukovich mentre gli ucraini si sentivano abbandonati e scontavano le solite ristrettezze, si trincerava dentro al palazzo dagli intarsi d’oro che si era fatto costruire. Crescevano, intanto, la rabbia e il desiderio di verità e giustizia, e su questi sentimenti si è instaurata la politica del miliardario Poroshenko. Il Donbass a quel punto viene attraversato da caos e guerriglie. Ci sono le risorse e finché in America c’è Obama transitano affari miliardari per i clintoniani – anche per la famiglia di Biden – che poi saranno interrotti con l’insediamento di Trump.

Quando finisce la presidenza di Poroshenko, Hunter Biden e lo stesso ex presidente vengono indagati per riciclaggio di milioni di dollari che uscivano fuori attraverso la Crimea, che dunque non è territorio conteso solo per le risorse, ma è territorio di affari poco chiari. E qui giungiamo al governo di Zelensky, mentre in America si insedia Biden, il presidente che con l’Ucraina ha sempre avuto accordi opachi e privilegiati, che però per il momento è rimasto immune da indagini che possano dirsi tali. Che fa sleepy Joe? Al contrario di Trump investe nel rafforzamento della NATO. Il governo di Zelenskij è travolto – nel frattempo – da uno scandalo miliardario che ha riguardato la banca tedesca Dresdner, ma inizia comunque a premere per l’annessione al Trattato del Nord Atlantico su cui Putin ha sempre messo un veto.

 Oltre alla politica e ai balletti opachi e miliardari che essa ha fatto con aziende e multinazionali, c’entrano anche le risorse. L’Ucraina del Donbass è ricca di carbonio (su cui adesso guarda caso si concentrano le attenzioni del governo Draghi) e di molto altro, e ha un’agricoltura che da sola potrebbe sfamare interi Stati. L’Ucraina è uno Stato che sarebbe solido se non fosse attraversato dalle intromissioni esterne che provengono da un lato e dall’altro. Se decide di essere oggetto di negoziati che coinvolgano Russia e America, può impostare una nuova fase lontana da una guerra in divenire che non vuole nessun ucraino. I Paesi che invocano il nucleare e che aiutano la corsa agli armamenti, dovrebbero capirlo, perché un reale conflitto armato non si fermerebbe certo alle porte di Kiev. Domandare a Cina e a Corea del Nord, che già si scaldano, sollecitate dalla Russia.

L’unico intervento possibile è pacifico, consistente in sanzioni selettive che non devono travolgere il sistema produttivo russo e soprattutto quello relativo alle forniture agli altri Paesi. L’Ucraina, intanto, deve diventare territorio neutrale e indipendente, una sorta di Svizzera dell’Est, un corridoio tra l’Europa e la Russia che non deve più essere coinvolta nelle provocazioni create da altri.

Denys Shevchenko. Ha svolto gli studi presso il College professionale dell’Università Nazionale di Dnipropetrovsk, specializzandosi in Managment e Marketing (sviluppo economico-territoriale, ricerca di mercato, sviluppo nuovi prodotti, politica dei prezzi e distribuzione, pubblicità, pubbliche relazioni, sviluppo nuovi mercati e segmenti di mercato). Già manager Import/Export e appassionato di Economia. Per Rec News è Autore e si occupa del reperimento di fonti internazionali.

Dagotraduzione da Politico l'1 marzo 2022. 

Per molte persone, guardando l'invasione russa dell'Ucraina pensavano "Non può farlo". Il russo Vladimir Putin ha lanciato la più grande guerra di terra in Europa dalla seconda guerra mondiale. È, letteralmente, sbalorditivo. 

Ecco perché ho contattato Fiona Hill, una delle esperte di Russia più chiare d'America, una persona che ha studiato Putin per decenni, ha lavorato sia nell'amministrazione repubblicana che in quella democratica e ha una reputazione per raccontare la verità, guadagnata quando ha testimoniato durante le udienze di impeachment per il suo ex capo, il presidente Donald Trump. 

Volevo sapere cosa stava pensando mentre guardava lo straordinario filmato dei carri armati russi che attraversavano i confini internazionali, cosa pensa che Putin abbia in mente e quali intuizioni può offrire sulle sue motivazioni e obiettivi. 

Hill ha trascorso molti anni a studiare la storia e, nella nostra conversazione, ha ripetutamente tracciato per quanto tempo gli archi e le tendenze della storia europea stanno convergendo sull'Ucraina in questo momento. Siamo già, ha detto, nel bel mezzo di una terza guerra mondiale, che l'abbiamo pienamente compreso o meno.

«Purtroppo, stiamo tornando indietro attraverso vecchi schemi storici che abbiamo detto che non avremmo mai permesso che accadessero di nuovo», mi ha detto Hill. 

Quei vecchi schemi storici includono le imprese occidentali cieche mentre aiutavano a costruire il forziere di un tiranno, gli ammiratori innamorati della "forza" di un autocrate e la tendenza dei politici a puntare il dito verso l'interno per ottenere guadagni politici invece di lavorare insieme per la sicurezza della loro nazione. 

Ma allo stesso tempo, Hill dice che non è troppo tardi per respingere Putin, ed è un lavoro non solo per gli ucraini o per la NATO, è un lavoro che i comuni occidentali e le aziende possono fare in modi importanti una volta che hanno capito cosa c'è in gioco.

«L'Ucraina è diventata la prima linea in una lotta, non solo tra democrazie e autocrazie, ma in una lotta per mantenere un sistema basato su regole in cui le cose che i paesi vogliono non siano prese con la forza», ha detto Hill. «Ogni paese del mondo dovrebbe prestare molta attenzione a questo». 

Ci sono molti pericoli davanti a noi, ha avvertito. Putin sta operando sempre più emotivamente e probabilmente utilizzerà tutte le armi a sua disposizione, comprese quelle nucleari. È importante non avere illusioni, ma altrettanto importante non perdere la speranza.

«Ogni volta che pensi, 'No, non lo farebbe, vero?' Ebbene, sì, lo farebbe», ha detto Hill. «E vuole che lo sappiamo, ovviamente. Non è che dobbiamo essere intimiditi e spaventati…. Dobbiamo prepararci a queste contingenze e capire cosa fare per evitarle». 

La seguente trascrizione è stata modificata per maggiore lunghezza e chiarezza. 

Maura Reynolds: Sei stata un osservatore di Putin per molto tempo e hai scritto una delle migliori biografie di Putin. Quando l'hai guardato nell'ultima settimana, cosa hai visto che potrebbero mancare ad altre persone?

Fiona Hill: Putin è solitamente più cinico e calcolatore di quanto sembri dai suoi discorsi più recenti. C'è un'evidente emozione viscerale nelle cose che ha detto nelle ultime settimane per giustificare la guerra in Ucraina. Il pretesto è completamente fragile e quasi privo di senso per chiunque non sia nella camera dell'eco o nella bolla della propaganda in Russia. Voglio dire, chiedere all'esercito ucraino che essenzialmente rovesci il proprio governo o deponga le armi e si arrenda perché è comandato da un gruppo di nazifascisti drogati? Non ha senso. Mendica l'immaginazione.

Non sembra nemmeno che Putin stia cercando di costruire una storia convincente. Abbiamo visto la stessa cosa nella risposta russa alle Nazioni Unite. La giustificazione è stata essenzialmente il benaltrismo: «Ragazzi avete invaso l'Iraq, l'Afghanistan. Non ditemi che non posso fare la stessa cosa in Ucraina». 

Questa emozione viscerale è malsana e straordinariamente pericolosa perché ci sono pochi controlli ed equilibri attorno a Putin. Lo ha messo in luce durante l'esibizione della riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, dove è diventato molto chiaro che questa era la sua decisione. In un certo senso si stava assumendo la piena responsabilità della guerra, e persino i capi dei suoi servizi di sicurezza e di intelligence sembravano essere stati presi alla sprovvista dalla velocità con cui le cose si stavano muovendo. 

Reynolds: Quindi Putin è guidato dalle emozioni in questo momento, non da una sorta di piano logico? 

Hill: Penso che ci sia stato un piano logico e metodico che risale a molto tempo fa, almeno al 2007, quando ha messo in guardia il mondo, e certamente l'Europa, sul fatto che Mosca non avrebbe accettato l'ulteriore espansione della NATO. E poi, nel giro di un anno, nel 2008, la NATO ha aperto una porta alla Georgia e all'Ucraina. Risale assolutamente a quel frangente.

All'epoca ero un ufficiale dell'intelligence nazionale e il National Intelligence Council stava analizzando ciò che la Russia avrebbe probabilmente fatto in risposta alla dichiarazione della NATO Open Door. Una delle nostre valutazioni era che c'era un rischio reale di una sorta di azione militare preventiva russa, non solo limitata all'annessione della Crimea, ma qualche azione molto più ampia intrapresa contro l'Ucraina insieme alla Georgia. E, naturalmente, quattro mesi dopo il Vertice di Bucarest della NATO, c'è stata l'invasione della Georgia. Non c'è stata un'invasione dell'Ucraina allora perché il governo ucraino si è tirato indietro dal cercare l'adesione alla NATO. Ma avremmo dovuto pensare seriamente al modo in cui avremmo affrontato questo potenziale risultato e le nostre relazioni con la Russia.

Reynolds: Pensi che l'obiettivo attuale di Putin sia ricostituire l'Unione Sovietica, l'Impero russo o qualcosa di diverso? 

Hill: Sta ristabilendo il dominio russo su quello che la Russia vede come l'"Imperium" russo. Lo dico in modo molto specifico perché le terre dell'Unione Sovietica non coprivano tutti i territori che un tempo facevano parte dell'Impero russo. Quindi questo dovrebbe farci riflettere. 

Putin ha articolato l'idea che ci sia un "Russky Mir" o un "mondo russo". Il recente saggio che ha pubblicato sull'Ucraina e la Russia afferma che il popolo ucraino e russo sono "un popolo", uno "yedinyi narod". Sta dicendo che ucraini e russi sono la stessa cosa. Questa idea di un mondo russo significa riunire tutti i russofoni in luoghi diversi che a un certo punto appartenevano allo zarismo russo.

Ho un po' scherzato su questo, ma mi preoccupo anche seriamente della questione: che Putin è stato negli archivi del Cremlino durante il Covid a cercare vecchie mappe e trattati e tutti i diversi confini che la Russia ha avuto nel corso dei secoli. Ha detto, ripetutamente, che i confini russi ed europei sono cambiati molte volte. E nei suoi discorsi, ha seguito vari ex leader russi e sovietici, ha seguito Lenin e ha seguito i comunisti, perché secondo lui hanno rotto l'impero russo, hanno perso terre russe durante la rivoluzione, e sì, Stalin ha portato alcuni di loro a tornare all'ovile come gli Stati baltici e alcune delle terre dell'Ucraina che erano state divise durante la seconda guerra mondiale, ma furono nuovamente perse con la dissoluzione dell'URSS. Il punto di vista di Putin è che i confini cambiano.

Reynolds: Dominio in che modo? 

Hill: Non significa che li annetterà tutti e li renderà parte della Federazione Russa come hanno fatto con la Crimea. Puoi stabilire il dominio emarginando i paesi regionali, assicurandoti che i loro leader dipendano completamente da Mosca, sia nominandoli praticamente attraverso elezioni truccate o assicurando che siano legati alle reti economiche, politiche e di sicurezza russe. Puoi vederlo ora attraverso l'ex spazio sovietico. 

Abbiamo visto pressioni sul Kazakistan affinché si riorienti verso la Russia, invece di bilanciare tra Russia e Cina e l'Occidente. E solo un paio di giorni prima dell'invasione dell'Ucraina in un documento notato da pochi, l'Azerbaigian ha firmato un accordo militare bilaterale con la Russia. Questo è significativo perché il leader dell'Azerbaigian ha resistito per decenni. E possiamo anche vedere che la Russia si è fatta l'arbitro finale delle future relazioni tra Armenia e Azerbaigian. Anche la Georgia è stata emarginata dopo essere stata per decenni una spina nel fianco della Russia. E la Bielorussia è ora completamente soggiogata da Mosca.

Ma in mezzo a tutto questo, l'Ucraina è stato il paese che è scappato. E quello che Putin sta dicendo ora è che l'Ucraina non appartiene agli ucraini. Appartiene a lui e al passato. Cancellerà l'Ucraina dalla mappa, letteralmente, perché non appartiene alla sua mappa del "mondo russo". In pratica ce lo ha detto. Potrebbe lasciare dietro di sé degli staterelli. Quando guardiamo le vecchie mappe dell'Europa, probabilmente le mappe che stava guardando, troviamo tutti i tipi di strane entità, come il Sanjak di Novi Pazarnei Balcani. Pensavo, che diavolo è quello? Questi sono tutti piccoli luoghi che dipendono da un potere più grande e sono stati creati per impedire la formazione di stati più grandi e vitali nelle regioni contese. Fondamentalmente, se Vladimir Putin fa a modo suo, l'Ucraina non esisterà come l'Ucraina moderna degli ultimi 30 anni. 

Reynolds: Quanto pensi che andrà in Ucraina Putin? 

Hill: A questo punto, se può, andrà fino in fondo. Prima di quest'ultima settimana, aveva diverse opzioni tra cui scegliere. Si era dato la possibilità di entrare a pieno regime come sta facendo ora, ma avrebbe anche potuto concentrarsi sulla riconquista del resto dei territori amministrativi di Donetsk e Luhansk. Avrebbe potuto impadronirsi del Mar d'Azov, cosa che probabilmente farà comunque, e poi unire le regioni di Donetsk e Luhansk con la Crimea e le terre intermedie e fino a Odessa. In effetti, Putin inizialmente ci ha provato nel 2014, per creare la " Novorossiya " o "Nuova Russia", ma ha fallito quando il sostegno locale per l'adesione alla Russia non si è concretizzato.

Ora, se può, prenderà l'intero paese. Dobbiamo affrontare questo fatto. Anche se non abbiamo ancora visto l'intera forza d'invasione russa schierata, ha sicuramente le truppe per trasferirsi nell'intero paese. 

Reynolds: Dici che ha un numero adeguato di truppe con cui trasferirsi, ma ne ha abbastanza per occupare l'intero paese? 

Hill: Se c'è una seria resistenza, potrebbe non avere forza sufficiente per prendere il paese per un periodo prolungato. Può anche darsi che non voglia occupare l'intero paese, che voglia sgretolarlo, forse annetterne alcune parti, magari lasciarne parte come groppa o un'Ucraina più grande da qualche parte, magari intorno a Leopoli. Non sto dicendo di sapere esattamente cosa sta succedendo nella sua testa. E potrebbe anche suggerire che altre parti dell'Ucraina vengano assorbite dai paesi adiacenti. 

Nel 2015, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha partecipato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco dopo l'annessione della Crimea e la guerra nel Donbas. E ha parlato del fatto che l'Ucraina non è un paese, dicendo chiaramente che ci sono molti gruppi minoritari in Ucraina: ci sono polacchi e ci sono rumeni, ci sono ungheresi e russi. E sostanzialmente continua quasi a invitare il resto d'Europa a dividere l'Ucraina.

Quindi quello che Putin vuole non è necessariamente occupare l'intero Paese, ma davvero dividerlo. Ha esaminato l'Afghanistan, l'Iraq, la Libia e altri luoghi in cui c'è una divisione del paese tra le forze ufficialmente sanzionate da un lato e le forze ribelli dall'altro. Questo è qualcosa con cui Putin potrebbe sicuramente convivere: un'Ucraina fratturata e in frantumi con parti diverse che si trovano in stati diversi. 

Reynolds: Quindi passo dopo passo, in modi che non abbiamo sempre apprezzato in Occidente, Putin ha riportato sotto il suo ombrello molti di questi paesi che erano indipendenti dopo il crollo sovietico. L'unico paese che finora è sfuggito alla presa di Putin è stata l'Ucraina.

Hill: Ucraina, esatto. Perché è più grande e per la sua posizione strategica. Questo è ciò che la Russia vuole garantire, o Putin vuole garantire, che l'Ucraina, come gli altri paesi, non abbia altra opzione che la sottomissione alla Russia. 

Reynolds: Quanto di ciò che stiamo vedendo ora è legato al programma elettorale di Putin? Ha sequestrato la Crimea nel 2014 e ciò ha contribuito ad aumentare i suoi ascolti e garantire la sua futura rielezione. Ha un'altra elezione in arrivo nel 2024. C'è qualcosa di simile? 

Hill: Penso di sì. Nel 2020, Putin ha fatto modificare la Costituzione russa in modo da poter rimanere fino al 2036, un'altra serie di due mandati di sei anni. Allora avrà 84 anni. Ma nel 2024 dovrà ri-legittimarsi candidandosi alle elezioni. L'unico vero contendente potrebbe essere Alexei Navalny, e l'hanno messo in una colonia penale. Putin ha messo via tutta la potenziale opposizione e resistenza, quindi si potrebbe pensare che nel 2024 per lui sarà una passeggiata. Ma per il modo in cui funzionano le elezioni russe, deve mettere in scena uno spettacolo convincente che dimostri che è immensamente popolare e ha l’approvazione di tutta la popolazione.

Dietro le quinte è abbastanza chiaro che c'è molta apatia nel sistema, che molte persone supportano Putin perché non c'è nessun altro. Le persone che non lo supportano affatto probabilmente non andranno a votare. L'ultima volta che il suo marchio è diventato stantio, è stato prima dell'annessione della Crimea. Questo lo ha riportato in cima alle classifiche in termini di valutazioni. 

Potrebbe non essere solo il calendario presidenziale, il calendario elettorale. Compirà 70 anni ad ottobre. E 70 sai, nello schema più ampio delle cose, non è così vecchio. Ci sono molti politici là fuori che hanno più di 70 anni.

Reynolds: Ma è vecchio per i russi. 

Hill: È vecchio per i russi. E Putin non ha un bell'aspetto, ha la faccia piuttosto gonfia. Sappiamo che si è lamentato di avere problemi alla schiena. Anche se non è niente di grave, potrebbe essere che stia assumendo alte dosi di steroidi o potrebbe esserci qualcos'altro. Sembra esserci un'urgenza per questo che può essere guidata anche da fattori personali. 

Potrebbe avere la sensazione che il tempo stia marciando: sono 22 anni, dopo tutto, e la probabilità, dopo quel lasso di tempo, che un leader russo se ne vada volontariamente o attraverso le elezioni è piuttosto scarsa. La maggior parte dei leader se ne va come il presidente bielorusso Alexander Lukashenko pensava che potesse andarsene, a seguito di massicce proteste, o muore in carica. 

L'unica altra persona che è stata leader russo nei tempi moderni più a lungo di Putin è Stalin, e Stalin è morto in carica.

Reynolds: Putin è salito al potere dopo una serie di operazioni che molti hanno visto come una sorta di falsa bandiera: bombardamenti di edifici intorno alla Russia che hanno ucciso cittadini russi, centinaia di loro, seguiti da una guerra in Cecenia. Ciò ha portato Putin a salire al potere come presidente in tempo di guerra. Anche l'annessione della Crimea nel 2014 è arrivata in un momento difficile per Putin. Ora stiamo assistendo a un'altra grande operazione militare meno di due anni prima che debba candidarsi di nuovo alle elezioni. Sbaglio a vedere quel modello? 

Hill: No, non credo che sbagli. C'è sicuramente uno schema. Parte della personalità di Putin come presidente lo mostra come un duro spietato, l'uomo forte che è il campione e il protettore della Russia. Ed è per questo che la Russia ha bisogno di lui. Se tutto fosse pacifico e tranquillo, perché avresti bisogno di Vladimir Putin? Se pensi ad altri leader in tempo di guerra – mi viene in mente Winston Churchill – in tempo di pace, Winston Churchill è stato votato fuori carica.

Reynolds: Parlando della Cecenia, ho pensato che questa è la più grande operazione militare di terra che la Russia ha combattuto dai tempi della Cecenia. Cosa abbiamo imparato sull'esercito russo allora che è rilevante ora? 

Hill: È molto importante che tu sollevi questo punto perché la gente dice che l'Ucraina è la più grande operazione militare in Europa dalla seconda guerra mondiale. La prima più grande azione militare in Europa dalla seconda guerra mondiale è stata in realtà in Cecenia, perché la Cecenia fa parte della Russia. È stato un conflitto devastante che si è trascinato per anni, con due round di guerra dopo una breve tregua e decine di migliaia di vittime militari e civili. Il capoluogo di regione Grozny è stato raso al suolo. Le vittime erano prevalentemente di etnia russa e di lingua russa. I ceceni hanno reagito e questa è diventata una debacle militare sul suolo russo. Gli analisti lo hanno definito «il punto più basso dell'esercito russo». Dopo l'intervento della NATO nelle guerre balcaniche nello stesso arco di tempo negli anni '90, Mosca temeva persino che la NATO potesse intervenire. 

Reynolds: Cosa abbiamo imparato sulla NATO negli ultimi due mesi?

Hill: Per molti aspetti, inizialmente non cose buone. Anche se ora assistiamo a un significativo raduno delle forze politiche e diplomatiche, consultazioni serie e uno stimolo all'azione in risposta al rafforzamento delle difese militari della NATO. 

Ma dobbiamo anche pensarci. Abbiamo avuto un fallimento politico a lungo termine che risale alla fine della Guerra Fredda in termini di pensiero su come gestire le relazioni della NATO con la Russia per ridurre al minimo i rischi. La NATO è come un enorme assicuratore, un protettore della sicurezza nazionale per l'Europa e gli Stati Uniti. Dopo la fine della Guerra Fredda, pensavamo ancora di avere la migliore assicurazione per i rischi che potevamo affrontare - inondazioni, incendi, ecc. - ma a un premio scontato. Non abbiamo adottato misure adeguate per affrontare e ridurre i vari rischi. Ora possiamo vedere che non abbiamo svolto la nostra due diligence e considerato appieno tutte le possibili contingenze, incluso il modo in cui mitigheremmo la risposta negativa della Russia alle successive espansioni. Pensa a Swiss Re o AIG o Lloyds of London: quando il rischio era enorme, come durante l'uragano Katrina o la crisi finanziaria globale nel 2008, quelle compagnie assicurative hanno avuto grossi guai. Loro e i loro clienti si sono trovati sott'acqua. E questo è più o meno ciò che i membri della NATO stanno imparando ora.

Reynolds: E poi c'è l'elemento nucleare. Molte persone hanno pensato che non avremmo mai assistito a una grande guerra di terra in Europa o a un confronto diretto tra NATO e Russia, perché potrebbe degenerare rapidamente in un conflitto nucleare. Quanto ci stiamo avvicinando a questo? 

Hill: Bene, siamo proprio lì. Fondamentalmente, ciò che il presidente Putin ha detto in modo abbastanza esplicito negli ultimi giorni è che se qualcuno interferisce in Ucraina, riceverà una risposta che «non ha mai avuto nella [sua] storia». E ha messo in allerta le forze nucleari russe. Quindi sta mettendo in chiaro che il nucleare è sul tavolo. 

Putin ha cercato di mettere in guardia Trump su questo, ma non credo che Trump abbia capito cosa stesse dicendo. In uno degli ultimi incontri tra Putin e Trump quando ero lì, Putin ha affermato che: «Beh, sai, Donald, abbiamo questi missili ipersonici». E Trump stava dicendo: «Beh, li prenderemo anche noi». Putin stava dicendo: «Beh, sì, alla fine li avrai, ma prima li abbiamo noi». C'era una minaccia in questo scambio. Putin ci stava avvisando che se la spinta fosse arrivata in un ambiente conflittuale, l'opzione nucleare sarebbe stata sul tavolo.

Reynolds: Credi davvero che userà un'arma nucleare? 

Hill: Il fatto di Putin è che, se ha uno strumento, vuole usarlo. Perché averlo se non puoi farci niente? Ha già usato un'arma nucleare per alcuni aspetti. Gli agenti russi hanno avvelenato Alexander Litvinenko con polonio radioattivo e lo hanno trasformato in una bomba sporca umana e il polonio è stato sparso in tutta Londra in ogni punto che quel pover'uomo ha visitato. Di conseguenza è morto di una morte orribile. 

I russi hanno già utilizzato un agente nervino per armi, il Novichok. L'hanno usato forse poche volte, ma sicuramente due volte. A Salisbury, in Inghilterra, è stato strofinato su tutta la maniglia della porta di Sergei Skripal e di sua figlia Yulia, che in realtà non sono morti; ma l'agente nervino ha contaminato la città di Salisbury e chiunque altro sia entrato in contatto con esso si è ammalato. Novichok ha ucciso, in una cittadina britannica, Dawn Sturgess, perché gli assassini hanno conservato i gas nervino in una bottiglia di profumo che è stata poi donata in beneficenza ed è stata trovata da Sturgess e dal suo partner. C'era abbastanza agente nervino in quella bottiglia da uccidere diverse migliaia di persone. La seconda volta era nelle mutande di Alexander Navalny.

Quindi, se qualcuno pensa che Putin non userebbe qualcosa che ha di insolito e crudele, ripensaci. Ogni volta che pensi: "No, non lo farebbe, vero?" Ebbene sì, lo farebbe. E vuole che lo sappiamo, ovviamente. 

Non è che dovremmo essere intimiditi e spaventati. Questo è esattamente ciò che vuole che siamo. Dobbiamo prepararci a queste contingenze e capire cosa faremo per evitarle. 

Reynolds: Allora come lo affrontiamo? Bastano le sanzioni? 

Hill: Beh, non possiamo affrontarlo da soli come Stati Uniti. Prima di tutto, questa deve essere una risposta internazionale. 

Reynolds: Più grande della NATO?

Hill: Deve essere più grande della NATO. Ora non sto dicendo che ciò significhi una risposta militare internazionale più ampia della NATO, ma il respingimento deve essere internazionale. 

Per prima cosa dobbiamo pensare a ciò che ha fatto Vladimir Putin e alla natura di ciò che stiamo affrontando. La gente non vuole parlare di Adolf Hitler e della seconda guerra mondiale, ma io ne parlerò. Ovviamente l'elemento principale quando si parla della Seconda Guerra Mondiale, che è travolgente, è l'Olocausto e la decimazione assoluta della popolazione ebraica d'Europa, così come del popolo Rom-Sinti.

Ma concentriamoci qui sull'espansionismo territoriale della Germania, ciò che la Germania fece sotto Hitler in quel periodo: presa dei Sudeti e Anschluss o annessione dell'Austria, il tutto sulla base del fatto che erano di lingua tedesca. L'invasione della Polonia. Il trattato con l'Unione Sovietica, il patto Molotov-Ribbentrop, che permise anche all'Unione Sovietica di prendere porzioni della Polonia ma poi divenne il preludio dell'operazione Barbarossa, l'invasione tedesca dell'Unione Sovietica. Invasioni della Francia e di tutti i paesi che circondano la Germania, inclusa la Danimarca e oltre, fino alla Norvegia. La Germania alla fine si impegnò in un'esplosione di massiccia espansione territoriale e occupazione. Alla fine l'Unione Sovietica ha reagito. La stessa famiglia di Vladimir Putin ha sofferto durante l'assedio di Leningrado, eppure ecco Vladimir Putin che fa esattamente la stessa cosa. 

Reynolds: Quindi, in modo simile a Hitler, sta usando un senso di enorme risentimento storico combinato con un'apparenza di protezione dei russi e un rifiuto dei diritti delle minoranze e delle altre nazioni di avere paesi indipendenti per alimentare le ambizioni territoriali?

Hill: Esatto. E sta incolpando gli altri, per il motivo per cui è successo, e inducendoci a incolpare noi stessi. 

Se le persone guardano indietro alla storia della seconda guerra mondiale, c'erano un sacco di persone in Europa che sono diventate simpatizzanti della Germania nazista prima dell'invasione della Polonia. Nel Regno Unito, c'era tutta una serie di politici britannici che ammiravano la forza di Hitler e il suo potere, per aver fatto ciò che fanno le grandi potenze, prima che gli orrori del Blitz e dell'Olocausto finalmente penetrassero. 

Reynolds: E lo vedi adesso.

Hill: Lo vedi perfettamente. Sfortunatamente, abbiamo politici e personaggi pubblici negli Stati Uniti e in tutta Europa che hanno abbracciato l'idea che la Russia abbia subito un torto dalla NATO e che Putin sia un uomo forte e potente e abbia il diritto di fare quello che sta facendo: perché l'Ucraina in qualche modo non è degna dell'indipendenza, perché o sono le terre storiche della Russia o gli ucraini sono russi, o i leader ucraini sono – questo è ciò che dice Putin – «nazisti fascisti e confusi con la droga» o qualunque etichetta voglia applicare qui.

Quindi, purtroppo, stiamo tornando indietro attraverso vecchi schemi storici che abbiamo detto che non avremmo mai permesso che accadessero di nuovo. L'altra cosa a cui pensare in questo contesto storico più ampio è quanto la comunità imprenditoriale tedesca abbia contribuito a facilitare l'ascesa di Hitler. In questo momento, tutti coloro che hanno fatto affari in Russia o acquistato gas e petrolio russi hanno contribuito alla cassa di guerra di Putin. I nostri investimenti non stanno solo aumentando i profitti delle imprese, o i fondi sovrani russi e il suo sviluppo a lungo termine. Ora sono letteralmente il carburante per l'invasione russa dell'Ucraina.

Proprio come le persone non volevano che i loro soldi fossero investiti in Sud Africa durante l'apartheid, vuoi davvero che i tuoi soldi vengano investiti in Russia durante la brutale invasione e sottomissione della Russia e la spartizione dell'Ucraina? 

Reynolds: Immagino che pensi che le sanzioni stabilite dal governo siano inadeguate per affrontare questa minaccia molto più grande?

Hill: Assolutamente. Le sanzioni non saranno sufficienti. È necessario avere una risposta internazionale importante, in cui i governi decidano di propria iniziativa che non possono fare affari con la Russia per un periodo di tempo fino a quando la questione non sarà risolta. Abbiamo bisogno di una sospensione temporanea dell'attività commerciale con la Russia. Proprio come non avremmo un negoziato diplomatico in piena regola per nient'altro che un cessate il fuoco e un ritiro mentre l'Ucraina è ancora attivamente invasa, così è la stessa cosa con gli affari. In questo momento stai alimentando l'invasione dell'Ucraina. Quindi ciò di cui abbiamo bisogno è una sospensione dell'attività commerciale con la Russia fino a quando Mosca non cesserà le ostilità e non ritirerà le sue truppe. 

Reynolds: Quindi le aziende ordinarie...

Hill: Le aziende ordinarie dovrebbero prendere una decisione. Questo è l'epitome di "ESG" che le aziende affermano essere la loro priorità in questo momento: sostenere gli standard di buona governance ambientale, sociale e aziendale. Proprio come le persone non volevano che i loro soldi fossero investiti in Sud Africa durante l'apartheid, vuoi davvero che i tuoi soldi vengano investiti in Russia durante la brutale invasione e sottomissione della Russia e la spartizione dell'Ucraina? 

Se le società occidentali, i loro piani pensionistici o i fondi comuni di investimento, sono stati investiti in Russia, dovrebbero ritirarsi. Qualsiasi persona che siede nei consigli di amministrazione delle principali società russe dovrebbe dimettersi immediatamente. Non tutte le compagnie russe sono legate al Cremlino, ma molte delle maggiori compagnie russe lo sono assolutamente, e lo sanno tutti. Se guardiamo indietro alla Germania alla vigilia della seconda guerra mondiale, sono state le principali imprese tedesche ad essere utilizzate a sostegno della guerra. E ora stiamo vedendo esattamente la stessa cosa. La Russia non potrebbe permettersi questa guerra se non fosse per il fatto che i prezzi del petrolio e del gas stanno aumentando. Per ora ne hanno abbastanza nella cassa di guerra. Ma a lungo termine, questo non sarà sostenibile senza gli investimenti che arrivano in Russia e tutte le materie prime russe, non solo petrolio e gas, che vengono acquistati sui mercati mondiali. E i nostri alleati internazionali, come l'Arabia Saudita, dovrebbero aumentare la produzione di petrolio in questo momento come compensazione temporanea. In questo momento, stanno finanziando indirettamente la guerra in Ucraina mantenendo alti i prezzi del petrolio.

Questa deve essere una risposta internazionale per spingere la Russia a fermare la sua azione militare. L'India si è astenuta dalle Nazioni Unite e puoi vedere che altri paesi si sentono a disagio e sperano che questo possa finire. Non andrà via, e potresti essere "tu il prossimo" - perché Putin sta creando un precedente per i paesi: tornare al tipo di comportamento che ha scatenato le due grandi guerre, dove le nazioni erano un territorio libero per tutti. Putin sta dicendo: “Nel corso della storia i confini sono cambiati. Che importa?" 

Reynolds: E non pensi che si fermerà necessariamente in Ucraina?

Hill: Certo che non lo farà. L'Ucraina è diventata la prima linea in una lotta, non solo per i paesi che possono o non possono essere nella NATO, o tra democrazie e autocrazie, ma in una lotta per il mantenimento di un sistema basato su regole in cui le cose che i paesi vogliono non sono prese con la forza. Ogni paese del mondo dovrebbe prestare molta attenzione a questo. Sì, potrebbero esserci paesi come la Cina e altri che potrebbero pensare che ciò sia lecito, ma nel complesso, la maggior parte dei paesi ha beneficiato dell'attuale sistema internazionale in termini di commercio e crescita economica, di investimenti e di un mondo globalizzato interdipendente. Questa è più o meno la fine di tutto questo. Questo è ciò che ha fatto la Russia. 

Reynolds: Ha fatto saltare in aria l'ordine internazionale basato sulle regole.

Hill: Esattamente. Ciò che impedisce a molte persone di ritirarsi dalla Russia, anche temporaneamente, è che dicono: "Beh, i cinesi interverranno". Questo è quello che mi dice sempre ogni investitore. "Se esco, qualcun altro si trasferirà". Non sono sicuro che gli uomini d'affari russi vogliano svegliarsi una mattina e scoprire che gli unici investitori nell'economia russa sono i cinesi, perché allora la Russia diventerà la periferia della Cina, l'entroterra cinese, e non un'altra grande potenza che opera in tandem con Cina. 

Reynolds: Più parliamo, più usiamo le analogie della seconda guerra mondiale. Ci sono persone che dicono che siamo sull'orlo di una terza guerra mondiale. 

Hill: Ci siamo già dentro. Ci siamo stati per un po' di tempo. Continuiamo a pensare alla prima guerra mondiale, alla seconda guerra mondiale come a questi enormi, grandiosi set, ma la seconda guerra mondiale è stata una conseguenza della prima guerra mondiale. E abbiamo avuto un periodo tra le due guerre. E in un certo senso, l'abbiamo avuto di nuovo dopo la Guerra Fredda. Molte delle cose di cui stiamo parlando qui hanno le loro radici nella divisione dell'Impero austro-ungarico e dell'Impero russo alla fine della prima guerra mondiale. Alla fine della seconda guerra mondiale, abbiamo avuto un'altra riconfigurazione e alcuni delle questioni di cui ci siamo occupati di recente risalgono a quell'immediato dopoguerra. Abbiamo avuto una guerra in Siria, che è in parte la conseguenza del crollo dell'Impero Ottomano, così come l'Iraq e il Kuwait.

Tutti i conflitti che stiamo vedendo hanno radici in quei conflitti precedenti. Siamo già in una guerra calda contro l'Ucraina, iniziata nel 2014. Le persone non dovrebbero illudersi di pensare che siamo solo sull'orlo di qualcosa. Ci siamo stati bene e veramente per un periodo di tempo piuttosto lungo. 

Ma questa è anche una guerra dell'informazione a tutto spettro. Hai i Tucker Carlson e i Donald Trump che fanno il tuo lavoro per te. Il fatto che Putin sia riuscito a persuadere Trump che l'Ucraina appartiene alla Russia e che Trump sarebbe disposto a rinunciare all'Ucraina senza alcun tipo di lotta, è un grande successo per la guerra dell'informazione di Putin. Voglio dire, ha fasce del Partito Repubblicano - e non solo loro, alcuni a sinistra, così come a destra - masse del pubblico statunitense che dicono: "Buon per te, Vladimir Putin", o incolpano la NATO, o incolpano gli Stati Uniti per questo risultato. Questo è esattamente ciò a cui mira una guerra dell'informazione e un'operazione psicologica russa. Ha seminato con cura anche questo terreno. Siamo in guerra, da molto tempo. Lo dico da anni.

Reynolds: Quindi, proprio come il mondo non ha visto arrivare Hitler, noi non siamo riusciti a vedere Putin arrivare? 

Hill: È in circolazione da 22 anni ormai, ed è arrivato a questo punto dal 2008. A proposito, non credo che inizialmente fosse partito per fare tutto questo, ma l'atteggiamento nei confronti dell'Ucraina e i sentimenti che tutta l'Ucraina appartiene alla Russia, i sentimenti di perdita, sono stati tutti lì e si stanno accumulando. 

Quello che la Russia sta facendo è affermare che "il potere fa bene". Certo, sì, abbiamo anche commesso errori terribili. Ma nessuno ha mai il diritto di distruggere completamente un altro paese: Putin ha aperto una porta in Europa che pensavamo di aver chiuso dopo la seconda guerra mondiale. 

Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” l'1 marzo 2022. 

Al cospetto delle atrocità compiute dai russi in Ucraina, rimane, inespressa, una piccola domanda. Quando è accaduto che noi occidentali abbiamo indotto l'Ucraina a varcare il Rubicone provocando l'ira di Putin. E quando è stato che Zelensky ha incautamente lanciato il guanto di sfida all'autocrate di Mosca. Che giorno? Che mese? Che anno? 

La storia alle nostre spalle racconta cose diverse da quelle che si dicono e si scrivono in questi giorni. Dopo il crollo dell'impero sovietico, ci fu, nel 1994, una proposta della Nato alla Russia di un «Partenariato per la pace». Subito dopo, la Russia è stata accolta nel Consiglio d'Europa e nel G7. Nel 2002 Mosca è entrata nel Consiglio Nato-Russia. 

Quattordici anni fa (2008), nel consiglio Nato di Bucarest, gli Alleati annunciarono che l'Ucraina sarebbe potuta entrare, in un futuro imprecisato, nell'Organizzazione atlantica. Appena eletto Presidente degli Stati Uniti, Obama, nel 2009, volle verificare con l'allora segretario della Nato, l'olandese Jaap de Hoop Scheffer, lo stato della «pratica Ucraina e Georgia» (25 marzo).

E, pur senza citarle esplicitamente, disse che le cose sarebbero andate avanti stando attenti a non urtare la suscettibilità russa. Nel luglio di quello stesso anno (2009) Obama si recò a Mosca, incontrò Putin e furono rose e fiori. Poi venne il 2014 con piazza Maidan, la «rivoluzione arancione» a cui si accompagnò l'annessione russa della Crimea. Le cose si complicarono. Da quel momento la questione Ucraina-Nato è rimasta lì, sospesa.

Niente è accaduto che possa giustificare l'apertura di una crisi di queste proporzioni. Se n'è accorto Enrico Letta che, in anticipo sulla fase più drammatica dell'invasione dell'Ucraina, ha voluto fare chiarezza in modo definitivo. Annalisa Cuzzocrea («La Stampa»), gli ha posto una domanda diretta echeggiando quel che sostengono tanti (forse tutti) gli ex comunisti e molti liberal conservatori: «La Nato si è allargata troppo a est provocando questa reazione?». 

Il segretario del Pd le ha risposto in maniera franca: «È l'opposto. Quello che è successo dimostra che la Nato doveva far entrare l'Ucraina prima». E dimostra altresì, ha sostenuto Letta, «che l'Alleanza atlantica serve perché la democrazia va difesa». Poi il segretario del Pd ha aggiunto: «Abbiamo integrato l'Europa centro-orientale, Budapest, Vilnius, Varsavia, non possiamo tornare indietro». Più chiaro di così?

Va notato che, nei giorni successivi all'intervista, nessun dirigente o semplice militante del Pd si è sentito in dovere di aggiungere una chiosa alle parole del segretario. Neanche esponenti della sinistra esterna al Pd. Nessuno. Segno che o sono tutti distratti (il che non è da escludere) oppure l'intera comunità progressista italiana - eccezion fatta per l'Associazione nazionale partigiani - ritiene che l'Ucraina avrebbe dovuto essere ammessa e integrata nella Nato già una ventina d'anni fa.

E che i fatti di questi giorni dimostrano che la Nato è un presidio della democrazia in Europa. Letta, con poche e misurate espressioni, ha fatto giustizia di una leggenda riproposta negli ultimi giorni da molti «analisti». Cioè che nel 1991 alcuni leader occidentali (chi con precisione?) avrebbero preso con Gorbaciov l'impegno a non far entrare nella Nato le ex repubbliche sovietiche.

Accadde qualcosa di ben diverso. L'allora segretario dell'Alleanza atlantica, Manfred Wörner (già ministro della difesa tra il 1982 e il 1988 nella Germania di Helmut Kohl), si impegnò con Gorbaciov a che l'organizzazione da lui guidata, a fronte dello scioglimento del Patto di Varsavia, mai avrebbe attentato alla sicurezza della Russia. Nient' altro. 

Se qualcuno avesse fatto una promessa più impegnativa, non si capirebbe come sia potuto accadere che ben quindici di queste repubbliche siano poi entrate nell'Alleanza atlantica senza che Gorbaciov si sia sentito in obbligo di denunciare la violazione del presunto patto.

Neanche Putin, al potere da più di vent' anni, ha mai protestato per il fatto che quindici repubbliche ex sovietiche sono state inserite nell'Alleanza atlantica «a dispetto» di quel fantomatico impegno del '91. 

Ernesto Galli della Loggia si è giustamente domandato giorni fa su queste pagine come mai Putin non si sia lamentato «per il fatto che la Polonia - membra anch' essa della Nato e confinante anch' essa con la russa Kaliningrad - potrebbe, se volesse sbriciolare in poche ore con un lancio di semplici missili da crociera la base della flotta russa del Baltico». 

Già, come mai? Il fatto è che Enrico Letta, a differenza di alcuni suoi predecessori, non è particolarmente affascinato dall'antiamericanismo tuttora ben vivo dalle sue parti. E ha avuto l'audacia di dire qualcosa di non equivocabile. 

Qualcosa che renderà meno facile ai filorussi d'Italia - compresi quelli che adesso fanno atto di contrizione in pubblico - tornare alla carica quando tra qualche tempo sarà passata l'emozione per quel che di orribile è accaduto in questi giorni. Verrà il momento, ne siamo sicuri, in cui in molti torneranno a domandarsi pubblicamente se vale la pena fare dei sacrifici per gli ucraini i quali, a ben guardare, «se la sono cercata».

Si dirà che Zelensky e i suoi sono responsabili dei torti subiti a causa della protervia con la quale, «sotto insegne naziste» (Putin), intendevano puntare dei missili contro Mosca e San Pietroburgo. Torneranno a sottolineare, quei molti, che l'impatto delle sanzioni è asimmetrico, nel senso che danneggia l'Italia più di quanto nuoccia agli Stati Uniti. E concluderanno che è giunta l'ora di prestar ascolto alle «ragioni dei russi».

Cose già viste e sentite in passato, con altri dittatori, altre asimmetrie e altre «ragioni» dei prepotenti. Quanto a Enrico Letta, se qualcuno tra un po' lo metterà in croce per le dichiarazioni di cui si è detto, potrebbe proporsi come segretario generale della Nato (ne ha i titoli). Avrebbe il vantaggio di lasciarsi alle spalle le baruffe del «campo largo», con le quali pure ha dato prova di sapersi destreggiare in modo efficace. 

Ce ne sono altri mille che amano quel genere di cimento da «campieri», capaci, per giunta, di mordersi la lingua prima di pronunciar parole a favore della Nato. Lui, dati i tempi, non avrebbe difficoltà a far capire a una parte del mondo da cui proviene, che l'Alleanza atlantica è, forse, più importante.

Le colpe sono di tutti. Di chi è la colpa della guerra: Europa e Chiesa, tutte le responsabilità del conflitto. Mons. Vincenzo Paglia su Il Riformista il 27 Febbraio 2022. 

Non siamo stati capaci di costruire la pace. Diciamolo forte e chiaro, senza tanti giri di parole. Adesso è facile scaricare tutte le colpe sull’aggressore – e ne ha certamente tante – però cosa abbiamo fatto per fermare il vento della guerra? Risuonano le parole di Papa Francesco: «Vorrei appellarmi a quanti hanno responsabilità politiche, perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è Dio della pace e non della guerra; che è Padre di tutti, non solo di qualcuno, che ci vuole fratelli e non nemici».

Papa Francesco che ieri si è recato dall’ambasciatore russo presso la Santa Sede, sottolineando l’urgenza della pace. Un gesto concreto, immediato, fuori protocollo, che racconta tutto dell’impegno di chi ha davvero a cuore la soluzione del confitto. Il cardinale Parolin giovedì lo ha ribadito: non è tardi per tornare al tavolo del negoziato. Nella preghiera di giovedì sera a Sant’Egidio, Andrea Riccardi ha lucidamente avvertito: «Nessuna Chiesa europea può dirsi estranea alla responsabilità della pace: a che giocavamo, quando c’erano cieli minacciosi di guerra? Non si tratta di giocare alla Chiesa, ma di portare la profezia della pace, come quelli che hanno ricevuto il sigillo e vincono la guerra, pagando con la generosità e la vita».

Perché la realtà che non dobbiamo nascondere è semplice e purtroppo tristissima: siamo di fronte ad un conflitto fra popoli cristiani. Diceva il Patriarca Atenagora, uomo forgiato nel complesso clima balcanico, con grande senso della storia: «chiese sorelle, popoli fratelli». Oggi le nostre Chiese sono divise… ed anche i popoli restano divisi. Sono cristiani ma non sanno comprendersi e lasciano che le questioni economiche e territoriali siano più forti della fede, decretando così il fallimento dell’ecumenismo. Non quello a parole o l’ecumenismo dei convegni, ma proprio il venir meno della visione forte di un legame comune sulla base del Vangelo che dovrebbe portare i popoli a riconoscersi nell’alveo di una fratellanza reciproca.

Quando manca la consapevolezza della fratellanza, ogni società guarda l’altra in cagnesco, come se l’altro fosse un rivale o, peggio ancora, un nemico. È un messaggio profondamente contrario all’etica e al dettato del Vangelo, di quel cristianesimo che ha pervaso la vita e la cultura. Anche – a parole – dei nostri governanti. E serve uno scatto etico per non accettare la logica del conflitto che è sempre – lo ripeto: sempre – la logica della sopraffazione, di un «Io» atrofico che vuole a tutti i costi prevalere sulla logica inclusiva, aperta, empatica, del «Noi».

Giustamente parliamo di un «ecumenismo da salotto», inefficace di fronte alla realtà, come ha sottolineato a Sant’Egidio Andrea Riccardi, denunciando la messa sotto al tappeto dei problemi irrisolti della convivenza, della geopolitica, di un’Europa che dalla caduta del Muro nel 1989 – e sono 33 anni! – non ha poi fatto molto per realizzare una vera civiltà della tolleranza reciproca e della cura delle relazioni autentiche. E le Chiese cristiane non sono state indenni, pervase come sono dai medesimi nazionalismi e particolarismi che scuotono le società civili.

Una seconda considerazione. L’indebolimento della visione comune, la visione del «Noi», ha contagiato la società civile come un virus più letale ancora del Covid-19. Dobbiamo anche registrare, in positivo, una mobilitazione e un movimento del fronte pacifista, perché il ruolo dell’opinione pubblica è fondamentale per spingere verso una rapida soluzione del conflitto. Però dobbiamo pur chiederci: dove sono stati i movimenti pacifisti in questi anni? Non hanno saputo, potuto o voluto vedere i problemi irrisolti e non hanno voluto, saputo o potuto cogliere i segnali di conflitto? Certo, lo ripeto, oggi è importante assistere ad una mobilitazione delle persone e delle coscienze, è auspicabile che aumenti di intensità e di pressione. Tuttavia era doveroso prevenire il conflitto, sia da parte dei movimenti pacifisti, sia da parte della politica di tutto il nostro Continente. Dove eri tu? Direbbe il Dio della Bibbia; e il Vangelo ci ricorda il dovere etico e umano di non scappare via e anzi di fermarci a soccorrere la persona sofferente sul ciglio della strada. Possiamo farlo se sappiamo ritrovare le ragioni che ci uniscono, resistendo ad una politica della divisione, del contrasto, della costruzione del nemico – di volta in volta: l’altro, lo straniero, l’immigrato, il disabile, il diverso per qualunque motivo strumentale.

Agisce qui, sotto i nostri occhi, un terzo aspetto: la debolezza della visione generale del mondo. Di fronte ai problemi – la pandemia, la giustizia sociale, il dialogo tra le generazioni, la questione ambientale e climatica – rispondiamo iniziando un conflitto? Rispondiamo con la guerra? Davvero ci sono statisti, politici, intellettuali, che vedono nelle armi la soluzione dei problemi? Mi verrebbe da dire: i Romani ed il Sinedrio hanno davvero risolto il problema mettendo a morte Gesù? Non hanno invece, al contrario rispetto al loro obiettivo, dato il via alla più grande rivoluzione etica e religiosa della storia umana? La debolezza della nostra visione del mondo – politica e religiosa – va corretta immediatamente. I cristiani tornino ad unirsi. L’intuizione di San Giovanni Paolo II dell’Europa a due polmoni – Oriente ed Occidente – deve dare vita a politiche sociali, religiose, economiche e culturali davvero all’altezza delle sfide dei nostri tempi. Dove sono oggi le Chiese? Di fronte al conflitto, pensiamo che Dio ci chieda: dove sono i tuoi fratelli? Dove sei tu – uomo e donna di fede – di fronte a questa sofferenza? Dove sono i nostri politici? Il primo impegno deve andare verso la fine di ogni conflitto e l’apertura di una nuova epoca. Ce lo impone la storia, la nostra coscienza e – come se non bastasse – una rinnovata visione del mondo. Papa Francesco si è mosso, idealmente e concretamente ieri uscendo dal Vaticano. Ma c’è di più.

Papa Francesco intitola non a caso il primo capitolo della sua Enciclica Fratelli Tutti «le ombre di un mondo chiuso» e lucidamente osserva che «il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori. Oggi in molti Paesi si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare». E precisa: «Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici». Serve «un mondo aperto», una «politica migliore» ed una prassi ispirata alla «carità politica».

Scrive il Papa: «La carità politica si esprime anche nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto». Se non avessi la carità risuonerei a vuoto, ci dice San paolo. Dobbiamo ricordarcelo tutti: Chiese, credenti, politici, cittadini e cittadine. E chiedere tutti, a gran voce, la pace vera e la reale soluzione pacifica dei conflitti. Mai la guerra. Mai. E ricordo anche la Costituzione italiana che sancisce il rifiuto della guerra per la soluzione dei conflitti. Mons. Vincenzo Paglia

Il generale Marco Bertolini spiega cosa sta succedendo in Ucraina. Matteo Carnieletto su Inside Over il 26 febbraio 2022.

Generale Marco Bertolini, fino a qualche settimana fa, sembrava impossibile che la Russia potesse invadere l’Ucraina. Sembrava che la diplomazia stesse lavorando sodo e pareva ci fossero, seppur flebili, spiragli di accordo tra le parti. Cosa è successo dopo? 

Vorrei innanzitutto fare una precisazione: Occidente è un termine che preferirei non utilizzare in quanto improprio. Come può esser definita la Polonia? Occidente o oriente? L’errore di fondo è continuare a ragionare con lo schema della Guerra fredda, che prevede i concetti di Europa orientale e occidentale. Fatta questa premessa, bisogna tenere presente che, dalla caduta del Muro di Berlino, la Russia sente la frustrazione che caratterizza tutte le ex super potenze decadute, che sono costrette ad ingoiare bocconi amari. In particolare, Mosca si è vista strappare molti pezzi del suo ex impero, che sono passati, con armi e bagagli, dall’altra parte. Questa condizione di debolezza era stata accettata da Gorbachev e da Eltsin. Poi è arrivato Putin ed ha impresso una direzione diversa, ricostruendo innanzitutto l’amor proprio russo.

Cosa differenzia Putin dagli altri leader russi?

Putin era diverso da quel leader improbabile che lo aveva preceduto (Eltsin, ndr). Con lui è cambiato tutto lo scenario: la stessa armata rossa, che era ormai diventata un esercito in smobilitazione, ha cominciato a darsi una ripulita, a lustrarsi le scarpe e a rivedere i mezzi. Lo stesso discorso riguarda le altre forze armate, come per esempio la Marina. Quando Putin è andato al potere, il comunismo non faceva più parte del bagaglio politico della nuova Russia, tuttavia il desiderio di tornare ad essere una potenza globale era rimasto molto forte. Putin ha quindi lavorato affinché Mosca tornasse non solo una potenza globale ma anche europea. Cito, per esempio, le aperture nei confronti di Berlusconi, il turismo in Europa, le importazioni: faceva tutto parte di un programma di trasformazione della Russia in senso occidentale ed europeo, che però si è scontrato contro gli Usa.

Perché?

Non era il comunismo in sé e per sé il nemico degli Stati Uniti, ma questa grossa realtà continentale che sarebbe nata se la Russia si fosse unita all’Europa. Se ciò fosse avvenuto, l’America si sarebbe trovata davanti un importante competitor.

Quali sono stati gli errori dei Paesi occidentali hanno portato all’attuale situazione in Ucraina?

A mio avviso uno degli errori più importanti è stato quello di togliere spazio alla Russia e di spingerla verso est, facendo passare armi e bagagli gli ex Paesi del Patto di Varsavia nell’ambito della Nato. La Russia ha sentito questi avvenimenti come un accerchiamento che si sarebbe completato con il passaggio dell’Ucraina nel Patto atlantico e che avrebbe tolto a Mosca qualsiasi possibilità di avere agibilità nel Mar Nero e, di conseguenza, di potersi proiettare nel Mediterraneo. Questo è stato l’errore fatto da parte occidentale.

E quelli della Russia?

Ce n’è uno che è sotto gli occhi di tutti: l’invasione. Ma, va detto, questa invasione è dovuta dal fatto che Putin ha fatto delle proposte di appeasement che, però, sono state rifiutate. Credo che il presidente russo non avesse l’interesse ad arrivare al punto attuale, ovvero a un intervento militare. Resta lo sconcerto, il dolore, la condanna per l’operazione militare. Ma io credo che si debba anche avere la mente lucida e l’onestà intellettuale per riconoscere quelle che sono le esigenze degli altri. Perché è questa l’essenza della diplomazia.

Come si sono mossi i russi? Si aspettava un’invasione di questo tipo? Hanno davvero, come dicono diversi analisti, “il freno a mano tirato”?

Noi ricordiamo ancora gli interventi su Belgrado e Baghdad: erano operazioni aeree decisamente molto più intense di quelle che si vedono ora in Ucraina. Probabilmente quindi sì: il freno a mano è stato tirato, ma per un motivo strategico. Mosca non può non pensare a quello che sarà il dopoguerra con l’Ucraina, in cui sarà necessario riprendere i rapporti cordiali con il popolo ucraino. Mosca non può permettersi di distruggere e umiliare l’Ucraina perché comunque dovrà conviverci. C’è poi un altro fattore che non è da sottovalutare: l’Ucraina non solo faceva parte dei Paesi satelliti dell’Urss, ma era una Repubblica Sovietica dell’Unione. Ci sono dunque anche vincoli culturali e familiari. Bisogna infine tenere presente che quella è una grande pianura e che ci sono familiari da una parte e dall’altra del confine. Che l’Ucraina abbia diritto all’indipendenza non c’è dubbio, ma credo anche che ci siano molte affinità tra i due Paesi, come la lingua, l’alfabeto, la religione ortodossa.

Generale, le faccio la fatidica domanda da un milione di dollari: quali saranno gli scenari del futuro? Cosa accadrà? L’occidente ha comminato delle sanzioni, la Russia ha risposto bloccando i voli britannici. Come si esce da questa situazione?

L’offensiva è appena iniziata, quindi ci sono ancora molte variabili che devono stabilizzarsi. In linea di principio, però, penso che si debba mantenere tra gli Stati quel galateo che una volta era sempre rispettato anche durante le guerre e che consentiva, una volta che le ragioni del combattimento si esaurivano, di tornare alla pace. Certo, con qualche amputazione o rinuncia. Ma si tornava a vivere serenamente. Se i toni si alzano troppo, se la controparte percepisce che l’unica alternativa alla sua vittoria è quella del cappio al collo o della rovina del Paese, temo che le guerre non finiranno mai. Una volta, i conflitti finivano quando una delle due parti diceva: “Basta, ne ho prese abbastanza”. Ma ora tutto è cambiato: se io so che la possibilità di resa non c’è, e che il cappio al collo me lo mettono comunque, è chiaro che combatterò fino alla fine. Noi abbiamo l’interesse che si arrivi alla fine di tutto questo nell’interesse della popolazione ucraina. Per fare questo bisognerebbe che anche i Paesi che non sono direttamente coinvolti, pur esprimendo il loro sdegno e la loro condanna, evitassero di attizzare troppo il fuoco.

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Controcorrente, l'ex ministro Trenta non fa sconti alla Nato: “Si è spinta troppo verso la Russia, esagerazione”. Il Tempo il 26 febbraio 2022

Elisabetta Trenta critica pesantemente la Nato. L’ex ministro della Difesa del governo Conte, fuoriuscita dal Movimento e attualmente rappresentante di Nuovi Orizzonti per l’Italia, è ospite in collegamento nella puntata del 26 febbraio di Controcorrente, talk show di Rete4 condotto da Veronica Gentili, e analizza così l’escalation tra Russia e Ucraina: “Bisogna ragionare bene su quali siano le vere intenzioni di Putin. In realtà si dovrebbe dosare la nostra risposta su quelle che sono le sue intenzioni. Che cosa vuole fare Putin? Vuole riconquistare un ruolo globale? Vuole conquistare l’Ucraina? Vuole evitare che l’Ucraina entri nella Nato perché la Nato gli si avvicinerebbe troppo? Ma entrando lui in Ucraina è lui che si avvicina alla Nato spontaneamente perdendo lo stato cuscinetto. Ritengo - sottolinea la Trenta - che la Nato abbia esagerato con la pressione nei confronti della Russia, spingendosi troppo vicino a loro. La profondità strategica di ogni paese va rispettata, è quella che ci consente di mantenere le nostre relazioni, che possano rimanere pacifiche nel tempo. 

Aver escluso l'intervento militare della Nato è la scelta più giusta? La Trenta risponde al quesito della Gentili: “È la decisione più saggia e l’unica decisione che poteva essere presa per evitare il rischio della terza guerra mondiale, di cui ha parlato inopportunamente Joe Biden. La situazione è seria, ogni errore da parte della Nato potrebbe portare a conseguenze imprevedibili. Dobbiamo essere tutti insieme d’accordo sulle sanzioni, è la decisione giusta, non dobbiamo mostrare nessun tipo di cedimento. Quelle della democrazia sono state armi spuntate, noi già da subito abbiamo escluso la possibilità di una guerra, non avremmo mai voluto una guerra in Europa. Questo - conclude l’ex ministro - ha reso più forte Putin e l’ha convinto a fare quello che ha fatto, ma ora non possiamo assolutamente sbagliare, la nostra arma sono le sanzioni”. 

Controcorrente, Maria Giovanna Maglie e la certezza sulla Russia: se ci fosse stato Trump non sarebbe accaduto nulla. Il Tempo il 26 febbraio 2022

La presenza di Joe Biden alla Casa Bianca ha dato il via libera a Vladimir Putin per invadere l’Ucraina. Nella puntata del 26 febbraio di Controcorrente, programma di Rete4 condotto da Veronica Gentili, è ospite Maria Giovanna Maglie, che dà la propria lettura sul conflitto e sugli equilibri di potere tra la Russia e gli Usa: “L’intervista di Trump circolata oggi sui social è un’intervista piena di sarcasmo, quando dice che Putin è un genio, intelligente etc. lui è sarcastico. Quando sostiene che con lui a capo degli Usa Putin non avrebbe fatto questa cosa si tratta di capire se è un mitomane o dice la verità. Io mi azzardo a dire che dica la verità, rispetto alla situazione che c’era sul campo qualche anno fa. Mi sembra abbastanza realistico poter dire questo”.

Ucraina, l'ambasciatore Romano: "La Russia il nemico? Putin va ascoltato, ecco cosa rischiamo". Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 27 febbraio 2022.

Le bombe come "un messaggio" all'Occidente, reo di aver per anni ignorato le esigenze della Russia. Così pensa Sergio Romano, ambasciatore italiano presso la Nato dal 1983 al 1985 e a Mosca, ancora ai tempi dell'Unione Sovietica, dal 1985 al 1989: Ambasciatore, come giudica gli avvenimenti di queste ultime ore, gli ucraini resisteranno ancora oppure alla fine tratteranno con i russi?

«Si parla di possibili negoziati fra il presidente russo Putin e quello ucraino Zelensky, oppure con un'altra eventuale dirigenza ucraina, e devo dire che un simile sviluppo della vicenda non mi stupirebbe affatto. Fin dall'inizio di questa crisi sono sempre stato dell'opinione che gli ucraini non avrebbero resistito a lungo a un'aggressione di questo tipo. Inoltre non credo che i russi tendano a una vera e propria occupazione dell'Ucraina, si tratta di un caso ben diverso da quello della Crimea. Ciò che ha voluto fare Putin, con questa operazione militare, è stato lanciare un forte e preciso segnale all'Occidente, in risposta alle sanzioni, applicate ormai da 8 anni, e anche all'espansione della Nato a Est. Il presidente del Cremlino vuole dire all'America e all'Unione Europea: "State bene attenti e guardate che cosa sono capace di fare!". Ecco il suo messaggio».

Ma allora Putin mirerà a instaurare un governo filorusso a Kiev?

«Certo, ciò che gli preme di più è che, sicuramente, l'Ucraina non entri nella Nato rimanendo neutrale come la Svizzera e inoltre che l'Occidente si convinca una volta per tutte che è inutile punire la Russia con sanzioni ancora più dure di quelle a cui è già sottoposta fin dal 2014. Anche perché, come è stato rilevato negli ultimi giorni da numerosi esperti, il risultato finale non sarà altro che danneggiare le stesse economie occidentali. I russi, nuove pesanti sanzioni se le aspettavano comunque fossero andate le cose».

Per quanto riguarda l'allargamento della Nato a Est, e in particolare il rischio che anche l'Ucraina vi entrasse, si può dire che Putin abbia avuto una reazione sbagliata e condannabile a una questione che ha pe rò un suo fondamento?

«Ma certo, io stesso sono sempre stato contrario all'idea di allargare la Nato all'Ucraina e devo dire che il punto di vista del presidente russo è degno di considerazione. Tutta questa vicenda dovrà imporre un profondo ripensamento nell'ambito della dirigenza della Nato e la riflessione che ne seguirà dovrà portare alla decisione di escludere definitivamente che Kiev possa accedere all'alleanza. Non dobbiamo mai dimenticare le origini e il significato della Nato. L'alleanza atlantica nacque nel 1949 per il preciso scopo di difendere l'Europa Occidentale dall'espansionismo sovietico. Di per sé la si può definire un'alleanza bellicosa, nel senso che l'automatismo della difesa collettiva, quando viene attaccato uno dei suoi membri, impone di rispondere a un attacco con un immediato contrattacco. Espandere ancora l'alleanza porterebbe a molti problemi».

In genere, in diplomazia si tiene conto anche della percezione che ha la controparte di un determinato problema. Non crede che i diplomatici occidentali abbiano commesso un errore nel non ascoltare ciò che aveva da dire la Russia?

«Sicuramente sono stati commessi molti sbagli nel trattare con Mosca, bisognava porre attenzione anche alle sue preoccupazioni. Non si può continuare a trattare la Russia come un nemico, alla fine rischia di ridiventarlo davvero, ma l'errore è dell'Occidente che la fa inimicare ancora. Tutto ciò costerà molto in primis proprio ai Paesi occidentali. Cosa ci si guadagna a escludere il gigante russo dall'Europa per ricacciarlo in Asia, ad abbracciare la Cina? Già Russia e Cina vanno d'accordo, ma ora, e lo si vede in questi giorni, si stanno stringendo ancora di più fra loro, quanto a rapporti strategici ed economici. Da Pechino osservano bene ciò che sta succedendo in Europa. I cinesi sono cauti e non parlano troppo».

Perché la Russia ha invaso l’Ucraina e come può finire la guerra. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Bombarda, assedia, tiene in scacco l’Occidente. E ora si fa anche “consigliere” dell’esercito nemico. Vladimir Putin esorta l’esercito ucraino a prendere il potere e a rovesciare il governo in carica. Il presidente russo ha anche aggiunto: «Esorto l’esercito ucraino a non permettere che civili e individui vengano usati come scudi umani», accusando inoltre le autorità ucraine di essere “una banda di drogati e neonazisti”. “Prendete il potere nelle vostre mani. Mi sembra che sarà più facile negoziare tra noi”, ha detto Putin all’esercito ucraino in un intervento trasmesso dalla televisione russa, affermando che la Russia non sta combattendo contro le unità dell’esercito ma contro formazioni nazionaliste che si comportano “come terroristi” usando i civili “come scudi umani”. Insomma, lo “Zar” cerca un Petain ucraino.

Eventuali negoziati tra Mosca e Kiev, ha precisato la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, non bloccheranno l’operazione militare lanciata dal presidente russo contro l’Ucraina. Intanto a Kiev, al momento sotto assedio, si continua a combattere. La capitale ucraina potrebbe cadere in mano russa nel giro di pochi giorni: sono le ultime previsioni dell’intelligence Usa, secondo fonti citate da alcuni media americani. Le truppe di Mosca sarebbero a una trentina di chilometri dalla capitale ma, spiegano le stesse fonti, che hanno aggiornato i membri del congresso, starebbero incontrando una resistenza da parte delle forze ucraine, più agguerrita del previsto. Media locali, fanno sapere che 18 mila fucili sono stati consegnati ai volontari che si stanno preparando a difendere le strade della città. Il presidente ucraino, Volodymir Zelensky, nascosto in un luogo segreto per coordinare le operazioni dell’esercito nazionale che difende la capitale, ha invitato gli europei che hanno “esperienza di guerra” a “venire a combattere in Ucraina per l’Europa”.

Il governo incoraggia la popolazione a resistere realizzando bottiglie incendiare per respingere gli occupanti. “Cittadini, neutralizzate gli invasori con bottiglie molotov. State attenti e non abbandonate le vostre case!”, si legge sugli account Twitter del ministero della Difesa e di quello degli Interni, con tanto di istruzioni per realizzare il cocktail incendiario. Le forze armate ucraine rivendicano di aver “inflitto pesanti perdite ai nemici”, perdite che ammontano a 2800 soldati russi, annunciano, senza precisare se morti, feriti o catturati. Secondo lo stesso ministero 80 tank, oltre 500 altri veicoli militari, 10 aerei e sette elicotteri sono andati distrutti. Precedentemente Kiev aveva annunciato di aver ucciso mille aggressori russi. “Siamo forti! La vittoria sarà dalla nostra!”, si legge in una dichiarazione del ministero della Difesa. le truppe d’assalto aviotrasportate delle forze armate ucraine stanno combattendo negli insediamenti di Dymer (45 km da Kiev) e Ivankiv (80 km di distanza dalla capitale), dopo l’avanzata di “un gran numero di veicoli corazzati nemici sul confine del fiume Teteriv. Il ponte sul fiume è stato distrutto”.

Lo si legge in un tweet del ministero della Difesa ucraino. «Abbiamo già ospitato 50mila rifugiati dall’Ucraina e ne riceveremo molte altri. Siamo già nel Paese e in quelli limitrofi. C’è una sorta di resilienza e abbiamo grandi capacità di soccorso umanitario, ma il problema è che i numeri potrebbero superare la nostra capacità di accoglienza», avverte Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), in collegamento con il summit dei sindaci del Mediterraneo in corso a Firenze. In questo scenario di devastazione, la Nato ha dispiegato elementi della sua Forza di reazione rapida per la prima volta in un contesto di difesa collettiva. A renderlo noto è il segretario generale dell’organizzazione, Jens Stoltenberg in una conferenza stampa a Bruxelles al termine del Vertice dell’Alleanza atlantica.

La decisione è stata presa «per evitare che ci siano malintesi sul fatto che la Nato è pronta a difendere i Paesi alleati». «Si tratta di migliaia di truppe», ha aggiunto Stoltenberg. Al vertice Nato di oggi hanno partecipato anche Finlandia e Svezia, due paesi che Mosca non vuole entrino nell’Alleanza. E allo “Zar” quella presenza non è gradita. La Russia “non può non notare i persistenti tentativi della Nato” di allargarsi includendo Finlandia e Svezia, compiuti “in particolare dagli Usa”, commenta la portavoce del ministero degli Esteri russo, sottolineando che Mosca considera «un importante fattore della sicurezza la politica di non-allineamento» di quegli Stati. Helsinki e Stoccolma sono avvertite. Nella notte, si continua a combattere. Kiev non ha alzato bandiera bianca.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Putin e la cortina fumogena della pandemia: il suo vero alleato è il Covid. Giampiero Casoni il 24/02/2022 su Notizie.it.

Putin, con l’intento di “denazificare l’Ucraina” se la sta mangiando a bocconi sotto gli occhi di un mondo che sanziona e si indigna, ma che tutto sommato è inerme. 

Poco meno di un anno fa Vladimir Putin si fece editorialista di grana fina e scrisse un lungo articolo: “Sulla storica unione dei russi e degli ucraini“. In quel pezzo dal tono un po’ da vaniloquio unionista il leader della Federazione Russa smise di andare a cavallo degli orsi e di fare a braccio di ferro con le tigri, divenne lirico e sparò slogan come si spara da una mitraglia.

Erano spottoni su come Russia ed Ucraina che “sono lo stesso popolo”, unificato da una lingua comune e da radici storiche saldissime, dovessero tornare un tutt’uno.

Vladimir si fece anche erudito in etimologia e spiegò, con l’appeal impunito di chi non ha mai avuto censori, che “Ucraina” significa periferia e che quindi tutto gridava a ché il paese con Kiev capitale tornasse lieto e festante alla Madre Russia.

Ecco, se l’anno scorso il mondo avesse vissuto un clima normale e di canonica attenzione, roba che in tempi convenzionali si riserva alle scalmane degli autocrati con tanto piombo in cantina, le parole di Putin del 2021 forse avrebbero fatto alzare le antenne ai servizi di mezzo pianeta.

A quelli ed ai governi che per mission hanno la geopolitica alta in stand by permanente, non un tanto al chilo come noi che da Roma guardiamo il mondo senza capire quasi mai una mazza di quel che vi accade.

E forse l’analisi di quelle parole avrebbe evitato, in iperbole ma non troppa, quel che oggi succede, che cioè Putin, l’ex agente segreto Putin, con l’intento di “denazificare l’Ucraina” se la sta mangiando a bocconi sotto gli occhi di un mondo che sanziona e si indigna, ma che tutto sommato è inerme.

E non è iperbole azzardare che se l’anno scorso gli spot più attenti del mondo andarono ciechi e ramenghi fu anche per colpa della pandemia. Esatto: mentre Putin un anno fa già chiamava l’Ucraina “provincia” le nazioni erano impegnate a fronteggiare la seconda o terza o millemilesima ondata del Covid e su tutto l’Occidente vigeva quella “distrazione” un po’ giusta, un po’ pivella, per cui tutto ciò che non avesse a che fare con sanità, vaccini e statistiche era robetta da seconda linea.

E forse perfino un matto patentato come Donald Trump non ha avuto tutti i torti a definire Putin “un genio”. Perché dato per assunto che non sempre la genialità è a servizio dell’etica non si può non riconoscere, a seguire questa falsariga, la straordinaria capacità di Vladimiro non solo di usare la pandemia come cortina fumogena, ma addirittura di apparecchiarci sopra la “polpa strategica” del suo cesarismo forsennato e sciagurato.

Quattordici divisioni in assetto operativo, una marina e i vettori ipersonici non li apparecchi, non li prepari, non li metti a loop di piano di invasione in quattro briefing in due mesi. No, le guerre, anche quelle che piacciono a Putin secondo l’infida dottrina del suo generale-teoreta Gerasimov, non le impalchi in una manciata di settimane, neanche se sei la Russia. E soprattutto delle guerre tu studi più la capacità di reazione di chi le osteggerebbe più di quanto non studi la tua capacità di farle.

Ecco perché Putin ha previsto esattamente anche quello che sta succedendo in queste ore: che cioè oggi, mentre l’attacco impunito è in atto, nessuna delle grandi nazioni occidentali è in grado di distogliere dalle proprie economie, pianificate a recuperare ciò che il Covid ha tolto ai Pil, risorse necessarie per affrontare qualcosa di più che le tiepide sanzioni. Salterebbero interi sistemi di governo, a contare che nei paesi in questione c’è la democrazia vera e se ti vai ad impelagare in un braccio di ferro all’estero gli elettori che vogliono riprendere a vivere e vedere stipendi ti cacciano a pedate.

Non è un problema di rispondere alla guerra con la guerra, ma di dare l’impressione ferrea che il mondo sia attento e pronto a cassare ogni tentativo di portarci il caos, è un problema di clima, non di azioni vere. La geopolitica è tutto un gioco di pesi e contrappesi e difficilmente tracima da bluff a fattualità, a meno che gli equilibri non vadano in vacca, in quel caso chi gioca duro vince quasi sempre. E in quella coltre bigia per cui la pandemia ha sconvolto anche la bussola geopolitica del mondo lui, Vladimiro Putin, ci ha acceso il faro abbacinante del suo imperialismo ma aveva messo la spina nella presa già da un anno fa.

E ci ha accecati tutti perché il Covid ci aveva messi al buio.

"Ci sono anche le ragioni della Russia...": l'analisi di D'Alema. Federico Garau il 26 Febbraio 2022

su Il Giornale.

L'ex presidente del Consiglio condanna l'operato di Mosca, ma sostiene che anche l'Occidente ha responsabilità di quanto sta accadendo. 

Occhi puntati su quanto sta accadendo in Ucraina, dove è stata lanciata un'azione militare da parte della Russia. Intervistato da La Stampa, anche Massimo D'Alema dà una propria interpretazione dei fatti, non risparmiando da critiche neppure l'operato dei paesi occidentali. La priorità in questo momento, precisa l'ex presidente del Consiglio, è quella di far cessare lo scontro, dopodiché si dovranno considerare anche le ragioni del governo russo.

"Questa aggressione militare non soltanto è un crimine è anche un errore", precisa Massimo D'Alema, che spiega come adesso sia fondamentale esercitare ogni genere di pressione per indurre Putin a ritirare le truppe e fermare il conflitto in atto. Anche laddove la guerra terminasse, tuttavia, ciò non sarebbe comunque sufficiente.

La notte più lunga: "Attaccheranno". E Kiev cerca la tregua

È necessario, secondo D'Alema, lavorare per una soluzione stabile e sostenibile, perché "non si può non tenere conto, malgrado Putin, che ci sono anche le ragioni della Russia". La politica dell'Occidente, secondo l'ex premier, è stata una politica sbagliata, che ha di fatti portato al nazionalismo di Putin. "Soprattutto gli americani non hanno fatto nulla per inserire la Russia in un contesto di post guerra fredda. Un errore storico. Iniziato già all'epoca di Gorbaciov", afferma D'Alema, che precisa: "Nel momento in cui la Russia aveva bisogno di un Piano Marshall nessuno le dette un euro. Questo aiuto fu negato".

Secondo Massimo D'Alema, è possibile vincere questo braccio di ferro con la Russia se oltre alla fermezza saranno messe in campo visioni politiche sostenibili per il Paese. "Di Putin non mi sento amico nè sodale. Però dobbiamo parlare al popolo russo e prospettare una soluzione che sia sostenibile anche per loro", dichiara.

D'Alema riconosce anche l'errore da parte dei paesi occidentali di non essersi quasi mai occupati dei diritti delle minoranze russi presenti sul territorio ucraino. Il nazionalismo ucraino, prosegue il politico, doveva essere scoraggiato e non incoraggiato da una parte del mondo occidentale. Il tema della sicurezza della Russia avrebbe dovuto essere affrontato in modo serio.

"Questa aggressione militare della Russia è un crimine perché siamo di fronte a un'aggressione a vittime civili", sostiene, "ma anche un errore perché Putin, descritto come spietato lucido e calcolatore, secondo me, stavolta ha sottovalutato i rischi connessi a un'operazione che può avere per la Russia dei costi molto alti". Costi che colpiranno anche i Paesi europei. D'Alema, infatti, avvisa: "Il rischio è quello di un comune declino dell'Europa e della Russia".

"Putin? Un despota". "La guerra? Colpa della Nato". Francesco Curridori il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo interpellato il filosofo Diego Fusaro e il giornalista David Parenzo sulla guerra in Ucraina e sulla figura di Putin.

La guerra in Ucraina infiamma gli animi anche in Italia tra i sostenitori di Kiev e i fan del presidente Vladimir Putin. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo interpellato il filosofo Diego Fusaro e il giornalista David Parenzo.

Nella crisi ucraina, quali sono le colpe della Russia e quali dell'Occidente?

Fusaro: "Le colpe dell'Occidente sono enormi. Dal 1989 ad oggi gli Stati Uniti d'America con il loro braccio armato, la Nato, e con le loro colonie, tra cui l'Italia, hanno gradualmente rioccupato gli spazi post-sovietici in forma imperialistica. Con Gorbaciov ed Eltsin sembrava che tutto potesse filare liscio, ma Putin dice di no. È come se, all'immagine di Obama che dice 'Yes, we can', Putin avesse replicato 'No, you can't' e perciò il presidente russo è tanto avversato dal discorso unico geo-politicamente corretto e filo-atlantista. La Russia di Putin è uno Stato che non si piega alla globalizzazione americanocentrica e che non accetta l'invasione graduale degli spazi ex sovietici con la Nato come sta accadendo in Ucraina e com'è già avvenuto in Georgia. Perché mai dovrebbe accettare l'atlantizzazione dei propri spazi e la Nato ai propri confini? Questa è la colpa dell'Occidente: l'hybris, la tracotanza, e il non aver rispettato i limiti e gli accordi secondo cui la Nato non doveva espandersi verso Oriente. Basta guardare le cartine, per vedere che dagli anni '90 a oggi la Russia non si è espansa, mentre la Nato si è sempre più avvicinata a Mosca. Questa è la colpa gravissima dell'Occidente americanocentrico".

Parenzo: "Le colpe di Putin mi paiono abbastanza evidenti: aver aggredito un Paese sovrano, indipendente e, soprattutto, democratico. L'unica colpa che ha l'Ucraina, tra tutti i Paesi che si sono staccati dall'Unione Sovietica, è quella di aver costruito una società civile e di avere davvero un'esperienza democratica reale rispetto ad altri Paesi vicini alla Russia e che, pur indipendenti, sono rimasti attaccati alla mammella putiniana. Ed è per questo che l'Ucraina fa paura. Per quanto riguarda l'Occidente, personalmente, io non sono fra quelli che dà addosso all'elitè globale. Forse una colpa è quella di non aver capito subito il reale pericolo di aggressione dell'Ucraina e non aver mandato per tempo aiuti economici e, soprattutto, infrastrutture militari".

L'Occidente dovrebbe rispondere militarmente alla Russia?

Fusaro:"Spero francamente che non accada. A tal riguardo, spero che l'Italia non entri assolutamente in guerra. Del resto, lo dice anche la nostra Costituzione. Ritengo, anzi, che l'Italia dovrebbe uscire quanto prima possibile dalla Nato dato che dal 1989 non serve più a combattere il comunismo sovietico, ma ad altre due cose: gestire e favorire l'imperialismo made Usa e a impedire ai popoli d'Europa ad essere liberi e sovrani. La Nato, infatti, con le basi americane statunitensi in Europa (solo in Italia ne abbiamo più di 100) serve a mantenere l'Europa colonia degli Stati Uniti. Spero davvero che non ci sia una nuova guerra e che l'Italia sappia uscire dall'Ue e dalla Nato dato che la Nato è un vile strumento di aggressione imperialistica".

Parenzo: "Dovrebbe, ma non può. Purtroppo l'Ucraina non era nella Nato e, quindi, l'opzione militare è stata esclusa fin dall'inizio. Mi sembra un segnale davvero importante che si arrivi al blocco dei conti degli oligarchi e di tutte le transazioni economiche che riguardano le banche russe. Non si è sul terreno di guerra con gli stivali, ma si interviene pesantemente sul piano economico pagando anche un prezzo perché l'Occidente, con le sanzioni, pagherà un prezzo caro. Ma è giusto così. È giusto che le autarchia vengano isolate anche con il soft-power. Penso alla decisione dell'Uefa di non giocare la partita a San Pietroburgo oppure alla richiesta avanzata dal sindaco Sala al direttore d'orchestra, amico di Putin, di prendere le distanze dal dittatore. Sembrano strumenti apparentemente deboli, ma messi tutti insieme possono aiutare a isolare sulla scena globale Putin. Bisogna, come ha detto Biden, renderlo il 'paria' del mondo, uno con cui non si possono avere rapporti".

Cosa rappresenta per lei Putin?

Fusaro: "Vladimir Putin, per me, rappresenta l'eroica resistenza all'imperialismo statutinense, la capacità di uno stato sovrano nazionale di resistere e di non lasciarsi piegare. Putin, poi, rappresenta anche l'importanza di aver riscoperto le identità e la sovranità nazionale come baluardo di resistenza all'imperialismo. Insomma, Putin può rappresentare la possibilità di un mondo multipolare, ossia di un mondo sottratto all'atlantizzazione integrale, detta globalizzazione. Per questo bisogna sperare in un mondo multipolare ove vi siano anche Cuba, la Russia, la Cina, l'Iran, la Siria, tutti gli Stati non allineati che auspicabilmente potranno creare un polo alternativo a quello Occidentale-capitalistico. È importante che oggi Putin abbia ricostruito in parte una situazione pre-1989 con blocchi diversi in nome del mutipolarismo. Lo diceva già Kant: meglio Stati nazionali, anche in tensione fra loro, rispetto al precipitare del mondo sotto una monarchia universale, ossia (oggi) gli Stati Uniti d'America".

Parenzo: "Putin è un autocrate, un despota che incarcera i dissidenti politici e che avvelena i nemici in giro per il mondo. Questo spiega anche la presa di posizione durissima di Boris Jhonson che ha avuto sul suo territorio questa guerra di spie con Mosca. Putin è un signore che, in questi 22 anni di potere assoluto, anziché modernizzare la Russia e portarla in un'ottica di Stato liberaldemocratica, si è messo a fare una corsa agli armamenti. In questi anni ha potenziato la parte bellica piuttosto che la crescita della società civile. La Russia è un Paese che si fonda ancora tanto sul potere del gas e degli oligarchi. Questa operazione militare dimostra perfettamente che lui ha lavorato per questo".

Dal punto di vista energetico ed economico quanto danneggerà noi occidentali questa guerra?

Fusaro: "Non sappiamo quali saranno le evoluzioni di quanto sta accadendo in Ucraina. Sappiamo fin da ora, però, che i veri perdenti sono i Paesi dell'Unione europea i quali si trovano a fare delle sanzioni alla Russia su volontà di Washington. Sanzioni che vanno a nocumento del sanzionante e non del sanzionato. Questo è quel che paghiamo in quanto sudditi della Nato: nella peggiore delle ipotesi dover fare una guerra o comunque fare sanzioni alla Russia contro il nostro interesse. La Russia, sarebbe il partner ideale e, invece, ogni volta, Washington impone all'Europa di staccarsi da Mosca per essere asserviti alla Nato e all'America. L'Europa, quindi, paga il peso più alto. Per questo, più che mai, bisogna liberarsi dal giogo della Nato, rivendicare la propria sovranità e aprirsi all'euro-asiatismo e cioè alla Russia e alla Cina, in funzione anti-atlantista".

Parenzo: "L'Occidente in questi vent'anni avrebbe dovuto dare un'accelerata sull'indipendenza energetica. Ma su questo c'è un aspetto positivo. Noi e la Germania dipendiamo molto dalla Russia e, quindi, questa vicenda accelererà l'Ue dal punto di vista delle politiche energetiche. Ora ci si è reso conto che dipendere da un dittatore è molto pericoloso. Detto questo, è chiaro che una guerra ci danneggia dato che in Russia ci sono 660 imprese italiane e non solo. Non dimentichiamoci, però, che mentre noi possiamo soffrire dal punto di vista economico in queste ore, in Ucraina, ci sono persone che sono sotto le bombe. Dobbiamo tenere gli occhi sull'Ucraina. Il principio generale è che stare dalla parte delle democrazie non ci conviene per un fatto etico, ma politico. Tanto più si espande la democrazia tanto più si avrà un capitalismo democratico e non degli autocrati. A noi conviene che le democrazie siano la maggioranza perché con le dittature non ci parli, ci fai la guerra".

Che cosa pensa del presidente Zelensky?

Fusaro: "Zelensky nasce come comico e comico è rimasto, non un politico. Fin dal 2014, quando ci fu il colpo di Stato para-nazista volto a portare l'Ucraina verso l'Unione Europea e la Nato, con il pieno sostegno dell'America e di Bruxelles che appoggiarono forze dichiaramente naziste, Zelensky abbracciò quella visione delle cose. In sostanza, Zelensky sta sacrificando il suo popolo come uno scudo umano per gli interssi della Nato e della globalizzazione americanocentrica. Se davvero avesse a cuore il suo popolo eviterebbe di svendere l'Ucraina alla Nato e, invece, lo fa in nome di ragioni superiori legate alla geopolitica. Poi, come ha detto bene Putin, vi sono bande naziste all'interno dell'Ucraina, appoggiate dal governo statunitense e dall'Unione Europea. Di questo i nostri giornali non parlano perché fanno finta di non sapere. La realtà dei fatti è che l'Ucraina, con l'appoggio di forze para-naziste sta cercando di spostarsi verso l'Occidente, la Nato e verso l'ordine mondiale americanocentrico. In conclusione, bisogna essere contro ogni guerra, ma soprattutto bisogna essere contro le condizioni che portano alla guerra. In questo caso si tratta dell'ignobile espansione dell'Occidente verso Oriente in funzione anti-russa. L'obiettivo ultimo è distruggere la Russia per farne una colonia americana. La Russia non può accettare questo e Putin lo ha dimostrato ampiamente. Dobbiamo sperare in un mondo multipolare che non sia semplicemente il mondo della monarchia del dollaro".

Parenzo: "Zelensky, in questa fase, sta dimostrando tutta la sua credibilità. Qualcuno lo aveva preso in giro dicendo che era una specie di Beppe Grillo ucraino. In realtà, sta dimostrando di essere una persona che magari non è riuscita a combattere la corruzione endemica nel suo Paese, però si è costruito una grande credibilità internazionale. È un premier giovane che sta dimostrando tutto il suo valore: non è fuggito all'estero per fare un governo ombra. No, è lì a combattere sul campo. Aveva attivato l'ingresso dell'Ucraina per il 2030 e, quindi, non si può dire semplicemente che era un comico. Senza citare Grillo, ricordo che anche Reagan era un attore".

Il ruolo della geopolitica dell’acqua nella crisi ucraina. Andrea Muratore  su Inside Over il 25 febbraio 2022.

Anche l’acqua è un asset chiave nella partita ucraina. Non possiamo certamente indicare la geopolitica idrica come la causa scatenante del conflitto tra Mosca e Kiev, anche se notiamo come esso abbia punti focali in diversi bacini idrici fluviali (Dnepr) e marittimi (Mar Nero, Mar d’Azov). Ma possiamo sicuramente indicare l’acqua come uno degli asset chiave per il cui controllo la relazione tra la Russia e l’Ucraina, e in special modo tra le repubbliche secessioniste filorusse di Donetsk e Lugansk e il governo centrale, si è deteriorata.

Come ricordato da Paolo Mauri su queste colonne, l’attacco a tenaglia russo vuole tagliare a metà l’Ucraina e connettere tra di loro le aree russofone secessioniste e la Crimea annessa nel 2014, per creare una zona-cuscinetto di sicurezza. Ebbene, proprio nell’area compresa tra Kharhiv, Cherson e il Mar Nero si gioca la prima sfida cruciale della geopolitica idrica d’Ucraina. “La Crimea è un territorio arido che dipendeva fino al 2014 dall’acqua convogliata dal fiume Dnepr  per mezzo del Canale del Nord”, ha scritto Silvana Galassi del Comitato milanese Acqua Pubblica. “Dopo l’annessione, l’Ucraina ha bloccato il flusso e, nel 2017, ha costruito una diga nella provincia meridionale di Cherson”. Sulla scia di questo processo di weaponization delle forniture idriche nel luglio scorso il blocco da parte di Kiev del canale di era sovietica che porta in Crimea l’85% dei riferimenti ha condotto la Russia a una crisi diplomatica legata alla difficoltà di supplire 2,4 milioni di abitanti con rifornimenti continue di acqua.

La strategia ucraina di massima pressione per separare la Crimea dal resto del Paese è stata una delle poche manovre con cui Kiev ha potuto, dal 2014 in avanti, controbattere all’annessione russa della penisola contesa. Ma anche nel separatista Donbass la corsa per il controllo delle fonti di acqua potabile della regione e in particolare dello strategico canale Siverskyi Donets-Donbas ha assunto un ruolo decisivo nella guerra che ha causato negli ultimi otto anni ben 14mila morti. Il canale da 300 chilometri, ha fatto notare East Journal, “fornisce trecento insediamenti su entrambi i lati della linea di contatto” oggi sfondata. Di conseguenza “il corso d’acqua si trova all’interno della zona di combattimento, quindi condutture e pompe sono sottoposte a continui bombardamenti, con danni irreparabili”. Aggiungiamo a ciò, per completare il quadro, il fatto  che “Donetsk e Lugansk pullulano di miniere, impianti industriali metallurgici, siderurgici, chimici e discariche, tutte infrastrutture che necessitano di una manutenzione e di un rinnovamento costante: costruite in prossimità di specchi d’acqua, in caso di guasti o incidenti (quali fuoriuscite di sostanze chimiche, emissioni di sostanze tossiche e radioattive, o esplosioni) potrebbero causare conseguenze ecologiche devastanti, nonché numerose vittime”.

Di conseguenza quasi 4 milioni di persone sulle due sponde del fronte sono a rischio di crisi negli approvvigionamenti e possono diventare le prime vittime di disastri ecologici diffusi nella regione. La natura di asset strategico del maggiore dei canali che riforniscono il Donbass è dimostrata dal fatto ben nove operatori della manutenzione sono morti, negli ultimi anni, colpiti dal fuoco incrociato o in incidenti mentre lavoravano a un cruciale processo di mantenimento in attività del canale.

Ad aprile 2021 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha indicato come dannoso il processo di distruzione delle infrastrutture idriche in teatri bellici in una sua risoluzione, indicando l’Ucraina assieme al Sud Sudan e la Siria negli scenari dove questi processi prendevano più spesso piede. Poche settimane dopo, tra il 5 e l’8 maggio, è stata rilevata una serie di sabotaggi ai canali di fornitura gestiti dalla società Voda Donbasu.

Il canale che dall’asse Nord-Sud porta l’acqua in Crimea e le contese linee di fornitura del Donbass sono dunque da valutare come obiettivi chiave nell’attuale offensiva russa. Una strategia di connessione tra il Donbass e la Crimea passerebbe per il controllo pressoché esclusivo della direttrice da Cherson alle repubbliche separatiste da parte della Russia, della messa in sicurezza dei due canali, dei territori posti a Est del fiume Dnepr e possibilmente della sua stessa foce, per ottenere un controllo sull’oro azzurro duraturo e sistemico. Precondizione fondamentale per portare completamente l’Ucraina orientale nella totale disponibilità di Mosca. Senza questo risultato, del resto, ogni strategia di costruzione del consenso per la russificazione delle terre strappate da Mosca a Kiev sarebbe fallace in partenza.

"Filiali Nato come caffetterie...". L'affondo di Capuozzo sull'Ucraina. Federico Garau il 24 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il giornalista cerca di analizzare i vari elementi che hanno contribuito a creare tensione.

Anche il giornalista Toni Capuozzo ha voluto dire la sua sua per quanto concerne la situazione che si è venuta a sviluppare nelle ultime ore in Ucraina.

Secondo lo scrittore, che parla di "invasione di Putin", il presidente della Federazione Russa starebbe agendo sulla base della consapevolezza del non intervento di Stati Uniti e Nato, senza curarsi della minaccia delle sanzioni al suo Paese. Gli obiettivi dichiarati delle operazioni militari, non finalizzate ad un'invasione, sono essenzialmente due, ovvero la demilitarizzazione e la denazificazione dell'Ucraina. Il che significa, secondo Capuozzo, "distruggere l'apparato militare e destituire la dirigenza politica ucraina, magari sostituendola con uomini ucraini di fiducia". Un processo che richiederà comunque del tempo. Un tempo al momento non ben precisato. Putin, dal canto suo, minaccia ritorsioni nei confronti di chiunque decida di intromettersi, ma il giornalista resta convinto del fatto che ciò non accadrà. "Resterà un conflitto locale, che cambia il mondo, e spoglia i sogni di quieta globalizzazione, di allegro e indolore contagio della democrazia", spiega Capuozzo senza giri di parole.

Banche, sanzioni e gas: mossa a tenaglia dell'Occidente su Mosca

Dopotutto è bene chiedersi se sia stato saggio decidere di"aprire filiali Nato come caffetterie" anche nei territori dell'ex Unione Sovietica, e se "l'Ucraina ha giocato la carta giusta, scegliendo di non essere neutra e rassicurante parte terza". Con gli Stati Uniti e l'Unione Europea al palo, arrivano anche delle immediate conseguenze di carattere economico, dato che "il barile di petrolio ha superato i 100 dollari, oggi"."Fa male al cuore vedere quel che succede", commenta il giornalista, "ma anche il portafoglio duole un po'".

In un post più recente, Capuozzo sottolinea ancora una volta che ad aver concorso a creare la situazione in essere sono non solo la politica di potenza di Putin, ma anche l'espansione eccessiva della Nato e l'abbandono della neutralità da parte della stessa Ucraina. "Il premier ucraino si è fatto spingere nella sfida senza valutare che forse per l'Ucraina libera era meglio essere una terra di nessuno, o dei soli ucraini. Scambi e commerci piuttosto che missili". In mezzo a questa situazione di tensione resta la parte più vulnerabile, vale a dire i civili. Ecco perché è meglio augurarsi che le operazioni della Russia si concludano al più presto. "Protrarre la resistenza vuol dire essere spettatori di una lunga agonia o intervenire", precisa Capuozzo. "Chi è disposto a morire per Kiev alzi la mano. Oppure c'è da sperare che si ripeta la Georgia del 2008. La Russia si tiene Mariupol e forse Odessa, e molla l'osso. L'Ucraina resta in libertà vigilata", aggiunge il giornalista, "la cosiddetta finlandizzazione, cioè la sovranità su trasporti, sanità eccetera, non sulle alleanze politico militari".

Altro elemento certo è lo schiaffo ricevuto da Biden, anche se pure l'Unione europea non ne esce rafforzata, dato che le sanzioni applicate alla Russia" faranno male a sanzionati ma anche a sanzionanti". "I grandi se la cavano sempre", conclude Capuozzo, "i civili no, che parlino russo o ucraino, o yiddish, come gli ultimi ebrei di Odessa".

L'intesa non formale tra Casa Bianca e Cremlino. Conflitto tra Russia e Ucraina, la promessa di non allargare la Nato a est ci fu davvero. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.  

Tanto tuonò che piovve. Vladimir Putin, allineandosi alla risoluzione approvata dalla Duma di Stato ha riconosciuto formalmente – in diretta televisiva – le autoproclamate repubbliche separatiste (e filorusse) di Doneck e Lugansk, che si trovano entrambe nel Donbass, una regione dell’Ucraina orientale a prevalenza russofona. Come se volesse sfottere la Nato, Putin ha motivato l’invio di soldati a Doneck e Lugansk definendola una missione di peacekeeping per contrastare un “genocidio” in corso nella zona, da parte di Kiev: una accusa che la comunità internazionale ritiene infondata ma che sembra essere stata sfruttata come pretesto per un’invasione.

La mossa di Putin ha spiazzato la comunità internazionale. Con il riconoscimento delle sedicenti Repubbliche autonome del Donbass, Putin ha rovesciato il fronte. Tocca al governo di Kiev andarsi a riprendere con le armi i territori sottratti all’Ucraina, proprio quando Putin indossa nuovamente i panni del negoziatore, dopo aver creato un cuscinetto tra i confini russi e quelli ucraini. Intanto sono iniziate le sanzioni, i cui effetti collaterali ricadranno anche sui paesi che le impongono. Esemplare è il caso della Germania. Il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato il congelamento del gasdotto Nord Stream 2, non ancora in funzione, che dovrebbe collegare la Russia alla Germania. I principali leader europei hanno cercato di mediare (Draghi non ha neppure fatto in tempo) senza rendersi conto che Putin poneva questioni di sicurezza che potevano essere negoziate solo con gli Usa (e la Nato). Né Macron, né Scholz, né Draghi erano in condizione da fornire all’autocrate del Cremlino le garanzie che chiedeva: la non adesione dell’Ucraina alla Nato.

Ma Biden se ne è lavato le mani (ridicole le sanzioni annunciate), come se la crisi ucraina fosse un problema dell’Europa. Del resto, la fuga precipitosa dall’Afghanistan ha contribuito a rafforzare in Putin la convinzione di poter portare avanti la sua iniziativa neo-imperialista (non di dimentichi la riappropriazione di fatto della Bielorussia) sulla base di un ragionevole rischio, ma in assenza di conseguenze irreparabili. Tutto ciò premesso e senza nutrire simpatie per Vladimir Putin e per i ‘’putiniani’’ di casa nostra, penso che la comunità internazionale non tenga sufficientemente in considerazione la complessità degli interessi in gioco. Per capire (non vuol dire condividere) la posizione di Putin a me pare sufficiente osservare la carta geografica di quell’area che fu ‘’l’Impero del male’’ (l’Urss e i paesi satelliti). La Nato è un’organizzazione di difesa collettiva, ma dal 1999 al 2004, sono entrate a farne parte, come membri effettivi i seguenti paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria.

Adesso, l’adesione dell’Ucraina alla Nato è considerata dal Cremlino una minaccia diretta alla sicurezza della Russia (si direbbe la riedizione in grande della crisi di Cuba). Una spirale segnata nel 2014 dal rischio del ritorno ad una vera e propria guerra quando, dopo la rivoluzione di Maidan in Ucraina, Mosca ha illegalmente annesso la penisola di Crimea alla Federazione russa. Fu un’azione militare – come era avvenuto altre volte nella storia – che doveva consentire alla Russia l’accesso al Mediterraneo e quindi la possibilità di avere un ruolo di superpotenza sullo scacchiere cruciale del Medio-Oriente. Le disgregazioni degli Imperi, come degli Stati (vedi Yugoslavia), hanno sempre determinato, nella storia, conflitti e sciagure che dovrebbero indurre la comunità internazionale ad agire con molta cautela. Fu George Kennan, uno degli strateghi della politica estera americana, a scrivere nel 1997 che un allargamento a Est dell’Alleanza Atlantica, fino ai confini della Russia, si sarebbe trasformato nell’”errore più fatale della politica americana dopo la fine della Guerra Fredda’’.

E Gianni De Michelis, allora titolare degli Esteri, ammonì, tra le critiche, i paesi della Ue a non favorire la disintegrazione della Jugoslavia, prevedendo che conseguenze che ne sarebbero derivate. Quando crollano gli Stati in cui convivono differenti nazionalità le etnie che in precedenza appartenevano alla stessa comunità nonostante le differenze, si ritrovano in conflitto tra loro; non sono più cittadini di un unico grande paese, ma diventano maggioranze arroganti e minoranze mal tollerate, anche in conseguenza di precedenti tragiche vicissitudini (si pensi al caso delle minoranze russe nei Paesi Baltici che avevano, nell’Urss, un ruolo egemone rispetto ai nativi). Il fatto è che l’Occidente non ha vinto la guerra fredda; è stata l’Urss a perderla. Le conseguenze sono state non solo una grave crisi economica (nella transizione dal socialismo reale), ma anche l’implosione dell’Impero. E l’Occidente ne ha approfittato. Nel suo saggio In lode della guerra fredda. Una controstoria (Longanesi 2015) un testimone di quel tempo, Sergio Romano, ricorda l’impegno che George Bush assunse nel 1991 con Michail Gorbaciov quando lo persuase ad accettare che la Germania unificata facesse parte della Nato: l’alleanza non avrebbe esteso la sua presenza militare al di là della vecchia cortina di ferro.

Romano riporta nel libro una rievocazione di quell’incontro – che si svolse a Malta – dell’ambasciatore Usa a Mosca Jack Matlock; considerando i fatti descritti da un testimone presente come il diplomatico americano, l’autore trae le seguenti conclusioni: «Come tutte le intese che (come Yalta? ndr) non si traducono in un formale trattato, anche quella tra Bush e Gorbaciov, al momento dell’unificazione tedesca, può essere letta in diversi modi. Ma lo spirito dell’accordo era nelle parole pronunciate dal segretario di stato James Baker; la Russia rinuncerà alla sua egemonia sull’Europa orientale, gli Stati Uniti non ne approfitteranno per estendere la loro influenza politica sulla regione». Secondo Romano «quello spirito fu certamente tradito». Eppure il 28 maggio del 2002 i leader dei 19 Paesi allora aderenti alla Nato e il premier russo Vladimir Putin (sono trascorsi 20 anni, Putin era già al potere, vi è rimasto e vi resterà) sottoscrissero una dichiarazione, a Roma, il cui incipit prometteva l’avvio di una nuova era: «All’inizio del 21/mo secolo viviamo in un mondo nuovo, strettamente correlato come mai nel passato, dove minacce e sfide nuove e senza precedenti esigono risposte sempre più unite», tra le quali anche la lotta al terrorismo, la difesa comune e la collaborazione militare.

Fu una grande operazione di politica internazionale di cui il governo Berlusconi si attribuì gran parte del merito e che diede inizio alla leggenda dell’amicizia tra il Cavaliere e il nuovo zar. Quell’esperimento «del dopo Guerra Fredda, mai molto riuscito, per creare un clima di fiducia tra la Russia e la Nato», si è progressivamente logorato fino alla rottura dei rapporti diplomatici nell’ottobre scorso. A torto o a ragione per Putin si pone un problema di sicurezza. Bluffa oppure è convinto che degli Usa non ci si può più fidare da quando hanno eletto (e potrebbero rieleggere) un presidente come Donald Trump? Giuliano Cazzola

Eugenio Palazzini per ilprimatonazionale.it il 24 febbraio 2022. 

Leggere cum grano salis la crisi ucraina, delicata e in continua evoluzione, non è da tutti. Negli ultimi giorni si sono sprecate analisi bislacche e uscite dettate da una sostanziale ignoranza anche da parte di chi ricopre ruoli istituzionali di primo piano. Chi al contrario propone una disamina attenta e ponderata anche alla luce dei precedenti storici, è il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze. 

Generale Bertolini: “Voglia di stravincere americana”

“In Ucraina siamo arrivati a un punto molto delicato, il fatto che Putin abbia riconosciuto le due repubbliche del Donbass sicuramente cambia la situazione. Peraltro – spiega il generale all’Adnkronos – ci sono recedenti storici illustri sul campo avverso, è la stessa cosa che è avvenuta in Kosovo da parte nostra e nonostante le rimostranze russe all’epoca abbiamo riconosciuto l’autonomia del Kosovo dalla Serbia, la Russia si è opposta. 

La situazione molto delicata, credo che la Russia cerchi adesso di metterci di fronte al fatto compiuto, un po’ come successo con la Crimea che si è ripresa la Russia e noi non abbiamo reagito, basandosi anche su un plebiscito nella regione”. 

Ma perché adesso sembra di essere arrivati a un punto di non ritorno in Ucraina? 

“Credo che la Russia sia stata vittima, come noi, della voglia di stravincere americana”, afferma Bertolini. 

 “Gli Stati Uniti non si sono limitati a vincere la Guerra Fredda ma l’hanno anche voluta umiliare prendendole tutto quello che in un certo senso rientrava nella sua area di influenza. Ha sopportato con i Paesi Baltici, la Polonia, la Romania e la Bulgaria: di fronte all’Ucraina che gli avrebbe tolto ogni possibilità di accedere al Mar Nero, ha reagito”.

L’arroganza di mettere all’angolo la Russia e i rischi per l’Italia

Dunque il Cremlino non può stare a guardare i continui passi in avanti verso est da parte della Nato, pena la definitiva perdita di controllo in quello che considera il suo “estero vicino” e il conseguente senso di accerchiamento ingestibile a lungo termine.

 “Questa è la situazione che ci troviamo ad affrontare – dice ancora Bertolini – c’è stata un po’ di arroganza nello spingerli in un angolo, adesso hanno reagito. Ora speriamo che ci si limiti alle due repubblichette del Donbass e non ci sia altro, ma c’è anche un problema di tenuta del regime in Ucraina, dove si è creata una situazione con un primo ministro abbastanza improbabile, uno che viene dal mondo dello spettacolo”. 

Tutte questione che il governo italiano non può ignorare, perché la nostra nazione rischia pesanti contraccolpi economici causati dal protrarsi del braccio di ferro in atto. 

“E’ un momento molto drammatico. L’Italia è coinvolta da un punto di vista energetico, perché se chiudono i rubinetti stasera ci faremo da mangiare col fuoco e non con il gas”, fa notare il generale.  

Ma non è tutto, considerando che “siamo coinvolti anche da un punto di vista operativo, perché i Global Hawk che volano sull’Ucraina partono da Sigonella, l’Italia è una base militare americana in larga parte. Il rischio c’è, è presente e reale. Speriamo nell’incontro fra Draghi e Putin, a questo punto i giochi sono già fatti e non credo avranno molto spazio di manovra ma se c’è la possibilità di far sentire anche la nostra voce, sicuramente è una cosa importante”. 

Le motivazioni della guerra tra Russia e Ucraina. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 24 Febbraio 2022.

Cos’è successo fra Russia e Ucraina, perché siamo arrivati a questo punto? E perché Putin ha invaso il Paese? 

La crisi tra Ucraina e Russia, nonostante diversi tentativi diplomatici, è sfociata in una invasione da parte delle truppe di Mosca. Il presidente russo Vladimir Putin ha dato l’ordine di invasione all’alba di giovedì 24 febbraio, dopo che — lunedì 21 — aveva ordinato l’ingresso di truppe nelle regioni separatiste del Donbass. Ma quali sono le cause di questa crisi? Cosa c’è alla radice di questa guerra? 

1. Da cosa nasce il conflitto fra Russia e Ucraina?

A febbraio 2014, il popolo ucraino ha cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovich, che non voleva firmare il Trattato di associazione fra l’Ucraina e l’Unione europea, instaurando un governo ad interim filoeuropeo non riconosciuto da Mosca. 

Vladimir Putin ha risposto annettendo la Crimea e incoraggiando la rivolta dei separatisti filorussi nel Donbass , regione nel Sudest del Paese. 

Oggi le generazioni più giovani spingono l’Ucraina verso l’Europa, e anche l’attuale presidente Volodymyr Zelensky — eletto nel 2019 — è vicino all’Occidente. 

Il conflitto, però, ha radici più antiche e profonde (che approfondiremo più avanti). Il presidente russo ritiene che il suo Paese abbia un «diritto storico» sull’Ucraina, che faceva parte dell’Unione Sovietica fino al collasso del 1991: lo ha anche scritto apertamente in un lungo articolo pubblicato lo scorso anno, in cui definisce Russia e Ucraina «una nazione». 

Il crollo dell’Unione Sovietica ha lasciato profonde cicatrici in parte del popolo russo: lo stesso Putin lo aveva definito «la più grande catastrofe geopolitica» e l’Ucraina era stata la perdita più dolorosa. In molti, scrive David Sanger sul New York Times, ritengono che Putin si ritenga ora «in missione per correggere questo errore».

2. Perché è esploso ora?

Lo scorso anno, l’Ucraina ha approvato una legge che proibisce a 13 oligarchi di possedere dei media per influenzare la politica, colpendo direttamente l’amico di Putin Viktor Medvedchuck, uno degli uomini più ricchi del mondo. Oltre alla sua attività di petroliere, Medvechuck — che è ancora ai domiciliari, accusato di alto tradimento — è il leader del principale partito filorusso d’Ucraina, Piattaforma dell’Opposizione, ed è proprietario di un impero televisivo attraverso il quale diffondeva la propaganda di Mosca e influenzava la politica ucraina. Poco dopo il suo arresto, Putin ha cominciato ad ammassare truppe al confine. 

3. Cosa c’entra in tutto questo la Nato?

L’Ucraina vuole entrare nella Nato, la Russia si oppone. Già dal 2008 — in seguito al summit di Bucarest e prima dell’arrivo del governo filoeuropeo non riconosciuto da Putin — Kiev stava lavorando per entrare nell’Alleanza atlantica, che non può però accettare nuovi membri già coinvolti in conflitti. 

Per essere ammessa, inoltre, l’Ucraina ha bisogno di combattere la corruzione che domina nel Paese e di intraprendere un percorso di riforme politiche e militari. In questo momento, dunque, un ingresso nella Nato è altamente improbabile, non solo per l’opposizione della Russia: per Putin l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica è il punto di non ritorno, anche se Mosca non ha formalmente alcun potere di veto. L’Ucraina, invece, chiede una timeline precisa per entrare nell’Alleanza atlantica. 

A questa domanda ha risposto, indirettamente, anche il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden: «La possibilità che l’Ucraina si unisca alla Nato in tempi brevi è molto remota», ha detto il presidente americano. L’interferenza russa, intanto, ha rinnovato anche le ambizioni di Paesi come Finlandia e Svezia, che Mosca vorrebbe tenere fuori dal Trattato nordatlantico. 

4. Perché la Russia teme l’allargamento della Nato?

Al momento solo il 6% dei confini russi toccano Paesi della Nato, secondo il dipartimento di Stato americano. L’Ucraina però condivide con la Russia una frontiera lunga 2.200 chilometri. 

Il Cremlino vuole soprattutto mantenere la sua sfera d’influenza nell’area, e vuole che la Nato rinunci alle sue attività nell’Est Europa, tornando alla situazione del 1997: da allora sono diventati membri dell’Alleanza atlantica Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Tutti Paesi che facevano parte del blocco Sovietico. 

Questo significherebbe che la Nato dovrebbe ritirare le proprie truppe dalla Polonia e dalle tre repubbliche baltiche, oltre che i propri missili da Polonia e Romania. 

Mosca accusa infatti la Nato di riempire l’Ucraina di armi e gli Stati Uniti di fomentare le tensioni. 

Per questo Putin, parlando dopo l’incontro con Macron del 7 febbraio, ha parlato anche del suo arsenale atomico: «Lo capite o no che se l’Ucraina entra nella Nato e tenta di riprendersi la Crimea con mezzi militari, i Paesi europei saranno automaticamente trascinati in una guerra con la Russia? Ovviamente i potenziali militari di Russia e Nato sono imparagonabili, e lo sappiamo. Ma sappiamo anche che la Russia è uno dei Paesi dotati di armamenti nucleari, e che per alcune componenti supera il livello di diversi Paesi. Non ci saranno vincitori. Voi europei sareste trascinati in una guerra contro la vostra volontà». 

5. Putin aveva detto che non avrebbe invado l’Ucraina: perché non era credibile?

I fatti — specie dopo che le truppe russe sono entrate nei territori delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, che la Russia ha riconosciuto come indipendenti il 21 febbraio — indicavano già da tempo una situazione diversa: Putin aveva accumulato ai confini dell’Ucraina 190 mila soldati, oltre a mezzi militari di ogni tipo. Anche se ora afferma che l’obiettivo non è quello di occupare l’Ucraina, lo stanziamento di truppe è quello necessario per una invasione su larghissima scala del Paese. 

Putin aveva già attaccato la Cecenia nel 1999, la Georgia nel 2008 e la stessa Ucraina nel 2014. 

Come notato da Henry Foy sul Financial Times, però, si è anche verificato un approccio piuttosto inusuale per la diplomazia moderna: la Casa Bianca, la Nato e l’Unione europea hanno diffuso una grande quantità di briefing, informazioni di intelligence, minacce e accuse di vario genere — materiale in genere riservato ai negoziati — al fine di evitare una guerra. 

6. Ma come giustificava Putin lo schieramento dei soldati al confine?

La Russia ritiene di poter muovere le truppe a suo piacimento all’interno del proprio territorio, spiega il corrispondente da Mosca della Bbc Steve Rosenberg. E si ritiene libera di organizzare esercitazioni con la Bielorussia: da lì, secondo le informazioni diffuse dall’Ucraina, truppe russe sono entrate nel Paese. 

7. Perché gli Stati Uniti si interessano all’Ucraina?

Come scritto da Giuseppe Sarcina qui, «il presidente americano non ha cercato lo scontro con i russi: la sua agenda era un’altra». Biden è convinto che la crisi ucraina sia piena di rischi anche sul versante della politica interna. Il motivo è molto semplice. Se Putin bluffa o alla fine si arriva a un accordo, saranno in molti a rivendicarne i meriti. Ma se il leader russo attacca e paralizza mezzo Occidente, allora tutti chiameranno in causa le responsabilità, la «debolezza» di Biden. All’inizio del 2021 l’amministrazione americana pensava di poter «stabilizzare» le relazioni con il Cremlino, offrendo collaborazione sul terrorismo e un piano graduale di disarmo. Oggi è costretta, suo malgrado, a dover aggiornare la linea politica, preparandosi a uno scontro con Mosca che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda. La Casa Bianca, inoltre, non vuole farsi trovare impreparata a nessun livello, a costo di apparire allarmista. Ecco perché, tra l’altro, ha sollecitato i cittadini americani a lasciare Kiev: non si devono ripetere le disastrose e umilianti scene di panico viste a Kabul nell’agosto scorso. 

Gli Stati Uniti vogliono di certo limitare l’influenza di Vladimir Putin — temono l’espansione russa nell’Europa dell’Est — e difendere il principio per cui ogni Paese ha il diritto di scegliersi il proprio destino e le proprie alleanze: non solo per l’Ucraina, ma per tutti i Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia e che negli anni Novanta sono passati con la Nato. 

«C’è una ragione fondamentale per cui gli Stati Uniti e il resto del mondo democratico dovrebbero sostenere l’Ucraina nella sua battaglia contro la Russia di Putin», scrive Francis Fukuyama su American Purpose. «L’Ucraina è una vera democrazia liberale, anche se in difficoltà. La popolazione è libera, in un modo in cui i russi non lo sono. Possono protestare, criticare, mobilizzarsi e votare. Per questo Putin vuole invadere l’Ucraina: la vede come una parte integrante della Russia, ma sopratutto ne teme la democrazia che può proporre un modello ideologico alternativo per il popolo russo». 

Secondo Fukuyama, quindi, l’Ucraina oggi è lo Stato in prima linea nella battaglia geopolitica globale fra democrazia e autoritarismo. 

La crisi ucraina, inoltre, trascende i confini europei: anche la Cina sta osservando attentamente la risposta occidentale, scrive lo storico, mentre valuta i rischi di reincorporare Taiwan. «A Washington», scrive ancora Sarcina, «ora è chiaro a tutti che la partita sia doppia. La vice segretaria agli Esteri, Wendy Shelman, lo ha detto esplicitamente: se diamo via libera a Putin, stiamo anche consegnando Taiwan a Xi Jinping».

8. Quali sono le motivazioni storiche di Putin per invadere l’Ucraina?

(Alessandro Trocino) Per Vladimir Putin, dicevamo, russie ucraini costituiscono un’unica nazione. La logica conseguenza è che c’è uno Stato di troppo, che nel suo pensiero è naturalmente l’Ucraina. In un saggio pubblicato nel luglio del 2021 — «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini» — il presidente russo scrive che la ragione principale per cui russi e ucraini (e anche i bielorussi) sarebbero oggi lo stesso popolo è che tutti sono «discendenti» della «Rus di Kiev», un insieme di tribù slave, baltiche e finniche che nel nono secolo creò un’entità monarchica che comprendeva parte dell’attuale territorio ucraino, bielorusso e russo. L’identità russa, la sua cultura e il suo popolo nascono allora, in territorio ucraino, e solo in seguito si estendono ad altri territori slavi, quelli della Russia attuale. È il principe di Kiev Vladimiro che si converte al cristianesimo, a dare avvio alla lunga storia della Chiesa ortodossa russa . L’Ucraina diventa poi una regione marginale, di frontiera (come dice il suo nome), e viene sottomessa dalla Polonia. La Russia, nel 500, impone la sua egemonia con Ivan il Terribile.

A partire dal 1990 ci sono state tre rivoluzioni in Ucraina.

• La rivoluzione sul granito nell’ottobre del 1990. Gli studenti protestano chiedendo libere elezioni. Sono le premesse dell’indipendenza ucraina, avvenuta nel 1991.

• La rivoluzione arancione del 2004, con le proteste anti russe in seguito ai brogli elettorali e l’avvelenamento di Yushenko. Il Cremlino riesce a far eleggere un suo uomo, Viktor Yanukovich.

• La Rivoluzione della dignità o l’Euromaidan, nel novembre 2013 – febbraio 2014: manifestazioni pro europee, dopo la sospensione dell’accordo di libero scambio tra Ucraina e Ue. Le proteste sfociano nella fuga e nella messa in stato di accusa del presidente ucraino filo-russo Yanukovich. La reazione di Putin è l’annessione della Crimea e l’appoggio dei separatisti russi del Donbass, in Ucraina orientale, in una guerra a bassa intensità che dura da allora è ha fatto 14 mila morti.

La lingua è una delle componenti principali dell’identità di un popolo. In Ucraina si parla il russo (prevalentemente a est), l’ucraino (a ovest) e il Surzhyk (nelle campagne), un misto dei due (ma si parlano anche l’ungherese, il rumeno e il tataro in Crimea). La maggior parte della popolazione è bilingue. Il presidente Zelensky, anti Putin, è di madrelingua russa. Ucraino e russo sono lingue correlate ma distinte. La lingua di Stato è l’ucraino, che dopo secoli di marginalità, è tornato ad essere ascoltato soprattutto durante l’Unione Sovietica. Il russo è attualmente ancora molto parlato ma si cerca di disincentivarlo, considerandolo talvolta «la lingua dell’occupante». Nel 2019 è stata approvata una legge che punta a incrementare l’uso dell’ucraino. L’europeizzazione del Paese ha portato con sé un aumento dell’uso dell’ucraino. L’insistenza sulla lingua può diventare uno strumento di nazionalismo e di oppressione delle minoranze. E su questo punto spinge Mosca, come scrive il Washington Post, usando la questione della lingua per dipingere i governanti di Kiev come «fascisti» etnocentrici inclini a tiranneggiare la popolazione russofona dell’Ucraina. L’accusa contro l’emarginazione dei russofoni è stata usata come arma anche per l’annessione della Crimea.

9. Crimea, Donbass, accordi di Minsk e finlandizzazione: la guida 

(Alessandro Trocino) La Crimea. Nel 1954 la Crimea, penisola a maggioranza russofona, era stata donata a Kiev dal leader (ucraino) dell’Unione Sovietica Nikita Krusciov. Per Putin, riannettere la Crimea alla Russia significa correggere «un’ingiustizia storica». E così, nel 2014, 20 mila militari russi, con il pretesto di difendere la popolazione russofona, prendono il controllo della regione. Poco dopo, l’annessione. Di recente, Internazionale ha parlato di una colonizzazione della Crimea.

Il Donbass. Nel 2014, stesso anno dell’annessione della Crimea, i separatisti filorussi del Donbass, regione orientale molto abitata da russofoni, si scontrano con l’esercito regolare. I ribelli prendono il controllo di parti del territorio, dichiarandole indipendenti con il nome di Repubblica Popolare di Lugansk e Repubblica Popolare di Donetsk. Sono le due «Repubbliche» la cui indipendenza Putin ha annunciato di voler riconoscere.

Gli accordi di Minsk 1 e 2. Nel 2015, come spiegato nel dettaglio da Marta Serafini, Mosca e Kiev firmano un cessate il fuoco che prevede elezioni nelle regioni separatiste e il ritiro delle forze filo russe. È il cosiddetto accordo di Minsk 2 (il primo era fallito l’anno precedente). Ma il protocollo non è mai stato del tutto implementato. Non solo dalla Russia, ma anche dall’Ucraina, come ha sostenuto Fabrizio Dragosei sul Corriere. L’Economist, più anti Putin, avverte: «La Russia sta invocando l’accordo di Minsk per seminare il caos, non per portare la pace».

La finlandizzazione. Con questo termine si intende la neutralità scelta dopo la Seconda guerra mondiale dalla Finlandia, che non entrò nella Nato ma neanche nell’orbita di Mosca. Se l’Ucraina scegliesse di non entrare nella Nato, non sarebbe violato il principio della autodeterminazione dei popoli, anche se il Paese resterebbe di fatto a sovranità limitata. Tra l’altro gli ucraini sono certamente più vicini all’Europa che alla Russia e l’attuale presidente Volodymyr Zelensky, eletto nel 2019, è vicino all’Occidente. Sia Svezia sia Finlandia pensano ora di chiedere l’ingresso nella Nato. Un possibile compromesso — lanciato dall’ambasciatore ucraino a Londra — prevede una moratoria di dieci anni per l’entrata dell’Ucraina (che al momento non ha neanche i requisiti).

Il gas. Dall’Ucraina (che è sempre stato anche il granaio della Russia) passa il 37 per cento del gas naturale diretto dalla Russia verso Occidente. Il 40 per cento del gas che usiamo in Italia arriva dalla Russia. È in corso la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2, per portare il gas direttamente in Germania dal Baltico. L’Europa ha peggiorato negli ultimi anni la sua dipendenza dal gas e in questo ha contribuito la decisione di dismettere il nucleare in Germania. Naturalmente, la chiusura dei rubinetti è l’arma più forte per la Russia, che ha già ridotto le forniture (tranne che in Germania, in un tentativo di dividere l’Europa). Ma è vero anche il contrario, come ha spiegato qui Gianluca Mercuri. Per capire l’aumento vertiginoso delle bollette e il rapporto con la crisi in Ucraina, è molto utile l’ascolto del Daily, con Stefano Agnoli e Federico Fubini.

La Nato. L’Ucraina si trova tra l’Unione europea e la Russia e ha ricevuto sostegno e 2,7 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, a partire dal 2014. Il timore di Putin è che il Paese entri nella Nato, cosa che viene considerata una minaccia per le frontiere. Il 4 aprile 2008 durante il vertice Nato, convocato a Bucarest, gli Usa fanno pressioni per l’ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza, ma non se ne fa nulla a causa dell’opposizione di Italia, Francia e Germania. Nel 2021 la Russia presenta agli Stati Uniti una lista di richieste: la Nato dovrebbe fermare la sua espansione verso est, negare l’adesione all’Ucraina e annullare il dispiegamento di truppe nel blocco di Paesi — da quelli baltici ai Balcani — che si sono uniti dopo il 1997. Ultimatum respinti da Usa e Nato. Per capire la questione dei Paesi del Patto di Varsavia e di un presunto patto non scritto tra Bush e Gorbaciov (per la non espansione della Nato), è utile il Dataroom di Milena Gabanelli e Francesco Battistini.

Perché l'Ucraina è così importante per la Russia e per l'Occidente. Massimo Basile su La Repubblica il 24 febbraio 2022.

L'ex Paese sovietico si è allontanato sempre di più da Mosca e guarda all'Ue e alla Nato. Un Paese grande il doppio dell’Italia, ma con quasi venti milioni di persone in meno, diventato la bilancia tra Est e Ovest. L’Ucraina è considerata importante per l’Unione Europea, strategica per gli Stati Uniti e vitale per la Russia, che ne ha fatta la sua ossessione. I russi vedono la capitale, Kiev, come il cuore storico della Russia medievale, terra di grandi scrittori in lingua russa come Nikolaj Gogol e Michail Bulgakov, rivoluzionari comunisti come Leon Trotsky e leader storici come Leonid Breznev. Ma l’aspetto culturale e storico passa in secondo piano in questa delicata partita per gli equilibri internazionali. Vediamo che cosa c’è in gioco.

Perché l’Ucraina è così importante per la Russia?

Questa è la domanda chiave per capire costa sta succedendo. La Russia considera l’Ucraina come parte naturale della sua sfera di influenza. In questo Stato, con capitale Kiev, si parla ucraino, che è leggermente diverso dal russo, ma molti ucraini sono di madrelingua russa, nati quando il Paese faceva parte dell’Unione Sovietica prima di ottenere l’indipendenza, raggiunta nel 1991. La crisi di ora nasce nel 2014 quando a Kiev venne rimpiazzato il presidente filorusso Viktor Yanukovych con uno più aperto all’occidente, Petro Poroshenko, vincitore alle elezioni. Con l’adesione di molte ex repubbliche sovietiche all’Unione Europea e alla Nato - come Estonia, Lettonia e Lituania - Mosca teme che l’Ucraina possa segnare la fine dell’influenza russa nell’area.

Il Cremlino considera lo "Stato dei cosacchi" la linea rossa che non può essere superata e il popolo ucraino “una cosa sola” con quello russo, anche se gli ucraini non si considerano così. Proprio l’intrusione dell’Occidente durante l’invasione del 2014 è qualcosa che Putin non ha mai accettato. Per il Cremlino l’obiettivo non è solo riportare l’Ucraina sotto la propria sfera, ma mostrare agli ucraini che non hanno scelta e che l’Europa e gli Usa si mantengono contraddittori e incerti nei loro confronti.   

Perché l’Ucraina è così importante per Europa e Stati Uniti?

Questo Stato di più di quaranta milioni di persone rappresenta per l’Ue e Stati Uniti la cartina di tornasole dell’influenza dell’Occidente a Est. L’Ucraina, attualmente, non fa parte né dei 27 membri dell'Ue né dei 30 della Nato, ma dall’Alleanza atlantica di difesa riceve aiuti finanziari e armamenti. Cioè che europei e americani temono è che, in caso di successo militare da parte della Russia, il presidente Vladimir Putin si sentirebbe autorizzato ad attaccare anche Estonia, Lettonia e Lituania, membri Nato, inseguendo il disegno di una ricostituzione dell’Unione Sovietica, come sotto colui che rappresenta il modello di leader a cui si ispira Putin: il dittatore sovietico Iosif Stalin. 

Il motivo per cui Biden ha detto che non invierà soldati in Ucraina, ma dislocherà quelli di stanza in Europa a difesa dei tre Paesi ex sovietici, conferma l’altra preoccupazione di Washington: vedere una guerra di annessione allargata, che, nel caso di Estonia, Lettonia e Lituania, coinvolgerebbe direttamente la Nato, aprendo scenari di guerra mondiale. Da parte loro, vincendo, gli Stati Uniti ristabilirebbero invece una grande influenza sull’ordine mondiale, dopo che nell’ultimo decennio la leadership si è un po’ allentata. E lancerebbero un messaggio di forza alla Cina, che segue con interesse l’evoluzione della crisi in Europa: Pechino vuole vedere come si comporterà Washington e quanto riuscirà a farsi seguire dagli alleati, perché è ciò che potrebbe succedere in futuro quando la Cina invaderà Taiwan, che per gli Usa rappresenta in un certo senso l’Ucraina della regione asiatica.  

Che cosa cerca la Nato in questa crisi?

Dopo l’annessione della Crimea, Putin ha preso di mira la zona est dell’Ucraina e dato voce ai movimenti separatisti. È qualcosa di simile fatto con la Georgia nel 2008, cioè proprio nell’anno in cui dalla Nato, nel corso del vertice di Bucarest, erano arrivate aperture all’ingresso di Ucraina e Georgia. Il messaggio di Mosca era stato chiaro: se questi due Paesi provano ad aderire al Patto Atlantico, sia gli Usa sia l’Unione Europea dovranno fare i conti con la Russia. I membri europei della Nato vedono da sempre i russi come vicini da tenere d’occhio, considerata la loro prossimità geografica, la potenza militare e economica. Ma dopo anni di sbandamento, indeboliti da Donald Trump, desideroso di smantellare l’alleanza anche per fare un “favore” all’amico Putin, la Nato ha trovato una sua nuova ragione di esistere, individuando dopo decenni un avversario comune: Mosca. L’immediata compattezza nella risposta alle minacce di Putin ha dato un senso all’Alleanza Atlantica, e, per certi versi, ha finito per sorprendere il presidente russo.

La Russia accusa gli Stati Uniti di aver rotto gli accordi, estendendosi a Est. È così?

I russi sostengono che il governo americano fece una promessa ai leader dell’Unione Sovietica, all’indomani del crollo del Muro di Berlino, avvenuto nel 1989: non avrebbero allargato i confini a est. I sostenitori di questa tesi citano l’allora segretario di Stato James Baker che al leader Mikhail Gorbaciov avrebbe detto, nel febbraio 1990, che “non ci sarebbe stata nessuna estensione della giurisdizione Nato a Est, neanche di un centimetro”. Molti analisti occidentali e ex funzionari di governo di Washington contestano questa versione. L’interesse degli Stati Uniti in quegli anni era limitato alla Germania e non ci fu nessun discorso sull’Est Europa. Lo stesso Gorbaciov, in un’intervista del 2014, chiuse la questione, smentendo la versione russa: “Il tema dell’espansione Nato non è mai stato discusso. In quegli anni non se ne parlò”.

Che cosa chiede Mosca a Stati Uniti e Nato?

Mosca aveva presentato due bozze d’accordo che in modo esplicito e legale puntavano a ottenere garanzie da Washington e Nato. I due trattati si sovrappongono, perché toccano gli stessi argomenti: Mosca chiede alla Nato di mettere fine alla sua espansione a Est e vieta future adesioni di ex Stati sovietici, tra cui l’Ucraina. Inoltre vieta agli Usa di stabilire basi e cooperazioni militari con gli ex Stati dell’Unione Sovietica. I trattati stabiliscono che le parti riducano la gittata dei loro missili e siano limitati ad aree da dove non possono colpire territori dell’altro. Si vieta, inoltre, a entrambe le parti a sviluppare armi nucleari fuori dai rispettivi territori.  

Quale è stata la risposta di Nato e Stati Uniti?

Il presidente Biden e gli Alleati, nel corso degli incontri con il presidente Putin, hanno aperto alla possibilità di ridurre gli armamenti e la gittata dei missili, e si sono dichiarati pronti a discutere sul nucleare. Ma sull’Ucraina non accettano limitazioni, ritenendo un diritto di Kiev decidere in autonomia cosa vuole fare. La volontà degli ucraini, espressa più volte in passato, è quella di diventare sempre più europei e tenersi lontani dalla morsa dei regimi autoritari.

Ma alla fine, l’Ucraina potrebbe davvero entrare a far parte della Nato?

Sul breve periodo nessuno della diplomazia internazionale ritiene possibile un ingresso di Kiev nel Patto Atlantico. E il motivo è proprio nell’atteggiamento dei maggiori Paesi che aderiscono alla Nato. Francia e Germania si sono opposti in passato all’ingresso dell’Ucraina, e altri Paesi si sono mostrati tiepidi. Per entrare nell’Alleanza serve l’unanimità dei trenta membri, condizione che al momento non esiste. Lo stesso presidente Biden è scettico. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, come leader democratico della commissione Esteri del Senato, Biden aveva fatto pressione con successo sulla Nato perché accettasse Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca come stati membri, alla fine degli anni ’90. L’allora senatore era convinto che trasformare ex avversari nella Guerra Fredda in alleati avrebbe segnato “l’inizio di altri cinquant’anni di pace” per l’Europa. 

Ma vent’anni di guerra in Iraq e Afghanistan hanno raffreddato l’entusiasmo di Biden verso un allargamento della Nato a Paesi che non garantiscono gli standard americani. Mentre, nel giugno 2021, il segretario di stato americano Antony Blinken ha dichiarato pubblicamente il sostegno all’ingresso dell’Ucraina, Biden è sempre stato più tiepido. Il presidente vuole prima vedere miglioramenti a livello di democrazia interna e libertà individuali. In un report del 2020 di Transparency International, una organizzazione bipartisan, l’Ucraina è finita al 117° posto su 180 Paesi in una classifica sulla corruzione. Più la posizione era bassa, più il Paese era considerato “corrotto”. La Danimarca era risultata la meno compromessa, l’Italia si era assestata al 52°, l’Ucraina era finita insieme a Egitto, Sierra Leone e Zambia, la più bassa rispetto a tutti i membri Nato.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "C'è ancora tempo per la buona volontà, c'è ancora spazio per il negoziato, c'è ancora posto per l'esercizio di una saggezza che impedisca il prevalere degli interessi di parte, tuteli le legittime aspirazioni di ognuno e risparmi il mondo dalla follia e dagli orrori della guerra". 

Così il card. Pietro Parolin, segretario di Stato, dopo che la crisi in Ucraina è precipitata in un conflitto. "Noi credenti non perdiamo la speranza su un barlume di coscienza di coloro che hanno in mano i destini del mondo. E continuiamo a pregare e digiuniamo - lo faremo il prossimo Mercoledì delle Ceneri - per la pace in Ucraina e nel mondo intero". 

"Di fronte agli sviluppi odierni della crisi in Ucraina, risaltano ancora più nette e più accorate le parole che il Santo Padre Francesco ha pronunciato ieri al termine dell'Udienza generale - ha dichiarato il card. Parolin ai media vaticani -. Il Papa ha evocato 'grande dolore', 'angoscia e preoccupazione'. 

Ed ha invitato tutte le Parti coinvolte ad 'astenersi da ogni azione che provochi ancora più sofferenza alle popolazioni', 'destabilizzi la convivenza pacifica' e 'screditi il diritto internazionale'". "Questo appello acquista una drammatica urgenza dopo l'inizio delle operazioni militari russe in territorio ucraino. I tragici scenari che tutti temevano stanno diventando realtà", ha aggiunto il segretario di Stato vaticano.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - I Vescovi del Mediterraneo, riuniti a Firenze, "esprimono preoccupazione e dolore per lo scenario drammatico in Ucraina, e rinnovano la loro vicinanza alle comunità cristiane del Paese". Accogliendo l'invito del Papa a vivere il 2 marzo una giornata di digiuno e preghiera per la pace, i Vescovi "fanno appello alla coscienza di quanti hanno responsabilità politiche perché tacciano le armi. Ogni conflitto porta con sé morte e distruzione, provoca sofferenza alle popolazioni, minaccia la convivenza tra le nazioni. Si fermi la follia della guerra!". Essi "conoscono bene questo flagello, per questo chiedono a una sola voce la pace". (ANSA).

Gianni Cardinale per “Avvenire” il 24 febbraio 2022.  

Papa Francesco manifesta «un grande dolore nel cuore per il peggioramento della situazione nell'Ucraina». E invita tutti ad una nuova giornata di preghiera per la pace per mercoledì prossimo, quando la Chiesa con la celebrazione delle Ceneri entra nel tempo di Quaresima. Il Pontefice lancia questo ennesimo appello al termine dell'udienza generale.

«Nonostante gli sforzi diplomatici delle ultime settimane - osserva con amarezza il successore di Pietro si stanno aprendo scenari sempre più allarmanti ». «Come me - aggiunge - tanta gente, in tutto il mondo, sta provando angoscia e preoccupazione », perché «ancora una volta la pace di tutti è minacciata da interessi di parte».

Di qui l'appello forte e chiaro «a quanti hanno responsabilità politiche, perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è Dio della pace e non della guerra; che è Padre di tutti, non solo di qualcuno, che ci vuole fratelli e non nemici». Di qui l'implorazione a «tutte le parti coinvolte perché si astengano da ogni azione che provochi ancora più sofferenza alle popolazioni, destabilizzando la convivenza tra le nazioni e screditando il diritto internazionale».

Papa Francesco si appella «a tutti, credenti e non credenti ». «Gesù - prosegue - ci ha insegnato che all'insensatezza diabolica della violenza si risponde con le armi di Dio, con la preghiera e il digiuno». E invita «tutti a fare del prossimo 2 marzo, mercoledì delle ceneri, una Giornata di digiuno per la pace». Con un incoraggiamento «speciale» ai credenti perché «in quel giorno si dedichino intensamente alla preghiera e al digiuno ».

«La Regina della pace - è l'invocazione finale di Francesco di fronte i pellegrini presenti nell'Aula Paolo VI - preservi il mondo dalla follia della guerra». Ormai in ogni occasione pubblica il Papa alza la sua voce per scongiurare i venti di guerra che spirano in Ucraina. «Com' è triste quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi guerra!», ha esclamato domenica, all'Angelus, con una «amara constatazione», ha scritto l'Osservatore Romano, ispirata dal brano evangelico del giorno incentrato sul noto invito di Gesù a «porgere l'altra guancia».

 Il 18 febbraio, parlando alla plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, il Papa aveva denunciato i «venti minacciosi soffiano ancora nelle steppe dell'Europa Orientale, accendendo le micce e i fuochi delle armi e lasciando gelidi i cuori dei poveri e degli innocenti». «L'umanità, che si vanta di andare avanti nella scienza, nel pensiero, in tante cose belle, - aveva aggiunto - va indietro nel tessere la pace. È campione nel fare la guerra. E questo ci fa vergognare tutti».

«La guerra è una pazzia!», ha poi sospirato Francesco nell'udienza generale del 9 febbraio, ringraziando «tutte le persone e le comunità» che il 26 gennaio precedente «si sono unite nella preghiera per la pace in Ucraina», la prima da lui convocata con questo scopo. Nelle parole del Papa, come in quelle rivolte dal cardinale segretario di stato Pietro Parolin in una telefonata al capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, l'arcivescovo Sviatoslav Schevchuk, c'è la vicinanza al popolo ucraino, la preoccupazione per lo scoppio di un conflitto dalle conseguenze devastanti per le popolazioni. Non ci sono parole di condanna esplicita verso la Russia di Vladimir Putin.

L'Osservatore Romano da parte sua ospita delle cronache puntuali sulle reazioni internazionali - statunitensi, dell'Unione europea, di Canada e Giappone, del segretario generale dell'Onu Antonio Guterres - a quella che viene comunque definita una «aggressione contro l'Ucraina ». In più, nell'edizione di ieri pomeriggio, il quotidiano della Santa Sede ha ospitato un commento - sotto il titoletto "La domanda" - firmato da Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero vaticano per la comunicazione. 

Dopo aver ricordato che nel 2008 Francia e Germania votarono contro l'adesione dell'Ucraina alla Nato perché avrebbe rappresentato un atto ostile verso la Russia, Tornielli ribadisce che «la responsabilità della guerra è sempre di chi la fa invadendo un altro Paese». 

Ma poi aggiunge: «C'è però da domandarsi: qual è la strada per trovare una soluzione pacifica? Va ricercata dentro gli schemi bellici delle alleanze militari che si espandono e si restringono o piuttosto in qualcosa di nuovo in grado di farsi anche carico degli errori del passato ( che non stanno da una parte sola) restituendo una prospettiva realistica alla speranza di una diversa convivenza fra i popoli?»

Dopo Skuola. Ucraina, la guerra “entra” in classe: 8 studenti 10 ne hanno parlato a scuola. Daniele Grassucci su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.

Gli studenti vogliono capire cosa sta succedendo tra Russia e Ucraina. E la scuola risponde: più dell’80% ha affrontato la questione in classe, spesso quotidianamente e con insegnanti diversi. Ma ovunque si parla di quanto sta accadendo: in famiglia, con gli amici. E quasi tutti approfondiscono da soli.

Il Ministro chiama, la scuola risponde. L’invito del responsabile dell’Istruzione, Patrizio Bianchi che, all’indomani dell’invasione russa in Ucraina aveva chiesto agli studenti di riflettere sulla guerra, partendo dall’articolo 11 della Costituzione Italiana – che verte proprio sul ripudio dei conflitti armati – sembra essere stato pienamente raccolto dagli istituti. Secondo un sondaggio effettuato da Skuola.net su un campione di 2.000 alunni di medie e superiori, infatti, oltre 8 su 10 negli ultimi giorni hanno affrontato l’argomento in classe. Non solo, per il 40% degli intervistati si è trattato di un’attività frequente, quotidiana. A questi, va aggiunto un altro 11% che avrebbe voluto affrontare il tema, ma a cui la scuola non ha dato questa possibilità. Solo il 7% è rimasto totalmente estraneo a ciò che sta accadendo.

Ne parlano tutti, non solo il prof di Storia

In che modo si è parlato del conflitto ucraino nelle nostre classi? In maniera decisamente trasversale visto che, in oltre la metà dei casi (57%) più di un docente ha innescato la discussione durante le proprie lezioni. Portando a immaginare che non sia stato fatto solamente nell’ora di Storia. Cosa che, invece, è presumibile sia accaduta a quel 29% che ha detto di aver dibattuto sul conflitto con un docente solo. Non manca, inoltre, chi gli ha dedicato un momento specifico: 1 su 10 dice di aver organizzato un’assemblea – di classe o di istituto – ad hoc sul tema.

Il dibattito prosegue in famiglia e tra coetanei

Come prevedibile, però, l’approfondimento della guerra in Ucraina non si è fermato all’interno delle aule scolastiche. Praticamente tutti quelli che hanno affrontato la questione a scuola, hanno proseguito il confronto anche fuori: la maggior parte (41%) soprattutto in famiglia, molti altri (39%) sia con adulti che con coetanei, altri ancora (16%) solamente con amici o compagni di classe. Lo stesso hanno fatto quei, pochi, che a scuola non hanno potuto dire la loro: qui, probabilmente per recuperare, la fetta più grande (43%) ha voluto confrontarsi sia con persone più grandi che con altri ragazzi, mentre il 31% si è accontentato di una discussione in famiglia, il 21% di un dibattito tra coetanei.

C’è voglia di approfondire la questione

Ma quasi tutti gli studenti (97%) non si sono voluti limitare a momenti di discussione collettiva e hanno dedicato parte delle loro giornate all’approfondimento individuale. I canali d’informazione tradizionali la fanno da padrone: più di 6 su 10 hanno guardato soprattutto telegiornali, giornali, siti web dei quotidiani; 1 su 5 si è affidato ai social network. Gli altri hanno attinto gli spunti principali proprio parlando con altri (10%) o grazie alla scuola (4%).

Gli ufo scortano i bombardieri sopra l'Ucraina: il motivo “nucleare” e la teoria del complotto di Red Ronnie. Il Tempo il 28 febbraio 2022.

Dal Covid alla guerra tra Ucraina e Russia. Red Ronnie, giornalista e conduttore televisivo, ha pubblicato un video sul proprio canale YouTube parlando del conflitto nell’est Europa e delle nuove teorie del complotto sorte sullo scontro: “Gli Stati Uniti hanno appena stanziato 770 miliardi di dollari per difendersi dagli ufo. Quando si usa la parola difendersi, nel campo militare significa attaccare, soprattutto gli Stati Uniti d’America. Gli ufo si fanno vivi molto più spesso. Sopra i cieli dell’Ucraina ci sono - le parole sicure - degli ufo che scortano i bombardieri. C’è chi sostiene, non io, io riporto, che non vogliono che ci siano esplosioni nucleari, quindi stanno molto attenti che questo non si verifichi. Praticamente, sono dei guardiani”. 

C’è stato spazio anche per una teoria sul Covid, che sarebbe soltanto “un esperimento di comunicazione mediatica per distruggere il nostro Paese e svenderlo”. Bombe e missili non fermano i complottisti.

Da rollingstone.it il 28 febbraio 2022.

Dopo avere smascherato il complotto dietro al coronavirus, che sarebbe «un esperimento di comunicazione mediatica per distruggere il nostro Paese e svenderlo» (lo ha detto in questa intervista), Red Ronnie ha deciso di dire la verità anche su quel che accade nei cieli dell’Ucraina. 

Nel video della serie “Cosa succede in città” che ha diffuso nel weekend, Red Ronnie comincia col botto riportando una balla spaziale: «Gli Stati Uniti hanno appena stanziato 770 miliardi di dollari per difendersi dagli ufo». E aggiunge: «Quando si usa la parola difendersi, nel campo militare significa attaccare, soprattutto gli Stati Uniti d’America».

Ora, 770 miliardi di dollari è la cifra stanziata in dicembre dal Senato per l’intero National Defense Authorization Act. Perché secondo Red Ronnie gli Stati Uniti avrebbero deciso di smettere di finanziare qualsiasi altra attività militare e utilizzare l’intero budget per la difesa per attaccare gli alieni? «Perché gli ufo si fanno vivi molto più spesso», dice. 

Non pago, la spara ancora più grossa svelando una verità che i media mainstream tengono nascosta: «Sopra i cieli dell’Ucraina ci sono degli ufo che scortano i bombardieri». Di chi sarebbero questi bombardieri scortati dagli ufo? Red Ronnie non lo dice, spiega però il motivo che ha spinto gli ufo a sorvolare l’Ucraina. Nel farlo aggiunge un «c’è chi sostiene», forse conscio che è andato oltre: «C’è chi sostiene, non io, io riporto, che non vogliono che ci siano esplosioni nucleari, quindi stanno molto attenti che questo non si verifichi. Praticamente, sono dei guardiani». 

Grazie alieni, guardiani del cielo che ci proteggete dalla guerra nucleare.

NAZISTA…A CHI?

Nazista a chi?

Da corriere.it l'8 maggio 2022.  

I combattenti di Azovstal: «Combatteremo fino alla fine»

I combattenti ucraini barricati nell’acciaieria Azovstal a Mariupol hanno tenuto una conferenza stampa online durante la quale hanno dichiarato che «ci sono molti militari feriti da evacuare» da Azovstal a Mariupol «ma combatteremo fino alla fine: la resa per noi è inaccettabile». «Le forze russe - hanno detto - stanno continuando a bombardare l’area e stanno cercando di assaltare l’impianto». 

I civili, secondo quanto dichiarato dal presidente Zelensky in un videomessaggio, sono già stati tutti evacuati ma il capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov che è intervenuto alla conferenza stampa, ha sottolineato di non poterlo confermare. Il responsabile dell’intelligence del reggimento Azov, Ilya Samoilenko, nel suo intervento, ha dichiarato che sono «più di 25mila le persone che sono morte a Mariupol, in gran parte civili». 

Palamar ha aggiunto: «Ora i nostri politici stanno provando a negoziare con quegli animali. Ma non ricordano cosa hanno fatto? Non possiamo parlare con questa gente. Il nostro obiettivo è eliminare la minaccia: servono più armi, più munizioni, più addestramenti, più aiuti a livello logistico». 

Putin: «La vittoria sarà nostra, sconfiggeremo la feccia nazista »

«I nostri militari, proprio come i loro antenati, stanno combattendo insieme per liberare il loro suolo dalla feccia nazista»: lo ha scritto il presidente russo, Vladimir Putin, in «telegrammi di congratulazioni» inviati ai leader delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk nel 77esimo anniversario della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica: lo scrive il Cremlino sul suo sito, sottolineando che il leader russo ha inoltre «espresso la certezza che la vittoria sarà nostra, proprio come nel 1945».

Il presidente russo ha inviato un messaggio agli altri Paesi della Federazione russa in occasione del 9 Maggio, festa nazionale per la vittoria in Europa dell’Unione Sovietica sul nazismo, in cui ha affermato che «il dovere comune oggi è prevenire la rinascita del nazismo che ha portato tante sofferenze a persone di diversi Paesi», così come «è necessario preservare e trasmettere ai posteri la verità sugli eventi degli anni della guerra, i valori spirituali comuni e le tradizioni di amicizia fraterna». 

"I crimini di guerra dei russi? Gli Azov usavano scudi umani". Gian Micalessin il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il capo delle milizie musulmane: "Noi siamo cittadini della Russia. Se il Paese è in pericolo accorriamo".

Rubisnaya. «La Repubblica di Cecenia fa parte della Federazione russa e quando la Russia è in pericolo il popolo ceceno ha il dovere di correre in soccorso. Per questo sono qui». Se gli chiedi cosa ci facciano lui e i suoi uomini a 1.700 chilometri da Grozny in un'Ucraina cristiana così diversa dalle montagne della Cecenia musulmana il comandante Zamid Alievich Chalaev non ha dubbi. Nel 2021 si guadagnò il titolo di eroe della Russia sgominando l'ultima cellula cecena dell'Isis, oggi è pronto a replicare contribuendo alla caduta di Severodonetsk, ultima roccaforte ucraina sui territori dell'autoproclamata repubblica di Lugansk. E poco importa se i ceceni sono stati in passato i grandi nemici della Russia dì. «Quel passato non conta - spiega in questa intervista a Il Giornale il 41enne comandante delle unità cecene schierate sui fronti del Lugansk - le guerre del '94 e del 2000 le fomentarono gli americani pronti, anche allora, ad allearsi con chiunque pur di indebolire la Russia. Sono stati gli americani a mettere i nostri popoli l'uno contro l'altro sfruttando il fanatismo di qualche piccolo gruppo wahabita. La maggioranza dei ceceni non ha mai appoggiato quelle mosse. Per fortuna il nostro leader Ramzan Kadirov, e prima ancora suo padre Achmat, hanno messo fine a quell'inganno contribuendo alla riconciliazione tra i nostri popoli».

Americani ed europei vi accusano di crimini di guerra per il vostro ruolo in questa guerra...

«Questo è totalmente falso non dovete neanche chiederlo. Chi lo dice dovrebbe dimostrarlo esibendo le prove. Ho partecipato personalmente ai combattimenti di Mariupol e ho visto come andavano le cose. Il reggimento Azov usava i civili come scudi umani, impediva loro di fuggire e sparava su chi tentava di farlo. Mentre ero lì ho ascoltato una comunicazione tra un unità di quel reggimento. Volevano sapere cosa fare di un furgone diretto fuori città e il comando ha ordinato di distruggerlo nonostante fosse pieno di civili. Noi non abbiamo mai fatto cose del genere, abbiamo sempre contribuito all'evacuazione dei civili».

Molti musulmani vi considerano degli infedeli perché state dalla parte di Putin.

«Farebbero meglio a guardare a quel che ha fatto l'America in Siria armando e sobillando le correnti del wahabitismo più fanatico e intollerante contro il presidente Bashar Assad. Noi ceceni abbiamo mandato due reggimenti a combattere al fianco di Assad. Sappiamo che la maggioranza della popolazione siriana sta con lui e con i nostri alleati russi».

E qui qual è il vostro obbiettivo?

«Qui siamo in prima linea nell'offensiva per la conquista di Severodonetsk. Ho convogliato qui tutti gli uomini che avevamo a Mariupol e li ho schierati tra Rubisnaya e Kamishevaka. Grazie alla presenza dei miei uomini al fianco degli alleati russi e ai combattenti di Lugansk la pressione si sta facendo sempre più imponente. Tra breve avremo il controllo di tutto il Lugansk. E potremo dedicarci alla lotta per liberare anche i territori di Donetsk».

Battaglione Azov, addio: ecco il comandante Kraken e la "brigata omosessuale", clamoroso in Ucraina. Mirko Molteni su Libero Quotidiano l'1 giugno 2022

Nonostante la resa a Mariupol del battaglione Azov, gli ucraini ne hanno già annunciato la resurrezione. O meglio, la costituzione di una nuova unità col medesimo nome. Un modo per ricompattare le frange estremiste, con simpatie naziste, della complessa galassia che compone le forze ucraine. Ma anche un richiamo al nome stesso del Mar d'Azov, che i russi considerano «tolto per sempre all'Ucraina», ma che gli ucraini sperano di recuperare. Ad annunciare la formazione, a Kharkiv, di un nuovo battaglione Azov è un ex-membro del medesimo, che attualmente comanda il battaglione Kraken legato ai servizi segreti ucraini SBU. È Konstantin Nemichev, detto "comandante Kraken", che su Telegram ha scritto: «L'unità Azov SSO Kharkiv è stata ufficialmente costituita nella città. È un'altra delle nostre unità di combattimento che opererà nella regione di Kharkiv e libererà la nostra terra dagli occupanti». Il nuovo comandante dell'Azov è indicato in Anatoliy Sydorenko, ma lo stemma del battaglione non porterà più il cosiddetto "Wolfsangel", la runa germanica che riproduce il gancio per la caccia al lupo, bensi tre spade su sfondo giallo.

Il nuovo Azov è in via di organizzazione e non si sa se sarà formato da volontari o da soldati di leva delle forze regolari ucraine. Di certo, l'uomo che ne ha annunciato la rinascita, Nemichev, capeggia un'unità che nel nome Kraken, richiama anch' essa i miti nordici, essendo il Kraken un mostro marino, simile a una piovra, della tradizione vichinga. Nemichev era stato nel 2021 candidato alle elezioni comunali di Kharkiv, dopo aver militato nell'Azov in Donbass. Poi è assurto a capo del Kraken, che secondo i russi radunerebbe pur' esso elementi neonazisti provenienti dal Pravyi Sektor. Proprio ieri, peraltro, il generale russo Mikhail Mizintsev, ha sostenuto che: «Militanti dell'unità nazionalista Kraken, composta da estremisti, assassini e stupratori liberati dalle prigioni, conducono incursioni punitive nella regione di Kharkiv. Cosiddette squadre della morte irrompono di notte nelle case dei residenti locali sospettati dal servizio segreto ucraino SBU di simpatie pro-russe, eli sottopongono a violenze fisiche, portandoli via di casa».

Mizintsev ha detto inoltre che «militanti del Pravy Sektor hanno installato postazioni da cecchino in case di civili nei villaggi dell'area di Borovskoye, impedendo agli abitanti di lasciare le case». Intanto, per assicurare un po' di "politically correct" all'esercito ucraino e giustificarne ancor di più l'appoggio da parte dell'Europa, altrimenti imbarazzata dalle brigate neonaziste, ecco nascere in Ucraina anche una sorta di "brigata omosessuale e transessuale LGBT+" che ha come simbolo un unicorno sulle spalline. Un'iniziativa difficile in un paese considerato omofobo. Come ha spiegato a Europa Today uno dei loro portavoce, Oleksandr Zhuhan: «All'inizio c'era bullismo, volava qualche schiaffo, ma i nostri compagni ci hanno accettato. Le cose sono migliorate con l'arrivo in caserma di comandanti che hanno dichiarato di non tollerare alcun tipo di omofobia sottolineando che l'unica cosa importante in prima linea è essere un buon combattente». E rimarca: «Le norme, i regolamenti e gli statuti militari dovrebbero essere inclusivi delle persone Lgbt+». 

L'avvertimento dei servizi segreti tedeschi: gruppi neonazisti e di estrema destra al fianco della Russia. Il Tempo il 27 maggio 2022.

Gruppi neonazisti e di estrema destra si sono affiancati all’armata russa per sostenerla nell’attacco all’Ucraina. L’allarme arriva dai servizi segreti tedeschi del Bnd: un rapporto confidenziale in questo senso è stato inviato la settimana scorsa a svariati ministeri del governo federale. Nelle sette pagine elaborate dagli 007 di Berlino - visionate dai giornalisti dello Spiegel - si afferma che due formazioni «di matrice estremista di destra», ossia la Russian Imperial League ed il gruppo Russitch, combattono in Ucraina contro le truppe di Kiev. Secondo la valutazione degli analisti del servizio d’intelligence estero della Germania, la collaborazione di queste formazioni con l’esercito russo porta «la presunta motivazione del conflitto della cosiddetta denazificazione a rivelarsi come un’assurdità». 

Sebbene non vengano indicati quanti miliziani neonazisti siano attualmente in azione in Ucraina, il documento dà indicazioni precise circa le attività delle formazioni in questione: per esempio la Russian Imperial League (Ril), considerato il braccio paramilitare del Russian Imperial Movement, sarebbe già intervenuta nei combattimenti. A detta dello Spiegel, il capo di quest’unità, tale Denis Garijev, il giorno successivo all’invasione aveva scritto su Telegram che «senza dubbio siamo favorevoli alla liquidazione dell’entità separatista dell’Ucraina». Negli anni 2014 e 2015 la Ril aveva combattuto nel Donbass. Poi, mentre ad inizio marzo Garijev aveva chiesto ai suoi «legionari» di avere ancora pazienza, poco dopo la Ril aveva annunciato la decisione di partecipare in prima linea ai combattimenti. Stando al rapporto confidenziale del Bnd, sono stati coinvolti «soprattutto persone con esperienza militare» nonché individui usciti dal centro di addestramento ‘Partizan’ di San Pietroburgo. 

Affermano gli analisti del Bnd che «non è chiaro» se decisione di andare al fronte ucraino «sia avvenuta su appello o in condivisione con la leadership russa». Aggiunge il settimanale tedesco che Garijev sarebbe rimasto ferito in azione, lo stesso dicasi di almeno altri due miliziani di estrema destra. Anche i membri di ‘Russitch’ sarebbero andati al fronte, e secondo alcune fonti avrebbero affiancato il gruppo dei mercenari del famigerato gruppo Wagner. Il rapporto del Bnd descrive questa formazione come «nota per la sua particolare brutalità», e avrebbe la fama «di non fare mai prigionieri». Alcuni elementi di questo gruppo avrebbero partecipato anche al conflitto siriano. Nel documento del Bnd sono accluse anche alcune fotografie: una ritrae uno dei fondatori di Russitch, Aleksej M., con una bandiera della svastica, in un’altra si vede l’altro capo della milizia, Jan P., mentre mostra il saluto hitleriano.  

Buongiorno Bieloitalia. Gli ucraini non combattono per procura, sono i nostri compagni contro il fascismo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Kiev denuncia da anni la pianificazione russa volta a cancellare l’Ucraina e a sterminare un’intera nazione. È arrivato il momento di aiutare sul serio un popolo coraggioso che difende la sua indipendenza sul fronte libero dell’Europa.

C’è un formidabile libro di alcuni anni fa scritto da Philip Gourevitch a proposito dell’atroce genocidio in Ruanda del 1994, quello che fece oltre un milione di vittime in poche settimane e tutto il mondo rimase a guardare. Il titolo del saggio è “Desideriamo informarvi che domani saremo uccisi assieme alle nostre famiglie”.

Quell’annuncio insieme burocratico e agghiacciante, come se la notifica di sterminio imminente fosse l’avviso della prossima fermata della metropolitana, è più o meno quello che sta capitando quotidianamente al popolo ucraino in lotta per la sua sopravvivenza. Ogni maledetto giorno a est e a ovest di Kiev suonano le sirene che avvertono dell’arrivo di missili russi, mentre la sera gli ospiti dei nostri talk show fanno un osceno intrattenimento a spese delle vittime che cercano riparo nei corridoi e negli scantinati assieme ai bambini costretti a convivere con gli incubi, il tutto a maggior gloria degli aggressori nazibolscevichi. 

Inascoltati dal 2016, ma in realtà da molto prima, gli ucraini denunciano da anni la pianificazione russa per cancellare il loro paese e per sterminare fisicamente e culturalmente un’intera nazione. Sono stati ignorati, nonostante i russi ci abbiano provato sistematicamente almeno dai tempi dell’Holodomor, della pianificazione staliniana della carestia, a eliminare gli ucraini in quanto nemici del popolo.

Da tempo, gli ucraini avvertono anche noi europei delle intenzioni imperialiste del Cremlino perché sanno che se Putin dovesse prevalere a Kiev, dopo toccherà a noi combattere. 

La Finlandia, la Polonia, la Svezia e i paesi baltici lo sanno benissimo e infatti si mobilitano e prendono decisioni sofferte e storiche che fanno piangere i guitti da talk show.

Noi che siamo più lontani dal fronte, invece, affidiamo la salvaguardia delle nostre libertà alle mani sicure della televisione spazzatura di Urbano Cairo e ai propagandisti russi e bieloitaliani del Cremlino, illudendoci che un solenne inchino a Putin possa farci schivare il colpo e che pettinare il fascismo russo possa rendere Putin ragionevole e caritatevole.

Nel tentativo in corso dei russi di sterminare gli ucraini c’è un’aggravante, rispetto al genocidio Tutsi perpetrato dagli Hutu in Ruanda: gli aggrediti, questa volta, non devono soltanto trovare riparo dai machete aerei russi ed escogitare nuovi modi per resistere e per respingere l’invasore, ma sono anche costretti ad ascoltare i surreali appelli ad arrendersi a mani alzate o a rinunciare a una fetta della propria indipendenza.

Il paradosso è che non si tratta di appelli alla resa lanciati dai russi, i quali invece continuano imperterriti a bombardare i civili indossando gli usuali guanti bianchi già messi in mostra ad Aleppo e a Grozny, ma sono appelli alla capitolazione a cura dei volenterosi complici di Putin in giro per l’Europa e di stanza nei reggimenti dell’operazione speciale televisiva di La7, Rete4 e un pezzo della Rai.

Sentendo il gelido annuncio ucraino «desideriamo informarvi che saremo uccisi dai russi assieme alle nostre famiglie», la risposta degli appeaser bieloitaliani è del tipo: cari ucraini, arrendetevi, lasciatevi soggiogare, in fondo ve la siete cercata. 

Non siamo tutti così, naturalmente, e dobbiamo ancora rallegrarci che Mario Draghi non sia stato rimosso da Palazzo Chigi per andare a svernare al Quirinale, altrimenti oggi anziché del finto piano di pace di Di Maio discuteremmo di una proposta di adesione italiana alla Federazione russa.

Palazzo Chigi, il Quirinale, la Difesa, la Cisl di Luigi Sbarra tengono la barra dritta dell’Italia, ma, come ha scritto Gourevitch nel libro sul Ruanda, le buone intenzioni non bastano perché denunciare il male è tutt’altra cosa rispetto a fare del bene.

Fare del bene oggi è inequivocabilmente salvare l’Ucraina e proteggere gli ucraini con una grande campagna di solidarietà europea e occidentale, accogliendoli a braccia aperte nell’Unione e nella Nato, con aiuti umanitari e finanziari, ma soprattutto con la fornitura accelerata di tutti i sistemi di difesa possibili affinché Kiev rispedisca i russi nelle loro fogne, perlomeno fino a quando continueremo a finanziare lo stragismo russo acquistando il gas e il petrolio dalla cosca del Cremlino. 

Come ha scritto Garri Kasparov su Twitter: senza le armi che ha chiesto, l’Ucraina oggi sanguina e Putin accelera l’annessione di altri territori ucraini, rilasciando passaporti russi ed emettendo rubli, uccidendo e deportando migliaia di ucraini rimpiazzandoli con i russi, come sta facendo da otto anni con l’occupazione della Crimea e del Donbas.

Ha scritto, infine, Kasparov: «Basta pensare alle concessioni che potrebbe fare l’Ucraina, perché l’Ucraina sta pagando un prezzo orrendo in termini di sangue, peraltro sapendo che serviranno decenni per ricostruire il paese; l’Ucraina sta anche pagando il prezzo di anni di debolezza e corruzione delle nazioni europee che hanno concluso affari e stretto rapporti diplomatici con il suo invasore. L’Ucraina ha bisogno delle armi che chiede senza esitazione, e il modo libero è fortunato ad avere un esercito coraggioso e preparato come quello ucraino in prima linea, al fronte di una guerra che gli ucraini non hanno mai voluto e che l’occidente ha fatto finta non esistesse. Gli ucraini non combattano questa guerra per procura, gli ucraini sono i nostri partner». Sono i nostri compagni nella lotta al fascismo.

Nazista da Treccani 

s. m. e f. e agg. [v. nazismo] (pl. m. -i). – Forma accorciata per nazionalsocialista, usata comunem. con tono polemico per indicare non solo chi fu esponente o fautore del nazionalsocialismo, ma anche chi tuttora ne condivida o esalti l’ideologia e la prassi: le rappresaglie, le stragi compiute dai n.; come epiteto ingiurioso e spreg.: è un n., un vero nazista! Come agg.: i gerarchi n.; metodi, crimini n.; la fine del regime nazista.

Nazista Da dizionari Corriere

[na-zì-sta] agg., s. (pl.m. -sti), anche abbr. nazi

agg. Del nazionalsocialismo, in senso proprio o estens.: regime n.; crimini n.

s.m. e f.

1 Seguace del nazionalsocialismo; membro del partito fondato da Hitler e basato sul nazionalsocialismo: le persecuzioni operate dai n.

2 estens. spreg. Persona dai modi prepotenti o che approva e applica metodi crudeli e spietati: usare metodi, avere idee da n.

Nazista Da dizionari Repubblica

[na-zì-sta] s.m. e f. (pl. m. -sti, f. -ste) 

1 Nazionalsocialista 

2 estens., spreg. Persona che si comporta deliberatamente in modo intollerante, violento e crudele

Hitler e il Nazismo: storia, ideologia e significato. A cura di Edoardo Angione su Studenti.it.

Hitler e il Nazismo

Adolf Hitler riuscì a dominare in modo totale la società tedescaIl nazismo è stato definito un sistema politico totalitario . Cosa significa? Che il partito nazista e il suo capo, Adolf Hitler, riuscirono a dominare in modo completo e totale la società tedesca, la sua politica, la sua cultura, l’economia, nonché la vita (e come vedremo anche la morte) dei tedeschi per un lungo periodo: parliamo infatti di un dominio assoluto che dal 1933 costituisce una delle più grandi sfide alla democrazia e al liberalismo. Ciò che il nazismo voleva era la morte di ogni teoria, di ogni pensiero libero. Il volere del proprio leader carismatico Adolf Hitler era l’unica ispirazione dei tedeschi nella Germania nazista.  

Per Adolf Hitler era prioritaria l'eliminazione di tutti i nemici del popolo arianoIl nazismo traeva ispirazione dal fascismo, riproponendo e rielaborando molti elementi del modello fascista, ma portandoli a conseguenze più estreme. In ultima analisi, ciò che Adolf Hitler (e quindi il nazismo) voleva più di ogni altra cosa era l’eliminazione di tutti i nemici del popolo ‘ariano’.    

IL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI. PIER PAOLO PASOLINI Da Garzanti.

La riflessione sul fascismo e sulla sua evoluzione storica attraversa tutta l’opera di Pasolini: questo volume raccoglie alcuni dei suoi testi più significativi scritti sull’argomento tra il settembre 1962 e il febbraio 1975. Prendendo coraggiosamente posizione contro un antifascismo di maniera ormai fuori tempo massimo, Pasolini mette in guardia da una nuova forma di fascismo, più subdola e insidiosa, intesa «come normalità, come codificazione del fondo brutalmente egoista di una società». È il sistema dei consumi, che a partire dagli anni Sessanta si è reso responsabile dell’omologazione culturale del paese: un potere senza volto, senza camicia nera e senza fez, ma capace di plasmare le vite e le coscienze. A distanza di oltre quarant’anni, questi interventi mantengono intatta la loro forza critica, permettendo di cogliere alcuni dei tratti più profondi dell’Italia di oggi.

Il fascismo degli antifascisti. Alessandro Gnocchi il 10 Gennaio 2019 su Il Giornale.  

Il fascismo degli antifascisti. È un'espressione di Pier Paolo Pasolini e il titolo di un libro tanto piccolo quanto interessante pubblicato da Garzanti. Non ci sono inediti ma una selezione esaustiva degli articoli dello scrittore dedicati a fascismo e antifascismo. In coda una splendida intervista a Pasolini realizzata da Massimo Fini, nel 1974.

Ieri un amico (via twitter), il libraio e scrittore Emiliano Gucci, notava che l'analisi più lucida dei nostri giorni è firmata da un uomo ucciso quando lui, Gucci, aveva due mesi. Ottimo spunto, che rubo a Emiliano (grazie). Infatti la lettura de Il fascismo degli antifascisti finisce con l'essere illuminante. Prima di entrare nel merito, una considerazione marginale: come poteva Pasolini, al netto di un marxismo posticcio, definirsi comunista? In questi scritti viene fuori piuttosto un conservatore, se non addirittura un reazionario. Non stupisce che Pasolini fosse un appassionato lettore di Antonio Delfini, scrittore geniale, dimenticato e pubblicato con i piedi dall'editoria italiana. Delfini aveva scritto un semi-delirante Manifesto per un partito conservatore e comunista, una formula nella quale Pasolini doveva riconoscersi.

Il limite dell'analisi di Pasolini è linguistica: in sostanza definisce «fascista» tutto quello che non gli piace, antifascismo incluso. Il fascismo è trasformato in una categoria morale, che indica il carnefice, la sopraffazione, la violenza. Anche nella vaghezza del significato di fascismo Pasolini rispecchia lo spirito del nostro tempo, in cui il fascismo è tutto e niente, quasi sempre un insulto da usare come clava per zittire l'avversario non conforme al politicamente corretto.

Veniamo ai testi.

Punto primo. L'antifascismo ha fatto nulla per cancellare il fascismo e i fascisti: «Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l'indignazione più tranquilla era la coscienza».

Punto secondo. L'antifascismo è una litania che si snoda da Ferruccio Parri ad Adriano Sofri, ed è ben accetta dai perbenisti della politica. Sorpresa: i veri fascisti sono quelli al potere e al governo. I Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni, i Tanassi, i Cariglia e magari i Saragat e i La Malfa. «Contro la politica di costoro, si può e si deve essere antifascisti» (qui Pasolini ruba le parole a Marco Pannella).

Punto terzo. Oggi il fascismo è un'altra cosa rispetto al Ventennio. Fascisti e antifascisti sono diventati uguali e hanno desideri simili: «Il nuovo fascismo - che è tutt'altra cosa - non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo». Le tradizioni devono essere spazzate via dalla «società dei consumi» e dal conformismo. La cultura di massa «è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare un Potere che non sa più cosa farsene di Chiesa, patria e famiglia». L'omologazione riguarda tutti: popolo e borghesia, padroni e sottoproletari. La stessa divisione in classi sociali tende a scomparire o quantomeno a essere indistinguibili.

Punto quattro. Cos'è il Potere e chi lo detiene? «Scrivo Potere con la P maiuscola (...) solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c'è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale) e, per di più come tutto non italiano (transnazionale)».

Di cosa sta parlando Pasolini? A cosa si riferisce quando impropriamente usa la parola fascismo per descrivere l'assimilazione totale dei nostri tempi? Sostituite «fascismo» con «globalizzazione»: i conti tornano. Ecco spiegato il potere transazionale che scavalca le vecchie forme di potere nazionale. Ecco cosa significa l'appiattimento e la confusione delle classi sociali. Ecco cosa significa l'omologazione del mondo, imposta con brutale forza totalitaria.

Pasolini, integrato e apocalittico, membro della società letteraria con licenza di fuga nei sobborghi, si rivela davvero preveggente. Non tanto per la questione del fascismo e dell'antifascismo che, in termini storici, ritiene conclusa e da accantonarsi. Pasolini è scioccato dalle forze che daranno vita alla globalizzazione a trazione americana. Lì intuisce l'esistenza di un nuovo potere ubiquo e senza volto, che potremmo forse individuare nelle istituzioni transnazionali, nell'alta finanza e nella casta dei «tecnici». Per commerciare agevolmente, meglio cancellare le frontiere, le differenze, le tradizioni e perfino la politica, che ha tempi lunghissimi rispetto all'economia. Il tempo è denaro e il denaro è tempo. Meglio decidano rapidamente i tecnici con o senza l'investitura del voto, come abbiamo potuto verificare sulla nostra pelle.

Rispetto a Pasolini, la sinistra di oggi ha fatto qualche passo indietro, tornando all'antifascismo, caricaturale in assenza di fascismo. A volte finisce a schiaffoni, come nel caso dei giornalisti dell'Espresso picchiati dai «camerati» a margine della commemorazione della strage di Acca Larentia. La violenza è da condannare duramente. Ma non basta quest'episodio per descrivere un'Italia in mano agli squadristi. Piuttosto vale la pena notare che la sinistra ha sposato completamente la globalizzazione. Forse Pasolini oggi si chiederebbe se la sinistra sia ancora di sinistra.

Il Nazista Zelensky. Da corriere.it l'8 maggio 2022.

«In queste giornate, caratterizzate dalla violenza e dalla brutalità della guerra scatenata dalla Federazione Russa nei territori dell’Ucraina, non possiamo fare a meno di ricordare in particolare i soldati italiani vittime della Seconda guerra mondiale. Alla loro memoria, al loro sacrificio e a quello di tutti i caduti delle nostre Forze Armate, ai sentimenti di pace che maturarono dolorosamente in quel conflitto e che ci hanno restituito un’Europa priva di guerre per oltre mezzo secolo, dedichiamo questo giorno». Lo scrive il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della 93/ma adunata nazionale degli Alpini. 

Zelensky nel Giorno della Memoria: «La Russia come i nazisti»

La Russa sta imitando il regime nazista in modo fanatico, riproducendone i dettagli in modo maniacale: lo ha detto oggi il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in un video pubblicato su Telegram in occasione della Giornata della Memoria e della Riconciliazione. «Durante i due anni di occupazione, i nazisti vi uccisero 10.000 civili. In due mesi di occupazione, la Russia ha ucciso 20.000 persone» in Ucraina, dice Zelensky nel video in bianco e nero. «In Ucraina è stata organizzata una sanguinosa ricostruzione del nazismo. 

Una ripetizione fanatica di questo regime: delle sue idee, azioni, parole e simboli. Una riproduzione dettagliata, maniacale, delle sue atrocità e un `alibi´ che presumibilmente dà uno scopo sacro malvagio. Una ripetizione dei suoi crimini e persino tentativi di superare il `maestro´ e toglierlo dal piedistallo del più grande male della storia umana. Questo segna un nuovo record mondiale di xenofobia, odio, razzismo e numero di vittime che possono causare», ha prosegue Zelensky.

«La primavera può essere in bianco e nero? Esiste un febbraio eterno? Le parole d’oro sono svalutate? Sfortunatamente, l’Ucraina conosce le risposte a tutte queste domande. Sfortunatamente, le risposte sono `sì´: esordisce Zelensky nel suo discorso. «Ogni anno l’8 maggio, insieme all’intero mondo civile, onoriamo tutti coloro che hanno difeso il pianeta dal nazismo durante la seconda guerra mondiale. Milioni di vite perdute, destini paralizzati, anime tormentate e milioni di ragioni per dire al male: mai più!», prosegue il presidente ucraino. 

«Quest’anno diciamo Mai più in modo diverso. Sentiamo `Mai più´ in modo diverso. Ha del doloroso, crudele. Senza un punto esclamativo, ma con un punto interrogativo. Dite: mai più? Ditelo all’Ucraina. Il 24 febbraio la parola `mai´ è stata cancellata. Gli hanno sparato e l’hanno bombardata. Con centinaia di missili alle 4 del mattino, che hanno svegliato l’intera Ucraina. Abbiamo sentito terribili esplosioni. Abbiamo sentito: `di nuovo!´»», commenta Zelensky. E poi: «Decenni dopo la seconda guerra mondiale, il buio è tornato in Ucraina. Ed è diventato di nuovo in bianco e nero. Di nuovo! Il male è tornato. Di nuovo! Con una divisa diversa, con slogan diversi, ma con lo stesso scopo».

Zelensky, nessuno si approprierà della vittoria del '45. (ANSA il 9 maggio 2022) - Anche gli ucraini hanno sconfitto il nazismo nella Seconda guerra mondiale e per questo "non permetteremo a nessuno di appropriarsi di questa vittoria". Lo ha affermato oggi il presidente Volodymyr Zelensky, citato dall'agenzia Interfax Ucraina, nell'anniversario della vittoria. 

"Il nostro nemico - ha aggiunto Zelensky, riferendosi alla Russia - sognava che avremmo rinunciato a celebrare il 9 maggio e la vittoria sul nazismo". E ciò per sostenere la tesi di Mosca secondo la quale l'invasione è diretta a "denazificare" l'Ucraina. 

Zelensky, presto avremo 2 Giorni della Vittoria, altri no.

(ANSA il 9 maggio 2022) - "Stiamo lottando per la libertà dei nostri figli, e quindi vinceremo. Non dimenticheremo mai cosa hanno fatto i nostri antenati durante la Seconda guerra mondiale, in cui morirono più di otto milioni di ucraini. Molto presto ci saranno due Giorni della Vittoria in Ucraina. E qualcuno non ne avrà nessuno".

Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un video postato sui social mentre cammina nel viale Khreschatyk deserto all'alba. "Abbiamo vinto allora. Vinceremo ora. E Khreshchatyk vedrà la parata della vittoria: la vittoria dell'Ucraina!" 

Ucraina, l’offensiva di Zelensky: «Il male non vincerà». Francesco Battistini per corriere.it il 9 maggio 2022.  

Quante volte avete detto mai più? Volodymyr Zelensky guarda dritto in camera: «Quest’anno è in un modo diverso che diciamo “mai più!”. Queste parole stavolta suonano in un modo crudele, doloroso. Senza punti esclamativi. Ma con un punto interrogativo. Quest’anno vi chiedete: “Mai più?”.

Ebbene, chiedetelo agli ucraini». E non vi fa impressione tutto questo? La regia è accurata, l’operatore tv si muove: «Il 24 febbraio, la parola “mai” è stata cancellata. Le hanno sparato, l’hanno bombardata. Con centinaia di missili alle 4 del mattino, che hanno svegliato l’intera Ucraina. Abbiamo sentito terribili esplosioni. E abbiamo detto: di nuovo!…». 

Loro sfilino pure a passo d’oca sulla Piazza Rossa. Lui cammina da solo e in bianco e nero. Loro si mettano sull’attenti al discorso di Putin. Lui sta in piedi, barcollando, fra gli scheletri dei palazzi di Borodyanka. A Mosca applaudano sotto le gigantesche zeta neroarancio, «za pabedu», per la vittoria. A «Ze» basta una t-shirt nera con una scritta bianca, «I’m Ukrainian». Se Vladimir oggi caricherà l’Armata Russa dichiarando guerra al mondo, e dirà di farlo per combattere l’euronazismo come fecero i sovietici col nazismo vero, Volodymyr gli risponde al suo modo solito: caricando in rete un video dalle lugubri tinte stile Schindler’s List , commemorando anche lui il 77esimo anniversario della Grande Guerra Patriottica e dicendo allo Zar che se c’è un nazista, oggi, quello abita al Cremlino.

«Durante i due anni d’occupazione, i nazisti uccisero 10 mila civili. In due mesi d’occupazione, la Russia ha ucciso 20 mila persone». 

Nazista tu. No, nazista tu. Il presidente è tornato con un altro dei suoi piccoli capolavori di fregolismo e di resistenza web. Un cortometraggio pensato dal fidato regista Sheriy Sheffield, l’orchestratore di tanti video Twitter e Telegram, oggi copywriter dello Zelensky leader come lo fu per vent’anni dello Zelensky attore.

Una voluta citazione dei celebri e radiofonici discorsi clandestini di De Gaulle. Nell’unica sfida possibile per questo fatale 9 maggio, se fatale sarà, «Ze» ha scelto il più tetro dei teatri: la Borodyanka alle porte della capitale che i russi cominciarono a martellare subito, il primo giorno d’invasione, donne stuprate e bambini a vivere da topi, il sindaco del villaggio che diceva inorridito «han fatto peggio dei nazisti».

Volodymyr passeggia virtualmente fra le macerie, i sottotitoli in inglese: «Borodyanka è una delle molte vittime di questi crimini. Dietro di me, ecco uno dei molti testimoni. Non una struttura militare o una base segreta, no, solo un palazzo di nove piani. Poteva essere una minaccia alla Russia?». 

La retorica naturalmente non basta. Ed è per questo che un consigliere di Zelensky, Oleksiy Arestovytch, più prosaico «non conferma e non nega» al New York Times che ci siano corpi speciali dietro i misteriosi incendi degli ultimi giorni a caserme, depositi di munizioni e bacini di carburante russi (ce l’ha insegnato Israele, è il sottotesto, a non rivelare le operazioni coperte…). 

Il ruolo presidenziale esige che «Ze» riceva il premier canadese Trudeau e il croato Plenkovic — «a Zagabria sappiamo cosa vuol dire essere sotto operazione militare speciale» —, inviti Biden a imitare la moglie e a visitare Kiev e partecipi in videoconferenza al G7, sottolineando che l’obiettivo finale dell’Ucraina è garantire «il pieno ritiro delle forze russe dall’intero territorio nazionale».

Una certa reticenza obbliga a sorvolare sul collaborazionismo nazi degli ucraini nella Seconda guerra mondiale. Ma oggi è il 9 maggio, l’anniversario dei veleni, e alle sparate di Putin dalla parata militare si risponde con toni uguali: «In Ucraina è stata organizzata una sanguinosa ricostruzione del nazismo. Una ripetizione fanatica di questo regime: delle stesse idee, azioni, parole, simboli.

Una ripetizione dei suoi crimini, perfino con tentativi di superare il “maestro” e toglierlo dal piedistallo del più grande male della storia umana. Quello che sta succedendo segna un nuovo record mondiale di xenofobia, odio, razzismo». Il bianco e nero di Ze alterna le bombe della Seconda guerra mondiale a quelle di oggi. «Il male è tornato. Ma il nostro esercito lo sconfiggerà ora come lo sconfisse allora». Attento Putin: del bunker di Hitler, «restano poche pietre. Rovine. Le rovine di una persona che si credeva grande e invincibile». Se le parole sono pietre, chissà se la fionda di «Ze» riuscirà a farle arrivare sulla Piazza Rossa.

9 maggio, Zelensky: "Abbiamo vinto allora, vinceremo ora". Da adnkronos.comil 09 maggio 2022.

Il presidente si è congratulato con gli ucraini nel giorno della vittoria sul nazismo. 

"Abbiamo vinto allora, vinceremo ora". Il presidente dell'Ucraina Zelensky si è congratulato con gli ucraini nella giornata del 9 maggio che celebra la vittoria sul nazismo.

"Stiamo lottando per la libertà dei nostri figli e quindi vinceremo - ha scritto su Telegram - Non dimenticheremo mai cosa fecero i nostri antenati durante la seconda guerra mondiale, che uccise più di otto milioni di ucraini. Molto presto ci saranno due giornate della vittoria in Ucraina. E qualcuno non ne avrà. Abbiamo vinto allora. Vinceremo ora. E Khreshchatyk vedrà la parata della vittoria: la vittoria dell'Ucraina! Buona vittoria nel giorno della vittoria sul nazismo!". 

Il discorso di Zelensky: “Vinceremo perché combattiamo per la nostra libertà”. Il Manifesto.it il 9 maggio 2022.

IL TESTO UFFICIALE. Il discorso di Zelensky per l'anniversario della vittoria sul nazismo. Versione ufficiale tradotta dall'inglese dal sito della Presidenza ucraina

Il testo integrale del discorso del Presidente dell’Ucraina per l’anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale. Versione ufficiale tradotta dall’inglese dal sito della Presidenza ucraina.

Grande popolo della grande Ucraina!

Il 24 agosto 2021 l’intero Paese ha celebrato il 30mo anniversario della nostra indipendenza! I nostri soldati, i nostri difensori, il nostro equipaggiamento si muovevano lungo il Khreshchatyk, il nostro “Mriya” volava nel cielo!

“Non c’è niente di più pericoloso di un nemico insidioso, ma non c’è niente di più velenoso di un finto amico”. Queste le parole del grande filosofo ucraino Hryhorii Skovoroda.

Il 24 febbraio abbiamo realizzato questa verità quando un finto amico ha iniziato una guerra contro l’Ucraina.

Questa non è una guerra tra due eserciti. Questa è una guerra tra due visioni del mondo.

La guerra condotta dai barbari che bombardano il Museo Skovoroda e credono che i loro missili possano distruggere la nostra filosofia. Li infastidisce. Non è loro familiare. Li spaventa. La sua essenza è che siamo persone libere che hanno il proprio percorso.

Oggi stiamo facendo la guerra su questa base e non daremo a nessuno nemmeno un pezzo della nostra terra.

Oggi celebriamo il giorno della vittoria sul nazismo. E non daremo a nessuno nemmeno un pezzo della nostra storia.

Siamo orgogliosi dei nostri antenati che, insieme ad altre nazioni della coalizione anti-hitleriana, hanno sconfitto il nazismo. E non permetteremo a nessuno di annettere questa vittoria, non permetteremo che se ne appropri.

Il nostro nemico sognava che ci saremmo rifiutati di celebrare il 9 maggio e la vittoria sul nazismo. In modo che la parola “denazificazione” abbia una possibilità. Milioni di ucraini hanno combattuto il nazismo e hanno fatto un viaggio lungo e difficile. I nazisti furono espulsi da Luhansk, i nazisti furono espulsi da Donetsk e Kherson, Melitopol e Berdyansk furono liberate dagli occupanti.

I nazisti furono espulsi da Yalta, Simferopol, Kerch e dall’intera Crimea. Mariupol fu liberata dai nazisti. Hanno espulso i nazisti da tutta l’Ucraina, ma le città che ho nominato ci ispirano particolarmente oggi. Ci danno fiducia che scacceremo di sicuro gli occupanti dalla nostra terra.

Nel giorno della vittoria sul nazismo, stiamo combattendo per una nuova vittoria. La strada per arrivarci è difficile, ma non abbiamo dubbi che vinceremo.

Qual è il nostro vantaggio sul nemico? Siamo più intelligenti di un libro. Questo è un libro di testo sulla storia dell’Ucraina. Non conosceremmo il dolore se tutti i nostri nemici potessero leggere e trarre le giuste conclusioni.

Il 24 febbraio la Russia ha lanciato un’offensiva. Ogni volta vediamo lo stesso errore. Ogni occupante che viene nella nostra terra la calpesta. Abbiamo attraversato diverse guerre. Ma hanno tutti avuto la stessa fine.

La nostra terra era disseminata di proiettili e proiettili, ma nessun nemico poteva mettere radici qui. Carri e carri armati nemici attraversarono i nostri campi, ma non diedero frutti. Aerei e missili nemici hanno volato nei nostri cieli, ma nessuno potrà oscurare il nostro cielo azzurro.

Non ci sono catene che possono legare il nostro spirito libero. Non c’è occupante che possa mettere radici nella nostra terra libera. Non c’è invasore che possa governare il nostro popolo libero.

Prima o poi si vince. Nonostante l’orda, nonostante il nazismo, nonostante la mescolanza del primo e del secondo, che è l’attuale nemico, vinciamo, perché questa è la nostra terra.

Perché qualcuno sta combattendo per il padre zar, il führer, il partito e il capo, mentre noi stiamo combattendo per la Patria. Non abbiamo mai combattuto contro nessuno. Combattiamo sempre per noi stessi. Per la nostra libertà. Per la nostra indipendenza. In modo che la vittoria dei nostri antenati non sia stata vana. Hanno combattuto per la libertà per noi e hanno vinto.

Stiamo lottando per la libertà dei nostri figli, e quindi vinceremo. Non dimenticheremo mai cosa fecero i nostri antenati durante la seconda guerra mondiale. Dove sono morti più di otto milioni di ucraini. E un ucraino su cinque non è tornato a casa. In totale, la guerra ha causato almeno 50 milioni di vittime.

Non diciamo “possiamo ripeterlo”. Perché solo un pazzo può desiderare di ripetere i 2194 giorni di guerra. E’ un altro quello che oggi sta ripetendo gli orribili crimini del regime di Hitler, seguendo la filosofia nazista, copiando tutto ciò che hanno fatto. È condannato. Perché è stato maledetto da milioni di antenati quando ha iniziato a imitare il loro assassino. E quindi perderà tutto.

E molto presto ci saranno due Giorni della Vittoria in Ucraina. Mentre a qualcuno non ne rimarrà nemmeno uno.

Abbiamo vinto allora. Vinceremo anche noi adesso!

E Khreshchatyk vedrà la parata della vittoria: la vittoria dell’Ucraina!

Congratulazioni per il Giorno della Vittoria sul nazismo!

Gloria all’Ucraina!

Il Nazista Putin. È proprio Putin il migliore erede della paranoia nazista. I territori che il presidente russo considera suoi: prima di tutto l’Ucraina. Poi, di seguito, Moldavia, Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia. VITTORIO FERLA su Il Quotidiano del Sud il 10 maggio 2022.  

La Giornata della Vittoria sul nazismo che celebra la “Guerra Patriottica” – così la retorica russa definisce la seconda guerra mondiale – con tanto di parata militare sulla piazza Rossa era molto attesa per capire le intenzioni di Vladimir Putin. Ma il despota russo si guarda bene dal lanciare proclami, anzi si dice contrario a una estensione globale del conflitto. Almeno a parole. Di sicuro, tuttavia, Putin non fa passi indietro rispetto alla verità manipolata che propaganda ormai da alcuni mesi.

“L’aggressione nelle nostre terre storiche della Crimea è stata una minaccia ai nostri confini, inammissibile per noi. Il pericolo è cresciuto ogni giorno, il nostro è stato un atto preventivo, una decisione necessaria e assolutamente giusta”, dice il tiranno del Cremlino. In sostanza, con l’attacco all’Ucraina Mosca ha risposto ad “una minaccia diretta vicino ai confini russi”, perché “un attacco era stato preparato, anche alla Crimea”.

La verità è tutt’altra. Nel marzo del 2014, il presidente Vladimir Putin utilizza le truppe della base militare russa in Crimea per annettere la penisola. Una sfacciata violazione degli obblighi della Russia ai sensi del memorandum di Budapest che sanciva il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale del’Ucraina in cambio della cessione alla Russia delle testate nucleari presenti sul territorio. Purtroppo, l’America risponde con un rimprovero diplomatico e sanzioni modeste. Incoraggiato da questi tentennamenti, Putin sequestra poi di fatto parti del Donbas. Ancora una volta, gli Stati Uniti e l’Occidente esprimono disapprovazione, ma senza misure pratiche conseguenti.

A fronte di sanzioni inefficaci, per otto anni la Russia tiene sotto scacco l’Ucraina e consolida le sue conquiste, mentre l’Occidente, in particolare l’Europa, si nasconde dietro il mantra dell’attuazione dell’accordo di Minsk, progettato per garantire la pace nel Donbas. Nel frattempo, Putin formalizza sempre meglio la propria paranoica dottrina del “Russkiy Mir”. La Russia deve agire per riappriopriarsi di territori che considera propri con la scusa della “denazificazione”.

Prima di tutto l’Ucraina. Ma poi, di seguito, Moldavia, Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia. Il che significa riportare la guerra di conquista e su base nazional-imperialista in Europa per la prima volta dalla seconda guerra mondiale. All’immobilismo dell’Occidente – tutto il contrario di un presunto movimento espansionistico della Nato – fa seguito, il 24 febbraio di quest’anno, l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte delle truppe russe. Questa volta, però, la scommessa di Putin sull’arrendevolezza di Kiev – ma anche di Bruxelles e di Washington – si rivela sbagliata.

Di fronte a una dura resistenza, l’esercito russo demoralizzato fa ricorso a tattiche terroristiche: bombardamenti indiscriminati, torture, stupri e massacri di civili inermi. Ieri la propaganda di Putin cerca ancora una volta di collegare l’invasione dell’Ucraina con la “Grande Guerra Patriottica” combattuta da russi e ucraini contro la Germania di Hitler. Si capisce perché: la vittoria contro il nazismo è l’unica vicenda militare “potabile” nella storia della Russia degli ultimi secoli, l’unico mito capace di dare dignità a una potenza economicamente, tecnologicamente e culturalmente sottosviluppata, che non ha mai conosciuto la democrazia, ha sempre rifiutato i valori liberali, ha sempre cercato di sottomettere i propri vicini e si è sempre autocompresa come avversario dell’Occidente immorale e degenerato.

Perché la manipolazione dei fatti sia completa è necessario pertanto tacciare come “nazista” l’amministrazione di Volodymyr Zelensky, il presidente dell’Ucraina eletto secondo i canoni delle liberaldemocrazie occidentali. Putin ancora ieri evita di chiamare questa iniziativa con il suo nome – “guerra” – e perfino ribadisce di essere contrario – a parole – a una guerra globale. Ma ripropone la favola della liberazione dell’Ucraina dal nazismo per restituirla a quel “Mondo russo” che – come in ogni retorica nazionalista e imperialista – rappresenta una zona mitologica vagamente definita dal dominio di Mosca, strettamente legato al potere temporale della Chiesa ortodossa russa, il cui patriarca ha benedetto l’invasione.

Allo stesso modo, ancora ieri, nel corso della tradizionale parata del Giorno della Vittoria nella Piazza Rossa a Mosca, Putin giustifica l’operazione militare speciale come se fosse un nuovo capitolo dell’eterna opposizione contro il nazismo. Il paradosso è che, in questa guerra, un erede del nazismo effettivamente esiste, ma è lo stesso tiranno russo.

“Con l’invasione dell’Ucraina, Putin, la sua cerchia ristretta e i generali stanno ora rispecchiando il fascismo e la tirannia di 70 anni fa, ripetendo gli errori dei regimi totalitari del secolo scorso”, dichiara il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, con la cruda schiettezza che spesso contraddistingue gli anglosassoni. Che, peraltro, di bombardamenti nazisti se ne intendono: la capitale Londra fu colpita nel settembre del 1940.

La verità è che le somiglianze tra l’aggressione russa odierna e la guerra di conquista di Hitler in Europa dopo il 1939 sono più d’una. C’è un dittatore che ha ordinato l’invasione di un territorio straniero autonomo per l’autoesaltazione della propria nazione. Lo ha fatto senza essere stato provocato da un attacco da parte del paese invaso, perseguendo i suoi obiettivi in violazione degli accordi bilaterali e internazionali e del diritto riconosciuto nelle carte dell’Onu. L’invasione è giustificata sulla base di false pretese di supremazia storica, ideologica e, perfino, mistico-religiosa. Si propaga un mito secondo cui le vittime dell’aggressione vengono di fatto liberate dall’oppressione.

I militari hanno agito barbaramente, puntando direttamente la popolazione civile con l’obiettivo della sua eliminazione fisica, etnica e culturale. Insomma: la grande esibizione dell’esercito russo nella Piazza Rossa e la falsa giustificazione “anti-nazista” dell’aggressione in Ucraina rappresentano una odiosa operazione di propaganda che strumentalizza la memoria delle decine di milioni di persone assassinate nella seconda guerra mondiale. Proprio domenica scorsa, i paesi del G7, immaginando la sceneggiata, hanno preventivamente stigmatizzato l’invocazione della sconfitta di Hitler da parte di Putin come una scusa per giustificare l’aggressione all’Ucraina.

“Commemoriamo la fine della Seconda guerra mondiale e la liberazione dal regno del terrore fascista e nazista. Settant’anni dopo, Putin ha scelto di invadere l’Ucraina in una guerra non provocata di aggressione. Le sue azioni coprono di vergogna la Russia e gli storici sacrifici del suo popolo”, si legge nel messaggio finale del G7. Ciò nonostante – o proprio per questo? – nel corso del suo discorso alle truppe di ieri il despota del Cremlino tenta una “captatio benevolentiae” della comunità internazionale riconoscendo e ricordando il valore degli alleati che nella seconda guerra mondiale si opposero alla Germania nazista insieme con i russi.

Ma ci vuole ben altro, ormai, per riconquistare la stima delle cancellerie dei paesi occidentali impegnate a cercare nuove misure per fronteggiare la minaccia del Cremlino. E proprio per concordare le prossime mosse, da oggi Mario Draghi è in visita a Washington. Dall’incontro con Joe Biden emergerà la strategia anti-Putin dei prossimi mesi.

Putin: "Stiamo liberando l’Ucraina dalla feccia nazista". Edoardo Sirignano l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

Lo zar paragona l’operazione in Ucraina alla seconda guerra mondiale e sostiene come i russi possono ancora sconfiggere Zelensky proprio come fecero con Hitler nel 1945.

La vittoria sarà nostra. Non si fa attendere la risposta di Vladimir Putin alle parole di Volodomyr Zelensky, che qualche ora fa, in un video, aveva paragonato lo zar a Hitler. Il presidente russo, nella giornata della commemorazione della Piazza Rossa, prendendo sempre come spunto la seconda guerra mondiale, ha messo la sua operazione militare alla pari di quella avvenuta nel 1945 per mano di Stalin.

Per il capo del Cremlino, come riporta la Tass, la vittoria sugli ucraini corrisponde a quella avuta dai sovietici sulla Germania nazista di Hitler. “Oggi i nostri soldati – si legge sul sito del governo di Mosca – stanno combattendo fianco a fianco per la liberazione della loro terra nativa dalla feccia nazista”.

Nei telegrammi di congratulazioni inviati ai leader delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, in occasione del 77esimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, inoltre, Putin ha incoraggiato i suoi uomini a credere ancora nell’successo dell’operazione, seppure siano state diverse le sconfitte registrate sul campo: “Sono certo che la vittoria – ha sottolineato – sarà nostra, proprio come nel 1945”.

Non a caso proprio nella giornata di oggi hanno ricominciato a suonare le sirene che avvertono dei bombardamenti in tutte le grandi città ucraine non ancora occupate. Lo slogan, come riportato dalla principale agenzia stampa russa, sarebbe basato su un “dovere comune”, ovvero prevenire la restaurazione di un regime simile a quello del Fuhrer.

Un grido di battaglia, però, che ancora una volta allontana due popolazioni, ormai sempre più distanti tra loro. Secondo Kiev, infatti, la Russua corrisponderebbe all’aggressore che nella seconda guerra mondiale da Berlino mandò le sue truppe verso est. Lo stesso premier Zelensky, in un discorso in bianco e nero, pubblicato oggi, ha chiarito come è stata organizzata una “ripetizione fanatica del regime nazista”.

Il riferimento è proprio alla piazza di Mosca, oggi piena di manifesti a sostegno di Putin, z sui muri, parate e segni di un paese che come riferito dal presidente ancora non si sente sconfitto, nonostante le perdite e crede quindi nel rovesciamento delle sorti.

DAGONOTA il 9 maggio 2022.

Il discorso di Vladimir Putin davanti alla Piazza Rossa, con la parata organizzata per celebrare il 77esimo anniversario del giorno della vittoria dell’Unione sovietica sul nazismo, ha sorpreso gran parte degli analisti internazionali di geopolitica. 

Ha sorpreso per il suo tono cauto, dimesso, al limite del sottomesso, al punto che non ha fatto alcun riferimento al nucleare, non ha dato inizio ad alcuna escalation, non ha trasformato l’Operazione militare speciale in guerra. Nessuna enfasi, nessuna mobilitazione generale, nessuna dichiarazione di guerra: il conflitto è diventato una lotta in difesa della “patria” nel Donbas.

Ha sorpreso perché ha riconosciuto il gran numero di soldati e ufficiali che sono morti: “un dolore per tutti noi e una perdita irreparabile per parenti e amici… Daremo un sostegno speciale ai figli dei compagni morti e feriti. In merito ho firmato oggi un decreto”. 

Ha sorpreso perché lo scontatissimo attacco a Washington si è trasformato in un appello ai paesi europei di non farsi trascinare in un abisso di morte: “Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, hanno curato solo la loro esclusività, umiliando così non solo tutto il mondo ma anche i propri Paesi satelliti che sono costretti a far finta di non accorgersi di nulla e a inghiottire tutto questo docilmente”.

Ha sorpreso perché ha spazzato via la minaccia nucleare spiegando che "l'orrore di una guerra globale non si deve ripetere" sottolineando che con l'attacco all'Ucraina Mosca ha risposto ad "una minaccia diretta vicino ai confini russi", perché "una attacco era stato preparato, anche alla Crimea". "Se ci fosse stata anche una possibilità di risolvere la questione ucraina pacificamente, la Russia l'avrebbe usata", ha aggiunto. 

Un discorso dimesso che, secondo gli analisti, denota che Putin ha difficoltà all’interno del suo regime. Uno spiraglio che potrebbe portare a una trattativa è stato subito percepito da Macron parlando a Strasburgo alla chiusura della Conferenza sul futuro dell'Europa: “Non siamo in guerra contro la Russia, lavoriamo per la preservazione dell'integrità dell'Ucraina, per la pace nel nostro continente. Ma sta solo all'Ucraina definire i termini dei negoziati con la Russia".

 Ha acutamente chiosato sul corriere.it Marco Imarisio: “Non sono volati neppure gli aerei di guerra in formazione a Z, bloccati dalle avverse condizioni atmosferiche, come ha detto il portavoce Dmitry Peskov. Anche il suo presidente, tutto sommato, ha volato basso. Forse la vera novità è questa: quello di Putin è un discorso in tono minore, quasi sulla difensiva. Come se anche lui avesse voglia di farla finita. Ma questa è solo una nostra impressione, la nostra speranza”.

Estratto dell’articolo di Micol Flammini per ilfoglio.it il 9 maggio 2022.

[…] Davanti alla Piazza Rossa, con la parata organizzata per celebrare il 77esimo anniversario del giorno della vittoria dell’Unione sovietica sul nazismo, Vladimir Putin ha ricordato per un attimo le perdite che questa nuova guerra: “La morte di ciascuno dei nostri soldati e ufficiali è un dolore per tutti noi e una perdita irreparabile per parenti e amici… Daremo un sostegno speciale ai figli dei compagni morti e feriti. In merito ho firmato oggi un decreto”. 

Davanti al ricordo dei soldati morti, di cui non ha fornito numeri, il presidente russo ha ribaltato la realtà, cercando di tratteggiare la storia di una guerra nata non per aggredire un paese vicino, bensì per difendere il territorio di una Russia che il resto del mondo vuole aggredita e isolata.  

Il 24 febbraio, giorno dell’inizio dell’invasione, Putin aveva parlato di un’operazione speciale per denazificare l’Ucraina. Oggi, 9 maggio, la guerra è diventata una lotta in difesa della “patria” nel Donbas. 

[…]  Quello di Putin nella Piazza Rossa era un discorso rivolto soprattutto ai russi, per dire loro: siamo un popolo unico, forte, indipendente, ne dobbiamo subire le conseguenze, le morti e dobbiamo difenderci. Lamentele e sacralità al servizio della propaganda e per continuare a giustificare una guerra alla quale non ha intenzione di mettere fine: le accuse agli Stati Uniti e la dichiarazione seconda la quale la Nato punta al territorio russo lo dimostrano. [...]

Marco Imarisio per corriere.it il 9 maggio 2022.

Anatomia di un discorso tanto cauto quanto atteso, ed è una cautela che induce a una piccola speranza. Perché per una volta, sono più importanti le parole non dette di quelle effettivamente pronunciate. Sul palco allestito nella Piazza Rossa , davanti agli «hurrah» dell’esercito schierato, Vladimir Putin non ha fatto alcun riferimento al nucleare, non ha dato inizio ad alcuna escalation, non ha trasformato l’Operazione militare speciale in guerra. 

Niente di tutto questo. Anzi, per la prima volta ha riconosciuto il prezzo in termini di vite umane che la Russia sta pagando. «La morte di ognuno dei nostri soldati e dei nostri ufficiali è un dolore che grava su tutti noi» ha detto, aggiungendo che «lo Stato farà di tutto per aiutare le famiglie, e darà un supporto speciale ai bambini delle vittime e ai nostri compagni feriti».

La sorpresa è stata nei contenuti mancanti, e nel tono del discorso. Nonostante lo sfarzo dell’allestimento guerresco, Putin non ha fatto ricorso all’enfasi trionfalistica, e neppure alla retorica nazionalista. Ha cominciato facendo un parallelo tra i veterani del 1941-1945 che sedevano dietro di lui e i soldati che stanno combattendo nel Donbass. «La milizia del Donbass e l’esercito russo stanno combattendo per la loro terra, che gli eroi della Grande Guerra Patriottica hanno difeso fino alla morte». 

Ma ben presto ha abbandonato questo paragone. Per passare a un riassunto dei motivi che lo hanno spinto ad invadere l’Ucraina, Paese mai nominato durante la sua orazione, come se esistessero solo le sue ragioni ma non lo Stato che le contiene. «Nonostante tutte le divergenze nei rapporti internazionali, la Russia si è sempre battuta per creare un sistema di sicurezza equo e paritario, un sistema di vitale necessità per tutta la comunità mondiale.

Nel dicembre scorso abbiamo proposto di concludere un accordo sulle garanzie di sicurezza. La Russia esortava l’Occidente ad un dialogo onesto, alla ricerca di soluzioni ragionevoli e di compromesso, alla considerazione dei reciproci interessi. Tutto invano. I paesi della Nato non ci hanno voluto ascoltare e ciò significa che avevano ben altri piani.

Ci si preparava a una ennesima aggressione nel Donbass, all’invasione nelle nostre terre storiche, inclusa la Crimea. A Kiev intanto veniva dichiarata possibile l’acquisizione dell’arma nucleare. Siccome esisteva una minaccia immediata ai nostri confini, la Russia ha fermato preventivamente l’aggressione. Era l’unica decisione corretta e tempestiva da prendere». Già sentito, già visto. 

Se proprio vogliamo trovare una novità, è nell’attacco frontale agli Usa, ormai ritornati in Russia al ruolo di «Grande Satana» come ai tempi della guerra fredda. Mai sulla Piazza Rossa si era sentito un attacco così diretto e frontale, come se Washington fosse il ricettacolo di ogni male.

«Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, hanno curato solo la loro esclusività, umiliando così non solo tutto il mondo ma anche i propri Paesi satelliti che sono costretti a far finta di non accorgersi di nulla e a inghiottire tutto questo docilmente. Ma noi siamo un Paese diverso.

La Russia ha un altro carattere. Non rinunceremo mai all’amore per la Patria, alla fede e ai valori tradizionali, alle usanze degli antenati, al rispetto verso tutti i popoli e le culture. Mentre in Occidente, a quanto pare, hanno deciso di abolire questi valori millenari. Un degrado morale che è diventato la base di ciniche falsificazioni della storia della Seconda guerra mondiale, della fomentazione della russofobia, dell’esaltazione dei traditori, arrivando a cancellare il coraggio di coloro che ottennero tra le sofferenze la Vittoria».

L’ultimo passaggio è un chiaro riferimento alla scarsa importanza che secondo Putin gli Usa attribuiscono alla Russia per la sconfitta del Terzo Reich. Ai veterani americani, ha aggiunto, è stato impedito di venire oggi a Mosca. «Ma noi invece li onoriamo, come facciamo con gli altri alleati». Il presidente russo ha poi chiesto un minuto di silenzio, non solo in onore dei caduti della Seconda Guerra Mondiale, ma anche «dei martiri di Odessa bruciati vivi nella Casa dei sindacati nel maggio 2014”, dei residenti del Donbass e dei partecipanti all’Operazione militare speciale».

Putin ha concluso in crescendo, ricordando come «altre volte i nemici della Russia tentarono di usare contro di noi bande di terroristi internazionali cercando di seminare ostilità etnica e religiosa per indebolirci dall’interno, senza mai giungere ad alcun risultato». Ma infine non c’è stata alcuna nessuna dichiarazione di guerra, nessuna mobilitazione generale.

Solo un riepilogo delle ragioni russe, e la sottolineatura del fatto delle cose che il Cremlino sostiene di aver chiesto più volte alla Nato e agli Usa, senza mai ottenerle. Non sono volati neppure gli aerei di guerra in formazione a Z, bloccati dalle avverse condizioni atmosferiche, come ha detto il portavoce Dmitry Peskov. Anche il suo presidente, tutto sommato, ha volato basso. Forse la vera novità è questa: quello di Putin è un discorso in tono minore, quasi sulla difensiva. Come se anche lui avesse voglia di farla finita. Ma questa è solo una nostra impressione, la nostra speranza.

Putin, il discorso integrale in italiano. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 9 maggio 2022.

Il discorso integrale di Vladimir Putin alla parata militare del 9 maggio a Mosca, in occasione del 77esimo anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale. 

«Russia», 11 volte. «Soldati», 8 volte. E ancora, altre 8 volte, «Guerra» e «Patria» (anche nella declinazione «patriottica» 5 volte). Sono queste le parole più utilizzate nel discorso tenuto il 9 maggio dal presidente russo, Vladimir Putin, alla parata nella Piazza Rossa a Mosca per il giorno della Vittoria. E proprio il concetto di «Vittoria» è rimasto oggi in ombra: il termine è stato pronunciato “solo” 5 volte dallo zar. Grande attenzione è stata riservata anche ai concetti di «memoria» (5 volte) e «sicurezza» (4 volte).

Cari cittadini russi!

Cari veterani!

Compagni soldati e marinai, sergenti e capisquadra, guardiamarina e guardiamarina!

Compagni ufficiali, generali e ammiragli!

Mi congratulo con te per il Grande Giorno della Vittoria!

La difesa della Patria, quando si decideva il suo destino, è sempre stata sacra. Con tali sentimenti di autentico patriottismo, la milizia di Minin e Pozharsky si alzò per la Patria, attaccò il campo di Borodino, combatté il nemico vicino a Mosca e Leningrado, Kiev e Minsk, Stalingrado e Kursk, Sebastopoli e Kharkov. Quindi ora, in questi giorni stai combattendo per la nostra gente nel Donbass. Per la sicurezza della nostra Patria - la Russia.

Il 9 maggio 1945 è per sempre iscritto nella storia mondiale come un trionfo del nostro popolo sovietico unito, della sua unità e del suo potere spirituale, un’impresa senza precedenti al fronte e alle retrovie. Il Giorno della Vittoria è vicino e caro a ciascuno di noi. Non c’è famiglia in Russia che non sia stata bruciata dalla Grande Guerra Patriottica. La sua memoria non svanisce mai. In questo giorno, nel flusso infinito del «Reggimento immortale» - figli, nipoti e pronipoti degli eroi della Grande Guerra Patriottica. Portano fotografie dei loro parenti, soldati caduti che sono rimasti per sempre giovani e veterani che ci hanno già lasciato. Siamo orgogliosi della generazione invincibile e valorosa di vincitori, che siamo i loro eredi, ed è nostro dovere conservare la memoria di coloro che hanno schiacciato il nazismo, che ci hanno lasciato in eredità a essere vigili e fare di tutto affinché l’orrore di una guerra globale non succede più. E quindi, nonostante tutti i disaccordi nelle relazioni internazionali, la Russia ha sempre sostenuto la creazione di un sistema di sicurezza uguale e indivisibile, un sistema vitale per l’intera comunità mondiale. Nel dicembre dello scorso anno abbiamo proposto di concludere un accordo sulle garanzie di sicurezza. La Russia ha invitato l’Occidente a un dialogo onesto, a cercare soluzioni ragionevoli e di compromesso, a tener conto dei reciproci interessi. Tutto invano.

I Paesi della Nato non volevano ascoltarci, il che significa che in realtà avevano piani completamente diversi. E l’abbiamo visto. Apertamente, erano in corso i preparativi per un’altra operazione punitiva nel Donbass, per un’invasione delle nostre terre storiche, compresa la Crimea. A Kiev hanno annunciato la possibile acquisizione di armi nucleari. Il blocco Nato ha avviato lo sviluppo militare attivo dei territori a noi adiacenti. Così, una minaccia per noi assolutamente inaccettabile è stata sistematicamente creata, direttamente ai nostri confini. Tutto indicava che uno scontro con i neonazisti, su cui puntavano gli Stati Uniti e i loro partner, sarebbe stato inevitabile. Ripeto, abbiamo visto come si sta sviluppando l’infrastruttura militare, come hanno iniziato a lavorare centinaia di consulenti stranieri, ci sono state consegne regolari delle armi più moderne dai paesi della Nato. Il pericolo cresceva ogni giorno. La Russia ha rifiutato preventivamente l’aggressione. È stata una decisione forzata, tempestiva e l’unica giusta. La decisione di un Paese sovrano, forte, indipendente. Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, hanno iniziato a parlare della sua esclusività, umiliando così non solo il mondo intero, ma anche i suoi satelliti, che devono fingere di non accorgersi di nulla e accettare docilmente tutto. Ma siamo un paese diverso. La Russia ha un carattere diverso. Non rinunceremo mai all’amore per la Patria, alla fede e ai valori tradizionali, ai costumi dei nostri antenati, al rispetto per tutti i popoli e le culture. E in Occidente, questi valori millenari, a quanto pare, hanno deciso di cancellarsi.

Tale degrado morale divenne la base per ciniche falsificazioni della storia della seconda guerra mondiale, incitando alla russofobia, elogiando i traditori, deridendo la memoria delle loro vittime, cancellando il coraggio di coloro che vinsero e subirono la Vittoria. Sappiamo che ai veterani americani che volevano partecipare alla parata di Mosca è stato effettivamente vietato di farlo. Ma voglio che sappiano che siamo orgogliosi delle tue imprese, del tuo contributo alla Vittoria comune. Onoriamo tutti i soldati degli eserciti alleati - americani, inglesi, francesi - i partecipanti alla Resistenza, i valorosi soldati e partigiani della Cina - tutti coloro che hanno sconfitto il nazismo e il militarismo.

Cari compagni!

Oggi la milizia del Donbass, insieme ai combattenti dell’esercito russo, sta combattendo nella propria terra, dove i combattenti di Svyatoslav e Vladimir Monomakh, i soldati di Rumyantsev e Potemkin, Suvorov e Brusilov, hanno combattuto il nemico, dove gli eroi della Grande Guerra Patriottica - Nikolai Vatutin, Sidor Kovpak, Lyudmila Pavlichenko hanno combattuto fino alla morte. Mi rivolgo ora alle nostre forze armate e alla milizia del Donbass. Stai combattendo per la Patria, per il suo futuro, in modo che nessuno dimentichi le lezioni della Seconda Guerra Mondiale. In modo che non ci sia posto nel mondo per carnefici, punitori e nazisti.

Oggi chiniamo il capo davanti al ricordo benedetto di tutti coloro la cui vita è stata tolta dalla Grande Guerra Patriottica, davanti al ricordo di figli, figlie, padri, madri, nonni, mariti, mogli, fratelli, sorelle, parenti, amici.

Chiniamo il capo davanti alla memoria dei martiri di Odessa, bruciati vivi nella Camera dei sindacati nel maggio 2014. Davanti alla memoria degli anziani, delle donne e dei bambini del Donbass, dei civili morti per i bombardamenti spietati, i barbari attacchi dei neonazisti. Chiniamo il capo davanti ai nostri compagni d’armi, che morirono alla morte di coraggiosi in una giusta battaglia - per la Russia. Viene annunciato un momento di silenzio. (Momento di silenzio.) Decreto sulle misure aggiuntive a sostegno delle famiglie del personale militare e dei dipendenti di alcune agenzie del governo federale La morte di ciascuno dei nostri soldati e ufficiali è un dolore per tutti noi e una perdita irreparabile per parenti e amici. Lo stato, le regioni, le imprese, le organizzazioni pubbliche faranno di tutto per prendersi cura di queste famiglie e aiutarle. Daremo un sostegno speciale ai figli dei compagni morti e feriti. Firmato oggi il DPR in merito. Auguro una pronta guarigione ai soldati e agli ufficiali feriti. E ringrazio i medici, i paramedici, gli infermieri, il personale medico degli ospedali militari per il loro lavoro disinteressato. Un profondo inchino a te per aver combattuto per ogni vita - spesso sotto tiro, in prima linea, senza risparmiarti. Cari compagni! Ora qui, sulla Piazza Rossa, stanno spalla a spalla soldati e ufficiali di molte regioni della nostra vasta Patria, compresi quelli che sono arrivati direttamente dal Donbass, direttamente dalla zona di combattimento. Ricordiamo come i nemici della Russia hanno cercato di usare contro di noi bande di terroristi internazionali, hanno cercato di seminare inimicizia nazionale e religiosa per indebolirci e dividerci dall’interno. Niente è riuscito.

Oggi, i nostri combattenti di diverse nazionalità sono insieme in battaglia, coprendosi a vicenda da proiettili e schegge come fratelli. E questa è la forza della Russia, la grande, indistruttibile forza del nostro popolo unito e multinazionale. Oggi difendi ciò per cui hanno combattuto i tuoi padri, i tuoi nonni, i tuoi bisnonni. Per loro, il senso più alto della vita è sempre stato il benessere e la sicurezza della Patria. E per noi, loro eredi, la devozione alla Patria è il valore principale, un supporto affidabile per l’indipendenza della Russia. Coloro che hanno schiacciato il nazismo durante la Grande Guerra Patriottica ci hanno mostrato un esempio di eroismo per tutti i tempi. Questa generazione di vincitori, e noi li ammireremo sempre.

Gloria alle nostre valorose Forze Armate!

Per la Russia! Per la vittoria!

Evviva!

Vittimisti di successo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera 9 Maggio 2022.

Fare la vittima funziona. Persino Putin, il macho per eccellenza, se ne è uscito sulla Piazza Rossa con un piagnisteo contro la Nato che, secondo lui, stava per invadere la Russia. In fondo anche Zelensky, che vittima lo è per davvero, sembra sempre voglia farci sentire un po’ in colpa perché non lo aiutiamo abbastanza. Ma la lista dei vittimisti di successo è infinita. L’ex presidente degli Stati Uniti che, agitando il fantasma dei brogli, solleva una mezza insurrezione e si rilancia politicamente. L’ex premier italiano che si costruì una carriera facendo la vittima dei giudici. Gli oppositori che se la costruirono facendo le vittime dell’ex-premier. Il partito che diventa «establishment» lamentandosi di essere vittima dell’«establishment». Fino al professore universitario di recentissima notorietà che attribuisce la sua ritardata consacrazione alle bocciature inflittegli «mille volte e ingiustamente» da colleghi invidiosi e collusi. Di solito il vittimista si rappresenta come un eroe lasciato solo a combattere contro un esercito di ombre maligne e vendicative. C’entra l’umana indulgenza verso sé stessi e, forse, il calcolo malizioso che niente produce più empatia del vittimismo: tutti imputiamo i nostri errori alla malafede altrui e tendiamo a solidarizzare con chi ce ne dà conferma. Tra tanti aspiranti al ruolo di vittima, l’unico controcorrente sembrava Calenda, che a Como aveva in lista una mistress sadomaso. Poi però l’ha tolta. Nel Paese delle vittime una «dominatrice» prenderebbe pochi voti. 

DAGONEWS il 9 maggio 2022.

La parata della vittoria si è trasformata in una clamorosa umiliazione per Putin. Mentre milioni di cittadini russi si preparavano a guardare in diretta il discorso di “Mad Vlad” dalla piazza rossa di Mosca, un gruppo di hacker è riuscito a colpire le tv del Paese, facendo comparire un messaggio con su scritto: “Nelle tue mani c’è il sangue di persone in Ucraina e dei loro bambini assassinati. La tv e il governo ti mentono”

(ANSA il 9 maggio 2022) - La parte aerea della parata a Mosca è stata cancellata "per le condizioni meteo". Lo ha annunciato l'addetto stampa del presidente russo, Dmitri Peskov, citato dalle agenzie russe.

Parata della Vittoria, il mistero dei jet scomparsi: cosa è successo davvero sui cieli della Piazza Rossa. Libero Quotidiano il 09 maggio 2022.

Oggi, nove 9 maggio, in un giorno così importante per la Russia, a destare scalpore è stato l’annullamento dello spettacolo dell’aviazione russa. Nel giorno della Parata della Vittoria, che è al suo 77esimo anniversario dalla liberazione della Germania, i celebri Mig (i caccia dell’armata russa) non hanno sfilato come programmato. Un’assenza che non poteva passare inosservata dopo le foto delle esercitazioni in volo a formare una Z, simbolo dell’operazione militare in Ucraina.

 Il portavoce del Presidente Putin, Dmitry Peskov, ha spiegato al Kommersant che tale esibizione è stata annullata causa maltempo. La giustificazione ha destato parecchio sospetto data la giornata soleggiata, confermato anche dalle analisi meteo fornite da AccuWeather. L’unica scusa plausibile è stata fornita da Peter Layton alla Cnn, il quale ha affermato che probabilmente ci sarebbe stato: “Vento forte alle basi di partenza”. Durante la Parata il vento era: “Intorno ai 24 km/h, con raffiche di 50 km/h” ha spiegato la meteorologa della Cnn Monica Garrett. Ad aumentare il mistero su questa faccenda ci sarebbero altri due dati ad aggiungersi.

Da un lato il fatto che le parate aeree non sia state cancellate solo a Mosca ma anche a San Pietroburgo e Rostov, ha riferito l’agenzia stampa Tass. Mentre l’agenzia Ria Novosti ha dichiarato cancellazioni anche a Murmansk, Kaliningrad e Samara. Dall’altro lato, in condizioni meteo più avverse, come ad esempio gli aerei delle città di Niznij Novgorod, hanno sfilato. Quest’ultimo dato sconfessa quindi ogni altra dichiarazione. Chissà quindi quale risposta si cela dietro questa misteriosa decisione dello Zar.

Mosca, le foto della parata del 9 maggio: Putin e Shoigu, "non è al suo fianco". Il dettaglio inquietante. Il Tempo il 09 maggio 2022.

Nell'attesissimo discorso pronunciato sulla Piazza rossa in occasione del Giorno della vittoria, il presidente russo Vladimir Putin rivendica la sua "operazione militare speciale" in Ucraina, ma non spinge la guerra a uno step successivo. Anzi, il leader di Mosca evita di pronunciare esplicitamente la parola, come temuto alla vigilia delle celebrazioni per la vittoria sul nazismo, nonostante le smentite del Cremlino, concentrandosi sulle motivazioni che lo avrebbero spinto a questo gesto e attaccando frontalmente la Nato e l'Occidente, che "non ha voluto ascoltarci".

In una Piazza rossa gremita da circa 11mila soldati divisi in 33 colonne, con sfoggio di carri armati, armamenti e dell'aereo anti attacco nucleare Ilyushin-80, ma dove non si è potuta tenere la parte aerea della parata a causa - almeno secondo quanto riferito dal Cremlino - delle condizioni meteo, risuona forte anche ciò che Putin non ha detto. Nessun accenno proprio al nucleare, o a un'escaltion del conflitto, ma un monito a essere vigili nel "fare di tutto affinché l'orrore di una guerra globale non succeda più". 

Ma non solo il discorso anche le immagini del Giorno della Vittoria fanno discutere e persino scoppiare un giallo. Sulla piazza appare trionfante anche Sergej Shoigu, il fedelissimo ministro della Difesa russo, scomparso e riapparso. Su di lui è stato scritto di tutto, persino che fosse ridotto in fin di vita. Poi il suo ritorno in pubblico - due settimane fa - con il faccia a faccia con lo zar trasmesso in tv). Ma Shoigu sulla piazza Rossa non si è mai visto al fianco del presidente: nemmeno un istante vicini né una foto insieme. Un caso in un giorno tanto atteso e significativo per la Russia o il segno inequivocabile della distanza fra i due?

L'assente di lusso del 9 Maggio. Il mistero di Valery Gerasimov, il generale russo assente alla parata di Mosca: i dubbi sul suo ferimento in Ucraina. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Maggio 2022. 

Nessuna minaccia di una escalation nucleare, né della trasformazione del conflitto in corso in Ucraina da “operazione militare speciale” a vera e propria “guerra”. Accanto al ‘non detto’ di Vladimir Putin nel suo discorso tenuto questa mattina nella Piazza Rossa di Mosca per celebrare il 9 Maggio, data che simboleggia la vittoria dell’Unione Sovietica sul nazismo, c’è anche il ‘non presente’.

Fa infatti discutere l’assenza alla cerimonia, accanto alle alte sfere del governo russo e delle forze armate, del generale Valery Gerasimov, capo delle Forze armate russe e ufficiale in uniforme più alto in grado della Russia, una delle tre persone assieme a Putin e al ministro della Difesa Sergei Shoigu ad avere i codici nucleari.

L’assenza di Gerasimov alla celebrazione del 9 Maggio rilancia dunque i rumors, per ora non confermati, di un suo ferimento lo scorso primo maggio durante un attacco ucraino al centro di comando russo di Izyum, stabilito all’interno di una scuola ‘sequestrata’ dai militari. Gerasimov sarebbe stato ferito in modo non grave alla gamba destra.

La notizia era stata pubblicata da Bellingcat, noto sito di giornalismo investigativo, e confermata dall’ex ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakov. Gerasimov, teorico della dottrina di guerra non-convenzionale che prende il suo nome, era stato ‘spedito’ da Putin nel Donbass per coordinare l’offensiva russa che dovrebbe portare il Cremlino a prenderei il totale controllo della Regione che ospita le due repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk.

Di Gerasimov in realtà si erano già perse le tracce ‘pubbliche’: il capo delle Forze armate russe era stato visto l’ultima volta in pubblico l’11 marzo scorso, data dell’incontro con la sua controparte turca Yasar Güler. Sempre a marzo suo nipote Vitalij Gerasimov, a capo del 41esima armata dell’esercito russo, era stato ucciso durante dei combattimenti vicino a Kharkiv.

In realtà sullo stesso ferimento di Gerasimov l’intelligence ucraina aveva chiarito che era stata attaccato l’area in cui il generale russo era presente, precisando però di non averlo colpito e che probabilmente il capo delle Forze armate russe fosse poi riuscito a fare ritorno in patria. Nell’attacco sarebbero però morti circa 200 militari russi, tra cui il maggiore generale Andrey Simonov.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Chi sono gli "Immortali" che non hanno partecipato alla parata di Putin. Alessandro Ferro il 9 Maggio 2022 su Il Giornale.

A 10 anni dalla fondazione, i tre capi del Reggimento degli "Immortali" non hanno partecipato alla parata di Mosca per le celebrazioni del 9 maggio: ecco cosa c'è dietro a questa scelta.

Durante la parata del 9 maggio che si è da poco conclusa hanno preso parte anche i componenti del "Reggimento Immortale", in pratica figli, nipoti e pronipoti degli "eroi" della Grande Guerra Patriottica che portano con loro le foto in bianco e nero e i ritratti dei loro cari che sono caduti nel campo di battaglia. Gli "Immortali" sono un popolo numerosissimo che comprende milioni di persone sia in Russia ma anche oltreconfine ed è stato istituito dieci anni fa. Il ricordo dei propri familiari e parenti, però, quest'anno è stato sporcato dalla guerra ordinata da Putin nei territori ucraini. È per questa ragione che i fondatori di questo reggimento non hanno sfilato per le vie di Mosca.

"I bisnonni ci avrebbero maledetto"

Sergej Lapenkov, Igor Dmitriev e Sergej Kolotovkin, i tre fondatori, hanno deciso di incrociare le braccia e bloccare una tradizione che loro stessi avevano lanciato con una nobile motivazione. "Purtroppo assistiamo a fenomeni ed eventi che cambiano il significato originario", hanno scritto sul sito web degli Immortali. Possessori anche di Tv2, chiusa lo scorso 4 marzo per le posizioni anti-putiniane e contro le fake news della propaganda russa, i tre soci non ci stanno. "È la nostra posizione. E non è cambiata. Il guaio è che pochi pensano che in Ucraina siano stati gettati, dall'una e dall'altra parte, i pronipoti di coloro che combatterono allora e che oggi chiamiamo Reggimento Immortale. I nostri bisnonni ci avrebbero maledetto per quello che sta succedendo", ha affermato a Repubblica Lapenkov.

Chi ha boicottato la parata

Oltre alla loro protesta, hanno partecipato alla parata ma per esprimere il loro dissenso anche i componenti di Vesna (Primavera), che avevano già mostrato la loro contestazione in diverse maniere tra le quali l'invito ai loro sostenitori di mettere una scritta sotto i ritratti dei propri familiari morti in guerra: "Non hanno combattuto per questo", riferendosi, ovviamente, al conflitto in Ucraina. È chiaro che il Cremlino ha fatto da spettatore attento in questa vicenda e sta già operando le contromosse come l'arresto del coordinatore di Vesna e altri tre attivisti che rischiano fino a 24 mesi di carcere per la "creazione di un'organizzazione senza scopo di lucro che viola i diritti dei cittadini".

"Da vittorioso a aggressore"

Lo storico Jurij Alekseev, veterano in Afghanistan e in Cecenia, senza mezzi termini ha affermato che lo scorso 24 febbraio la Russia "da Paese vittorioso è diventata aggressore. Che metamorfosi. Che cosa ha a che fare con il 9 maggio?", e che questa aggressione è avvenuta in un giorno in cui sono stati messi in bella mostra i vessilli della "denazificazione" "anche se non so come vogliano denazificare gli ebrei, intendo il presidente Zelensky". Se da un lato c'è stato l'orgoglio e la commozione delle famiglie di chi non c'è più, dall'altro lato la Russia oggi non si è preoccupata della "moralità", come l'ha definita Alekseev. Secondo quanto riferito dall'Agenzia russa Novosti, si sarebbero tenute anche a Kherson alcune manifestazioni degli Immortali, città ucraina occupata dai russi.

"Putin come Hitler?". E Cacciari sbotta in tv. Luca Sablone il 9 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il filosofo attacca senza mezzi termini chi paragona la figura di Putin a quella di Hitler: "Una perfetta idiozia che vale solo come volgare propaganda".

L'accusa di fondo che in molti hanno avanzato da circa due mesi a questa parte è davvero forte, una tesi che paragona la figura di Vladimir Putin a quella di Adolf Hitler. Ma davvero si può effettuare un'uguaglianza tra i due? C'è chi fa notare che si tratta di una pratica impossibile, poiché andrebbero messe a confronto due epoche storiche completamente differenti e circostanze che tra di loro non possono essere assimilate con estrema superficialità.

L'argomento in questione è stato al centro dell'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda su La7 la domenica sera, che si è occupato di prendere in esame la situazione che il mondo sta attraversando mentre è in corso il conflitto militare tra Ucraina e Russia. Una voce importante è stata quella di Massimo Cacciari, che senza mezzi termini se l'è presa con chi continua a paragonare Putin a Hitler: "Si tratta di una perfetta idiozia che vale solo come volgare propaganda".

Come mai il filosofo ha una posizione così netta nei confronti di questa tematica? A suo giudizio non bisognerebbe farsi guidare dall'istinto, ma ragionare in maniera distaccata e tenendo bene in mente tutte quelle che sono le effettive differenze. "Quando si vuole demonizzare l'avversario è naturale che si usi l'immagine del demonio, cioè di un male assoluto", ha fatto notare. Agire in questo modo, sostiene Cacciari, non è solo facile e superficiale ma soprattutto "perfettamente idiota".

Il filosofo ha posto l'accento sul fatto che le tragedie che stiamo vivendo "non hanno nulla a che fare con quello che ha rappresentato il nazionalsocialismo e la figura di Hitler", né dal punto di vista ideologico né da un punto di vista strategico-politico. I pensieri di Cacciari non vanno messi in relazione solo all'attuale conflitto militare tra Ucraina e Russia, ma andrebbero presi in considerazione ogni volta che si parla di qualsiasi conflitto avvenuto dalla Seconda Guerra Mondiale in poi.

"Se vogliamo parlare seriamente di nazismo allora facciamo un discorso sulla straordinarietà dell'esperienza nazionalsocialista anche nei confronti del fascismo", ha aggiunto il filosofo. Che infine ha voluto ammonire pure tutti coloro che in maniera frettolosa e sbrigativa parlano di nazi-fascismo, anche se in fin dei conti c'è stata un'alleanza politica: "È una stupidaggine. Ideologicamente e culturalmente sono due fenomeni che andrebbero rigorosament 

Otto e mezzo, Alessandro Sallusti: "Hitler come Putin? Ci sono analogie inquietanti..." Libero Quotidiano il 26 febbraio 2022.

"Putin come Hitler?". Alessandro Sallusti, in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nella puntata del 25 febbraio, conferma il paragone: "Ci sono analogie, dei corsi e ricorsi storici, inquietanti... Nel 1938 Hitler invase la Cecoslovacchia con la scusa che ci fosse una minoranza tedesca vessata e l’Europa stette a guardare. Come quella era una scusa per Hitler così le minoranze russe lo sono per Putin", sottolinea il direttore di Libero.  

Che osserva: "La domanda è se questo è il primo passo per ricostituire l'Unione Sovietica, per ricostituire un impero". "Se Vladimir Putin fosse il nuovo Hitler", aggiunge Gad Lerner, anche lui in collegamento, "e noi abbiamo sentito indicare tanti nuovi Hitler negli ultimi 20 anni, ci sarebbe solo una cosa da fare e ce lo dice la storia: armare una guerra militare contro la Russia". 

"Questa è la seconda grande sconfitta dell'Occidente in pochi mesi dopo la fuga ingloriosa da Kabul", conclude dunque Gad Lerner. "Per me non è Hitler, è uno che vuole sviluppare una sua sfera d'influenza e avere la certezza che ai suoi confini non ci siano missili della Nato puntati contro di lui". 

Caracciolo ridicolizza Putin: “Il Donbass vale poco, è già sconfitto”. Il Tempo l'08 maggio 2022.

Francesco Verderami è stanco delle bugie sulla guerra della Russia usate da un certo colore politico, quello a sinistra, per motivi di pura auto-propaganda. Il giornalista del Corriere della Sera è ospite in studio della puntata dell’8 maggio di Controcorrente, programma tv di Rete4 che vede Veronica Gentili alla conduzione, e si toglie un sassolino, anzi un macigno dalla scarpa: “Tra le varie fake news io ne noto una che va avanti da un po’ di tempo, è una sorta di revisionismo storico su Vladimir Putin. Oggi è incentrato sul nazionalismo, sulla religione, sull’ortodossia russa, ma Putin è un comunista, nato in Unione Sovietica, cresciuto dai servizi segreti del Kgb e che ha operato attraverso gli strumenti che il comunismo gli dava per cercare di rilanciare la vecchia Unione Sovietica che aveva fallito. Putin passa per un fascista ed autorevolissimi intellettuali della sinistra, o delle terrazze romane o dell’azionismo, continuano a dargli del fascista, vorrei ricordare che - conclude il giornalista - Putin sta nella foto del comunismo, nella foto di famiglia…”.

Steve Della Casa per “La Stampa - TuttoLibri” il 9 maggio 2022.

Alberto Sordi è visibilmente spaventato, un soldato nazista gli sta puntando contro l’arma, lo minaccia di morte. Ma dietro il nazista spunta determinata Lea Massari, che sarà poi la sua compagna di vita, e colpisce il nazista con un ferro da stiro. 

Iniziano così le avventure di Silvio Magnozzi, il protagonista di Una vita difficile di Dino Risi (1961), una delle commedie più belle e significative sul dopoguerra italiano. Carla Gravina nel film di Luigi Comencini Tutti a casa (1960) è una bella ragazza, visibilmente impacciata, e porta con sé i libri di scuola. Sale su un traghetto in Romagna che deve portarla dall’altra parte del Po. 

Assieme a lei ci sono i soldati guidati da Alberto Sordi che dopo l’8 settembre sono sbandati e stanno cercando di tornare a casa, tra loro spicca Nino Castelnuovo. Ma su quella zattera c’è anche un soldato tedesco che parla un po’ di italiano e legge il nome Silvia Modena su uno dei libri della ragazza. 

Cerca di attaccare discorso con lei e a un certo punto si ricorda del suo ruolo e le chiede se Modena sia un cognome ebreo, dato che in Italia gli ebrei hanno spesso un cognome dove si evoca una città. La ragazza nega, e anche gli altri passeggeri negano di aver mai sentito che ci sia una città che si chiama Modena. Sembra tutto finito, ma scopriremo tragicamente che purtroppo non è così.

Sono due momenti di due film molto famosi, nei quali i toni di commedia si sposano al livello più alto con le note del dramma, con due grandi registi che raccontano il loro punto di vista sull’occupazione nazista dell’Italia dopo che il re e Badoglio si sono vigliaccamente messi al sicuro nella parte d’Italia già in mano agli alleati. 

Tutto è credibile: lo sono i toni, che rifuggono dalla retorica ma che non fanno sconti sulla crudeltà dei nazisti e dei loro alleati fascisti. Lo sono anche gli attori, sia quelli principali (Alberto Sordi, ancora una volta capace di raccontare le contraddizioni dell’italiano medio) sia quelli secondari, ivi compresi coloro che interpretano i nazisti. E, nel secondo caso, la credibilità ha origini ben precise.

In entrambi i film, infatti, il milite tedesco ha un nome e un cognome, Borante Domizlaff (in Una vita difficile lo si può leggere anche nei titoli di testa). Sembra un nome d’arte, ma non è così: chi si occupava di crimini di guerra lo conosceva molto bene, e da questo punto è partito Mario Tedeschini Lalli per il suo libro Nazisti a Cinecittà, uscito per Nutrimenti. 

Domizlaff, infatti, era un alto ufficiale delle SS che operava nel 1944 in quel di Roma, e che è stato tra coloro che spararono alla nuca uccidendoli gli ostaggi che furono portati alle Fosse Ardeatine. Per questo reato fu processato insieme al suo comandante Kappler nel dopo guerra, e fu assolto perchè il tribunale credette alla tesi secondo cui aveva solo eseguito un ordine al quale non poteva ribellarsi.

Sia Risi sia Comencini avevano idee non certo assimilabili al nazismo: come era possibile che avessero accolto nel loro film un nazista assassino di persone inermi? Come potevano ignorare quel nome che era comunque uscito abbondantemente sui giornali, all’epoca del processo? Oltretutto, come dimostra Tedeschini Lalli, non si trattava neanche di una persona che aveva manifestato pentimento e riconosciuto i propri errori, visto che nel 1977 quando Kappler evase da un carcere italiano il giorno di ferragosto fu proprio Domizlaff ad aiutarlo per una parte della latitanza. 

Il libro è la storia appassionata e documentatissima di un’indagine durata tanti anni, con l’autore che ricostruisce legami, nomi, relazioni con esponenti dell’estrema destra italiana, con alti prelati compromessi con il nazismo, con una sorta di «internazionale nera» che aiutò esplicitamente gli assassini nazisti nel secondo dopoguerra godendo di tante complicità, soprattutto da parte dei servizi segreti americani che nel frattempo si stavano organizzando contro il nuovo nemico, quello comunista. 

E, soprattutto, è l’ulteriore scoperta che Domizlaff non era un caso isolato. Anche Karl Hass, a sua volta ufficiale SS e assassino alle Fosse Ardeatine, collabora con registi che non possono certo essere accusati di collusioni con la destra eversiva come Luchino Visconti e Carlo Lizzani. 

E anche Hass ha avuto relazioni non marginali con i servizi segreti, e il suo nome è circolato anche in occasione delle bombe di piazza Fontana che sono il punto più intenso di relazione tra servizi segreti e neofascisti. Lo stesso Lizzani, in un intervento avvenuto al festival di Venezia nel 1995, ammette di averlo avuto nel suo film Il processo di Verona, un altro film antifascista che ha quindi nel suo cast un nazista autentico.

È lo stesso Tedeschini Lalli a mettere in guardia: non si tratta di un complotto, non è la prova di chissà quali trame o infiltrazioni. È solamente (solamente?) la prova che a guerra finita in Italia si è scelto di stendere un velo su tutta la vicenda dei nazisti in Italia: troppo pericoloso, troppo «eversivo»...

Domenico Quirico per “la Stampa” il 9 maggio 2022.

Festa contro festa, simbolo contro simbolo, noi e loro ognuno con pifferi e bandiere ma le sue, contrapposte e nemiche, giù le mani per carità! Nessuna appropriazione indebita nessuna sgarbata mescolanza. La Storia divisa a metà con i margini ben ripiegati... come se fosse possibile, come se avesse un senso: io mi prendo la mia e non voglio nulla della tua, te la lascio anche se fino al 24 febbraio accidenti! quanto erano mischiate...ma basta d'ora in avanti tutto si divide facciamo la guerra, a ognuno il Suo. Ci siamo. Oggi è il famoso nove maggio quando secondo i soliti bene informati tutto deve finire e chissà perché! 

Il Cremlino dovrebbe annunciare la pace. La sua? La nostra? O invece sillaberà ancora più guerra? Pizie e sibille che si sfregavano le mani aspettando di rimettere l'orologio del ventunesimo secolo all'orario consueto e accomodante e prenotare le vacanze tacciono, prudenti. Aspettano.

Il dieci maggio sarà uguale al nove purtroppo: con i forsennati trinceristi dell'Azovstal che aspettano di entrare nel wahalla ucraino degli eroi ma se qualcuno li tira fuori forse accetterebbero soluzioni meno apocalittiche... si aggiornano le cartine del Donbass... due spruzzi di isbe malconce prese di questo o da quello... villaggetti che sembrano nei racconti epici piazzeforti mostruose degne del genio ingegneristico di Vauban... l'artiglieria tira e annienta... indignazione! ma che guerra crudele e bizzarra è mai questa?... negoziati trattative cessate il fuoco: non si pronunci nemmeno la parola perché i guerrafondai accomodati negli stati maggiori ormai indicano la strada anche a Washington e alla Nato: stiamo vincendo la nostra guerra che forse non è neppur più quella dell'Ucraina prego non disturbare l'Unione europea è saldissima granitica nel parlare come sempre di soldi da distribuire, di petrolio e di gas se le guerre si vincessero firmando assegni avremmo già trionfato.

Eccoli qua i simboli: la sfilata della vittoria nella grande guerra patriottica da una parte, la festa dell'Europa anche lei, finalmente dice qualcuno, in elmetto e mimetica dall'altra. Se ci fosse stato bisogno di qualcos' altro per rassegnarsi alla constatazione tragica che la guerra sciagurata allarga ogni giorno di più in modo definitivo divisioni permanenti, insanabili ecco qua, oggi, le immagini esplicite, leggibili a chiunque.

Perché ormai i segnali simbolici che ciascuno dei due campi, Russia e Occidente, elabora e invia non tengono più conto dell'avversario. Non servono neppur più a intimorire il nemico, sarebbe una perdita di tempo. Parlano soltanto a se stessi, al proprio campo: studiati per incitare rassodare tranquillizzare gli incerti e i meditabondi annunciare vittorie resistenze controffensive e comunanze infrangibili.

Ancor più del conflitto combattuto sul campo questa mischia di simboli è il segno, terribile, che la guerra e la sua droga ormai rendono tutti ciechi e crudeli. L'unico antidoto per salvarsi dall'uso indiscriminato della forza e dalla sua pericolosa arroganza sarebbe l'umiltà e in fondo la compassione. Ma ancora una volta il messaggio comincia a sfuggirci, anche in coloro che hanno dichiarato di essere scesi in campo soltanto per bloccare la prepotenza da parte di una fazione immorale.

I simboli servono a definirsi da soli e a far si che tutte le altre definizioni non contino. Con i simboli si rilasciamo delle dichiarazioni esplicite, lasciamo dei biglietti da vista. È terribile quando sono destinati soltanto alla nostra parte. Non si vuol più tornare indietro. 

Sfila in questi simboli il terribile mondo nuovo: chi non è dentro il nostro mondo, Russia o Occidente, è fuori, chi non con noi è contro di noi, e il mondo perde così tutte le sfumature, esenta dall'etica della responsabilità che è prima di tutto individuale, così si imbocca da sempre la via al totalitarismo. Le simbologie di oggi servono a confermare quello che si è perfezionato con metodo in questi settanta giorni: dipingere un quadro del mondo in bianco e nero. Sospendere il pensiero e soprattutto il pensiero autocritico. Tutto si inchina davanti allo sforzo supremo.

Siamo una cosa sola. La sfilata sulla piazza rossa fino a ieri celebrava la vittoria contro un nemico comune, anche dell'Occidente democratico, negli anni quaranta del secolo scorso: il regime nazista. Faccio scorrere filmati delle edizioni degli anni in cui era già al potere Putin. 

Non a caso tutto veniva mescolato opportunamente, le nuove bandiere di taglio imperiale e zarista dei reggimenti con i vecchi stendardi bolscevichi, marcette nuove e marcette «d'antan». Putin mescolava Storie apparentemente antagoniste per giustificare la sua. Un piccolo spostamento simbolico e la parata diventa altro in questo tempo di operazioni speciali. Un modo per rassicurare i russi: niente paura, siamo davvero potenti, come settanta anni fa abbiamo di fronte un nemico smisurato, gli Stati Uniti e i loro quaranta alleati rastrellati in cinque continenti... ma la nostra forza è intatta.

Anche stavolta schiacceremo gli aggressori che avanzano da Ovest e che saggiamente abbiano anticipato attaccando Così leggerà la sfilata la maggior parte dei russi. A Putin non importa nulla se per noi sarà solo un segno di tracotanza bellicista, o il sintomo di paura di esser sconfitto. Sa come noi che la maggior parte degli uomini è pronta ad accettare la guerra purché rientri in un sistema di idee che giustifichi le sofferenze in funzione di un bene superiore. Gli esseri umani in ogni tempo, dalla mischia nella pianura di Troia a oggi, non cercano solo la felicità ma anche un senso nella vita.

E qualche volta, purtroppo, combattere è il modo più semplice ed efficace per trovarlo. La logica, i fatti possono far ben poco per fermare questa separazione senza ritorno dei simboli. Il mito condiziona il modo stesso di percepire la realtà. È solo dopo l'implosione del mito, spesso improvvisa e fulminante come la sua comparsa, che si possono mettere in discussione le motivazioni e le bugie della propria parte. Ognuna usa la storia e le parole per esaltare se stessi e la causa sacrosanta, la si spaccia per Storia ma è mito. 

Putin racconta che l'Ucraina non esiste, è solo un frammento della Russia. Eppure l'Ucraina esiste come dimostra nella sua lotta quotidiana. Gli ucraini a loro volta hanno cancellato la festa della vittoria per non condividerla con i russi. E la sostituiscono con la festa dell'Europa. Anche loro usano i fatti come se fossero intercambiabili come le opinioni.

Quelli che non fanno comodo vengono cancellati o negati. Per esempio che i loro nonni combatterono nell'esercito russo contro l'invasione tedesca e che una parte di loro, i nazionalisti, si schierò con gli invasori indossandone le uniformi e partecipando ai loro infami progetti sterminatori. Tutto è utile, anche le incoerenze storiche per rafforzare l'orgoglio di oggi e la prospettiva della vittoria. Mentre quello che ci distingue dall'aggressore è sempre il coraggio della sincerità.

Di Battista intervista lo storico Barbero: ma che bello il comunismo, fa vibrare emozioni positive. Adele Sirocchi il 25 maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Lo storico Alessandro Barbero sconfina dal suo territorio di studio. E’ ormai, per quanto riguarda il dibattito sulla guerra in Ucraina, un Orsini più credibile (si chiamano anche tutti e due Alessandro), più capace di argomentare, meno narciso e più razionale ma che sempre lì va a parare: la Nato “abbaiava” alle porte di Mosca e Putin tutti i torti non li ha. In pratica, con la scusa che lo storico deve capire e non giudicare sulla base di male e bene, lo studioso si schiera con coloro che non si schierano.

Già giorni fa, in una lezione online agli studenti di un liceo campano, Barbero aveva detto: “La storia è fatta di aggressioni e lo storico sa che farsi prendere dalle emozioni, avere come reazione principale la condivisione della sofferenza di chi è aggredito non può essere la reazione dominante”. Si sorvola, dunque, sulle sofferenze dell’aggredito per andare a cercare le ragioni dell’aggressore. Tale è il mestiere dello storico secondo Barbero.

E figuriamoci se gli anti-Nato si lasciavano sfuggire l’occasione di farne una sorta di portavoce del diritto di Putin ad aggredire. Perché poi c’è la “narrazione dominante” dalla quale occorre discostarsi a tutti i costi. E’ ciò che rende glamour la polemologia. Sarà per questo che oggi Il Fatto ci propone due pagine tratte dal podcast realizzato da Alessandro Di Battista (per il quale l’Italia deve uscire dalla Nato per andare dove non si sa) con Alessandro Barbero.

Una conversazione che spiega molte cose, addirittura sfiorando l’ingenuità. Di Battista chiede a Barbero: “Scusi, lei è stato comunista, si definirebbe ancora tale?”. E il professore non se lo fa ripetere due volte: dipende – risponde – dal significato che si dà alla parola comunista. Per poi ammettere che sì, in fondo lo è. Perché è meglio essere comunista che fascista o capitalista.

“Se poi essere comunista – continua Barbero – vuol dire che comunque quel progetto, con tutti i suoi sbagli e con tutti i suoi crimini, fa vibrare dentro un’emozione positiva mentre il progetto fascista o nazista e anche il capitalismo totale e trionfante ti suscitano ripugnanza, ecco in quel senso so di stare da quella parte. Appartengo a quel mondo e a quella cultura. A me non succederà mai che una falce e martello o una stella rossa possano sembrare dei simboli del male”. Figuriamoci se si agita per l’espansionismo di Putin… Ora è tutto più chiaro.

La lezione dello storico Alessandro Barbero che tra Putin e Zelensky non si schiera. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 19 maggio 2022.

«Ci sono stati reparti delle SS che parlavano ucraino e hanno collaborato con i nazisti fino all’ultimo. Ciò non fa parte della loro narrazione, del resto chi se ne vanterebbe oggi».

«Questo fa sì però che se qualcuno in Ucraina è ancora attaccato a quel passato nazista, nella narrazione ufficiale si dice “è un fenomeno irrilevante, marginale”. Noi però nel nostro paese non accetteremmo mai l’esistenza di gruppi neo nazisti riconosciuti dall’autorità e integrati nell’esercito».

La storia è fatta di aggressioni e lo storico sa che farsi prendere dalle emozioni, avere come reazione principale la condivisione della sofferenza di chi è aggredito non può essere la reazione dominante.

Dall’inizio della guerra in Ucraina lo storico Alessandro Barbero ha sempre rifiutato richieste di interviste e interventi televisivi. Lo hanno cerato tutti, ha sempre risposto che preferisce evitare di infilarsi nell’aspro dibattito sul tema.

Poi però succede che qualche giorno fa decida di concedere un’intervista a un liceo, il Torricelli di Somma Vesuviana. Che quel video, un po’ nascosto, venga caricato su youtube, passando pressoché inosservato. Ed è un peccato, perché ci sono inciampata per caso e racconta il suo punto di vista, come sempre lucido e per nulla scontato. Eccolo:

«La Russia e l’Ucraina sono paesi in cui il passato, al contrario che nell’Occidente, conta molto sia nell’atteggiamento collettivo che nelle scelte politiche. Il discorso con cui Putin ha annunciato l’entrata in guerra è impressionante, dopo pochi secondi lui stava già parlando dell’Unione Sovietica e di come non ripeteranno più gli errori del passato.

Ha giustificato la sua azione facendo riferimento ai nazisti, alla memoria. Che ovviamente è una memoria selettiva. Ma anche l’Ucraina guarda molto al passato ed entrambi i paesi scelgono la memoria che fa più comodo.

Nella memoria dei russi la più grande tragedia del ‘900 è l’invasione nazista e il fatto che in quel frangente i nazisti abbiamo trovato collaboratori e simpatizzanti tra gli ucraini. L’oppressione che l’Ucraina ha subito da Mosca è ignorata.

Dall’altra parte, in Ucraina c’è la consapevolezza dei periodi di oppressione subiti dalla Russia e per loro la tragedia del Novecento è la grande carestia, quando milioni di persone morirono affamate da Stalin.

Nella memoria pubblica degli ucraini però viene rimosso il fatto che i loro grandi leader indipendentisti sterminavano gli ebrei con grande piacere e del resto nelle piazze ci sono monumenti dedicati a quei leader ucraini sterminatori di ebrei».

«Per questo nel cercare di interpretare quello che accade oggi bisogna fare attenzione alla complessità, parola che non è di moda nel dibattito pubblico.

La selettività della memoria vuol dire che la cultura collettiva dell’Ucraina è basata su un passato di oppressione da parte dai russi e su una faticosa conquista della libertà.

Tutto questo è vero, ma è solo un pezzo della verità. In certi momenti della lotta per l’indipendenza gli ucraini hanno sterminato gli ebrei, sono stati anti-russi e antisemiti.

Ci sono stati reparti delle SS che parlavano ucraino e hanno collaborato con i nazisti fino all’ultimo. Ciò non fa parte della loro narrazione, del resto chi se ne vanterebbe oggi. Questo fa sì però che se qualcuno in Ucraina è ancora attaccato a quel passato nazista, nella narrazione ufficiale si dice “è un fenomeno irrilevante, marginale”. Noi però nel nostro paese non accetteremmo mai l’esistenza di gruppi neo nazisti riconosciuti dall’autorità e integrati nell’esercito.

All’opposto, nella narrazione russa il filone minoritario neo-nazista con reparti ucraini che si ispirano alla tradizione nazista e eroi nazionali che hanno collaborato con i nazisti è un tema centrale. Insomma.

Gli ucraini dicono che tutto questo non è importante, i russi invece dicono è l’unica cosa importante».

«Chi fa lo storico, ma anche chi vuole comprendere la realtà a mente aperta deve essere consapevole che siamo di fronte a una realtà e a due modi di raccontarla in modo propagandistico: il modo ucraino di dire “il passato nazista è irrilevante” e il modo russo di dire “il passato nazista è la caratteristica di fondo dell’Ucraina”. Entrambe le narrazioni sono false perché c’è un passato filo-nazista presente, con cui l’Ucraina dovrebbe fare i conti, ma anche la pura propaganda russa per cui l’Ucraina è tutta nazista». 

LA DOMANDA DELLO STUDENTE

Uno studente del liceo replica che tutto questo sarà vero ma «esistono un aggressore e un aggredito».

Il professore Alessandro Barbero replica:

«Questa osservazione tradisce l’odierno clima collettivo: noi oggi siamo trascinati da questa necessità di decidere chi ha ragione e torto e per deciderlo ci sembra che ci sia un unico elemento, ovvero quello di ricordare che un paese ha invaso l’altro. E quindi anche nel valutare le menzogne dell’uno e dell’altro dovremmo avere due pesi e due misure.

In questi ultimi tempi mi sono reso conto che il mio mestiere di storico rischia di anestetizzarmi rispetto a certe emozioni.

Lo storico, di fronte agli avvenimenti del presente, è come il medico abituato a vedere gente che muore e non si emoziona più come gli altri davanti alla malattia e alla morte. Intellettualmente è giusto, ma succede che non si sia più in sintonia con i contemporanei.

Quando sento che è una guerra nel cuore dell’Europa penso che anche l’atroce guerra nella ex Jugoslavia era nel cuore dell’Europa.

La storia è fatta di aggressioni e lo storico sa che farsi prendere dalle emozioni, avere come reazione principale la condivisione della sofferenza di chi è aggredito non può essere la reazione dominante. Il mio mestiere è un altro, è capire. Questo non vuol dire che non ci siano casi in cui io faccio il tifo.

Nella Sconda guerra mondiale i vincitori erano dalla parte giusta, ma non faccio fatica a dire che hanno commesso orrori. Che i sovietici hanno sterminato gli ufficiali polacchi nelle fosse di Katyn, che Churchill ha fatto morire milioni di indiani ai tempi della carestia del Bengala, non faccio fatica a dire che i bombardamenti aerei degli alleati sulle città italiane e tedesche siano stati indiscriminati.

Tutto questo non mi impedisce di dire che c’era una parte che aveva ragione. E per fortuna ha vinto quella che aveva ragione. Anche nella guerra tra Russia e Ucraina, se uno è convinto che l’Ucraina abbia ragione va bene, ognuno fa le sue scelte emotive e morali, ma questo non deve diventare tifo da stadio.

E’ come se uno, discutendo di Seconda guerra mondiale, siccome gli alleati avevano ragione dicesse “non voglio discutere delle bombe atomiche sul Giappone e se tu discuti la legittimità di sganciare delle bombe atomiche vuol dire che sei con Hitler”. Io non ci sto».

«Lo storico deve analizzare anche le motivazione dei malvagi perché i malvagi non sapevano di esserlo, pensavano perfino di fare cose giuste. Se si accentua una dimensione e se ne attenua un’altra, si fa politica».

Sulle ragioni per cui Putin ha invaso l’Ucraina il professor Barbero parla di “ventaglio di motivi”:

«Immaginiamo un paese A e uno B che confinano, non si vogliono bene e hanno un lungo passato di contrasti. Nel paese A, vicini al confine, ci sono abitanti che parlano le lingue del paese B e si trovano male nel paese A, dicono che sono oppressi, discriminati. Molti di loro vorrebbero essere nel paese B. A un certo punto il paese B invade A con lo scopo dichiarato di liberare i compatrioti dall’oppressione.

Sto raccontando il 24 maggio del 1915 quando l’Italia ha dichiarato guerra invadendo l’impero austriaco per liberare Trento e Trieste. Una pagina della nostra Italia che è sempre stata raccontata come gloriosa.

Se però stessi raccontando la decisione della Russia di invadere l’Ucraina per liberare i connazionali oppressi del Donbass, in cui i russi che vivono in Ucraina non hanno diritto di usare la loro lingua neppure nelle scuole, cosa diciamo?

Uno dei problemi dell’Europa orientale post sovietica è che ci vivono minoranze russe.

I russi sono stati la nazione imperiale che ha dominato tanti piccoli paesi.

Quando quei paesi sono diventati indipendenti, i russi rimasti lì sono diventati minoranza guardata con antipatia e discriminata. Anche gli italiani sono stati discriminati quando sono diventati minoranze dopo il 1945 nella Jugoslavia, Hitler ha smembrato la Cecoslovacchia per recuperare gli abitanti tedeschi dei Sudeti. É la normale vendetta dei popoli che a lungo sono stati dominati contro il popolo dominatore.

Poi c’è la paranoia russa. Nella cultura politica russa l’ossessione di essere aggrediti è costante, risale ai tempi delle invasioni mongole. Certo, la Russia è sempre stata spietata e imperialista ma nel suo dna non ha mai avuto la voglia di espandersi a occidente “fino al Portogallo”, come qualcuno ha detto.

L’Occidente, diciamo nel suo candore, aveva promesso a Gorbaciov di non allargarsi ad est e invece ha progressivamente fatto entrare nella Nato tutti i paesi dell’Europa orientale, ci sono le basi della Nato ai confini con la Russia.

Ora. Se tu hai a che fare con una grande potenza paranoica, devi sapere che se ti avvicini ai suoi confini potrà avere una reazione».

«Riguardo la richiesta di Finlandia e Svezia di entrare nella Nato, va detto che l’Ucraina intratteneva rapporti con la Nato da parecchi anni, gli istruttori Nato istruivano l’esercito ucraino che è a tutti gli effetti un esercito della Nato.

Putin ha invaso l’Ucraina per questo e perché c’era probabilità che l’Ucraina entrasse nella Nato. Se fossi un cittadino della Svezia o della Finlandia non direi che per essere più sicuri si dovrebbe entrare nella Nato, a meno che non ci sia la convinzione che la Russia sia pronta a lanciarsi in azioni di conquista.

Ma non mi sembra uno scenario plausibile, quindi secondo me non è una scelta sensata». 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Il culto della morte e altri nichilismi. La Russia è fascista, baby (più chiaro di così non c’era). Linkiesta il 20 Maggio 2022.

Gli autoritarismi che l’Europa ha conosciuto all’inizio del secolo non sono mai finiti del tutto, in questi mesi il regime di Putin lo sta ricordando al mondo intero. E se dovesse vincere la guerra, scrive Timothy Snyder sul New York Times, gli altri leader estremisti ne usciranno rafforzati.

Da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina si fa un uso – forse abuso – di termini come «fascismo» e «nazismo». Il primo è stato proprio Vladimir Putin, nel suo discorso che ha dato il via all’aggressione il 24 febbraio: ha detto di voler «denazificare» il Paese vicino, un riferimento poi ripreso per indicare i soldati di Kiev, il battaglione Azov, ma anche la politica e la cultura ucraina.

Dall’Occidente sono arrivare critiche speculari. Recentemente il segretario alla Difesa del Regno Unito Ben Wallace, in un discorso al National Army Museum di Londra, ha detto che attraverso l’invasione dell’Ucraina Putin, il suo inner circle e i suoi generali stanno riprendendo il fascismo e la tirannia di 70 anni fa, ripetendo gli errori dei regimi totalitari del secolo scorso.

Lo ha detto proprio il 9 maggio, cioè il giorno in cui in Russia si celebra la vittoria contro il Terzo Reich: «L’attacco non provocato e illegale dell’Ucraina, gli attacchi contro i cittadini innocenti e le loro case, le atrocità diffuse anche deliberatamente contro donne e bambini, corrompe la memoria dei sacrifici passati e la reputazione globale – un tempo orgogliosa – della Russia».

È evidente che il regime di Mosca non sia poi così distante, per modi, metodi e narrazione, dagli autoritarismi di un secolo fa. Il culto della violenza e dell’irrazionalità di quelle dittature non è morto, non è stato cancellato.

«Sbagliamo se pensiamo di poter limitare le nostre paure del fascismo a una certa immagine di Hitler e dell’Olocausto: il fascismo era di origine italiana, era popolare in Romania e aveva seguaci in tutta Europa e in America. In tutte le sue versioni, si trattava del trionfo della volontà sulla ragione. Il fascismo fu sconfitto sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, ma ora è tornato e questa volta il Paese che ha voluto una guerra di distruzione fascista è la Russia. Se dovesse vincere la Russia, i fascisti di tutto il mondo ne usciranno più forti», ha scritto Timothy Snyder sul New York Times.

Negli anni Venti del Duemila può essere difficile stabilire cosa sia fascismo e cosa no, d’altronde l’humus culturale, sociale, politico, economico in cui germogliò quello del Novecento sono distanti. Ma la Russia, sostiene Snyder, soddisfa una quota sufficiente di criteri per poter essere definita fascista: ha un culto del leader unico e assoluto, Vladimir Putin; ha un culto della morte che richiama la Seconda guerra mondiale; ha il mito di un’età dell’oro, a una grandezza imperiale da restaurare con una guerra.

Ci sono poi altri punti di contatto tra la storia e la cronaca degli ultimi giorni. Quando nel 1941 Adolf Hitler si propose di invadere l’Ucraina, aveva in mente una campagna militare molto semplice e diretta: pensava che l’Unione Sovietica – che all’epoca governava l’Ucraina – fosse uno stato ebraico, progettò di prendere il suo posto e rivendicare per il Terzo Reich suolo agricolo dell’Ucraina. Immaginava che sarebbe stato facile perché l’Unione Sovietica, secondo lui, era una creazione artificiale e gli ucraini un popolo coloniale. Oggi il Cremlino vede l’Ucraina come uno Stato artificiale, e accusa il suo presidente – Volodymyr Zelensky, ebreo – di non essere in grado, o meritevole, di governare quel territorio.

Alcuni non vogliono inquadrare la Russia di oggi come fascista perché, diversi decenni fa, l’Unione Sovietica di Iosif Stalin si definiva antifascista e fu fondamentale – al fianco di americani, britannici e altri alleati – contro la Germania nazista e i suoi alleati nel 1945.

Ma guardando nel dettaglio, l’opposizione di Stalin al fascismo fu decisamente più opportunistica che ideologica. Qualunque manuale di storia ricorda che nel 1939 l’Unione Sovietica strinse un patto con la Germania nazista – rendendola un alleato de facto – prima dell’invasione della Polonia. E poi, per mesi, i discorsi nazisti furono ripresi anche dalla stampa sovietica. Solo che oggi il Cremlino nasconde tutto sotto il tappeto della sua propaganda: le leggi russe hanno criminalizzato anche la memoria storica della guerra, sostituendola con il mito dell’innocenza russa, della grandezza perduta, del vittimismo, fino al culto della vittoria.

L’accondiscendenza di Stalin sul fascismo – almeno per un certo periodo – è una chiave di lettura indispensabile per comprendere la Russia oggi. «Sotto Stalin, il fascismo era considerato prima indifferente, poi un nemico, poi andò bene di nuovo fino all’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania. Era una scatola in cui si poteva mettere qualsiasi cosa: durante la Guerra Fredda, gli americani e gli inglesi vennero indicati come fascisti, e a un certo punto il presunto antifascismo di Stalin ha preso di mira gli ebrei, fino a equiparare Israele alla Germania nazista», scrive Snyder nella sua ricostruzione.

Dopotutto, l’antifascismo sovietico si poteva sintetizzare in una politica “noi contro loro”. Ma la ricerca e la definizione di un nemico a tutti i costi, come diceva lo stesso filosofo e pensatore tedesco Carl Schmitt (uno che ne 1933 era iscritto al partito nazionalsocialista), è la base della politica fascista.

Nella Russia del XXI secolo, Putin ama definirsi antifascista in modo puramente strumentale, per poter dichiarare fascista o nazista il suo nemico, chiunque si opponga ai suoi progetti: l’Ucraina deve essere «denazificata» perché non accetta di essere russa, anzi osa opporsi.

«Un viaggiatore del tempo degli anni ’30 non avrebbe difficoltà a identificare il regime di Putin come fascista: il simbolo Z, le manifestazioni, la propaganda, la guerra come atto di pulizia della violenza e le fosse della morte intorno alle città ucraine rendono tutto molto chiaro. La guerra contro l’Ucraina non è solo un ritorno al tradizionale campo di battaglia fascista, ma anche un ritorno al linguaggio e alla pratica tradizionali fascisti, e la guerra come risposta», scrive Snyder.

Iniziare a riconoscere il fascismo quando lo vediamo aiuta a capire con chi abbiamo a che fare. Ma riconoscerlo non basta, non basta per annullarlo. Va contrastato, annullato dimostrando la debolezza del leader e dei suoi metodi e delle sue argomentazioni.

Di contro, se la Russia dovesse vincere in Ucraina, non sarà solo la distruzione di una democrazia con la forza: sarà una demoralizzazione per le democrazie ovunque. Già prima della guerra, gli amici della Russia – che rispondono ai nomi di Marine Le Pen, Viktor Orban, Matteo Salvini – erano i nemici della democrazia.

Le vittorie sul campo di battaglia del fascismo confermerebbero che il potere fa ragione, che la ragione è per i vinti, che le democrazie devono fallire. E se l’Ucraina non avesse resistito, questa sarebbe stata una primavera oscura per i democratici di tutto il mondo. «Se l’Ucraina non vince, possiamo aspettarci decenni di oscurità», si legge sul New York Times. Allora forse è il caso di riprendere la frase con cui Snyder apre il suo articolo di opinione: il fascismo non è mai stato sconfitto come idea. E questa è la parte più preoccupante.

A Dritto e rovescio vengono umiliati i pacifisti pro-Stalin: “Ha ucciso milioni di persone”, “Un criminale”. Il Tempo il 19 maggio 2022

A Dritto e rovescio, talk show di Rete4 che vede Paolo Del Debbio alla conduzione, sono ospiti in collegamento alcuni pacifisti che si schierano contro l’invio delle armi all’Ucraina per la difesa contro la Russia. Stefano Zurlo, giornalista de Il Giornale, però coglie subito la palla al balzo notando un poster di Stalin, ex dittatore della Russia, alle spalle degli intervistati e ci va giù duro: “Se si sposta un attimo c’è un grande pacifista alle sue spalle, c’è Stalin, ha ammazzato qualche decina di milioni di persone, questo è il pacifismo che voi portate. Poi c’è pure Lenin”. “Non capisco di che cosa state parlando” risponde uno degli attaccati, con l’intervento di Giuseppe Cruciani: “Il ritratto di Stalin, dai su. Ma è un criminale quello la dietro, la smetto”. “Dopo cento anni stiamo ancora a parlare con qualcuno che ha un ritratto di Stalin alle spalle, questo squalifica il discorso” inveisce ancora Zurlo. 

“L’immagine di Stalin per voi è un motivo d’orgoglio?” a cercare di far chiarire la situazione ai suoi ospiti è Del Debbio, che rivolge tale domanda ai pacifisti: “Non è motivo d’orgoglio. L’Unione Sovietica ha liberato l'Europa dal nazismo, se non ci fosse stato Stalin con l’Armata Rossa eravamo tutti a fare il saluto romano”. “Se non è motivo d’orgoglio perché la tiene lì? Io non la tengo, io in casa mia Pol Pot non ce l’ho”, ribatte e chiude il siparietto Del Debbio. 

IL DONBASS DELI ALTRI.

La Cina usa missili e caccia per minacciare Taiwan. Esercitazioni militari senza precedenti. Sorvolata più volte l'isola. Bombe anche sulle acque giapponesi. Chiara Clausi il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.

Alle 12 locali di ieri la Cina ha dato il via alle più grandi esercitazioni militari mai fatte intorno a Taiwan, che alla fine sono persino sconfinate nelle acque giapponesi. Sono la risposta alla visita nell'isola della presidente della Camera americana Nancy Pelosi. Pelosi ha assicurato che la sua presenza ha reso «inequivocabilmente chiaro» che gli Usa «non avrebbero abbandonato» un alleato democratico come Taiwan. Il suo viaggio ha suscitato la furiosa reazione di Pechino che ha promesso «punizioni». Una prova di forza, mentre continuano a crescere le tensioni nella regione: ieri un totale di 22 caccia cinesi ha brevemente superato la linea mediana informale che divide lo Stretto di Taiwan. Il ministero della Difesa di Taipei, ha rilevato otto J-11, dodici Su-30 e due J-16, e ha precisato di aver, secondo il protocollo, «attivato i sistemi di difesa aerea, fatto decollare i jet e lanciato messaggi di avvertimento». I media ufficiali cinesi ricordano che si tratta «di manovre militari e d'addestramento su vasta scala» che includono lanci dal vivo di colpi di artiglieria e di missili in sei aree marittime off-limits a navigazione e sorvolo. Le manovre per giunta sono state estese da domenica 7 agosto a lunedì 8 fino alle ore 10.

Il Global Times, quotidiano di lingua inglese vicino al regime di Pechino, ha affermato, citando vari analisti militari, che le manovre sono «senza precedenti» e che i missili avrebbero sorvolato Taiwan per la prima volta. A conferma sono arrivate le parole di fuoco del ministro degli Esteri cinese Wang Yi. «Sono gli Stati Uniti che hanno provocato i guai, la crisi e che continuano ad aumentare le tensioni», ha precisato. E ha replicato con toni aspri al comunicato congiunto del G7 che mercoledì ha chiesto a Pechino di evitare una «aggressiva attività militare» per il rischio di «un'escalation non necessaria» e di «non cambiare unilateralmente lo status quo con la forza». La palese provocazione Usa, con la visita a Taipei di Pelosi, «ha creato un pessimo precedente se non viene corretto e contrastato», ha aggiunto Wang. Il ministero degli Esteri di Pechino ha poi convocato gli ambasciatori dei Paesi del G7, inclusa l'Italia, e dell'Ue per «esprimere il più completo disappunto» sul comunicato firmato dai capi delle diplomazie di forte critica sulle sue esercitazioni militari.

La Cina ha addossato quindi la colpa dell'escalation a Usa e alleati. Mentre il ministero della Difesa di Taipei ha così spiegato la sua posizione: «Sosterremo il principio di prepararsi alla guerra senza cercare la guerra». È intervenuto anche il segretario di Stato americano Antony Blinken da Phnom Penh, in Cambogia, dove si trova per partecipare al vertice dell'Asean. «Gli Stati Uniti si oppongono a qualsiasi sforzo unilaterale per cambiare lo status quo di Taiwan, soprattutto con la forza. La politica degli Usa sull'isola non è cambiata», ha ribadito e ha sottolineato che «la stabilità dello stretto è nell'interesse dell'intera regione». Poi è stata la volta del portavoce di Putin, Dmitri Peskov: «La tensione nella regione intorno a Taiwan è stata provocata artificialmente». «Noi - ha proseguito - comprendiamo perfettamente chi l'ha provocata: la visita di Nancy Pelosi. È stata del tutto inutile e una provocazione non necessaria».

Sul terreno la situazione diventa sempre più incandescente. Giornalisti dell'agenzia di stampa Afp hanno osservato proiettili tirati dall'esercito cinese in direzione dello Stretto di Taiwan. I reporter si trovavano sull'isola cinese di Pingtan, a pochi chilometri dalle manovre in corso, e secondo la loro testimonianza gli obici sono stati sparati da siti vicini a installazioni militari. E come se non bastasse cinque missili balistici lanciati dall'esercito popolare di liberazione sono caduti nella zona economica esclusiva del Giappone. Il ministro della Difesa Nobuo Kishi ha precisato che si è trattato del primo episodio del genere: «Questa è una faccenda grave che riguarda la sicurezza nazionale del nostro Paese e la sicurezza delle persone», ha sottolineato. Tokyo ha anche presentato una protesta diplomatica al governo cinese.

Nancy Pelosi: «La libertà di Taiwan e delle democrazie è la nostra libertà». Nancy Pelosi su Il Dubbio il 05 agosto 2022. 

L'editoriale su "The Washington Post" alla vigilia di Nancy Pelosi a Taiwan. «Circa 43 anni fa il Congresso approvò il Taiwan Relations Act. Oggi l’America deve ricordarlo».

Circa 43 anni fa, il Congresso degli Stati Uniti approvò in modo schiacciante – e il presidente Jimmy Carter firmò la legge – il Taiwan Relations Act, uno dei pilastri più importanti della politica estera statunitense nell’Asia del Pacifico.

Il Taiwan Relations Act ha stabilito l’impegno dell’America per una Taiwan democratica, fornendo il quadro per una relazione economica e diplomatica che sarebbe rapidamente fiorita in un partenariato chiave. Ha favorito una profonda amicizia radicata in interessi e valori condivisi: autodeterminazione e autogoverno, democrazia e libertà, dignità umana e diritti umani. E ha fatto voto solenne degli Stati Uniti di sostenere la difesa di Taiwan: “Consideriamo qualsiasi sforzo per determinare il futuro di Taiwan con mezzi diversi da quelli pacifici, una minaccia per la pace e la sicurezza dell’area del Pacifico occidentale e di grave preoccupazione negli Stati Uniti”.

Oggi, l’America deve ricordare quel voto. Dobbiamo sostenere Taiwan, che è un’isola di resilienza. Taiwan è leader in termini di pace, sicurezza e dinamismo economico: con uno spirito imprenditoriale, una cultura dell’innovazione e un’abilità tecnologica che fanno invidia al mondo. Eppure, in modo inquietante, questa vibrante e robusta democrazia – nominata una delle più libere al mondo da Freedom House e guidata con orgoglio da una donna, il presidente Tsai Ing- wen – è minacciata.

Negli ultimi anni Pechino ha intensificato drammaticamente le tensioni con Taiwan. La Repubblica popolare cinese (RPC) ha intensificato le pattuglie di bombardieri, aerei da combattimento e aerei di sorveglianza vicino e persino sopra la zona di difesa aerea di Taiwan, portando il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti a concludere che l’esercito cinese si sta “probabilmente preparando a un’emergenza per unificare Taiwan con la Repubblica popolare cinese con la forza”.

La RPC ha anche portato la lotta nel cyberspazio, lanciando ogni giorno decine di attacchi alle agenzie governative di Taiwan. Allo stesso tempo, Pechino sta schiacciando Taiwan economicamente, facendo pressioni sulle società globali affinché taglino i legami con l’isola, intimidendo i paesi che cooperano con Taiwan e reprimendo il turismo dalla RPC. Di fronte all’aggressione accelerata del Partito Comunista Cinese ( PCC), la visita della nostra delegazione al Congresso dovrebbe essere vista come un’affermazione inequivocabile che l’America è con Taiwan, il nostro partner democratico, mentre difende se stessa e la sua libertà.

La nostra visita fa parte del nostro più ampio viaggio nel Pacifico, inclusi Singapore, Malesia, Corea del Sud e Giappone, incentrato sulla sicurezza reciproca, il partenariato economico e la governance democratica. Le nostre discussioni con i nostri partner taiwanesi si concentreranno sulla riaffermazione del nostro sostegno all’isola e sulla promozione dei nostri interessi condivisi, incluso il progresso di una regione indo- pacifica libera e aperta.

La solidarietà dell’America con Taiwan è oggi più importante che mai, non solo per i 23 milioni di persone dell’isola, ma anche per milioni di altri oppressi e minacciati dalla Repubblica popolare cinese. Trent’anni fa, ho viaggiato in una delegazione congressuale bipartisan in Cina, dove, in piazza Tienanmen, abbiamo srotolato uno striscione in bianco e nero che diceva: “A coloro che sono morti per la democrazia in Cina”. La polizia in uniforme ci ha inseguito mentre lasciavamo la piazza. Da allora, l’abisso di Pechino sui diritti umani e il disprezzo per lo stato di diritto continuano, mentre il presidente Xi Jinping rafforza la sua presa sul potere.

La brutale repressione del PCC contro le libertà politiche ei diritti umani di Hong Kong – anche arrestando il cardinale cattolico Joseph Zen – ha gettato nella pattumiera le promesse di “un Paese, due sistemi”. In Tibet, il PCC ha condotto da tempo una campagna per cancellare la lingua, la cultura, la religione e l’identità del popolo tibetano. Nello Xinjiang, Pechino perpetra il genocidio contro gli uiguri musulmani e altre minoranze. E in tutta la terraferma, il PCC continua a prendere di mira e ad arrestare attivisti, leader della libertà religiosa e altri che osano sfidare il regime.

Non possiamo restare a guardare mentre il PCC continua a minacciare Taiwan e la stessa democrazia. In effetti, facciamo questo viaggio in un momento in cui il mondo si trova di fronte a una scelta tra autocrazia e democrazia. Mentre la Russia conduce la sua guerra premeditata e illegale contro l’Ucraina, uccidendo migliaia di innocenti, persino bambini, è essenziale che l’America e i nostri alleati chiariscano che non cediamo mai agli autocrati. Quando ad aprile ho guidato una delegazione del Congresso a Kiev, la visita di più alto livello degli Stati Uniti nella nazione assediata, ho comunicato al presidente Volodymyr Zelensky che ammiravamo la difesa della democrazia da parte del suo popolo per l’Ucraina e per la democrazia nel mondo. Viaggiando a Taiwan, onoriamo il nostro impegno per la democrazia: riaffermando che le libertà di Taiwan – e di tutte le democrazie – devono essere rispettate. (*Copyright The Washington Post)

Marco Valsania per “Il Sole 24 Ore” il 4 agosto 2022.

Nel 1991, da deputata in ascesa, aveva cominciato srotolando a Tienanmen uno striscione in omaggio agli studenti massacrati due anni prima. Da allora non si è fermata. Ha ricevuto il Dalai Lama, nonostante le obiezioni di Pechino, e nel 2015 ha strappato alle autorità cinesi anche una rara visita in Tibet. 

Nancy Pelosi ha una lunga e conflittuale storia di rapporti con la Cina. Sulla quale, a 82 anni, forse all’apice e prossima al tramonto della carriera, non ha ancora scritto l’ultima parola: lo Speaker della Camera si è levata, una volta di più sull’onda della sua controversa visita a Taiwan, a leader d’uno schieramento trasversale, di democratici e repubblicani, che invoca risposte più determinate e chiare a Pechino.

Nel farlo, affermano i suoi collaboratori e alleati, Pelosi è rimasta fedele anzitutto a se stessa e al suo passato. Ha ignorato il monito di Pechino, di dure risposte con manovre militari nei pressi dell’isola e gravi danni alle relazioni sino-americane. E lasciato cadere anche l’informale suggerimento della Casa Bianca a rinunciare in un momento delicato a volare a Taipei, limitandosi a toccare altre mete asiatiche: Joe Biden ha persino menzionato obiezioni delle forze armate davanti a pericoli di escalation della crisi. 

Né sono valse le recensioni preoccupate di analisti: l’opinionista del New York Times Thomas Friedman l’ha definita irresponsabile. Tanto più quando Washington è impegnata a separare Pechino da Mosca sulla guerra in Ucraina. Momento poco opportuno per avanzare la causa di democrazia e autonomia per Taiwan.

Pelosi ha tuttavia incassato un eccezionale sostegno dai parlamentari conservatori, che abitualmente le denunciano quale portabandiera progressista con radici nella liberal San Francisco. Qualche strategist ha sottolineato come, una volta filtrati pubblicamente i piani del viaggio asiatico, non poteva sottrarsi all’atterraggio a Taipei, pena premiare l’aggressività della reazione del governo di Xi Jinping. Sarebbe stato un atto di debolezza. 

Lei rappresenta, oltretutto, una delle più alte cariche istituzionali statunitensi: per la successione al Presidente è solo alle spalle della vice-Presidente Kamala Harris. Non basta. Tra think tank e media, quali la rivista The Economist, è stato evidenziato un problema assai più di fondo per l’amministrazione Biden: i rischi sono stati moltiplicati dalla confusione alla Casa Bianca sulla strategia cinese.

Biden oscilla tra conferme della tradizionale ambiguità della politica della One China, che non riconosce Taiwan come indipendente, e promesse di proteggere l’isola da aggressioni di Pechino che vanno al di là di esistenti accordi. 

Quel che è certo è che la decisione di Pelosi di recarsi a Taiwan non ha sorpreso. Ancor prima di arrivare ha pubblicato sul Washington Post un messaggio ripetuto durante la visita. Ha definito «terribile» l’atteggiamento di Pechino sui diritti umani e il «disprezzo per il rispetto della legge mentre Xi Jinping rafforza il suo potere». Ancora: «La solidarietà dell’America a 23 milioni di taiwanesi è più importante che mai mentre il mondo affronta la scelta tra autocrazie e democrazie».

Parole coerenti con trent’anni spesi ai vertici della politica Usa e che tra gli episodi distintivi contano proprio le prese di posizione su Pechino, sensibilizzate sia dall’influente comunità asiatica nella sua California che dalla sua leadership nelle commissioni parlamentari di intelligence dedite agli avversari strategici. Nota, anche sul fronte domestico, per la combattività, in politica estera non è stata da meno. 

È rimasto negli annali il suo striscione a piazza Tienanmen dedicato ai «morti per la democrazia in Cina», con intervento della polizia e incidente diplomatico. In anni più recenti ha promosso leggi contro la repressione a Hong Kong e della minoranza degli Uiguri. E ha polemizzato con presidenti repubblicani e democratici, da George Bush a Bill Clinton, che a suo dire privilegiavano i rapporti economici ai diritti umani.

L’anno scorso, all’anniversario di Tienanmen, ha ribadito che «se non alziamo la voce sui diritti umani in Cina per ragioni economiche, perdiamo l’autorità morale di parlarne ovunque nel mondo». Un’autorità alla quale Pelosi, guardando al proprio lascito politico, non vuole rinunciare adesso. 

Lo scontento degli Usa verso l'Ucraina e la follia della Pelosi. Piccole Note il 2 Agosto 2022 su Il Giornale.

In un articolo dedicato alla visita della Pelosi a Taiwan, che nel titolo viene definita “assolutamente sconsiderata”, Thomas Friedman sul New York Times rivela alcuni retroscena molto interessanti sull’Ucraina, che mettono in luce la difficoltà in cui versano gli Stati Uniti e la follia della speaker della Camera, che con questa visita “arbitraria e frivola” accarezza l’apertura di un altro fronte, portando il suo Paese (e tutti noi) in mezzo a una “guerra con due superpotenze contemporaneamente” (cosa che è contro le più basilari regole della geopolitica, aggiunge il cronista).

Ma se le considerazioni sulla Pelosi sono ovvie, e ne riferiamo di seguito, sorprende quanto scrive sull’Ucraina, dal momento che va contro tutta la narrativa mainstream che idealizza la leadership di Kiev.

Infatti, mentre apparentemente i rapporti tra Zelensky e il suo entourage con gli Usa sono ottimi, “in privato, i funzionari statunitensi sono molto più preoccupati per la leadership ucraina di quanto non facciano intendere. C’è una profonda sfiducia nella Casa Bianca per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, molto più di quanto viene riportato”.

“E ci sono cose divertenti che stanno avvenendo a Kiev. Il 17 luglio, Zelensky ha licenziato il procuratore generale del suo paese e il leader della sua agenzia di intelligence interna, la più significativa scossa nel suo governo dall’inizio dell’invasione russa di febbraio. Sarebbe come se Biden licenziasse Merrick Garland e Bill Burns lo stesso giorno. E finora non ho ancora visto alcun rapporto che spieghi in modo convincente cos’è avvenuto veramente”.

“È come se non volessimo guardare troppo da vicino e sotto il tavolo quanto accade a Kiev, per paura della quantità di corruzione e di cialtroneria che  potremmo trovare, anche in considerazione che abbiamo investito così tanto” in quel Paese.

Penna sfuggita di mano forse, e forse la redazione del Nyt, leggendo che si trattava di Taiwan, ha letto con distrazione le righe riportate, ritenendo che non contenessero granché. Così sul giornale forse più autorevole del mondo, la voce ufficiale dell’Impero, è stato accennato l’indicibile. Dei cenni soltanto, dal momento che non si può andare più a fondo, ma che dicono tutto.

E spiegano anche l’insolito viaggio della moglie di Zelensky, approdata a Washington alcuni giorni fa, dove è stata accolta dalla moglie di Biden per una visita privata circondata da un alone di riservatezza. Forse il marito era troppo impegnato in patria per accompagnarla, si poteva supporre…

Invece, poco dopo è arrivato anche lui per una visita più o meno ufficiale, al termine della quale ha posato con la moglie per un servizio su Vogue che racconta il loro splendido amore. Tocco glamour dei suoi immaginifici scenografi che però non è piaciuto né in patria, dove sta mandando i suoi soldati al macello, né altrove, per motivi analoghi.

Evidentemente il viaggio negli States dei due serviva a riallacciare rapporti sfilacciati, nel timore che il fastidio diventasse irritazione e Washington decidesse di cambiare cavallo, cioè di sostituirlo. Così si fa dei burattini, ruolo al quale il povero Zelensky si è prestato con entusiasmo, non avendo alcun spessore politico né consistenza, come ha dimostrato ampiamente prima che gli scenografi di cui sopra lo facessero diventare un eroe globale.

Forse proprio perché le cose in Ucraina iniziano ad andare male i fautori delle guerre infinite hanno immaginato di aprire un altro fronte, così da assicurarsi che il conflitto si perpetuasse e il caos continuasse a dilagare nel mondo (è la loro passione).

Aprendo il fronte cinese, cercano di guadagnarsi il consenso di quella parte di repubblicani critica verso il sostegno Usa all’Ucraina. Cosa che sembra riuscita se si sta ai media americani cui fanno riferimento questi ultimi ambiti, che sul viaggio della Pelosi conservano un silenzio imbarazzato, perché l’odiata nemica sta facendo quello che da tempo sostengono anche loro, cioè un confronto alzo zero con Pechino.

Così i Bannon e loro associati, pure critici verso le guerre infinite e i neocon, ma feroci critici della Cina, rischiano di ritrovarsi intruppati anch’essi nella spirale delle guerre senza fine.

Peraltro, potrebbe anche costargli la vittoria alle midterm, che già assaporavano, dal momento che l’emergenza guerra (e che guerra… contro Russia e Cina) potrebbe far scivolare in secondo piano l’emergenza economica, che gli assicurava i voti del grande scontento.

Gli sarà arduo uscire dal labirinto di specchi al quale hanno contribuito attivamente con le loro pose anti-cinesi, dimenticando che i loro avversari (neocon e liberal) sanno fare la guerra meglio di loro…

Quanto a Biden, che pure disapprovava la missione della Pelosi, Friedman spiega che non poteva fare granché, dal momento che un posa più dura verso la speaker della Camera avrebbe dato “un’opportunità ai repubblicani per attaccarlo prima della Midterm”, accusandolo di debolezza verso la Cina.

Concludiamo riportando che Friedman scrive che non era solo Biden a disapprovare la missione incendiaria, della Pelosi  ma “tutto il team della Sicurezza nazionale – dal direttore della CIA al Capo di Stato Maggiore dell’esercito” etc. A riprova della follia che si sta consumando in Oriente.

L'onnipotenza Usa e le critiche del Washington post alla Pelosi. Piccole Note il 3 Agosto 2022 su Il Giornale.

Con la visita della Pelosi a Taiwan l’Impero americano ha dichiarato ufficialmente che non riconosce alcun limite alla sua politica estera. Lo aveva già fatto in Ucraina, dove ha sfidato apertamente la linea rossa posta non dalla Russia, ma dalla geopolitica, che indicava come Kiev non potesse aderire alla Nato.

Alle richieste insistite in tal senso di Mosca, la Nato, cioè l’America, ha risposto in maniera irridente, innescando l’invasione. E così con Taiwan, chiara linea rossa di Pechino, con il viaggio della speaker della Camera.

Certo, parte, anche importante, dell’establishment Usa era contrario, ma hanno prevalso i falchi, come troppo spesso accade in questi frangenti. Sono essi, infatti, a dettare legge negli ultimi decenni, con gli ambiti più ragionevoli dell’establishment costretti sempre a rincorrere e frenare successivamente.

Quella della Pelosi, al di là delle apparenze, non è stata un’iniziativa isolata: la sua sfida a Pechino, infatti, è stata supportata dai falchi in tutto e per tutto, anche se la donna, nell’occasione, ci ha messo del suo.

Prima della partenza, infatti, ha detto di essere “eccitata”, come se si recasse a Disneyland e non ad aprire “il vaso di Pandora”, come si legge nell’editoriale del China Daily che dice tutto nel titolo: “Gli Stati Uniti si assumono tutta la responsabilità delle conseguenze del viaggio a rischio della Pelosi”.

A oggi la Cina si è limitata a intraprendere esercitazioni militari massive intorno all’isola e a imporre alcune limitazioni al commercio con Taiwan, ma siamo all’inizio della giostra.

Dopo aver lanciato avvertimenti tanto duri, la Cina non può che essere conseguente. Non ci sono indicatori di un’invasione di Taiwan, ma di certo i rapporti con gli Usa diventeranno più aspri.

Certo, l’America non può farsi dettare la sua politica estera dai cinesi, come hanno dichiarato i corifei della Pelosi, ma neanche i cinesi possono accettare con acquiescenza i deliri di onnipotenza americani, che stanno facendo traballare i pilastri del mondo.

Finita la stagione delle guerre infinite con l’omicidio di al Zawahiri (o chi per lui), comunicato il giorno della visita della Pelosi, i falchi Usa intendono preservare la primazia sul mondo sfidando direttamente i due competitor globali.

Di fronte a tale delirio di onnipotenza, gli antagonisti dell’America stanno misurando le risposte. Infatti, se questa è disposta a rischiare di incenerire il mondo pur di mantenere la leadership, quelli devono preservarlo dall’abisso, dal momento che se vincono la sfida si ritroveranno a essere i poli di riferimento del futuro insieme all’America, se sopravviverà a se stessa.

A quest’ultimo riguardo, la contesa che dilania l’Impero è cruciale. L’establishment più realista sa perfettamente che i deliri dei falchi stanno erodendo la potenza americana, come si è visto nel corso delle guerre infinite, e stanno cercando di porre un argine a tale deriva, in una lotta sempre più serrata.

Per questo è importante l’editoriale del Washington Post che critica aspramente il viaggio della Pelosi, ancora più significativo perché proprio su tale giornale la speaker della Camera aveva reso pubbliche le ragioni del suo viaggio incendiario.

“Una politica estera di successo combina principi alti con una prassi intelligente e tempestiva – scrive il WP -. La visita di martedì per mostrare solidarietà a Taiwan da parte della presidente della Camera Nancy Pelosi ha dimostrato la prima cosa, ma non la seconda. La prevedibile reazione della Cina, che considera Taiwan una provincia ribelle, è in corso […] Il presidente Biden deve limitare i danni a breve termine e contrastare un probabile aumento della pressione cinese a lungo termine su Taiwan”.

Il WP aggiunge di condividere le ragioni ideali della Pelosi riguardo a Taiwan e alla Cina. “Quello che non comprendiamo è la sua insistenza nel dimostrare il suo sostegno in questo modo e in questo momento, nonostante gli avvertimenti – di un presidente del suo stesso partito – con la situazione geopolitica che è già alquanto instabile. Per quanto la Pelosi, a 82 anni, possa desiderare un gesto eclatante durante il mandato come speaker – prima che si chiuda per la probabile vittoria del GOP a novembre – andare a Taiwan ora, mentre il presidente cinese Xi Jinping sta organizzando il suo terzo mandato, era poco saggio”.

Quindi, dopo aver ricordato che in questo momento la priorità dell’amministrazione è la guerra ucraina e le sue conseguenze globali, il WP spiega che Biden non può “permettersi distrazioni”, come il ripetersi della crisi del 1995-6, quando una visita analoga innescò provocazioni militari della Cina “per otto mesi e due giorni”, terminate dopo l’arrivo di una flotta Usa.

Ma ora la Cina è “enormemente più forte di quanto non fosse un quarto di secolo fa” e più assertiva, e la nuova crisi ha posto l’amministrazione in ambasce. E conclude: “Gli Stati Uniti non devono mai sacrificare i propri principi o cedere alle minacce cinesi. Motivo in più per prepararsi con cura per dove e quando affrontare la Cina. Purtroppo, grazie alla signora Pelosi, l’amministrazione Biden si trova invece costretta a reagire e a improvvisare”.

Al di là dello sfoggio muscolare e della retorica, il WP declina le ragioni del realismo politico, pur viziato dall’eccezionalismo americano, a fronte dei deliri di onnipotenza ai quali la Pelosi si è prestata. 

P. S. Il 2 agosto ricorreva l’anniversario della nomina di Hitler a Fuhrer. Allora tanti percepirono il pericolo, ma non l’abisso che incombeva sul mondo. Ricorrenza infausta per lo scalo della Pelosi a Taiwan.

Ucraina: i vari livelli della guerra e le analogie con il Vietnam. Piccole Note il 29 luglio 2022 su Il Giornale.

A Olenivka, area del Donbass controllata dai russi, è stata colpita da missili una prigione nella quale erano ristretti detenuti ucraini provenienti da Mariupol, si legge sull’Associated Press. Un obiettivo insolito per un bombardamento, che ha provocato 53 vittime.

L’AP spiega che secondo i russi l’obiettivo era quello di chiudere la bocca ai neonazisti prigionieri che avevano iniziato a parlare dei crimini pregressi; secondo gli ucraini i russi hanno voluto nascondere i propri crimini, cioè le torture sui detenuti.

L’AP afferma di non aver potuto verificare quale sia la verità. Potremmo fermarci qui, se non che anche senza verifiche si può applicare la ragione, che indica come più plausibile la versione russa, dal momento che per coprire le eventuali torture si potevano usare mezzi meno rumorosi e costosi (Abu Graib, la prigione degli orrori gestita dagli Usa in Iraq, fu semplicemente chiusa).

Anche l’accenno dell’AP a detenuti provenienti da Mariupol, difesa allo stremo dal battaglione Azov, sembra confermare la versione russa, secondo i quali l’attacco voleva inviare un segnale ai miliziani catturati nel caso volessero pentirsi e riferire crimini.

I russi dicono che la prigione è stata colpita con i lanciamissili HIMARS, che hanno un margine di errore di soli nove metri, come scrivono gli esperti di Repubblica, così che, se vera la narrazione russa, si voleva colpire proprio il carcere (en passant, si può notare il titolo dell’articolo di Repubblica citato: “Con le super armi, la guerra finisce”… opinabile).

In genere non riferiamo cronaca di guerra, ma tale notizia ci sembrava di interesse perché indicativa di un conflitto a più livelli, dove i combattimenti sul fronte si intersecano con altri, più segreti.

Così anche l’annuncio che il Segretario di Stato Antony Blinken contatterà il ministro degli Esteri Sergej Lavrov deve essere letta a più livelli. Ufficialmente parleranno di uno scambio di prigionieri civili: un’americana detenuta dai russi per traffico di droga per un trafficante d’armi russo prigioniero negli States.

Troppo alto il livello dell’incontro per uno scambio di così basso tenore, soprattutto se si tiene presente che russi e americani non si parlano dall’inizio della guerra. Più probabile che il riferimento ai prigionieri sia ai tanti americani inviati in Ucraina sotto mentite spoglie, caduti nelle mani dei russi, per i quali gli Usa non possono trattare in via ufficiale.

Non solo, a novembre c’è il G-20 in Indonesia, che vedrà presenti sia Putin che Biden. A oggi un incontro è impossibile, ma potrebbe esserlo in futuro.

Se Blinken si è scomodato – e lo ha fatto dopo che gli Usa hanno dovuto ammettere che due “volontari” americani erano morti in Ucraina – vuol dire che i prigionieri americani sono legione… a proposito dell’andamento della guerra.

Significativo che l’annuncio dell’incontro sia stato anticipato da un articolo del New York Times, giornale di riferimento del partito democratico, che chiedeva agli americani di parlare con i russi per iniziare a cercare un compromesso. Va letto per capire quanto sta accadendo.

Al di là di ipotesi e prospettive, è di interesse un articolo di Rick Sterling su Antiwar che rammentata i discorsi con i quali Lyndon Johnson giustificò l’impegno americano in Vietnam, praticamente identici a quelli spesi adesso per il sostegno all’Ucraina.

Così l’allora presidente degli Stati Uniti: “Dobbiamo combattere se vogliamo vivere in un mondo nel quale ogni paese possa plasmare il proprio destino e solo in un mondo del genere la nostra stessa libertà sarà sicura […] ci siamo impegnati ad aiutare il Vietnam del Sud a difendere la sua indipendenza e Intendo mantenere quella promessa. Disonorare quella promessa, abbandonare la piccola e coraggiosa nazione ai suoi nemici e al terrore che seguirà, sarebbe un torto imperdonabile”.

“Siamo in quel Paese – ha affermato – per rafforzare l’ordine internazionale […] Abbandonare il Vietnam al suo destino scuoterebbe la fiducia del mondo nel valore di un impegno americano”.

Anche allora si diceva che era indispensabile vincere per evitare l’effetto domino, cioè il dilagare del comunismo nel mondo, come ora si deve battere la Russia per impedire che aggredisca altri Paesi. Nonostante la vittoria del Vietnam, l’effetto domino non ci fu, come non ci sarebbe se la Russia vincesse in qualche modo la guerra ucraina (sul punto vedi anche Piccolenote).

Sterling ricorda poi come le cronache di guerra di allora riferissero costantemente i successi di Saigon “fino a quando l’offensiva del Tet del 1968 disvelò bugie e realtà”. La situazione appare del tutto analoga, anche per quanto riguarda l’impegno americano, che nei primi anni inviò in Vietnam solo “consiglieri militari”, come adesso i volontari. E anche allora l’impegno Usa registrò un incremento, spaventoso quanto vano, di uomini e armamenti.

Di interesse valutare la parabola del Vietnam anche sotto un altro profilo. L’America, per far fronte alla guerra, commissariò praticamente il Vietnam del Sud, con il presidente Ngô Đình Diệm portato sugli scudi, tanto che Johnson lo definì “il Churchill del sud-est asiatico”. Il suo regime divenne sempre più corrotto e autoritario, fino a quando l’America non si stancò e appoggiò un colpo di Stato e finì assassinato… oltre che dai nemici, Zelensky deve guardarsi anche dagli amici.

Il summit Xi - Biden e la sfida della Pelosi a Taiwan (e Biden). Piccole Note il 29 luglio 2022 su Il Giornale.

Xi e Biden hanno parlato per due ore, ma non è andata benissimo per quest’ultimo, che cercava un modo per allentare la stretta dell’inflazione grazie all’aiuto cinese.

Troppe le tensioni, che non porteranno quell’aiuto che Biden sta disperatamente cercando per le elezioni di Midterm e che l’ha portato anche ad abbracciare (metaforicamente) il principe saudita Mohamed bin Salman, nonostante l’avversione pregressa.

Al di là delle ricostruzioni surreali, secondo le quali con il colloquio Biden voleva sincerarsi che la Cina non aiutasse la Russia, cosa impossibile, e delle ovvie rimostranze di Xi per l’annunciata visita della Pelosi a Taiwan, quel che voleva il presidente americano era concordare un allentamento dei dazi imposti alla Cina da Trump, per alleviare le esangui casse americane.

Se intende concordare con Xi una decisione che può prendere unilateralmente è perché l’iniziativa abbia più efficacia possibile e per tentare di strappare al suo interlocutore qualcosa in più, vendendo tale decisione come un atto di distensione al quale corrispondere.

I team delle due nazioni cercheranno di dare un qualche risultato in tal senso al summit, ma è davvero difficile immaginare che Biden possa fare più di tanto. Troppa l’avversione contro la Cina tra le élite americane per prendere decisioni eclatanti.

A questo riguardo appare ben strano l’annuncio della visita di Nancy Pelosi a Taiwan, che ha infastidito Biden tanto da lasciarsi andare a una pubblica reprimenda.

Tensione altissima quella innescata dalla speaker della Camera. La Cina ha affermato di essere pronta a una risposta forte, non escludendo quella militare che, anche se al momento appare aleatoria, può concretizzarsi in qualche iniziativa simbolica, come l’invio di jet da combattimento per scortare la Pelosi (come farebbero gli Usa se il ministro degli Esteri cinese andasse a incontrare il leader di un movimento indipendentista negli Stati Uniti).

Posizione ribadita da Xi durante il colloquio con Biden, al quale ha detto di “non giocare col fuoco”. Tali avvertimenti sono stati presi con imbarazzante leggerezza, come nel caso di quelli di Putin sull’Ucraina. Consegnati ai loro deliri di onnipotenza, le élite Usa pensano che nessuno possa dire loro di no.

E dato che Biden non ha evidentemente difeso a spada tratta la Pelosi nel colloquio con Xi, lo ha fatto il Pentagono, che subito dopo ha emanato un comunicato minaccioso sulla possibilità di far alzare in volo i jet da combattimento per difenderla (peraltro, la Pelosi non corre alcun rischio).

Tale la follia innescata da questa donna in carriera, che potrebbe far deflagrare una guerra che porterebbe alla morte decine di migliaia di persone, per lo più taiwanesi (se andrà bene…).

In attesa di vedere gli sviluppi di tale follia, si può annotare che prima che contro la Cina, la sfida della Pelosi è contro il presidente americano, del quale in tal modo denuncia la debolezza.

Una sfida che sembra motivata dall’intenzione della leadership del partito democratico di accantonare il vecchio, come chiedono i i media mainstream Usa. L’idea è di far correre un altro nel 2024 e, con la sua postura wagneriana, la Pelosi si è candidata.

La speaker della Camera spera di portare dalla sua quell’ambito repubblicano che chiede un ingaggio anche militare contro la Cina, cosa che Trump, sempre se parteciperà alle elezioni, è riluttante a fare.

Un calcolo che sembra avere successo. Così il New York Times: “Alti funzionari dell’amministrazione Trump, tra cui l’ex segretario di Stato, Mike Pompeo, e l’ex segretario alla Difesa, Mark Esper, hanno detto che vorrebbero unirsi a lei. Pompeo ha twittato che […] sarebbe felice di accompagnare la Pelosi a Taiwan”.

Tutto ciò torna anche con il tweet di Hillary Clinton pubblicato subito dopo l’annuncio che il presidente era stato contagiato dal Covid: una foto della sua campagna elettorale e la scritta “in movimento”.

La Pelosi è una fotocopia dell’ex Segretaria di Stato, da cui l’endorsement della Clinton (la quale, però potrebbe anche reputare che la Pelosi stia portando semplicemente acqua al mulino di una sua ricandidatura).

Oppure, ipotesi B, si potrebbe paventare uno scenario più ravvicinato. Dopo la sconfitta alle Midterm, che la postura della Pelosi rende più possibile, il partito democratico potrebbe esautorare Biden (tanti i modi, tra cui la mancanza di lucidità mentale…).

Tale processo potrebbe concretizzarsi in due modi: o allontanare l’incompetente Kamala Harris per imbarcare un altro Vice che prenda il posto di Biden o portare Kamala alla presidenza, ma commissariata.

Insomma, anche la Pelosi è “in movimento”. Un movimento che l’ha messa in rotta di collisione col povero vecchietto il quale aveva pensato che, dalla Casa Bianca, potesse rimettere a posto un po’ di guai combinati nel passato (votò a favore dell’intervento in Iraq…), prima di dover rendere l’anima a Dio.

Voleva porre fine alle guerre infinite, ma dopo aver ritirato l’America dall’Afghanistan si è trovato impelagato nella guerra ucraina, sulla quale può soltanto frenare i falchi che vogliono un maggiore impegno, affannandosi a dichiarare che non vuole la Terza guerra mondiale.

Né è riuscito a portare a compimento il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano, priorità del suo mandato. Troppo debole e troppo ricattabile (i guai del figlio Hunter) per portare a compimento quanto si riprometteva. E ora, quanti l’hanno usato per abbattere Trump, lo vogliono destinare ai giardinetti.

Siria: gli Usa si comportano come la Russia, ma qui va bene. Piccole Note il 17 giugno 2022 su Il Giornale.

Tempo di lettura 4 minuti – Gli attacchi israeliani contro la Siria sono coordinati con gli Stati Uniti, riferisce il Wall Street Journal (1). Da anni Tel Aviv si esercita nel tiro al bersaglio contro il Paese confinante con i suoi jet, causando migliaia di vittime e distruggendo infrastrutture ed edifici civili.

Non un attacco in grande stile, perché sarebbe controproducente (si conterebbero anche vittime israeliane), ma uno stillicidio continuo, che ultimamente ha danneggiato seriamente anche l’aeroporto civile di Damasco, interrompendone la funzionalità.

Le giustificazioni di Tel Aviv

Tel Aviv giustifica questi attacchi come preventivi, per evitare che le forze iraniane si stabilizzino in Siria e il transito di armi da Teheran a Beirut, cioè a Hezbollah.

Si sente minacciata, così attacca. Mutatis mutandis è la stessa logica che ha portato la Russia ad attaccare l’Ucraina, ma questa logica, condannata nel caso ucraino, è legittimata nel caso siriano.

Peraltro le forze iraniane sono state invitate nel Paese per far fronte alla minaccia terroristica dell’Isis, presente nella zona curda controllata dagli americani, e di al Qaeda, che controlla la regione di Idlib con il placet Usa (Reuters). Senza un aiuto esterno, le forze siriane, stremate dalla lunga guerra, sarebbero impotenti contro il Terrore, che dilagherebbe di nuovo nel Paese facendo strame di civili, come evidenziano gli attentati che flagellano il Paese…

Le analogie con l’Ucraina non finiscono qui. “Gli agricoltori siriani stanno lottando nella provincia nord-orientale di al-Hasakah a causa della siccità e del divieto della vendita di grano alle aree del territorio controllate dal governo, imposto dalle autorità curde sostenute dagli Stati Uniti”.

Così Abdul-Hameed Karaku, capo di un sindacato di agricoltori siriani, le cui parole sono riportate da Dave DeCamp su Antiwar: “L’intervento straniero degli Stati Uniti e dei loro alleati e la siccità – continua Hameed Karaku – hanno messo nei guai gli agricoltori che devono affrontare ostacoli alla vendita dei loro prodotti”.

“Le difficoltà e l’assedio economico, così come l’embargo imposto dalle forze statunitensi, hanno spezzato la schiena ai contadini e hanno aggiunto un grosso peso a loro e ai loro figli”.

Due terzi del grano siriano è prodotto nelle aree controllate dai curdi, ma le autorità curde, in obbedienza ai diktat Usa, hanno vietato di vendere il grano nelle aree controllate da Damasco, mettendo in ambasce anche il restante popolo siriano, in un momento in cui il grano scarseggia in tutto il mondo.

Così, mentre gli Stati Uniti lanciano alti lai per il grano che l’Ucraina non può far uscire dai suoi porti (peraltro, non supportando lo sforzo Onu in tal senso), impediscono agli agricoltori siriani di fare lo stesso con i loro prodotti… Disgustosa ironia della propaganda.

La nuova aggressività turca in Siria

Un altro collegamento tra Siria e Ucraina è dato dall’attivismo della Turchia, che sta giocando di sponda tra Occidente e Oriente per riproporre il suo impero ottomano, stavolta in chiave mediorientale.

Non intruppandosi nella condanna contro Mosca e opponendosi all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, Erdogan sperava di poter riprendere l’operazione contro i curdi siriani, avviata e interrotta nel 2019.

Gli Stati Uniti, credeva, avrebbero chiuso un occhio in cambio di un placet all’ingresso dei due Paesi nella Nato, e la Russia non si sarebbe opposta perché l’indipendenza di Ankara dall’Occidente (spesa anche per ospitare negoziati russo-ucraini ormai naufragati) gli è vitale.

Non è andata così. Gli Stati Uniti si sono detti preoccupati della decisione turca, ma non hanno fatto troppo chiasso, mentre è stato chiaro il niet del Cremlino. Non solo, i militari russi e le forze curde dell’SDF si sono incontrate per discutere la situazione (al Manar). Un chiaro segnale ad Ankara.

A difesa dei curdi è sceso anche Assad, che si è detto pronto a fronteggiare l’aggressione turca (Sana Agency); una dichiarazione che i curdi, non fidandosi evidentemente degli Stati Uniti e dei suoi calcoli geopolitici, hanno accolto con favore, dicendosi pronti a coordinarsi con le forze siriane (nonostante vi si oppongano e fungano da ascari per conto degli Usa, che attraverso di essi controllano parte della Siria – quella dove si trova il petrolio).

Ieri un altro round di incontri ad Astana tra i protagonisti del rebus siriano, cioè Siria, Turchia, Iran e Russia, Da vedere se è riuscito a evitare questa nuova guerra.

Se riferiamo tali circostanze è anche per far intravedere quanto sia complicato il medio Oriente e come la politica estera dell’Occidente – al netto della retorica sulla democrazia, la pace e la libertà – si fondi sugli interessi, a volte anche i più biechi.

(1) Il Wall Street Journal riferisce che, pur collaborando con Israele negli attacchi contro obiettivi iraniani in Siria, gli Stati Uniti si sono premurati di non apparire, per evitare che tale attività possa nuocere al dialogo con l’Iran, che dovrebbe porre un freno allo sviluppo del nucleare di Teheran.

Detto questo, se il WSJ si ha dato questa notizia è appunto per porre criticità ulteriori in questo dialogo, che potenti ambiti americani e israeliani avversano.

IL POPOLO USATO COME PEDINA DI SCAMBIO. I curdi rischiano di essere traditi ancora una volta dall’occidente. FUTURA D'APRILE su Il Domani il 20 maggio 2022

Il presidente Erdogan ha chiesto a Finlandia e Svezia di mettere fine ai legami con il Partito dei lavoratori e con l’Amministrazione autonoma del Rojava in cambio dell’adesione alla Nato

Per il capo di stato turco Pkk, Amministrazione autonoma del Rojava e semplici cittadini scandinavi appartenenti all’etnia curda e presenti anche nel Parlamento svedese rappresentano indiscriminatamente una minaccia alla sicurezza 

Erdogan usa ancora una volta le debolezze dell’Occidente a suo vantaggio, con l’obiettivo di colpire anche in Europa una minoranza che perseguita da anni tanto in patria quanto all’estero nell’indifferenza generale

FUTURA D'APRILE. Freelance, scrive di esteri (principalmente medio oriente). Ha all'attivo due reportage tra Kurdistan turco e Palestina. 

Zerocalcare: «I curdi sotto le bombe di Erdogan sono scomparsi dalle news. Ma la situazione è tragica e ci riguarda». Sconfitto l’Isis, concentrati su Kiev, dimentichiamo il dramma di curdi ed ezidi e le mire del leader turco sull’area. Il fumettista riaccende i riflettori su questo dramma: «Quello che arriva dalla Siria bene o male ricade ancora su di noi, ma non fa audience». Simone Pieranni su La Repubblica il 2o Maggio 2022.

In Ucraina a metà aprile le truppe russe hanno cominciato ad ammassarsi nel Donbass, per cominciare quella che si prevede ancora oggi sarà una lunga contrapposizione con l’esercito ucraino. Negli stessi giorni la Turchia ripeteva operazioni militari diventate ormai quasi di routine nel nord Iraq: prima è toccato alle roccaforti del Pkk, poi alle comunità ezide. Sembra un duplice obiettivo ma in realtà si tratta di un unico disegno, ben più ampio.

La rabbia di Eddi Marcucci, dall’Ucraina alla Siria: «I crimini di guerra di Putin sono come quelli di Erdogan». Ha combattuto l’Isis. Ha scontato due anni di sorveglianza speciale. Ora racconta la sua esperienza in un libro. «L’Europa dovrebbe sostenere la resistenza curda, anche con le armi». Rita Rapisardi su La Repubblica il 20 Maggio 2022.

Maria Edgarda Marcucci è conosciuta per tanti motivi. Uno è quello di aver combattuto nelle Ypj, le unità di protezione delle donne. Eddi, così com’è conosciuta, è arrivata nel nord della Siria nel 2017 per sostenere il progetto politico del confederalismo democratico del Rojava e per combattere l’Isis. Per questo l’Italia l’ha condannata, a maggio 2020, negli stessi mesi in cui rendeva omaggio a Lorenzo Orsetti, anche lui combattente in quei territori, ucciso dalle milizie dell’Is il 18 marzo 2019. “Una sentenza ideologica” l’aveva definita la stessa Eddi su queste pagine.

“Sorvegliata speciale” per due anni, limitata nella sua libertà di espressione e nei diritti civili fondamentali, Eddi è stata giudicata per il suo pensiero, più che per le sue azioni, tramite una disposizione di epoca fascista, creata per silenziare il dissenso. Quello che Eddi, 30 anni, non ha mai smesso di agire, con battaglie sociali e attivismo tra Roma e Torino, soprattutto nel movimento No Tav.

Non si è mai risparmiata Eddi, non l’ha fatto neppure durante la sorveglianza, i cui stretti limiti, prevedevano anche il non partecipare a manifestazioni pubbliche. Lei l’ha fatto comunque, con la consapevolezza di andare incontro a ulteriori mesi di condanna. Ha raccontato tutto in un libro (Rabbia proteggimi, Rizzoli): «Un modo per rompere ulteriormente il tentativo di isolamento, un modo per prendere parola». 

Cos’è cambiato con la fine della sorveglianza speciale?

«La mia vita è logisticamente molto più semplice da quando è finita la sorveglianza. Per il resto non è cambiato granché, è chiaro che sono cambiati dei fattori oggettivi, ma facevo politica prima, l’ho fatta durante e continuo oggi».

C’è stato secondo te un avvicinamento da parte delle persone, in questi anni, su quanto avviene in Kurdistan?

«Molte persone hanno sentito la parola Kurdistan, conosciuto il confederalismo democratico, e questo ha un prima e un dopo nella figura di Tekosher Piling, Lorenzo Orsetti, il momento in cui è caduto è il momento in cui la società italiana ha voltato lo sguardo».

Di quanto sta avvenendo nel Kurdistan qui in Italia non si parla, eppure il principale protagonista è noto: è il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

«Mentre in favore di camera Erdoğan si mette a mediare tra Russia e Ucraina, laddove i riflettori non sono puntati, commette crimini di guerra uguali a quelli per cui si condanna, giustamente, Putin. Molte personalità istituzionali hanno condannato Putin, ma non avviene lo stesso nel momento in cui Erdoğan invade, non uno ma due paesi, Siria e Iraq».

Cosa sta avvenendo?

«C’è in corso un attacco molto feroce, al momento le forze armate turche hanno sconfinato in Siria e Iraq sia con l’aviazione che via terra. Si sta cercando di distruggere le postazioni della guerriglia del Pkk, contestualmente è un continuo di droni di sorveglianza e di attacco, forniti alla Turchia direttamente dal governo italiano, attraverso la Leonardo. Le violazioni del diritto che si stanno consumando in Ucraina si stanno proponendo tali e quali in altri scenari, la differenza purtroppo è che di una guerra si parla e di un'altra no e non lo dico perché voglio proporre una orribile gerarchia delle vite: ogni guerra è feroce. Le persone hanno deciso di vivere in pace che si tratti di Siria, Turchia, Iraq o Ucraina».

Tanto del pensiero di Ocalan è dedicato all’autodeterminazione dei popoli, “il popolo sa quello che vuole”. Come si può conciliare la richiesta di pace in Ucraina e la giusta autodeterminazione di quel popolo?

«La pace e l’autodeterminazione per i popoli vanno insieme, l’AANES (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, ndr) ne è un esempio. È giusto supportare l’Ucraina anche militarmente, ma questo si sarebbe dovuto accompagnare a una dura critica al suo governo, vincolando gli aiuti al disconoscimento delle ideologie neonaziste che oggi vergognosamente tollera».

Sempre facendo un paragone su quanto avviene in Ucraina, per un periodo gli Stati Uniti diedero supporto aereo in Rojava. Tanto oggi si discute della scelta di inviare armi per supportare militarmente Kiev

«Sul mandare armi in Ucraina ripeto penso che sarebbe dovuto avvenire in maniera vincolata. Per quanto riguarda la Siria e l’Iraq la questione invece è meno controversa: bisogna inviare armi alla resistenza del Pkk, delle Ypg e Ypj. Stiamo parlando, di formazioni militari che hanno dato 17mila vite anche per la protezione dell’Europa, in questo momento sarebbe quanto mai urgente supportare la loro resistenza».

Pensi a un sostegno simile come quello che sta avvenendo per l’Ucraina, un sostegno europeo?

«Decisamente».

Un ex combattente come te e processato con te, Davide Grasso, ha immaginato l’applicazione del confederalismo democratico per i territori ucraini al confine con la Russia.

«Questa è una posizione collettiva che accomuna la maggior parte delle persone che hanno fatto la nostra stessa scelta: il concetto di nazione democratica, la possibilità politica e sociale di convivenza che il federalismo democratico offre è una lezione per vari territori anche in Europa e nel mondo, penso ad esempio quello che fu la situazione nel referendum catalano. Ma mentre il concetto di nazione democratica e la filosofia di Ocalan potrebbero essere utili, ecco invece che il confederalismo si ritrova sotto attacco spietato. Per risparmiare la vita alle persone in Ucraina non si riesce a trovare un accordo, mentre per distruggere un’esperienza sociale e politica così importante si trova un punto in comune».

La tua percezione, nonostante le difficoltà, è che il progetto in Kurdistan stia andando avanti?

«Le difficoltà sono immense: siamo in mezzo a una pandemia in un territorio in cui l’acqua viene razionata, perché dopo l’invasione del 2019 la Turchia ha occupato l’acquedotto. L’inflazione poi in Siria è oltre il 200%. Ciò detto continua la progressione e le esperienze di autonomia, Raqqa ne è un esempio, che è anche la ragione per cui si cerca di distruggerlo, in questo momento nei territori non direttamente sotto attacco ci sono manifestazioni contro l’occupazione della Turchia».

Pensi a un sostegno simile come quello che sta avvenendo per l’Ucraina, un sostegno europeo?

«Decisamente, penso che andrebbe supportata la resistenza delle persone dei territori confederali: inviare armi alla resistenza del Pkk, delle Ypg e Ypj. Tra parentesi stiamo parlando, per quanto riguarda le forze siriane democratiche, di formazioni che hanno dato 17mila vite anche per la protezione dell’Europa, in questo momento sarebbe quanto mai urgente supportare la loro resistenza».

Sono ventitré anni che Ocalan è prigioniero: c’è chi pensa che la sua figura potrebbe mediare nella risoluzione di questi conflitti.

«Ocalan sarebbe una figura chiave di mediazione e diplomazia. Sono stati tantissimi negli anni i cessate il fuoco unilaterali che Ocalan ha chiamato anche per il Pkk. Se non si riesce a trovare una soluzione politica non è di certo dal lato della resistenza che manca di cercarla».

Non ti è ancora stato restituito il passaporto per viaggiare, ma un domani vorresti tornare in quei territori?

«È evidente che non è una cosa che non dipende solo da me, ma avessi potuto sarei già tornata».

L'atroce destino dei greci d'Anatolia. Matteo Sacchi il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Un classico di Didò Sotirìu racconta quella feroce pulizia etnica.

I greci la chiamano Mikrasiatikí katastrofí, catastrofe dell'Asia Minore, e il suo epilogo finale e devastante andò in scena nel 1922, cento anni fa. Ma le origini di questa tragedia, incarnata dalla città di Smirne che brucia, mentre 30mila cristiani perdono la vita tra le fiamme o gettandosi in mare, affondano ben più indietro nel tempo. Per capire bene come è nata la Catastrofe dell'Asia minore, che si è svolta in parallelo al genocidio degli armeni ma è molto meno nota, niente di meglio del romanzo appena pubblicato per i tipi di Crocetti Editore Addio Anatolia (pagg. 308, euro 18) di Didò Sotirìu (1909-2004). Questo romanzo è notissimo in Grecia, come la sua autrice, che nell'Anatolia turca nacque e, come moltissimi altri (più di un milione), dovette abbandonarla nel 1922.

Ma facciamo un passo indietro, a prima di quanto Didò Sotirìu - scrittrice apprezzata da André Malraux, André Gide e Louis Aragon - racconta così bene.

Sin dall'antichità le coste dell'Asia minore erano abitate da popolazioni di lingua ed origine greca. La convivenza con le popolazioni musulmane e turche non era sempre facile ma era basata su una secolare tolleranza. Questo è il mondo in cui si muove Manolis, il protagonista del romanzo. Figlio di un testardo contadino greco questo ragazzo, intellettualmente dotato, viene mandato a Smirne a lavorare e a provare la carriera del mercante. Nel suo percorso, tra crisi e lisi, si accorge di un sacco di cose. Del mal funzionamento dell'apparato amministrativo turco, del fatto che i greci d'Anatolia controllino un bel pezzo di economia, facendo anche qualche bella porcheria ai contadini dell'interno, del senso di superiorità che cova nella sua gente, del sospetto perpetuo che serpeggia tra i musulmani.

Ma tutto «si tiene» sino a che non arriva la Prima guerra mondiale, al massimo vola qualche schioppettata tra gendarmi e contrabbandieri greci. Ma il conflitto cambia tutto. La Grecia è vicina all'Intesa, gli Ottomani scelgono di schierarsi con Germania e Austria. E la guerra volge al peggio. In questa situazione ci si può fidare dei cittadini di origine greca? No.E allora li si ficca in battaglioni di lavoro in cui le condizioni di vita sono spaventose. E più questi si ribellano più cresce il sospetto. Finisce così anche il povero Manolis, che alla fine sarà costretto a fuggire e a darsi alla macchia. In più arrivano le grandi banche tedesche. Vorrebbero controllare l'economia turca, ma l'economia turca è in buona parte in mano ai mercanti di origine greca, sarebbe bello se sparissero... In breve l'odio divampa... E quando la Turchia perde la guerra, ormai i greci vorrebbero la grande rivalsa. Chi parla greco si fa sedurre dalla Megali Idea, il sogno di una grande Grecia. Nel 1919, le forze di Atene sbarcano in Anatolia. Manolis vorrebbe soltanto giustizia ma si ritrova a portare la stessa divisa di uomini che uccidono indiscriminatamente, esattamente come i militari e i miliziani turchi.

Nel frattempo la situazione politica cambia. La nuova Turchia post imperiale trova alleati. Alla fine una tremenda mazzata militare cala sull'esercito greco. E a quel punto scoppia una folle indiscriminata vendetta. E Smirne brucia.

Il romanzo, attraverso le peripezie del giovane Manolis, e della sua martoriata famiglia, permette al lettore di vedere da vicinissimo la fine di un mondo. Il tutto senza indulgenze al nazionalismo né di una parte né dell'altra. E senza semplificazioni. Ne esce un quadro di straziante tristezza che mostra come sia facile «incendiare» un territorio dove da secoli si pratica la convivenza.

Val Passiria, il Donbass italiano: ecco che cosa sta succedendo in Alto Adige. Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 18 maggio 2022.

Erano circa settemila. E si sono radunati, domenica scorsa, su un grande prato della val Passiria, a nordest di Merano. Erano tutti Schützen provenienti dalla Baviera, dal Tirolo austriaco e soprattutto dal Trentino Alto Adige. Con le loro bandiere, i loro cappelli con le piume e le loro calze fino al ginocchio. I vestiti tradizionali tirolesi, insomma, perché la difesa delle tradizioni è di fatto la loro "mission". Vestiti a parte, però, chi sono gli Schützen? Leggiamo la Treccani: "Schützen. In Alto Adige, appartenenti a un'organizzazione paramilitare che si ispira ad antichi corpi di tiratori scelti del Tirolo e della Baviera per rivendicare le tradizioni locali insistendo, in polemica più o meno esplicita con lo Stato italiano, sulla propria appartenenza culturale ed etnica all'area germanica".

Eccoci al punto, si parla ancora della questione altoatesina. Di un territorio dove il 70% della popolazione appartiene al gruppo linguistico tedesco, il 26% al gruppo italiano e il 4% a quello ladino. Una specie di Donbass di casa nostra, insomma, tanto che da più parti è stato suggerito di imitare l'Alto Adige anche per arrivare alla pace tra Russia e Ucraina. E tanto che pure il vescovo della diocesi di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, domenica, durante la messa organizzata prima della sfilata, ha fatto un riferimento al conflitto in corso. «La condanna della guerra di aggressione russa all'Ucraina», ha detto, «è credibile solo se ci battiamo con determinazione perla convivenza pacifica, per l'unità nella diversità, qui nella nostra comunità e ovunque in Europa».

Ma davvero a Bolzano e dintorni hanno risolto con successo ogni problema di convivenza? Sì e no, a dire la verità. Perché le polemiche non sono mancate anche in occasione del raduno degli Schützen. Il consigliere provinciale di Fdi Alessandro Urzì, in particolare, ha presentato un'interrogazione urgente. «Su tutti i pennoni dei borghi della valle», ha spiegato, «sono stati esposti il gonfalone della Provincia, i loghi pubblicitari e la bandiera dell'Ue. La normativa vigente prevede però l'obbligo che alla bandiera europea venga sempre affiancata quella italiana. Cosa che in val Passiria non è avvenuta». Secondo il consigliere sarebbe «l'ennesimo oltraggio degli Schützen all'intera comunità di lingua italiana dell'Alto Adige» e dimostrebbe «la loro avversione nei confronti dello Stato italiano».

Parlando con Libero, Urzì fa poi il punto sulla situazione altoatesina. Partendo dalle cose positive: «Qui la convivenza adesso è ottima, sicuramente migliore che in passato. Ma c'è ancora chi, anche a livello di partiti e associazioni, mantiene una conflittualità molto alta. Perché qualcuno ritiene che il tricolore sia offensivo? Perché la squadra locale, appena promossa in serie B, oggi si chiama Fc Südtirol mentre fino a qualche anno fa era Fc Alto Adige-Südtirol?». Altri esempi: «In consiglio provinciale a Bolzano siamo 8 italiani su 35 consiglieri. E si parla di rimuovere il Monumento all'Alpino di Brunico o di non issare il tricolore nei rifugi alpini. Attualmente, per fortuna, non c'è il rischio di una secessione, però è come una spada di Damocle. L'autonomia, per qualcuno, è solo una cosa provvisoria». Ma, in definitiva, il modello altoatesino potrebbe funzionare per il Donbass? «Il nostro», conclude Urzì, «è un modello che regge perché lo Stato stanzia un sacco di soldi. Non so se in Ucraina hanno le stesse possibilità economiche...». 

Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 4 aprile 2022.

L'annoso contenzioso sulla sovranità delle isole Falkland-Malvin riaccende gli animi tra Londra e Buenos Aires nel 40esimo anniversario della guerra con cui il 2 aprile 1982 la prima ministra Margaret Thatcher aveva respinto l'esercito del generale Leopoldo Galtieri.

A esprimersi con un tweet è stato il presidente Alberto Fernández che ha definito «legittima» la rivendicazione pacifica e diplomatica della sovranità sulle isole» non solo questo 2 aprile, «ma ogni giorno». «Le Malvine erano, sono e saranno argentine!», ha concluso.

Il ministro degli Esteri di Buenos Aires Santiago Cafiero, sul quotidiano britannico The Guardian, ha sottolineato l'importanza di non affidare all'esito di una guerra la risoluzione di «una controversia riconosciuta dalla comunità internazionale. Ciò - ha assicurato - costituirebbe un pericoloso precedente». Per Cafiero il conflitto del 1982 non ha alterato la natura della controversia tra i due Paesi, che è ancora in attesa di un negoziato e di una e soluzione. 

Il ministro ha poi citato i 16 anni di trattative andate a vuoto che hanno preceduto il conflitto: «I due governi - ha concluso nel suo intervento - condividono valori fondamentali e una visione di un ordine mondiale basato su regole. Eppure, nell'agenda dell'Atlantico meridionale ci comportiamo come se il conflitto fosse accaduto ieri». E dal canto suo Londra non sembra intenzionata a entrare nel merito di una questione che reputa chiusa da tempo. 

IL PREMIER Queste le parole del primo ministro Boris Johnson su Twitter: «Questa primavera ringraziamo e ricordiamo tutti coloro che hanno combattuto e sono morti per liberare queste isole e la loro gente. Il nostro impegno verso di loro è saldo come lo era nel 1982». Un messaggio al quale ha fatto eco anche la ministra degli Esteri Liz Truss, che ha parlato di «invasione illegale» da parte dell'Argentina e ha rimarcato come le isole siano «parte della famiglia britannica»: «difenderemo sempre il loro diritto all'autodeterminazione», ha concluso. Nella questione è finita anche l'Ucraina, che è stata oggetto di parallelismi da ambo le parti.

Nei giorni scorsi Ben Wallace, ministro della Difesa britannico, aveva paragonato Putin e l'invasione dell'Ucraina a quello che il generale Galtieri aveva fatto nel 1982 ma alcune ore fa è stato un altro esponente del governo Fernandez, Guillermo Carmona, a citare Kiev invertendo però i ruoli. Carmona ha lodato la posizione di Londra che ha condannato veemente Mosca ma, ha aggiunto, «nello stesso tempo il governo britannico sta violando l'integrità territoriale dell'Argentina da 189 anni». Quasi due secoli di contenzioso che Galtieri aveva tentato di forzare con le sue truppe scatenando la dura reazione del governo conservatore.

Il conflitto scoppiato il 2 aprile 1982 si era concluso il 14 giugno a favore di Londra, con 1000 morti da ambo le parti. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi sono state riallacciate nel 1990 e nel 2013 un referendum - al quale ha partecipato il 92% della popolazione delle isole - si è concluso con quasi plebiscito: il 99.8% dei votanti si è detto favorevole a rimanere territorio britannico d'oltremare. Una votazione che Buenos Aires tuttavia non ha mai riconosciuto. Il tema è permanente all'ordine del giorno del Comitato di decolonizzazione dell'Onu che, annualmente, invita le parti a trovare una soluzione pacifica della disputa.

Morto Yvan Colonna, rischio caos in Corsica. Fabio Polese il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

Yvan Colonna, per oltre quattro anni l'uomo più ricercato di Francia, è morto lunedì in un ospedale di Marsiglia dopo 19 giorni di coma.

Yvan Colonna, per oltre quattro anni l'uomo più ricercato di Francia, è morto lunedì in un ospedale di Marsiglia dopo 19 giorni di coma. Storico militante dell'indipendentismo corso, stava scontando l'ergastolo ad Arles, in Provenza, per l'omicidio del prefetto Claude Erignac avvenuto nel 1998.

Il nazionalista, che si è sempre dichiarato innocente, è deceduto a seguito del violento attacco subito in carcere il 2 marzo scorso, quando nella palestra dell'istituto penitenziario, è stato picchiato per otto minuti - senza che nessuna guardia carceraria intervenisse - da un camerunense islamista condannato a nove anni di reclusione per terrorismo, dopo aver combattuto gli occidentali in Afghanistan. «Yvan Colonna, patriota corso, vive per l'eternità. Noi saremo sempre al tuo fianco», ha twittato in corso il partito «Femu a Corsica» di Gilles Simeoni, il presidente autonomista del Consiglio esecutivo dell'isola. Poco prima la famiglia aveva confermato il decesso, chiedendo riservatezza. «Yvan Colonna, morto per la Corsica», ha postato sui social «Core in Fronte», il principale partito indipendentista, accompagnando il messaggio con una foto del militante. All'annuncio della morte, alcune decine di persone si sono riunite a Bastia davanti al Palazzo di Giustizia, appendendo striscioni con lo slogan «Statu francese assassinu». L'aggressione di marzo ha scatenato la rabbia del movimento indipendentista, che nelle ultime due settimane ha manifestato e messo a ferro e fuoco diverse città della Corsica. Dopo le violenze, il presidente Macron, che oggi ha esortato alla «calma e responsabilità», ha promesso l'autonomia e ha spedito sull'isola il ministro dell'Interno Gérald Darmanin, con la speranza di calmare i nazionalisti. Le trattative dovrebbero iniziare ad aprile, ma con la morte di Colonna la situazione potrebbe infiammarsi velocemente. Nuovi raduni di protesta sono già stati indetti ad Ajaccio e Bastia per i prossimi giorni. E come se questo non bastasse, è tornato anche lo spettro del conflitto armato. Il 16 marzo il Fronte di Liberazione Nazionale della Corsica - discioltosi nel 2014 - con una lettera al quotidiano Corse Matin, ha annunciato la ripresa della lotta clandestina, lodando i giovani che negli ultimi giorni sono scesi in piazza. Yvan Colonna, che dalla stampa francese veniva chiamato «il pastore di Cargèse», non sapendo però, che in Corsica «u pastore» è considerato soprattutto un uomo libero, non c'è più. Ma per i nazionalisti, che amano chiamare i fratelli di lotta semplicemente con il loro nome, rimarrà sempre Yvan, martire della causa corsa. Mentre per tutti gli altri resterà l'assassino del prefetto Erignac.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 18 marzo 2022.

Il disastro ucraino, come è normale che sia, distrae dal resto del mondo. Pochi per esempio sapranno della Corsica di nuovo infiammata dagli indipendentisti. Le sommosse antifrancesi sono ricominciate da un paio di settimane, dopo che Yvan Colonna - campione dell'indipendentismo recluso in carcere per l'omicidio di Claude Érignac, prefetto della Corsica del sud ammazzato con un colpo in nuca nel 1998 ad Ajaccio - è stato ridotto in coma da un compagno di detenzione, un islamico radicalizzato. 

Colonna doveva essere guardato a vista per il suo particolare status, ma tutti se lo sono dimenticato per il tempo necessario all'aggressore di devastarlo di botte. Le proteste hanno portato all'incendio del palazzo di giustizia di Ajaccio, a prefetture bersagliate di molotov, a scontri di piazza con centinaia di feriti.

So poco dell'indipendentismo córso, ma sono un fan del generale Pasquale Paoli (maestro di Napoleone e da cui fu poi tradito) che conquistò l'indipendenza all'isola nel 1755 e, quarant' anni prima della Rivoluzione francese, la dotò di una Costituzione che dichiarava gli uomini liberi, uguali e titolari del diritto alla felicità, ed estese il suffragio alle donne, due secoli prima dell'Italia. 

Ora Emmanuel Macron promette l'autonomia, ma son questioni interne qui poco rilevanti. È invece interessante spiegare chi sono i massimi avversari del sovranismo córso: i sovranisti francesi. E cioè Marine Le Pen e Éric Zemmour, scandalizzati alla sola idea di una lesione all'integrità del territorio nazionale. E questo è il succo dei sovranisti: che gli preme soltanto il sovranismo loro e detestano quello altrui.

Ghjustizia è verità. I giovani della Corsica vogliono più autonomia dalla Francia. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.

Da un paio di settimane in tutta l’isola i separatisti chiedono maggiori libertà a Parigi, con manifestazioni e scontri che finiscono in numerosi arresti. L’Eliseo adesso sembra disposto al dialogo: il tema potrebbe accendere una campagna elettorale finora anestetizzata dal conflitto in Ucraina. 

La Festa della Madunnuccia nel momento più particolare della storia della Corsica. Tra il 17 e il 18 marzo ad Ajaccio, capoluogo dell’isola, si festeggia la santa patrona della città, quella che nel XVII secolo salvò la città e l’isola dalla peste polmonare in arrivo da Genova.

Dopo due anni di assenza, causa Covid, la statua della Madonna è tornata a sfilare in città, in uno dei suoi rari momenti di calma: da un paio di settimane in tutta l’isola i separatisti tengono manifestazioni di piazza chiedendo, al grido di «Statu francese assassinu», l’indipendenza dalla Francia.

Arresti, feriti ed episodi come quello di domenica 13 marzo a Bastia, dove i manifestanti hanno lanciato molotov contro la prefettura, sono ormai all’ordine del giorno. Per questo è giunto sull’isola il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin con l’obiettivo, dichiarato in maniera formale, «di aprire un ciclo di discussioni con i rappresentanti e le forze vive dell’isola e discutere anche di un’eventuale autonomia».

Un tema che può accendere una campagna presidenziale finora anestetizzata dal conflitto in Ucraina.

L’origine della vicenda ha un nome e un cognome: Yvan Colonna, personaggio mitico dell’indipendentismo còrso. Colonna era in carcere ad Arles, in Provenza, per l’omicidio del prefetto Claude Erignac, avvenuto con colpi di arma da fuoco alla schiena in pieno centro ad Ajaccio il 6 febbraio 1998. Una pena simile a quella degli altri indipendentisti còrsi, arrestati e condannati tutti a scontare la propria pena lontano dall’isola in regime di stretta sorveglianza, nota in Francia come DPS (Détenu particulièrement signalé).

Nonostante i rigidi controlli lo scorso 2 marzo Franck Elong Abé, già condannato a 9 anni per associazione criminale terroristica e adesso accusato anche di tentato omicidio, è riuscito ad avvicinarsi a Colonna e a strangolarlo per 8 minuti senza che nessuna guardia intervenisse.

Il detenuto còrso è finito in coma all’ospedale di Marsiglia e questo ha scatenato la rabbia degli indipendentisti locali, che si sono chiesti come sia stato possibile che un detenuto sotto stretta sorveglianza sia stato aggredito senza che nessuno intervenisse. «Ti rendi conto, sono passati otto minuti prima che i servizi di emergenza intervenissero con lui. Quando conosci la centrale di Arles come me, la sua organizzazione molto sicura, è impossibile. È un vero e proprio scandalo di Stato. Dovremo fornire risposte concrete», ha dichiarato Jean-Felix Acquaviva, deputato del Partito autonomista Femu a Corsica.

Su Twitter il collettivo separatista Ghjuventù Libera ha indicato quali sono gli obiettivi di coloro che manifestano: la verità sul caso Colonna; il rilascio immediato dei prigionieri politici e l’inizio di un processo di riconoscimento dell’indipendenza còrsa da parte dello Stato francese.

«Il modo in cui si è strutturata questa rivolta non ha precedenti poiché è scoppiata all’interno di una giovane generazione che non era ancora nata quando il prefetto Erignac fu assassinato nel 1998 e che oggi glorifica uno dei suoi assassini, Yvan Colonna. Questi ragazzi sono vicini ai movimenti indipendentisti, hanno vissuto anche le loro vittorie, ma si definiscono delusi. Questa generazione che grida contro l’ingiustizia e sfila sotto lo stendardo “Statu francese assassinu” è determinata e non vuole che la sua vittoria venga rubata», racconta a Linkiesta Paul Ortoli, giornalista corrispondente del quotidiano Le Monde in Corsica e giornalista di Radio France RCFM.

Mentre migliaia di persone sfilano in piazza è tornato a farsi vivo anche il Flnc (Fronte di Liberazione Nazionale della Corsica), discioltosi nel 2014, che, al grido di «A ragione hè a nostra forza», ha annunciato la ripresa della lotta clandestina, lodando i giovani.

«Per questo è un movimento di protesta diverso dai precedenti: questi ragazzi sono esperti in tecniche di guerriglia urbana e conoscono i social. Faranno sentire la loro voce fino alla fine», sostiene Ortoli.

La trattativa politica

In un simile contesto quasi sorprende la volontà di parlare da parte delle istituzioni. Da giorni è infatti presente sull’isola il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin, mandato dal presidente della Repubblica Emmanuel Macron con l’obiettivo di trovare una convergenza politica con le istituzioni còrse, in primis con il governatore Gilles Simeoni, e trattare su temi anche scottanti, come l’autonomia.

«Siamo pronti a spingerci fin lì, ma poi dobbiamo discuterne e capire cosa significa. Prima di ogni possibile dialogo, va detto che un ritorno alla calma è conditio sine qua non. Il presidente Macron è pronto ad aprire un fronte di dialogo che si protenderà ovviamente in caso di vittoria alle elezioni, nei prossimi cinque anni», ha dichiarato il ministro degli Interni in un’intervista su Corse Matin, quotidiano di lingua francese della Corsica.

A queste parole Parigi ha fatto seguire anche altri fatti: infatti ha revocato lo status di “sorvegliato speciale” non soltanto a Colonna ma anche a Alain Ferrandi e Pierre Alessandri, gli altri due indipendentisti còrsi accusati dell’omicidio di Erignac e in carcere a Poissy, comune francese nella regione dell’Ile-de-France.

«Siamo in attesa di un calendario e di un vero metodo di lavoro per discutere intorno ad un tavolo come ci ha annunciato il Ministro Darmanin. La firma di un protocollo per ratificare tutte le nostre richieste e per stabilire un metodo di lavoro dovrebbe avvenire oggi. Resteremo vigili sul contenuto di questo protocollo», dichiara a Linkiesta il deputato del Pnc (Partito della Nazione Còrsa) all’Assemblea Nazionale, Paul-André Colombani.

Richieste che non sembrano assolutamente trattabili e su cui servirà una lunga e faticosa discussione: secondo Ortoli, «la presenza di Darmanin ha certamente un po’ sedato le rivolte. La questione però resta soprattutto politica: sono proprio i nazionalisti, capeggiati dal governatore Simeoni, a non volere la trattativa. Il loro sogno è un modello di indipendenza simile a quello sardo o siciliano».

Le elezioni presidenziali

La improvvisa disponibilità al dialogo da parte del governo francese sembra a molti sospetta, soprattutto vista la tempistica. Il 10 aprile si terrà infatti il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, alle quali il presidente Macron è candidato. «Servono risposte concrete, non annunci a vuoto. La Corsica ha combattuto democraticamente per decenni per ottenere uno status autonomo e per anni abbiamo lavorato sia nelle istituzioni locali che in quelle nazionali per far avanzare politicamente la questione còrsa. È un rammarico dover arrivare a questo punto per farci ascoltare dal governo», dichiara Colombani.

Ciò che preme soprattutto ai nazionalisti è una sorta di vero e proprio riconoscimento dello status della Corsica, vicino magari al modello polinesiano, «che significherebbe sancire il valore del popolo dell’isola e la coufficialità delle due lingue, il còrso e il francese. Ad oggi la Corsica continua ad avere la sensazione di non essere ascoltata da parte di Parigi. È vero, sull’isola ci sono soltanto 240 mila elettori su diversi milioni a livello nazionale, e oggi l’attenzione dei media è su ciò che succede in Ucraina, ma le cose stanno pian piano mutando. Ciò che succede in Corsica comincia a sentirsi a Parigi», evidenzia Ortoli.

Le promesse di Darmanin sono subordinate a quello che succederà nelle urne ma anche gli avversari politici non stanno a guardare. Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, ha dichiarato che se verrà eletta «proteggerà l’integrità francese», mentre Valerie Pécresse ha attaccato il presidente Macron, sostenendo che in questo modo «legittima soltanto le violenze».

Discorso diverso invece per Éric Zemmour: da un lato rimarca come «la vita della Corsica non sia per forza legata alla morte della Francia», sostenendo difatti una qualche forma di autonomia dentro il quadro francese, ma dall’altro sottolinea l’origine islamista dell’aggressore.

Difficile capire, a questo punto, cosa accadrà alle urne. «È molto probabile che ci sia un’alta astensione», sostiene Ortoli che però indica anche un’altra possibilità. «Di sicuro le schede che porteranno il nome di Yvan Colonna saranno tantissime». 

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

L’ultima chiamata per l’Europa. Andrea Muratore, Lorenzo Vita, Mauro Indelicato, Paolo Mauri, Roberto Vivaldelli su Inside Over il 27 luglio 2022.

L’Europa esce da questa guerra in Ucraina come una delle principali vittime politiche. Qualsiasi discorso sull’autonomia strategica e sulla difesa comune è stato accantonato di fronte a un’Alleanza Atlantica apparse nettamente più dinamica e in grado di dirigere le questioni strategiche. E con gli Stati Uniti ad avere prima avvertito dell’imminenza del conflitto e dell’impossibilità e poi ad avere dettato la linea sul sostegno a Kiev e sulle sanzioni. A questo, si deve aggiungere poi la debolezza dimostrata dall’Unione europea di fronte alle conseguenze delle sanzioni imposte alla Russia. Gli effetti economici delle misure contro Mosca hanno rischiato e rischiano di ritorcersi contro le stesse economie del continente, costringendo quindi tutti i governi (e la stessa Bruxelles) a ribadire la necessità di contromisure in grado di evitare questo disastroso effetto boomerang.

Lo sganciamento dalla dipendenza energetica dal Cremlino ha poi confermato l’incapacità e la miopia dei Paesi europei che non hanno saputo negli anni creare delle reti in grado di provvedere alla possibilità di blocchi da parte dei fornitori internazionali. Infine, la diplomazia del conflitto – in particolare per una possibile mediazione tra Russia e Ucraina – è stata completamente estromessa dai corridoi delle principali capitali europee per lasciare spazio a Paesi terzi, in primis quella Turchia che già interpreta il ruolo di membro “indipendente” della Nato.  L’asse franco-tedesco, che aveva provato con scarsi risultati a dialogare con Vladimir Putin prima dell’invasione e nelle settimane successive, si è completamente arenata. E nel frattempo le leadership dei più importanti Stati membri si sono indebolite o sono anche cadute lasciando che fossero altri blocchi, come quello dell’Europa orientale, a rimanere saldi nelle loro linee di governo. Il quadro è nettamente complesso, e si aggiunge a una crisi in corso già da diversi anni e che la pandemia di Covid ha ulteriormente accelerato.

Una crisi non solo economica, come dimostrato da diversi indici, ma soprattutto politica. Prima vi era stata la questione migratoria, in cui l’Ue aveva mostrato tutte le sue divisioni e debolezze senza riuscire a costruire un fronte comune per tutelare i confini. Bruxelles in larghi tratti del suo recente percorso è apparsa come una capitale vuota, incapace di prendere in mano le redini di un progetto continentale di natura politica e culturale. La Brexit ha fatto perdere all’Ue uno dei suoi elementi più difficili ma allo stesso tempo pregiati: il Regno Unito. E molti altri Paesi hanno manifestato un malcontento generalizzato che si è spesso tradotto in un voto di movimenti euroscettici o cosiddetti “populisti”.

Il campanello d’allarme, risuonato da diverse parti e per diversi problemi, ha trovato poi come visto nella guerra in Ucraina il suo più tragico grido di dolore. Gli Stati Uniti hanno fatto capire di avere ancora saldamente in mano l’Occidente pur con una amministrazione debole e dopo un’altra, quella Trump, profondamente “antieuropea”. La Cina si è allontanata dai radar del Vecchio Continente dopo il Covid, ma questo non deve fare dimenticare gli investimenti e gli enormi accordi economici siglati con Pechino che negli anni precedenti avevano sollecitato i più chiari avvertimenti di Washington. Infine, la Russia ha in qualche modo fatto intendere di sapere come regolare la vita di una parte consistente del Vecchio Continente, provocando già solo con il flusso di gas delle conseguenze sensibili sulla vita di milioni di cittadini europei. Di fronte a questo, l’Europa sembra dover rispondere continuamente a un’ultima chiamata prima di un disastro che appare sempre più evidente. La perdita di leadership e di soggettività politica è un tema che si è cristallizzato ma da cui non sembra esserci una prossima via d’uscita. Le crisi di tutti i governi Ue hanno anzi confermato una tendenza abbastanza consolidata. L’economia arranca. E sotto il profilo internazionale, i poli del mondo appaiono sempre più quelli di Pechino e Washington, con Mosca che prova a scalfire questo duopolio e con altre capitali, a partire da Ankara e Londra, che cercano – e molto spesso riescono – di dettare le regole dall’esterno.

La bomba migranti come sfida per l’Europa. Mauro Indelicato su Inside Over il 21 luglio 2022.  

L’immigrazione è uno dei temi più caldi all’interno del contesto politico dell’Unione Europea. Il dibattito spesso ha innescato alcune delle maggiori frizioni e divisioni tra i Paesi comunitari, rallentando e di molto il processo decisionale volto a stabilire norme e regolamenti in grado di andare incontro alle esigenze dei vari governi. Soprattutto di quelli più esposti al fenomeno migratorio, tra cui l’Italia. L’immigrazione è quindi una sfida importante per capire la stabilità dell’Ue e per comprendere fino a che punto l’Europa riesce a dare significative risposte ai fenomeni più avvertiti dagli Stati nazionali e dalla popolazione.

Perché l’immigrazione rappresenta un problema per l’Europa

I numeri possono dire molto sull’attuale impatto dell’immigrazione sull’Europa, ma al tempo stesso possono anche dare ben pochi riferimenti. Le fredde cifre parlano di un trend in costante aumento delle richieste di asilo presentate all’interno del territorio comunitario. A partire dal 2014, il dato in questione ha sforato il mezzo milione di richieste, con unica eccezione nel 2020, primo anno della pandemia. Tra il 2015 e il 2016 si è avuto il picco, con rispettivamente 1.322.000 e 1.266.000 migranti che hanno richiesto asilo in Europa. Cifre importanti, scese negli anni successivi ma mantenutesi piuttosto alte. Nel 2021 il dato ha toccato quota 630.890.

Numeri che si sono spesso dimostrati di difficile gestione, anche perché occorre aggiungere anche quelli relativi ai migranti arrivati nel Vecchio Continente e rimasti senza documenti o senza presentare domande di asilo. Solo in Italia, si calcola la presenza di oltre mezzo milione di immigrati irregolari. Il problema però è molto più vasto rispetto a quanto raccontato dalle cifre. In primo luogo perché diversa è la percezione del fenomeno tra le varie parti d’Europa. Nella sponda mediterranea la preoccupazione relativa agli sbarchi è da anni molto sentita ed è tra i nodi centrali del dibattito politico. Un discorso simile può essere fatto, soprattutto con riferimento agli ultimi dieci anni, per i Paesi dell’est Europa, quelli che condividono le frontiere esterne con l’area balcanica. Questi ultimi appaiono poco inclini ad accettare quote di richiedenti asilo provenienti da altri Stati dell’Ue o da Paesi terzi confinanti. Diversa invece la situazione nell’Europa centrale e settentrionale, lì dove il problema migratorio ha iniziato a essere avvertito solo negli ultimi anni, in particolar modo dopo il biennio 2015/2016.

Il nodo mai sciolto del trattato di Dublino

Un'importante svolta sul fronte immigrazione è arrivata all'inizio degli anni '90 del secolo scorso. L'Europa in quel momento, contrassegnato dalla caduta del muro di Berlino, dalla fine dell'Urss e quindi dal potenziale arrivo di milioni di persone da est, ha compiuto una precisa scelta politica. Favorire cioè l'immigrazione da est, chiudendo di fatto le porte ai flussi provenienti da sud. Non è forse un caso che i primi sbarchi di migranti con i barconi a Lampedusa sono datati 1992.

Sempre in quegli anni, le istituzioni comunitarie si sono anche dotate di un regolamento sull'immigrazione. Quello poi rimasto agli annali come "trattato di Dublino", dal nome della città in cui è stato firmato. Si tratta di un documento che ha fissato, tra le altre cose, un preciso caposaldo della politica dell'Ue sull'immigrazione: il Paese di primo approdo è anche il Paese che ha l'onere dell'accoglienza del migrante e dell'esame della sua domanda di asilo. All'epoca i numeri degli sbarchi erano decisamente più ridotti.

Quando poi la situazione è diventata molto più preoccupante, sia in termini di cifre che di percezione del fenomeno migratorio, allora soprattutto i Paesi del sud Europa hanno iniziato a chiedere una riforma del trattato. Questo perché zone come quelle del Mediterraneo ad esempio, hanno dovuto sobbarcarsi, negli anni più caldi delle crisi migratorie, il maggior numero di sbarchi e quindi di persone da accogliere. Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro per questo motivo negli anni sono sempre state più attive nel chiedere una riforma del Trattato volto a non lasciare i governi in questione da soli nella gestione dell'immigrazione. Ancora oggi però il documento di Dublino appare uno dei nodi più intricati da sciogliere. Anche perché ai Paesi del nord Europa l'attuale impostazione appare più vantaggiosa.

Le diverse visioni sulla gestione dei flussi migratori

I dibattiti su Dublino hanno fatto emergere diverse visioni nella gestione del fenomeno migratorio in Europa. Ci sono Paesi, soprattutto quelli estesi delle aree meridionali del Vecchio Continente, che chiedono o una riforma del trattato oppure meccanismi concreti e precisi di solidarietà. Altri invece che non condividono l'eventuale scelta di redistribuire i migranti per quote tra i vari Stati dell'Ue. Tra questi ci sono soprattutto i Paesi del cosiddetto "blocco Visegrad", formato da Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria.

Anche l'Austria si è spesso collocata negli ultimi anni tra i Paesi più intransigenti sull'immigrazione, chiudendo anche più volte il confine del Brennero con l'Italia. Francia e Germania dal canto loro non appaiono disponibili ad attuare concrete riforme del trattato di Dublino. Al contrario, Berlino e Parigi più volte hanno chiesto maggiori controlli a Roma per evitare i cosiddetti "movimento secondari". Flussi migratori cioè di persone arrivate in Italia e dirette, contravvenendo al trattato di Dublino, verso il territorio francese e tedesco. Tuttavia Francia e Germania hanno più volte aperto, soprattutto dal 2020, all'approvazione di meccanismi di solidarietà verso i Paesi più colpiti dalle emergenze migratorie.

Immigrazione come arma dei Paesi terzi

Ma il fenomeno migratorio non rappresenta un problema solo a livello interno per l'Ue. Negli ultimi anni contro Bruxelles l'immigrazione è stata usata come vera e propria arma da Paesi terzi. Il caso più eclatante è rappresentato da quanto accaduto nel 2021 con la rotta bielorussa dell'immigrazione. Per settimane in migliaia hanno assediato lunghi tratti del confine tra Bielorussia e Polonia e tra Bielorussia e Lituania. Non si trattava di bielorussi, bensì di migranti provenienti dalla Siria, dall'Iraq e da altri Paesi del Medio oriente. Il governo di Minsk, nei mesi precedenti, aveva favorito l'afflusso di persone da questa regione del pianeta per poi spingere intere carovane verso i confini orientali dell'Ue. Quando i flussi migratori dalla Bielorussia hanno fatto sentire i propri effetti, la Polonia e i Paesi baltici sono andati in difficoltà. E, di conseguenza, il problema è diventato di dominio comune all'interno del Vecchio Continente. Varsavia ha risposto schierando interi reparti dell'esercito lungo le frontiere. Per evitare di far degenerare la situazione anche sul fronte politico, la Germania si è mossa instaurando diretti contatti con il presidente bielorusso Alexandar Lukashenko, la cui rielezione non era ancora stata riconosciuta dall'Ue.

La situazione è quindi rientrata, anche perché il governo di Minsk ha ottenuto quell'ufficioso riconoscimento che ancora si aspettava da parte europea. Ma con la crisi del 2021 si è palesata ancora una volta l'estrema vulnerabilità dell'Ue difronte alle minacce migratorie di Paesi terzi. Quanto accaduto con la Bielorussia ha ricordato da vicino la situazione vista nel 2016 durante la crisi della rotta balcanica, quando Bruxelles ha accettato di pagare tre miliardi di Euro all'anno alla Turchia per blindare i confini con Grecia e Bulgaria e spegnere la crisi innescata dal massiccio flusso migratorio di quel momento.

Le prospettive di riforma

Ben si comprende quindi come mai da anni si aspettano nuove riforme da parte dell'Europa per la gestione dei flussi migratori. Al momento però i tentativi non sono andati a buon fine. L'ultimo è partito subito dopo la crisi pandemica che ha interessato il Vecchio Continente. In particolare, il presidente della commissione Ursula Von Der Leyen ha presentato nel settembre 2021 un documento basato su tre perni fondamentali: maggior controllo delle frontiere esterne, solidarietà e maggiore facilità per i rimpatri. Il piano però non è mai decollato del tutto. Nel giugno 2022 i ministri dell'Interno dell'Ue si sono accordati per una più ampia solidarietà nella redistribuzione dei richiedenti asilo, fissando un cronoprogramma in cui entro il 2023 si dovrebbe giungere a una più organica riforma della materia. Previsto inoltre un potenziamento di Frontex, l'agenzia europea preposta al controllo delle frontiere esterne e dotata di proprio personale oltre che di mezzi messi a disposizione dai Paesi membri. La strada per una riforma è comunque in salita. 

L’incubo di una nuova recessione: la stagnazione secolare dell’Europa. Andrea Muratore su Inside Over il 20 luglio 2022.

L’Europa rischia di tornare nella bufera della recessione per la quarta volta in meno di quindici anni. Dopo la crisi del 2007-2008, la lunga fase di instabilità seguita alla crisi dei debiti sovrani del 2010-2011, alleviata solo dal lancio del quantitative easing nel 2015, e la recessione pandemica del 2020 il combinato disposto tra scorie del Covid, crisi energetica e guerra in Ucraina porta nuovamente l’Europa in territori inesplorati in questo complesso 2022.

La stagnazione secolare del Vecchio Continente

Si può dire in quest’ottica qui che quella vissuta dall’Europa non è una fase di crisi alternate a momenti di pieno sviluppo, ma bensì il sintomo di un declino sempre più accentuato nel contesto dell’economia globale. Riscoprendo l’economista americano Alvin Hansen potremmo parlare di “stagnazione secolare”, guardando l’ultimo quindicennio come un periodo comune di destabilizzazione dell’area del Vecchio Continente. In cui la risposta ad ogni crisi ha portato con sé il seme di quella successiva.

Nel 2007-2008 il sostegno agli istituti finanziari in crisi aprì la strada all’insostenibilità debitoria, nel 2010-2011 il tentativo di rispondere alla Grande Recessione con rigore e austerità fallì clamorosamente, dopo il 2015 il quantitative easing ha permesso di mettere liquidità nel sistema ma, complice la sua versione ampliata dopo la pandemia, si è trasformato in un salvagente lanciato dalla Banca centrale europea all’Unione senza stimolare la domanda interna e un moderato aumento dell’inflazione. E, infatti, il bazooka di Francoforte si è ritrovato scarico quando l’Europa, importatrice netta di fonti energetiche, si è vista travolta dal superciclo delle materie prime accelerato dalla guerra in Ucraina e dalla stretta monetaria Usa, che hanno prodotto un indebolimento dell’euro, un aumento netto dell’inflazione e perfino la caduta in deficit commerciale di Italia e Germania.

La “crisi delle crisi”

Mai quanto nel 2022 la crisi che rischia di portare nuovamente in recessione l’Europa ha determinanti legate al grande gioco del sistema internazionale.

Parliamo di una “crisi delle crisi” o, per dirla con lo storico dell’economia Adam Tooze, di una “policrisi”. Legata innanzitutto a un dato geopolitico: l’Europa è sempre più oggetto e sempre meno soggetto delle dinamiche internazionali. E in questa fase l’economia europea è strumento esplicito della guerra asimmetrica condotta dall’Occidente a guida Usa contro la Russia di Vladimir Putin. Battaglia fondamentale che di fatto trasforma, una volta per tutte, l’Ue in un satellite americano affossando le volontà di autonomia strategica europea, destrutturando l’asse franco-tedesco attorno a cui si stavano costituendo gli embrioni di una cooperazione per lo sviluppo di frontiera, rendendo Bruxelles e i Paesi membri dell’Ue impegnati a diversificare le proprie fonti energetiche guardando con forza anche al gas naturale liquefatto di oltre atlantico.

Il risultato? Un cortocircuito. L’Europa che (legittimamente) sostiene l’Ucraina e cerca il modo migliore per includere, in prospettiva, Kiev nella sua sfera d’influenza sceglie consapevolmente di cedere al ricatto energetico russo. Finanzia la guerra di Putin con oltre mezzo miliardo di euro al giorno, predica l’impossibilità di sganciarsi in tempi brevi dal gas russo, a Bruxelles e Francoforte torna a far aleggiare la parola più problematica dell’Ue del nuovo millennio, ovvero austerità. Questo crea il più classico dei circoli viziosi: priva della capacità decisionale sul fronte geostrategico e dipendente da fonti esterne, l’Unione Europea si fa travolgere dall’inflazione energetica che mette a rischio industrie e settori produttivi.

Alcuni dati bastano a sottolinearlo: a giugno l’inflazione ha raggiunto l’8,6% nel Vecchio Continente, secondo Citigroup le forniture energetiche possono arrivare a costare per l’Europa intera 1,2 trilioni di euro nel 2022, un dato pari a oltre il 60% del Pil italiano, le stime di crescita della Commissione per ora interiorizzano un rallentamento del rimbalzo post-Covid che porterà molte economie a non riprendere i livelli pre-pandemici prima del 2024.

Ma non è solo l’Ucraina a fungere da spartiacque. Se guardiamo ai dati della produzione industriale nel Vecchio Continente, da ottobre 2021 la crescita post-Covid si è interrotta con un assestamento a crescita zero e da lì si sono registrati quattro mesi di contrazione e solo tre di espansione. La bolletta energetica stava crescendo già prima della guerra, ma l’Europa soffriva notevolmente anche la crisi dei chip, simbolo della difficoltà incontrata nel ritrovarsi protagonista delle catene del valore decisive su scala mondiale.

Ad oggi, guardando ai dati, il rischio di una recessione formalmente non c’è. Ma le previsioni della Commissione si sono sempre rivelate incapaci di interiorizzare i trend in via di sdoganamento in questo caotico anno. L’ipotesi di una caduta del Vecchio Continente in recessione non è solo di accademia. Specie se l’Ue dovesse metterci del suo con politiche in grado di accelerare la crisi.

Lo spettro dell’austerità

La proposta della Commissione sull’energia, in tal senso, parla chiaro: si affida la panacea e la risposta più importante alla crisi del sistema economico guidata dai rincari energetici al mito austeritario. L’Unione Europea si prepara a varare l’austerità energetica con l’obiettivo di risparmiare fino a un quinto dei consumi in prospettiva di una tempesta perfetta autunnale. Ma non solo.

Le parole di Christine Lagarde, governatrice della Bce, hanno a giugno lasciato presagire che anche l’Eurotower si predisponga a varare una politica più restrittiva. Nonostante la proposta di uno scudo anti-spread per tutelare i Paesi più esposti alla fine degli acquisti, l’aumento dei tassi va proprio in questa direzione.

E anche in seno alla Commissione von der Leyen si è tornati apertamente a parlare di censura sui conti pubblici dei  Paesi, di rientro dai debiti contratti durante la pandemia e di rigore come presupposto per lo sviluppo. Sembra di tornare al mito dell’austerità espansiva sfatato sul campo dopo il 2010-2011. Ma oggi sarebbe ancora più rovinoso: quello che serve all’Europa è una nuova percezione dei problemi dell’economia globale e un focus securitario tutt’altro che secondario, che consenta di separare la risposta alla crisi nei settori più esposti alle minacce geostrategiche, tutelandoli, e l’ordinaria amministrazione.

In tal senso, da Italia e Francia è arrivata nei mesi scorsi una proposta di discontinuità capace di proporre una soluzione alternativa al solito duo fatto di rigore e austerità: un’Agenzia Europea del Debito capace di “digerire” i debiti contratti durante la pandemia, abbassando la spesa per interessi dei Paesi membri e dunque le uscite non produttive dalle casse pubbliche, e mutualizzare su tutto il Vecchio Continente la risposta a una sfida comune. Al contempo, il Recovery Fund andrà valutato nei suoi effetti per capire in che misura l’Unione sia capace di una progettualità comune contro le crisi. E andrà affrontato, infine, l’elefante nella stanza: il rilancio del ruolo geopolitico dell’Euro.

L’Euro nella tempesta

Non è sfuggito agli osservatori il fatto che, dopo una fase iniziale in cui è stato il rublo a essere maggiormente colpito, l’Euro è risultato finora la moneta più penalizzata dalle turbolenze del 2022. E la “crisi della crisi” e i rischi recessivi c’entrano non poco in tal senso. A inizio guerra scrivevamo che l’euro potrebbe essere il grande sconfitto di questa fase e contribuire alla recessione comunitaria, in quanto “può essere penalizzato in quanto facente riferimento, ora più che mai, a un’area geopolitica di secondo piano; può veder ridotto il suo raggio d’azione dall’assenza di una vera politica di mutualizzazione del debito che crei a livello europeo un asset finanziario sicuro; infine, diventa una valuta in termini relativi più esposta, assieme alle banche del suo sistema e all’economia nel suo complesso, alle brusche fluttuazioni del tasso di cambio”. Così è stato.

Un’Europa con una moneta in relativo indebolimento e ora in sostanziale parità col dollaro che paga materie prime e prodotti a mercati esteri denominandoli in valute terze e si trova di fronte a rischi recessivi e inflattivi interni è un’Europa fragile. L’Euro è una questione derivata dell’economia continentale ma può essere una delle chiavi per far tornare, gradualmente, il Vecchio Continente nel solco dei mercati di riferimento del pianeta. L’Europa dovrebbe capire il ruolo geopolitico della moneta, iniziare a utilizzarlo con forza negli acquisti energetici e negli accordi commerciali, utilizzarlo come alleato ma non subordinato del dollaro mentre il mondo va verso il decoupling tra gli Usa e i suoi rivali. Bisogna uscire dalla mentalità Anni Ottanta della svalutazione competitiva che legge tutto il contesto valutario in termini di volano all’export per le monete indebolite: dai chip al petrolio, dal gas alle derrate alimentari, l’Europa paga di più i fattori produttivi di cui ha maggiore bisogno in questa fase e un rafforzamento, monetario e politico, dell’euro è una delle chiavi per evitare la crisi assieme al rifiuto di nuova austerità. L’alternativa è morire d’ingavia o per colpa di ricette già sperimentate in forma fallimentare in passato.

(Im)preparati alla guerra: tutti i limiti della Difesa Ue. Paolo Mauri su Inside Over il 20 luglio 2022.

A metà settembre del 2021 la presidente della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen, durante il discorso sullo stato dell’Unione al Parlamento riunitosi a Strasburgo, ha affermato che “abbiamo bisogno della Difesa europea” riportando nell’agenda dell’Ue l’esigenza di dotarsi di una Difesa comune.

La causa scatenante è stata la gestione unilaterale, da parte degli Stati Uniti, del ritiro dall’Afghanistan, che ha sostanzialmente escluso gli Alleati facenti parte della Nato dai processi decisionali dell’operazione di evacuazione di Kabul. Allora l’attuale crisi ucraina appariva solamente un lontano spettro, e sul tavolo dell’Unione era giunto il dossier per stabilire un primo contingente militare condiviso che dovrebbe andare a costituire una Expedition Force, ovvero una forza di primo intervento da inviare in aree di crisi. Una forza più ampia rispetto al primo Eu Battlegroup composto da 1500 unità: avrà una consistenza di almeno cinquemila uomini ed il suo quartier generale, pensato come un comando permanente, sarà a Bruxelles.

Contestualmente, in quella occasione, la presidente aveva tenuto a sottolineare la necessità di avere un “Joint Situational Awareness Center”, ovvero un centro comune che raccolga e metta a sistema tutte le informazioni delle varie agenzie di intelligence europee, che sino a oggi hanno sempre agito un po’ troppo in modo indipendente e slegato le une dalle altre. Parallelamente era stata individuata la necessità di approcciarsi al fronte del Cyber Warfare in modo più coordinato, per aumentare la propria sicurezza cibernetica al punto da far diventare l’Ue leader nel settore: qualcosa di raggiungibile attraverso la definizione del nuovo “Eu Cyber Resiliant Act” che permetterebbe di avere una legislazione unica in merito. Senza dimenticare lo Space Warfare, tornato prepotentemente in auge per via dei maggiori assetti spaziali schierati dalle potenze avversarie che comprendono anche sistemi “killer” per contrastare le capacità satellitari.

Lo scoppio del conflitto in Ucraina ha rimescolato le carte, costringendo l’Ue ad affrontare il tema della Difesa comune in modo molto più approfondito: l’11 marzo 2022, a Versailles, sono state elaborate nuove linee guida per intraprendere le azioni a breve, medio e lungo termine necessarie per ovviare alle carenze esistenti nell’Unione in questo ambito. Queste sono state individuate, in linea generale, nei tagli ai bilanci dopo il termine della Guerra Fredda, che hanno ricevuto un ulteriore giro di vite in occasione dapprima della crisi economica del 2008 e successivamente dallo scoppio della pandemia, e nella troppa enfasi posta sulle operazioni fuori area che ha portato con sé la scarsa (o nulla) attenzione rispetto alle forze terrestri pesanti (meccanizzate/corazzate/artiglieria). Come diretta conseguenza si è assistito al taglio del personale, alla riduzione del numero di mezzi (con impatto nell’industria europea) e delle scorte di materiali, che infatti ora, con l’invio di aiuti militari all’Ucraina, stanno preoccupando i governanti non solo di oltre Atlantico.

Occorre quindi migliorare non solo la quantità e la qualità degli strumenti militari dell’Ue, ma anche l’attività di coordinamento per il procurement militare: nonostante, da tempo, in Ue esistano degli organismi preposti per la messa a sistema del comparto Difesa, come l’Occar (Organisation Conjointe de Coopération en matière d’Armement), l’Agenzia Europea per la Difesa, la Pesco (Permanent Structured Cooperation), a cui si è affiancato il recente European Defense Fund (Edf), la maggior parte dei Paesi europei continua a preferire la via “autarchica” motivata dalla salvaguardia dell’industria nazionale e della sovranità.

Il doppio binario dei caccia

La situazione, anche per questo, non è rosea: in Europa, per fare un esempio, in questo momento ci sono due programmi per la costruzione di un caccia di nuova generazione (Tempest e Scaf – Système de Combat Aérien du Futur), con quello anglo-italo-svedese (e presto giapponese) che dimostra maggiore flessibilità progettuale e una migliore tabella di marcia, anche in considerazione del know how accumulato da Italia e Regno Unito nella partecipazione al programma Jsf (F-35). Una duplicazione che porta con sé una concorrenza interna controproducente (e dannosa per l’industria) insieme a una futura linea logistica “doppia”, quindi con dispendio di risorse e difficoltà di interdipendenza: problemi visti anche in Ucraina per le armi occidentali.

La mancanza di mbt

Dal punto di vista delle forze terrestri, se possibile, la situazione è ancora peggiore: negli eserciti dell’Europa occidentale il numero degli Mbt (Main Battle Tank) è drasticamente crollato col termine della Guerra Fredda. La Repubblica Federale Tedesca a metà degli anni ’80 aveva a disposizione 5mila tank composti da Leopard 1 e 2 e da M-48 modernizzati, mentre l’Italia poteva contare su 1200 tra Leopard 1, M-60A1 e circa 500 vecchi M-47. Oggi Berlino ha in servizio 224 carri Leopard 2 la cui operatività è tutta da dimostrare stante le difficoltà strutturali della Bundeswehr dove il tasso di efficienza dei mezzi, siano essi aerei, terrestri o navali, è preoccupante, e in alcuni momenti relativamente recenti è stato anche disastroso.

Guardando alle forze corazzate del nostro Paese la situazione non sembra essere migliore: dei 200 Mbt Ariete C1 si stima che solo la metà siano davvero pronti al combattimento. Anche se l’età dei carri occidentali non si discosta molto da quella dei mezzi russi, la situazione è allarmante: l’ultimo Leopard 2 è uscito di fabbrica nel 1992, mentre nel 1986 veniva completato il prototipo dell’Ariete C1. Il carro armato più moderno che può schierare l’Ue è il francese Leclerc, che ha cominciato a essere prodotto nel 1991. Quindi tutti gli Mbt dell’Europa occidentale hanno alle spalle almeno 30 anni di servizio, se pur avendo subito continui aggiornamenti più o meno profondi.

Una situazione a cui va posto rimedio. Il programma Main Ground Combat System (Mgcs), il progetto franco-tedesco per un nuovo mtb che dovrebbe rimpiazzare nel 2035 i Leopard 2 tedeschi e i Leclerc francesi e che potrebbe essere esteso ad altri partner, come l’Italia e la Spagna, naviga ancora in alto mare, per le solite questioni legate alla sovranità nazionale e sicurezza industriale.

Il problema dei bilanci

Se guardiamo ai bilanci, la situazione è, forse, ancora peggiore: il conflitto in Ucraina ha dato una “scossa”, ma all’interno dell’Ue (salvo alcune eccezioni) si fatica anche solo a raggiungere quel 2% del Pil per la Difesa consigliato dalla Nato. I dati, da questo punto di vista, sono impietosi: l’Unione, tra il 1999 e il 2021, ha registrato un incremento medio delle spese per la Difesa pari al 19,7% a fronte del 65,7% del bilancio Usa, del 292% di quello russo e del 592% di quello cinese. Per recuperare il terreno perduto occorrerà uno sforzo prolungato e costante, e i malumori interni non mancano.

Questo denaro, poi, dovrà essere investito internamente all’Ue per poter sviluppare la capacità di ricerca e sviluppo locale: da questo punto di vista, quindi, mal si adattano le decisioni di Germania, Polonia e dei Baltici di “fare la spesa” oltre Atlantico. L’acquisto interno congiunto di sistemi d’arma, in uno sforzo comune guidato da Bruxelles, consentirebbe di riequilibrare anche la bilancia euroatlantica erodendo il peso degli Stati Uniti nel Vecchio Continente: qualcosa che a Washington non vogliono propagandando la duplicazione degli assetti e la centralità della Nato, sostenuta dal Regno Unito sotto Brexit ma ancora legato alle sorti dell’Ue.

L’Unione, per gestire meglio la spesa in modo unitario, prevede la definizione, entro il 2022, di un regolamento chiamato European Defence Investment Programme (Edip) che stabilirà le condizioni per la nascita di cooperazioni tra i Paesi membri, definendo anche le agevolazioni finanziarie, ma quello che davvero manca all’Ue, al di là di enti e agenzie, è una politica estera comune.

Il peso della Difesa comune

Avere una Difesa comune significa infatti, oltre che avere una base industriale comune con compiti diversificati e specializzati, avere una politica estera comune. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che fa capo al Consiglio dell’Ue, non assume ancora quel ruolo unitario di rappresentanza di tutti i Paesi aderenti, che, come logico, perseguono le proprie politiche negli affari esteri.

Il problema principale, qui, è quello che si riscontra anche nella Nato: accomunare le visioni strategiche in politica estera (e quindi anche nella Difesa), di un numero elevato di Paesi è molto difficile, quasi impossibile. L’esempio dell’Alleanza Atlantica è calzante: tra i suoi 30 aderenti non ci sono le stesse percezioni di minaccia alla propria sicurezza, coi Paesi dell’est europeo che guardano con molta preoccupazione alla Russia e quelli mediterranei che vorrebbero porre l’attenzione anche al “Fronte sud”. Ora bisogna immaginare, guardando alla carta geografica dell’Ue, la riproposizione dello stesso meccanismo ma senza un “padrone” come gli Stati Uniti che, in ultima istanza, decide il da farsi.

Ci sono cenni di risveglio dal torpore causati dalla guerra in Ucraina, e quanto uscito dal vertice di Versailles lo dimostra, ma la strada verso la definizione di una Difesa Ue, quindi anche del miglioramento dello strumento militare europeo, è tutta in salita e dipende principalmente dalla scarsa voglia di rinunciare a piccole parti della propria sovranità per mettere a sistema competenze e capacità.

Le guerre culturali dell’Unione europea. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 19 luglio 2022.  

Nel 1991, il celebre sociologo americano James Davison Hunter scrisse un saggio molto fortunato, intitolato “Culture Wars: The Struggle to Define America” (Le guerre culturali: la lotta per definire l’America), incentrato sulle “guerre culturali” che polarizzavano il dibattito politico come l’aborto, i diritti delle persone Lgbt, la religione delle scuole pubbliche e altri temi simili. Trent’anni dopo, quelle “guerre culturali” si sono espanse e hanno definito la nuova “politica dell’identità” che divide progressisti e conservatori in linee di faglia sempre più profonde e radicate. In Teoria del Partigiano, il giurista tedesco Carl Schmitt, affermava che “la guerra dell’inimicizia assoluta non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”.

Se pensiamo alle polarizzazioni radicali della politica americana – suprematisti bianchi da un lato, Black Lives Matter dall’altro o gli assaltatori di Capitol Hill e gli Antifà – la sensazione è che le guerre culturali di oggi possano arrivare a “estreme conseguenze” proprio perché a questo senso di “inimicizia assoluta” non vi è alcuna limitazione. Cos’è cambiato rispetto al 1991, dunque? In primo luogo, la politica al tempo sembrava di poter essere un veicolo attraverso il quale risolvere questioni culturali divisive; ora accade l’esatto contrario e la politica è principalmente alimentata dalla divisione sulle questioni più “identitarie”.

I dibattiti ora riguardano punti di vista inconciliabili su questioni relative a valori, norme e simboli: l’avversario politico è diventato il “nemico”, con tutte le conseguenze del caso. In secondo luogo, le guerre culturali oggi non riguardano solo la società americana, ma anche il Vecchio continente. Negli ultimi anni, infatti, una serie di controversie relative a questioni religiose, culturali e identitarie hanno caratterizzato il dibattito pubblico europeo sia a livello comunitario che nazionale. Esempi? Il dibattito sullo hijab Francia e quello sull’aborto in Portogallo, il riconoscimento dei matrimoni omosessuali in molti Stati dell’Europa occidentale, il dibattito sulla bioetica e la regolamentazione dell’eutanasia, oltre ai diritti Lgbtq.

Le guerre culturali europee

Secondo il politologo polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz, sebbene tutti i Paesi dell’Unione europea abbiano sposato il libero mercato e la democrazia liberale, nel continente persistono profonde differenze culturali. I Paesi dell’Europa occidentale, ad esempio, tendono ad essere “woke” e politicamente corretti  – o quantomeno le rispettive élite politiche e- mentre l’est si oppone attivamente alle “innovazioni culturali imposte da Bruxelles”. Basti pensare, ad esempio, a quanto hanno fatto discutere nell’opinione pubblica dei Paesi occidentali la decisione di Varsavia di vietare di trattare tematiche Lgbtq nelle scuole o alla scelta di Bruxelles di congelare i fondi Ue per quei territori della Polonia che si sono dichiarati “liberi dall’ideologia Lgbt”.

O ancora, al braccio di ferro fra l’Unione europea e l’Ungheria sulla legge “anti-Soros” e sulla chiusura dell’Università legata al magnate liberal della finanza. Senza contare la questione migranti, che divide profondamente i Paesi dell’Europa occidentale da quelli dell’est.

Frizioni con l’est “illiberale”

Le maggiori tensioni riguardano la sessualità e diritti dei gay. Budapest ha da poco approvato una legge anti-Lgbt che vieta le rappresentazioni di qualsiasi orientamento sessuale diverso da quello etero, spingendo una parte dell’opinione pubblica occidentale a chiedere di cacciare l’Ungheria dall’Unione europea.  Guardando la cartina geografica, nota Jan Chodakiewicz, in un certo senso, quindi, “l’Unione Europea è come gli Stati Uniti”, con gli stati rossi, da un lato, e gli stati blu, con le coste e le loro grandi città, da a una parte, e le periferie dei grandi centri urbani dall’altra.

Inoltre, riflette, “ci sono enclavi urbane liberali blu, ad esempio Budapest e Varsavia, entrambe governate da liberali. Allo stesso modo, ci sono enclavi rosse, nella palude blu dominante, ad esempio nella regione occidentale della Vandea in Francia”. Infatti, in generale, “nell’elettorato della parte orientale dell’Ue prevalgono atteggiamenti socialmente e culturalmente conservatori. Per questo motivo e per l’eredità dell’occupazione comunista sovietica, questi popoli sono meno desiderosi di sperimentare l’ingegneria sociale e l’innovazione culturale, come la teoria critica della razza, i diritti Lgbtq e altri fenomeni simili”. Da una parte, dunque, le grandi città europee multiculturali e “woke”, influenzate dai liberal statunitensi: dall’altra nazioni che dal punto di vista geopolitico sono più legate all’America di quanto non lo siano verso Bruxelles – come la Polonia, cardine della “Nuova Europa” – guidate da una classe dirigente conservatrice e fieramente anti-progressista. I paradossi di un’Unione europea a cui non basterà la guerra in Ucraina per sentirsi davvero “unita”.

Luca Josi per Dagospia il 23 luglio 2022.

In questa scombiccherata e tragica crisi c’è il sospetto che scopriremo un po’ più in là una cosa banalissima, un fattore che avrà influenzato tante delle scelte che oggi ci appaiono platealmente schizofreniche. Il materialismo è il pezzo forte del marxismo; una specie di pietra filosofale capace di ricondurre ogni azione umana all’influenza del denaro e dei rapporti economici (perdonate la rozza riduzione del concetto). 

Oggi, acquisita l’idea che viviamo in un sistema di valori fortemente orientato dai soldi - “tutto ha un prezzo (perché tutto ha un costo)!” -  è singolare che questo principio esistenziale valga solo per alcuni modi di esistere e non per altri (come se nello stesso mondo taluni fossero soggetti a certe leggi di gravità mercantili, tipo le escort o i calciatori, e altri, come gli intellettuali del sapere, dell’informazione o gli attori della politica, no).

Nel novecento un genio, abbastanza del male (categoria ondivaga), Willi Münzenberg, consigliò prima a Lenin e poi a Stalin d’impegnarsi, sì, nella costruzione di armi tradizionali e letali, ma di concentrarsi soprattutto sui vantaggi che le democrazie e le società aperte aprivano loro. 

Una società chiusa è controllata e monitorata su tutto ciò che il regime non vuole circoli tra i suoi cittadini; la società aperta, invece, è per definizione permeabile e penetrabile dalle influenze esterne; la si può infiltrare senza tanto clamore essendo assai difficile distinguere quello che è un vitale diritto di critica da una provocazione strumentale diffusa in modo organizzato.

Chiamatela propaganda o come volete, ma funziona più o meno così: tu Occidente - un esempio a caso - rappresenti la società di mercato, i tuoi cittadini vivono di libertà e anelano al benessere. Un competitore di quella stessa società, teorizzava Münzenberg, può utilizzare, come nello Judo, la forza dell’avversario - l’accoglienza al dibattito e alla diversità - per rovesciargliela addosso: “sei aperto alle politiche dell’ambiente?

Stressa al suo interno gli ambientalismi e impantana tutti i processi produttivi! La tua società è aperta al confronto sociale? Fai esplodere tutti gli “ismi” possibili delle rivendicazioni sociali e porta la stessa all’impasse!”. All’inizio del secolo il mondo dell’Est applicò tutto questo nel campo dell’ambiente, del lavoro, dei diritti e anche bellico, finanziando i movimenti pacifisti occidentali, mentre e Est si armavano a spron battuto (e non di fionde; e ai loro concittadini non era consentito esprimere alcuna critica verso le politiche belligeranti dei propri governi e ancor meno nei confronti delle pratiche industriali, domestiche, altamente inquinanti).

Ma quanto costa un’arma? Domanda generica: sistemi d’armi complessi, come una portaerei - che si muove con le sue migliaia di persone specializzate, decine di aerei, e una flotta di navi e sommergibili al seguito – valgono svariati miliardi di dollari. Un missile di quelli sparati sull’Ucraina dovrebbe costare tra gli uno e i due milioni di dollari. Una stima, per difetto, del costo quotidiano della guerra, per la Russia, è superiore ai 230 milioni di dollari; la spesa militare russa pare essere di 65,9 miliardi di dollari; quella cinese di 293. 

Münzenberg sosteneva questo: alle società occidentali puoi far paura in tanti modi: gli mostri quanto sei violento, come sopprimi i diritti e la tua capacità di muovere i carri armati come vagoni della metropolitana. Loro - noi occidentali - possono indispettirsi e reagire (ma il calcolo è che le società dei diritti si ammorbidiscano e tendano, sempre più, a cercare punti di ragionevolezza e incontro per non usare le armi, anche di fronte a palesi soprusi).

E qui Münzenberg acuisce il suo ragionamento: perché non rinunciare a qualche obice, cingolato, aereo o fregata e investire direttamente quei soldi per modificare, da dentro, l’opinione di quelle società prima che siano le armi a indurle a una, ispirata, riflessione? In Italia, per esempio, in piena guerra fredda, a pagare molti autobus, striscioni e panini dei cortei e delle marce della pace contro i perfidi Cruise e Pershing occidentali fu il compagno Ponomariov, Direttore del Dipartimento internazionale del PCUS (ovvero: un SS-22 russo in meno e cento marce della pace in più! In occidente, ovviamente).

Essendo la storia del mondo, non solo occidentale, ma planetaria, sensibile alle corruzioni dei principi, la dottrina Münzenberg trovò un’autostrada. Tutta la guerra fredda è stata infettata da quei soldi (direte: ma anche gli americani lo facevano. Sì, ma gli americani eravamo diventati anche noi, cioè il mondo libero, quello che con migliaia di contraddizioni distribuiva progresso e crescita; certo la modernità inquina, ma nel suo progresso porta anche soluzioni, diversamente dal regresso; guardate le fabbriche a Est …). 

Quindi come funziona il meccanismo? Più o meno così. Se hai una classe politica che per allungarsi la vita è pronta a vendersi la mamma o almeno ad affittarla - mentre si racconta gravida di grandi progetti e moralizzazioni, tra scontrini e rimborsi - ritenete sia capace di opporre un muro a ogni tentazione e di mostrarsi resistente, refrattaria e impermeabile a qualsiasi aiuto e contributo (di fronte all’ineluttabile principio di realtà fatto di mutui della casa, di rate dell’auto e del frigo)? Direi di no.

Nei trent’anni dalla fine della guerra fredda è successo di tutto. Verso l’alto e verso il basso. Con la scusa della politica abbiamo avuto persone che con la geopolitica hanno moltiplicato le loro ricchezze giocando al risiko dell’energia e aprendo il nostro Paese a ogni scorribanda d’interessi (e così oggi, molti di quei protagonisti, immagino, vivono nel terrore di svegliarsi al mattino con la testa di un cavallo tra le lenzuola – regia di Francis Ford Coppola, se hanno il cavallo - e li capisco; sono tempi in cui gli ottimati dell’energia dell’est muoiono come mosche in una progressione degna di una sequenza di Fibonacci). Ci sarebbe da sorridere se non fosse drammatica, per amor patrio, la parata della solidarietà russa a cui assistemmo in tempi di Covid e tanto altro.

E ancor più comici sono gli isterici cambi di maglia di chi nell’arco di qualche stagione ha attraversato ogni sorta di populismo per poi mostrarsi, oggi, felpato, azzimato navigatore della mediazione; essendo però la natura del contratto quella di Münzenberg, attenzione alle mosse dei vari cavalli, di Troia (per qualità e dimensioni parliamo più di cavallini, a dondolo); una volta presi, i servizi - monetari, d’informazioni o di semplice sostegno - il debito rimane e il richiamo della cambiale si aziona, da remoto, quando serve, in ogni momento. 

Amici russi, nel dopo ’92, mi raccontavano una barzelletta che da loro andava per la maggiore: “Lo sai che differenza c’è tra un politico e una mosca? Nessuna. Si ammazzano entrambi con un giornale” o comunque si è dimostrato, con certa scientificità, che un modo per limitare l’azione di qualunque dissenso, di chiunque, lo si trova.

Bene. Nel pallottoliere della partita “Europa contro Est” i meme segnano due set a zero per i secondi (per avere ottenuto le dimissioni di Johnson e Draghi). Sarà, comunque l’Occidente, con il suo modello di vita, stravince: numero degli oligarchi con ville, panfili e depositi bancari a Ovest? Svariate migliaia; numero di miliardari occidentali con dacie, yacht e conti su banche dell’Est? Zero (e comunque, anche Ponomariov, pagava in dollari perché, già allora, i rubli non li voleva nessuno). 

Nella sintesi: per ora hanno aiutato (forse …) qualche partito, ci hanno comprato qualche azienda e certamente tante magioni. Fermiamoci lì. Le nostre libertà e il nostro modo di vivere valgono, molto, molto di più. Benvenuti nella nuova guerra tiepida (dove tutti i cretini vengono al pettine).

Domenico Quirico per “La Stampa” il 16 luglio 2022.

Alla fine, come dubitarne, le democrazie e l'arte occidentale della guerra prevarranno. Ma... Al quinto mese di guerra in Ucraina alcuni conti non tornano, si intravedono, più acremente, cattivi indizi profetici. 

Per esempio: che Putin è sempre saldamente al potere mentre due dei suoi più fervidi avversari, Johnson il leone britannico, e Draghi, l'uomo del celebre pellegrinaggio in treno a Kiev, sono caduti, azzoppati dalle infinite e virtuose trappole della democrazia parlamentare. Impiccio di cui Putin non deve certo fare conto. Per la verità anche un altro uomo del triunvirato del treno, il presidente francese Macron, monarca repubblicano, è dimezzato da un destino elettorale infausto che ne limita le possibilità di manovra. 

Insomma al Cremlino festeggiano. E scrutano altri Palazzi, in Europa e soprattutto negli Stati Uniti, dove i locatari potrebbero essere in breve tempo costretti a occuparsi piuttosto che delle offensive di Zelensky della loro sopravvivenza politica.

Putin vi scorge, è certo, la conferma della teoria su cui ha imbullonato questa azzardoso e spietato assalto all'Occidente. Ovvero il disprezzo per le democrazie troppo sfacciatamente accanite, secondo lui, a vivere e accudire il proprio ossessivo ed egoistico benessere per avere la forza di affrontare sul serio una guerra vera, impastata di sangue, sacrifici, lutti, povertà. 

Insomma l'Occidente è solo uno ziggurrat dedicato alla gioia di consumare. E questo consumare è il suo ottavo peccato capitale e l'inferno in cui vuole precipitarlo. Lui ha tenuto i russi nella povertà, negandogli il burro in cambio dei cannoni; è sicuro che alla fine vincerà. E vedrà cadere uno dopo l'altro, scarnigliati non dalle sconfitte militari visto il trucco di far la guerra, almeno per ora, da dietro le quinte ma dalla quotidiana usura della aspra crisi economica.

Il Pil che ci ha reso grandi ci ucciderà. Un concetto, o una drammatizzazione allucinatoria, che Putin ha estirpato non dalla faticosa lettura di qualche bislacco ''raskolnico'' slavofilo sopravvissuto a tutte le catastrofi della santa madre Russia. Semmai fa parte della ben conservata reliquia genetica del buon senso staliniano, modello Kgb. 

Stalin disprezzava gli occidentali, l'unico per cui provava un categoriale rispetto era Hitler che come lui aveva il coraggio di massacrare senza batter ciglio milioni di persone. Sono passati già cinque mesi e tra salme di città ucraine e voti di sfiducia europei srotoliamo l'angoscia per una realtà che sembra dar ragione allo zaretto.

Spariscono volti del pianeta democratico, restano quelli elementari, tremendi, colmi di un selvatico, tetro potere dell'altra parte: Putin, Lavrov, la Zacharova. Alcuni cremlinologi ed economisti salivosi, fermi alle arie del Boris Godunov, ci avevano assicurato che Putin avrebbe resistito al massimo qualche settimana tra golpe, congiure, malattie, default catastrofici di banche centrali e periferiche, armate sconnesse, gasdotti divenuti inutili e goffi fast food alla sovietica senza patatine. 

Avevano una chiave per aprire tutto. E invece... È il "podpol'e'', il sottosuolo delle democrazie che è scheggiato, ma non per l'andamento della guerra che pure non è soddisfacente. Armi e soldi occidentali sembrano fondere sotto l'avanzata russa, implacabile come un destino crudele. Si muovono gli strati profondi, disarcionando i leader, per gli effetti indiretti della guerra, per l'economia: prezzi delle materie prime, inflazione, caos nei mercati globali che la nuova guerra fredda ha tagliato come vene.

Confessiamolo: è la Gazprom la vera arma segreta di Putin a cui non riusciamo da cento e più giorni a metter davvero rimedio. Per aggirarla ci affratelliamo, rendendoli ancora più ricchi e saldi nel vergognoso potere, a una bordaglia di cleptocrati di ogni continente, dall'Algeria all'Angola all'Azerbaijan, all'Arabia Saudita, insudiciandoci. 

Tutto per non dover spiegare con lealtà alle opinioni pubbliche democratiche che non ci sono guerre giuste ma semmai guerre necessarie. E che sono una ragione per affrontare con dignità e coraggio sacrifici ben più duri che i due gradi in meno del termosifone. Ci vuole coraggio per dirlo, ma è più dignitoso cadere per questo che per un party alcolico o la bega del termovalorizzatore. E solo così i tiranni come Putin, alla fine, perdono la guerra.

Le dimissioni di Boris e Mario? È la democrazia bellezza…Dimitry Medvedev, il “Joker” del regime putiniano, irride l’Occidente per le crisi di governo. Perché Mosca non comprende le società libere. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 16 luglio 2022.

Prima è toccato a Boris Johnson, ora a Mario Draghi. Nel giro di pochi giorni Londra e Roma si ritrovano improvvisamente senza una guida politica. Chi travolto dagli scandali e dalle vendette dei propri compagni di partito, chi dai piccoli calcoli dei propri alleati. Fatto sta che nel pieno della crisi internazionale più grave degli ultimi vent’anni sono caduti i governi di due grandi Paesi della coalizione occidentale.

Una circostanza che ha suscitato sprezzanti sarcasmi nei dintorni del Cremlino. In particolare da parte di Dimitry Medvedev, il “Joker” del regime putiniano che dopo anni di profilo basso all’ombra del capo sembra aver scoperto una seconda, virulenta giovinezza, fatta di insulti e sberleffi a ruota libera. All’indomani delle dimissioni di Johnson il vice presidente del Consiglio di Sicurezza russo sull’ormai imperdibile account Telegram aveva sdottoreggiato sulla «decadenza dei sistemi liberali», incapaci di garantire stabilità politica ai propri popoli per poi chiudere ironicamente: «Se ne va il migliore amico di Kiev, speriamo che arrivi qualcuno di più professionale». Stessa litania con la caduta di Mario Draghi: «Ora tocca anche all’Italia, chi sarà il prossimo a partire?».

Difficile spiegare come funziona una democrazia a chi mette in prigione gli oppositori politici e e giornalisti, modifica la Costituzione per poter governare all’infinito senza controcanto. Ma è doveroso provarci. Le crisi di governo non sono passaggi facili, a volte hanno costi elevati, specialmente durante una guerra, ma non è la fine del mondo, i principi dello Stato di diritto, del pluralismo e della rappresentanza popolare sopravvivono a ogni crisi da quasi 80 anni in tutte le nazioni democratiche. Anche quando al potere ci sono andati gli amichetti dello “zar” non siamo mai stati in pericolo di smarrire quei principi fondamentali.

L’idea è che chiunque governi lo farà dentro questa cornice di valori condivisi, che il lobbismo di Mosca e i fiumi di rubli versati per far inceppare la macchina non riusciranno mai a snaturare la nostra società. Che, con tutti i suoi limiti, è ancora capace di dare cittadinanza a opinioni diverse e contrarie a quelle dei governi e del mainstream mediatico, anche con una guerra in corso, persino di offrire visibilità a intellettuali contorti e strambi opinionisti che difendono “le ragioni della Russia”. Una fastidiosa rottura di scatole, è vero, ma se l’alternativa è il regime di Vladimir Putin, ci teniamo stretto anche il fastidio.

Difesa Ue: siamo i secondi al mondo come spesa, ma non siamo una potenza militare. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.

I Paesi dell’Unione Europea hanno deciso di aumentare le spese militari. Bisogna mantenere gli impegni presi durante il vertice Nato tenuto in Galles nel settembre 2014 e che stabiliva le regole per i Paesi aderenti: destinare alla Difesa il 2% del Pil e di impegnare il 20% del budget all’acquisizione di nuovi equipaggiamenti. Nel 2020 i paesi Ue tutti insieme nel 2020 avevano raggiunto quota 227,8 miliardi di dollari, pari all’1,5% del Pil, con un aumento della spesa totale del 21% rispetto al 2015. Nello stesso periodo gli Stati Uniti vantavano 766 miliardi di spesa e 1,35 milioni di soldati, la Cina 146 miliardi e 2,25 milioni di unità e la Russia 67 miliardi per 900 mila unità. Con la nostra spesa e con un milione e mezzo di soldati siamo virtualmente i secondi al mondo a livello miliare, ma non siamo una potenza mondiale perché non abbiamo una forza armata e una Difesa comune. 

Ognuno fa da sé, ma nessuno è autonomo

Oggi ogni Paese fa da sé ma, siccome in caso di aggressione nessuno è in grado di difendersi da solo, i trattati prevedono che se uno Stato membro viene attaccato gli altri sono tenuti a prestargli aiuto. Lo dicono l’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea (Tue) e il 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) sulla «politica di sicurezza e di difesa comune». Ma l’articolo 42 pone anche un limite: la sua attivazione non deve pregiudicare «il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri». Ovvero sono esclusi dalla cooperazione gli Stati storicamente neutrali, quali Danimarca, Austria, Svezia. Per tutti gli altri l’obbligo c’è, ma ognuno può scegliere come aiutare, per esempio decidere di non inviare forze in campo, ma limitarsi a fornire armi, intelligence, rifornimenti. Come stabilito anche da una decisione del Consiglio europeo del 2009, secondo cui «spetta agli Stati membri (…) determinare la natura della propria assistenza da fornire a uno Stato membro che sia stato oggetto di un attacco terroristico o vittima di un’aggressione armata sul proprio territorio». A questo si sovrappone l’appartenenza alla Nato che, invece, obbliga alla difesa collettiva se un membro viene attaccato (articolo 5), ed è l’unica ad avere una difesa aerea sovranazionale e coordinata. Ma non vale per Austria, Cipro, Finlandia, Svezia, Irlanda e Malta, poiché pur essendo membri dell’Unione, non aderiscono all’Alleanza (anche se la Finlandia in queste ore ci sta ripensando). 

Cosa prevedono i trattati

La «progressiva formazione di una politica di sicurezza comune» che potesse poi condurre una «difesa comune» è prevista dall’articolo 42 del Trattato di Maastricht e si è più volte tentato di metterla in atto. Ne aveva parlato la cancelliera Angela Merkel nel marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell’Unione, quando era presidente del Consiglio dell’Unione europea. Lo ha rilanciato il 14 luglio 2007 l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy durante la celebrazione della presa della Bastiglia. Nel settembre 2021, dopo la crisi in Afghanistan, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen era tornata sul punto per «dare più stabilità al nostro vicinato e nelle altre regioni» perché «se non si interviene in tempo nelle crisi all’estero, le crisi arriveranno da noi». Di fatto l’Unione Europea oggi non ha nemmeno una forza permanente che possa intervenire nelle situazioni di crisi al di fuori dei propri confini, nonostante i Trattati lo prevedano espressamente per adempiere alle Missioni Petersberg, introdotte dal Trattato di Amsterdam del 1997 che ha previsto l’embrione di una Politica Estera e di Sicurezza Comune (Pesc) con l’istituzione della figura dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza. Si tratta di missioni umanitarie e di soccorso, antiterrorismo, di ispezione sul rispetto dei trattati internazionali sul disarmo, stabilizzazione post-conflitto, mantenimento della pace e missioni di gestione delle crisi, fino a quelle di peace-keeping, peace-building, peace-enforcement. 

Cosa esiste oggi

Per adempiere ai Trattati si era disegnata, con gli accordi di Helsinki del 1999, una forza permanente di reazione rapida di almeno 60mila uomini (con altri 120mila per i ricambi) che potesse essere impegnata in zone di crisi fino a 4.000 km da Bruxelles. Doveva nascere entro il 2003, ma è rimasta lettera morta, e al suo posto sono invece nati nel 2007 i Battlegroups: sono 2 gruppi da 1500 uomini sempre operativi che si alternano a rotazione tra i Paesi membri ogni sei mesi, per un totale di 3.000 unità. Sono costituiti attorno a un battaglione di fanteria supportato da unità di trasporto, servizi e sostenimento in operazione. Dovrebbero essere pronti a partire entro 10 giorni dalla decisione politica, con un’autosufficienza operativa di almeno 30 giorni, ma ad oggi non sono mai stati schierati in alcuna operazione internazionale a causa della farraginosità dell’utilizzo, del numero troppo esiguo per le crisi internazionali e dalla mancanza di un budget europeo dedicato. I Paesi europei, però, partecipano a missioni all’estero. Oggi quelle attive sono in Bosnia e Kosovo, quelle africane di addestramento truppe locali (in Somalia, Mali, Repubblica Centrafricana, Niger), quelle di monitoraggio (Georgia, Iraq, Libia, Territori Palestinesi, al confine tra Moldova e Ucraina), di assistenza di polizia (Albania) e le due missioni di pattugliamento navale nel Mediterraneo e in Somalia. La partecipazione però è volontaria e non esiste una linea di comando che risponda direttamente alle istituzioni europee: ogni forza armata risponde allo Stato maggiore Difesa del proprio Paese, creando confusione. 

I tentativi di Eurocorps ed Eurofor

Gli unici tentativi di costruire una forza comune indipendente dai singoli stati sono quelli di Eurocorps ed Eurofor. Eurocorps nasce nel 1992 e comprende reparti provenienti da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Spagna. Il Comando ha sede a Strasburgo e nel suo Stato Maggiore ci sono anche ufficiali provenienti da Grecia, Italia, Polonia e Turchia. Conta 1.300 uomini e ha partecipato a missioni all’estero in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Mali, ma da sette anni svolge solo compiti di sicurezza al Parlamento europeo a Strasburgo.

Il freno a una forza armata europea è la mancanza di una reale volontà dei Paesi membri di devolvere a Bruxelles le leve della politica estera e militare.

Eurofor, invece, era una forza multinazionale europea a intervento rapido composta dai reparti di Francia, Italia, Spagna e Portogallo. Nata nel 1995, con base a Firenze, aveva come compito proprio l’espletamento delle Missioni Petersberg e rispondeva direttamente al Comitato militare dell’Unione europea. Fu impiegata con successo in Albania, Macedonia, Ciad e Repubblica Centrafricana, ma venne chiusa il 2 luglio 2012 dopo il ritiro della Spagna, preoccupata dal vento indipendentista della Catalogna. 

La futura forza armata europea

Secondo gli analisti il primo passo sarebbe quello di dare vita agli accordi di Helsinki con una forza di intervento rapido, distaccando permanentemente proquota le unità dalle forze armate dei singoli Paesi membri, con Francia, Italia, Germania e Spagna protagonisti. Questo dovrebbe essere il nucleo centrale da cui poi sviluppare una Forza Armata comune di difesa che, secondo uno studio commissionato dal Parlamento Europeo nel 2018, permetterebbe di rendere più efficienti le spese militari e di risparmiare 29,5 miliardi di dollari all’anno solo nei doppioni. Infatti, siccome ogni paese fa da sé, abbiamo sistema di difesa (antimissile, antiaereo) sei volte di più che negli Stati Uniti e molte sono inutili; 154 tipologie diverse di mezzi armati e 17 tipi di veicoli corazzati. Per gli aerei da combattimento ci sono quattro diversi progetti a livello europeo. Uno in corso dal 2019 tra Francia, Germania e Spagna; quello per gli F35 che comprende Italia, Paesi Bassi e Regno Unito; quello per lo sviluppo del caccia Tempest attivo dal 2019 tra Italia, Svezia e Regno Unito; infine quello svedese del jet Gripen, utilizzato anche da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia. 

Inoltre ogni Paese tende a favorire l’industria militare nazionale spesso statale (Leonardo e Fincantieri in Italia, Thales in Francia, Navantia in Spagna), che continua a sviluppare iniziative separate e su scala più ridotta. Questo spiega perché il mercato della difesa europeo è così frammentato. Secondo i dati dell’Agenzia europea della difesa (Eda), nel 2020 gli stati membri hanno speso solo 4,1 miliardi di euro su progetti comuni. 

Il nodo politico

Il freno a una forza armata europea è la mancanza di una reale volontà dei Paesi membri di devolvere a Bruxelles le leve della politica estera e militare. 

La Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), introdotta dal Trattato di Maastricht per consentire all’Ue una posizione coordinata e più forte a seguito dei cambiamenti geopolitici seguiti alla fine della guerra fredda, e poi rinominata Politica Comune di Sicurezza e Difesa (Pcsd), è gestita dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. Dal 2011 questa figura è anche al vertice del servizio diplomatico della UE, e della Agenzia Europea della Difesa (Eda). Ma i suoi poteri sono debolissimi. Principi, le decisioni vengono prese dal Consiglio dei Ministri e adottate solo all’unanimità. Nella pratica vuol dire non prendere posizioni in tema di politica estera, perché fra i 27 paesi membri, quasi mai sono tutti d’accordo.

Vladimir Putin, la guerra in Ucraina nasce da Barack Obama: il retroscena. Fausto Carioti su Libero Quotidiano l'11 aprile 2022.

Cadono gli dei. Angela Merkel è sotto processo politico in Germania, dove l'accusano di aver condotto una politica asservita agli interessi di Vladimir Putin. La prova regina è l'insistenza della cancelliera per la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2, che una volta entrato in funzione (è stata l'invasione dell'Ucraina a impedirlo) avrebbe reso Berlino ancora più dipendente da Mosca. Ma la Merkel, sul presidente russo, ha almeno il buon senso di tacere. Lo stesso non sta facendo l'altro nume occidentale degli anni passati: Barack Obama.

L'ex presidente degli Stati Uniti nei giorni scorsi ha parlato di Putin, col quale si confrontò durante gli otto anni del suo mandato (2009-2017). Ha detto di essere stato «incoraggiato» dalla reazione mostrata stavolta dai Paesi europei, perché nel 2014, dopo l'aggressione della Crimea, lui aveva dovuto «trascinarli mentre scalciavano e urlavano, affinché reagissero nel modo in cui devono farlo quelle che si definiscono democrazie occidentali».

Quanto alla crudeltà del presidente russo, Obama ha affermato di non sapere «se la persona che conoscevo» sia la stessa che oggi ordina i massacri degli ucraini. «È sempre stato spietato. Abbiamo assistito a ciò che ha fatto in Cecenia», ma cinque anni fa, ha assicurato, «non avrei previsto che potesse rischiare tutto in questo modo».

Parole che hanno fatto sobbalzare molti osservatori e ieri hanno ispirato un editoriale del Wall Street Journal, durissimo già nel titolo: «Barak Obama riscrive la sua storia russa». La pretesa di essere stato «un campione di severità contro la Russia», accusa il quotidiano, è infatti smentita dai fatti. Iniziando da ciò che accadde dopo l'invasione della Crimea e dell'Ucraina orientale, quando «la sua amministrazione impose solo lievi sanzioni alla Russia, e poi si unì a Mosca per negoziare un accordo nucleare con l'Iran». Obama si rifiutò anche di vendere le armi anticarro Javelin all'Ucraina, che Kiev ottenne invece durante la presidenza di Donald Trump. E in quello stesso periodo «la Germania portò avanti il gasdotto Nord Stream 2 senza che da Washington si levasse, fino all'amministrazione Trump, il minimo pigolio».

Nemmeno è credibile che Obama ignorasse i metodi di Putin. Il quale, ricorda il quotidiano d'area conservatrice, «è ritenuto essere giunto al potere bombardando degli appartamenti in Russia» nel settembre del 1999, ossia organizzando attentati ai danni dei propri connazionali (ne morirono oltre trecento) e dando poi la colpa ai terroristi ceceni, come sosteneva l'ex agente segreto russo Alexander Litvinenko, avvelenato e ucciso a Londra nel 2006. Tutte cose che l'intelligence statunitense, ai tempi di Obama, «senza dubbio sapeva o fortemente sospettava». Seguirono gli omicidi della giornalista Anna Politkovskaya e di Litvinenko, nel 2006, e l'invasione russa della Georgia, nel 2008. E la risposta di Obama quale fu? Nel 2009 inviò Hillary Clinton a Ginevra per concordare col ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, la «ripartenza» delle relazioni con Mosca. Nel 2012 accu sò il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney, di avere una politica estera retrograda, stile anni Ottanta, tanto da vedere ancora la Russia come una minaccia. Sempre in quell'anno, le telecamere lo colsero al vertice internazionale di Seoul mentre chiedeva al presidente uscente russo Dmitry Medvedev (di fatto un servitore di Putin) che Mosca non insistesse sulla questione dei missili nucleari fino alle elezioni americane; una volta rieletto, Obama garantiva che avrebbe avuto «più flessibilità» nel gestire la faccenda. «Trasmetterò questa informazione a Vladimir», gli rispose Medvedev. Quindi, nel 2015 e nel 2016, ad Aleppo, in Siria, l'esercito russo usò (anche sui bambini) le bombe a grappolo, vietate dai trattati internazionali. Come può Obama, adesso, dirsi stupito da ciò che sta accadendo in Ucraina? Il Wall Street Journal chiude il commento avvertendo che «la debolezza di Obama, assieme a quella dell'ex cancelliera tedesca Angela Merkel, è una delle ragioni per cui Putin ha ritenuto di poter agire con crescente aggressività e farla franca». Critiche simili non giungono solo dal fronte conservatore. Quattro anni fa la Brookings Institution, un "pensatoio" di area liberal, ha pubblicato un documento intitolato «Non riabilitate Obama sulla Russia», nel quale lo incolpa di avere «costantemente sottovalutato la sfida posta dal regime di Putin». Famosa la frase con cui, dopo l'attacco alla Crimea, l'allora presidente degli Stati Uniti liquidò la Russia come «una potenza regionale che sta minacciando alcuni dei suoi vicini immediati non per forza, ma per debolezza». Il problema, purtroppo, non riguarda solo la faccia tosta di Obama. Molti degli uomini che hanno lavorato assieme a lui, e sbagliato clamorosamente nel giudicare Putin e la Russia, oggi fanno parte dell'amministrazione di Joe Biden e disegnano la politica estera del presunto leader dell'Occidente.

Lo sdegno mondiale provocato dalla tragedia dell'Olocausto, però, non ha impedito che nel Dopoguerra venissero compiuti nuovi massacri indiscriminati ai danni della popolazione inerme. Dal massacro di My Lai ad opera dei soldati americani in Vietnam a quello di Srebrenica commesso dalle truppe serbo-bosniache, ecco alcuni degli episodi più drammatici. Gianni Rosini su Tempo il 6 aprile 2022.  

La storia europea è costellata di massacri commessi da eserciti o milizie paramilitari ai danni di civili. Solo in Italia, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si ricordano tra gli altri l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema o quello delle Fosse Ardeatine, nel Vecchio Continente quelli nel ghetto di Varsavia o la Notte dei Cristalli in tutta la Germania nazista. Lo sdegno mondiale provocato dalla tragedia dell’Olocausto, però, non ha impedito che nel Dopoguerra venissero compiuti nuovi massacri indiscriminati ai danni della popolazione inerme. Eccidi che assomigliano tutti a quello di Bucha, ma che, nonostante siano rimasti vividi nell’immaginario collettivo, non sempre sono riusciti a imprimere un cambio di rotta ai conflitti o a favorire un cessate il fuoco. Dal massacro di My Lai ad opera dei soldati americani in Vietnam a quello di Srebrenica commesso dalle truppe serbo-bosniache, ecco alcuni degli episodi più drammatici che hanno fatto la storia delle guerre dal Dopoguerra ad oggi.

MASSACRO DI MY LAI (VIETNAM, 1968) – La Guerra del Vietnam era ormai agli sgoccioli, gli Stati Uniti e i suoi alleati l’avevano persa. E già lo sapevano. Il 16 marzo 1968 i soldati americani si resero protagonisti di uno dei massacri ai danni della popolazione civile inerme più sanguinosi della loro storia recente. A My Lai, una frazione del villaggio di Son My, nel Vietnam centro-meridionale, i militari di Washington, in seguito a uno scontro a fuoco con truppe di Viet Cong, si scagliarono contro la popolazione rendendosi protagonisti di torture e uccisioni di massa indiscriminate nei confronti di uomini, donne, anziani e bambini. Nessuno venne risparmiato, fino a quando a intervenire fu proprio l’equipaggio di un elicottero americano in ricognizione che si mise tra i carnefici e le loro vittime, puntando i mitra contro i compagni in armi e minacciandoli di aprire il fuoco se non avessero messo fine al massacro. Secondo quanto ricostruito, con questo intervento i membri dell’esercito Usa riuscirono a salvare la vita a 11 persone, ma sul terreno rimasero 504 vittime innocenti.

Le indagini sull’eccidio di My Lai vennero condotte da un giovane Colin Powell, poi diventato noto al mondo da Segretario di Stato americano quando mostrò all’Onu le false prove del possesso di armi chimiche da parte di Saddam Hussein, ma non portarono a nessun risultato concreto. Anzi, tornando in patria sostenne che non esisteva alcun problema nelle relazioni tra i militari americani e i civili vietnamiti. Una versione che sarà poi sconfessata da una successiva inchiesta del giornalista premio Pulitzer, Seymour Hersh, che svelò al mondo la verità su quel genocidio.

MASSACRO DI SABRA E SHATILA (LIBANO, 1982) – La notte del 16 settembre 1982, il cielo di Beirut sopra i campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila vennero illuminati a giorno dai bengala dell’esercito israeliano che circondava le enormi tendopoli. Stavano aprendo la strada alle milizie falangiste affamate di vendetta dopo l’attentato al presidente del Libano e loro leader, Bashir Gemayel, compiuto dai servizi segreti siriani in collaborazione con le milizie palestinesi. Da giorni il ministro della Difesa di Tel Aviv, Ariel Sharon, denunciava la presenza di 2mila combattenti fedeli a Yasser Arafat rimasti nel Paese dopo il ritiro definitivo annunciato all’inizio di settembre, in piena guerra civile libanese. Le truppe israeliane, così, accerchiarono i campi profughi poco dopo la partenza degli eserciti occidentali, mentre le Falangi si stabilirono nelle aree immediatamente adiacenti. L’uccisione di Gemayel fece esplodere la furia dei suoi seguaci, in una situazione già ad altissima tensione.

La sera del 16 settembre le milizie entrarono nei campi profughi palestinesi e ne uscirono solo al mattino del 18. In mezzo ci furono le donne violentate, i ventri squarciati di quelle incinte, i bambini seviziati a morte e centinaia di giovani e anziani giustiziati, con i loro corpi accatastati in montagne di carne umana o sparsi per le vie dei due campi. Sul terreno rimase un numero imprecisato di vittime palestinesi innocenti: alcune stime parlano di 700, altre arrivano addirittura a 3.500. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite definì il massacro “un atto di genocidio”. La successiva commissione Kahan riconobbe la diretta responsabilità delle Falangi libanesi e quella indiretta, elemento che provocò non poche critiche, dell’esercito israeliano, del primo ministro Menachem Begin, del ministro della Difesa Sharon e del Capo di Stato Maggiore Rafael Eitan.

MASSACRO DI MURAMBI (RWANDA, 1994) – Quello del Rwanda perpetrato dai gruppi armati di etnia Hutu ai danni dei Tutsi rimane uno dei genocidi più sanguinosi ed efferati della storia recente. Tanto da richiedere l’istituzione di un Tribunale speciale che indaghi sui crimini commessi in quei tre mesi tra la primavera e l’estate del 1994. Il numero di morti è praticamente incalcolabile, si stima siano tra i 500mila e oltre 1 milione, e la furia della violenza etnica non ha risparmiato nessuno: uomini, donne, anziani e bambini sono stati torturati, stuprati e trucidati senza pietà. Se in un evento così grave si può ritrovare un fatto emblematico, quello è il massacro alla scuola di Murambi, il 21 aprile 1994. Un episodio così grave che sul posto è stato anche costruito, in occasione del primo anniversario, un Memoriale che ricorda le circa 65mila vittime dell’eccidio.

Mentre le operazioni di pulizia etnica in corso dall’aprile dello stesso anno si stavano spostando verso l’area meridionale del Rwanda, 65mila civili di etnia Tutsi cercarono riparo nella chiesa locale. Ma furono il vescovo e il sindaco in persona ad attirarli in una trappola: dissero loro che il posto più sicuro dove recarsi era l’istituto che sorgeva poco lontano da lì. Mandarono 65mila persone al massacro. Una volta arrivati, infatti, i civili non trovarono acqua e cibo proprio per limitare le loro forze e impedirne la resistenza. Per qualche giorno fronteggiarono le milizie hutu, ben armate, solo con bastoni e pietre, ma il 21 aprile dovettero arrendersi alla superiorità militare degli avversari. In 20mila furono uccisi in quell’occasione, mentre altri, che riuscirono a fuggire, vennero sterminati nei giorni seguenti. Un numero talmente elevato di morti in un’area così ristretta e in così poco tempo che, secondo la ricostruzione del Memoriale, i soldati francesi scomparsi dall’area per qualche giorno dovettero utilizzare dei bulldozer per scavare fosse comuni dove gettare i corpi. Su 65mila persone, solo 34 sono sopravvissute al massacro di Murambi.

MASSACRO DI SREBRENICA (BOSNIA-ERZEGOVINA, 1995) – Uno dei massacri più sanguinosi della storia recente è certamente quello di Srebrenica, avvenuto nel luglio del 1995. In quelle settimane durante le quali si stava assistendo alla dissoluzione della Jugoslavia, l’allora esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidato dal Macellaio Ratko Mladic fece irruzione nella piccola cittadina bosniaca, dichiarata zona protetta dai Caschi Blu dell’Onu come le città di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde e Bihać. Nonostante l’impegno delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite, in quell’occasione in mano a un contingente di 600 militari olandesi che decisero di non intervenire di fronte all’avanzata degli uomini di Mladic perché “scarsamente equipaggiati”, le truppe serbe riuscirono a entrare in pochi giorni nella cittadina bosniaca e a giustiziare migliaia di civili innocenti. Sono oltre 8.300 le persone che risultano scomparse, ma oggi, a 27 anni di distanza, solo 6.900 sono state ritrovate.

Quella di Srebrenica è una strage che non è rimasta totalmente impunita. Il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia ha condannato Mladic, in carcere dal 2011, all’ergastolo in quanto responsabile dell’assedio di Sarajevo e di quello che è il più grande genocidio commesso in Europa dal Dopoguerra. Come lui, i giudici internazionali condannarono anche l’allora presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, Radovan Karadzic, per genocidio. I tribunali nazionali olandesi, inoltre, hanno condannato lo Stato per responsabilità indirette nei fatti di Srebrenica, anche se una serie di sentenze al ribasso hanno portato a un riconoscimento solo parziale delle colpe. Gianni Rosini

Inutilità dell'Onu. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

Anche questa volta, messo di fronte all’invasione dell’Ucraina, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha mostrato la sua impotenza. Sabato 26 febbraio scorso si è riunito per discutere una risoluzione contro l’aggressione russa e il 5 aprile per condannare il massacro di Bucha. Inevitabilmente, non è riuscito ad adottare una risoluzione nella prima riunione e a condannare formalmente la Russia nella seconda. Inevitabilmente perché l’oggetto in discussione riguardava direttamente il governo di Mosca, uno dei cinque membri permanenti del Consiglio stesso, i cinque che vinsero la Seconda guerra mondiale e che dispongono del potere di veto sull’adozione di ogni documento. La risoluzione di febbraio contro l’azione di Putin era stata presentata da Stati Uniti e Albania: undici Paesi si sono dichiarati a favore, tre – Cina, India ed Emirati Arabi – si sono astenuti e l’ambasciatore russo presso l’Onu ha votato contro. Veto, tutto inutile. 

Il diritto di veto

Il Consiglio di Sicurezza è uno dei sei maggiori organi dell’Onu. È composto dai rappresentanti di quindici Paesi: dai cinque Permanenti – Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia – e da dieci eletti a rotazione che rimangono in carica due anni ma che non hanno diritto di veto. Nelle dispute tra Paesi, il Consiglio cerca prima la conciliazione stabilendo principi, investigando, mandando missioni e inviati speciali e invitando il segretario generale dell’Onu a cercare soluzioni. Nei casi di conflitto, innanzitutto può emettere direttive di cessate il fuoco e inviare missioni di peacekeeping. Se non basta può decidere sanzioni economiche, embargo sulle armi, penalità e restrizioni finanziarie, divieti di transito e viaggio; e poi rottura delle relazioni diplomatiche, blocchi attorno al Paese colpito dalle misure; e infine azioni militari collettive. Il diritto di veto, però, ha fatto sì che, sin dalla sua creazione nel 1945, l’Onu non sia stata in grado di impedire alcun conflitto iniziato da uno dei cinque membri permanenti. 

La risoluzione contro la Corea del Nord

In epoca di Guerra Fredda, il Consiglio di Sicurezza ha approvato solo due risoluzioni che contemplavano l’uso della forza. La prima sulla Corea del Sud invasa da quella del Nord nel 1950. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunì il 25 e il 27 giugno e approvò le risoluzione 82 e 83 con le quali condannava «l’attacco armato sulla Repubblica di Corea da parte delle forze della Nord Corea», chiedeva «l’immediata cessazione delle ostilità» e domandava alle «autorità della Nord Corea di ritirare le loro forze armate al 38° parallelo»; infine raccomandava ai membri dell’Onu di fornire assistenza in ogni modo alla Corea del Sud. Le risoluzioni furono votate senza voti contrari dei Cinque: nel 1950, il seggio della Cina era occupato dalla Repubblica di Cina, cioè Taiwan, non da Pechino che se lo prenderà solo negli Anni Settanta. Taipei (Formosa) votò a favore. La Russia non c’era alle riunioni proprio perché stava boicottando il Consiglio di Sicurezza a causa del riconoscimento di Taipei e non di Pechino. Quindi, risoluzioni adottate. Ma completamente ignorate dalla Corea del Nord, da Mosca e da Pechino, le quali due continuarono a sostenere e armare Pyongyang per tutta la guerra successiva che terminò solo nel 1953. Finito il boicottaggio del Consiglio di Sicurezza, l’Unione Sovietica impose il veto su ogni risoluzione riguardante la Corea del Nord. 

La prima Guerra del Golfo

Il 2 agosto 1990, l’Iraq di Saddam Hussein invase il Kuwait. Il Consiglio di Sicurezza approvò una mozione (660) che chiedeva il ritiro delle truppe di Bagdad. Dopo avere riaffermato la richiesta in altre dieci risoluzioni, il 29 novembre 1990 il Consiglio approvò la numero 678 che invocava il Capitolo VII delle Nazioni Unite – quello che stabilisce un atto di aggressione che interrompe la pace e autorizza l’uso della forza militare per restaurarla. Come ultima chance, diede all’Iraq tempo fino al 15 gennaio 1991 per adeguarsi alla risoluzione 660. Pechino si astenne. L’Unione Sovietica, già in fase di disfacimento, votò a favore. L’operazione militare (Desert Storm) fu poi guidata dagli Stati Uniti, con una coalizione di 35 Nazioni, iniziò il 17 gennaio 1991 ed entro febbraio era terminata con la restaurazione dell’Emiro in Kuwait, la sconfitta dell’Iraq. Saddam fu risparmiato da George Bush senior.

Dopo la caduta del Muro

Negli Anni Novanta, caduta l’Urss, il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato l’uso della forza in tre casi. In Somalia, con l’operazione Restore Hope nel 1992, nessun voto contrario: la guerra civile nel Paese era sfuggita di mano alla missione umanitaria (pacekeeping) dell’Onu e il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’intervento armato di una forza multinazionale (guidata dagli Usa). L’operazione terminò nel 1993 ma forze sotto le bandiere dell’Onu rimasero fino al 1994 con esiti pessimi: disorganizzazione e mancanza di leadership dell’Onu, oltre a uno scandalo che interessò il contingente canadese, con due militari sorpresi a picchiare un teenager durante la missione umanitaria. 

Nel 1993 in Bosnia Erzegovina. Il 15 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione nella quale si stabiliva, per la prima volta, una safe area: a Srebrenica e zone circostanti, dove unità paramilitari serbo-bosniache attaccavano civili, forze dell’Onu e convogli di aiuti. La risoluzione imponeva il ritiro dei serbo-bosniaci, la sicurezza di Srebrenica, la cessazione degli aiuti militari ai serbo-bosniaci da parte della Repubblica di Jugoslavia, come al tempo si chiamavano la Serbia e il Montenegro. La missione umanitaria dell’Onu per fermare la pulizia etnica – condotta dall’Unprofor, United Nations Protection Force – fu un fallimento quando Srebrenica fu presa dalle milizie di Radko Mladic nel luglio del 1995. Nel genocidio furono uccisi ottomila musulmani bosniaci. A quel punto la risoluzione fu adottata all’unanimità. Ma l’intervento delle forze Onu fu un disastro. Ad Haiti nel 1994 per «restaurare la democrazia» nel Paese. Una giunta militare aveva spodestato il presidente Aristide e il governo. Fu autorizzata una missione militare multilaterale guidata dagli Usa. Nessun voro contrario, Pechino astenuta. Guerra del Kosovo, 1999, bombardamento Nato della Jugoslavia. In quell’anno era in corso un’altra pulizia etnica, contro i kosovari albanesi, da parte della Jugoslavia. Gli Stati Uniti chiesero all’Onu di potere intervenire ma Russia e Cina fecero sapere che avrebbero posto il veto a un intervento armato. La Nato decise dunque di intervenire senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, «per ragioni umanitarie».

2001 Afghanistan

I contrasti tra i membri permanenti con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza ebbero una parentesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. La risoluzione 1368 fu adottata dal Consiglio il giorno dopo l’attentato. Presentata dalla Francia, chiedeva a tutti i Paesi di assicurare alla giustizia i responsabili dell’atto terroristico, compresi organizzatori e sponsor, e chiedeva di aumentare gli sforzi per eradicare il terrorismo internazionale. Gli Stati Uniti e alleati intervennero in Afganistan in ottobre. La risoluzione iniziale fu seguita da altre, fino alla risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001 che creava la International Security Assistance Force (Isaf), formazione militare multinazionale che aveva il compito di assistere gli afghani a costruire istituzioni. L’Isaf diventò poi parte della guerra contro i talebani. Anche quella risoluzione fu adottata all’unanimità.

2011 Libia

Il cessate il fuoco in Libia nel 2011 (approvato, ma non rispettato da Gheddafi) formò la base legale per l’intervento militare nella guerra civile libica. Fu proposto da Francia, Libano e Regno Unito e approvato con l’astensione di Cina e Russia. L’intervento iniziò con un bombardamento dei francesi e missili dai sottomarini britannici dopo che Gheddafi aveva minacciato l’opposizione. Poi la Nato assunse il comando dell’operazione. 

Il caso Iraq

Invasione Iraq. L’accordo tra i Grandi Cinque durò poco. Tra il 2002 e il 2003, una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza avevano riguardato l’Iraq. In particolare, a Bagdad fu mandata una missione guidata da Hans Blix e Mohammed El Baradei per investigare la presenza di armi di distruzione di massa, che Usa e Regno Unito ritenevano ci fossero, date le forniture che l’Iraq aveva ricevuto negli anni. Blix ed El Baradei non trovarono prove conclusive della loro presenza. Il 5 febbraio 2003, il segretario di Stato americano Colin Powell fece una presentazione al Consiglio e sostenne la presenza di armi di distruzione di massa, oltre che Saddam avrebbe avuto rapporti con al Qaida. Powell disse anni dopo che la decisione di invadere era già stata presa, in quel momento, da George Bush junior. Di fronte alla debole presentazione di Powell – che sosteneva il diritto di intervento in Iraq in quando il Paese non aveva rispettato le «18 risoluzioni precedenti» (in particolare la 1441 sul disarmo dell’Iraq) –, tre altri membri permanenti del Consiglio si mostrarono contrari: Cina, Russia, Francia. Del Consiglio in quell’occasione faceva parte anche la Germania, come Paese non permanente, e famoso diventò l’intervento del ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer: «I’m not convinced», disse. La risoluzione che era stata proposta da Washington, Londra e Madrid fu ritirata: americani e britannici ritennero che prendersi un cospicuo numero di veti (tre) avrebbe provocato più danni che procedere senza il mandato dell’Onu. L’invasione dell’Iraq iniziò il 19 marzo 1993 con una «Coalizione di volonterosi» formata alla fine da 49 Paesi.

I veti sulla Siria

Il 4 ottobre 2011, di fronte alla repressione dell’opposizione in Siria da parte di Bashar Assad, alcuni Paesi presentano una risoluzione per condannare «le gravi e sistemiche violazioni dei diritti umani» e per minacciare azioni se non fossero cessate. La risoluzione fallisce per il veto di Mosca e Pechino; altre due risoluzioni sulla questione non passano per lo stesso motivo il 4 febbraio 2012 e il 19 luglio 2012. In parallelo, la repressione del regime di Assad si rafforza. Nel 2014, la condanna dell’annessione russa della Crimea non viene accolta per l’ovvio veto di Mosca. 

I veti su Palestina, Israele e Medio Oriente

Nel corso dei decenni sul conflitto Israele Palestina e Territori Occupati gli Usa hanno messo il veto su 29 risoluzioni. Mentre negli ultimi 30 anni sulle questioni mediorientali e Siria la Russia ha votato «no» su 17 risoluzioni. In totale, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che consentono l’uso della forza in situazioni di grave crisi sono state sette, dal 1945 (il cessate il fuoco in Libano non può essere considerato uso della forza). Quando sono in gioco interessi anche di uno solo dei cinque membri permanenti, il Consiglio di Sicurezza non può fare nulla. 

La riforma impossibile

In sostanza la possibilità che il Consiglio di Sicurezza adotti risoluzioni in casi rilevanti di conflitto a livello globale è praticamente zero. Così come la Lega delle Nazioni non riuscì a evitare la Seconda guerra mondiale. Non è una questione tecnica, risolvibile con il cambiamento delle regole di funzionamento dell’Onu. È che l’equilibrio raggiunto alla fine della Seconda guerra mondiale è finito da tempo e, ora che la competizione tra potenze si è fatta fortissima, non c’è alcuna speranza che gli equilibri stabiliti nel 1945 possano funzionare. Il governo mondiale in cui molti hanno sperato in momenti meno violenti svanisce sempre più. Come si vede in questo 2022, lo spirito di potenza prevale sullo spirito dell’unità delle Nazioni. Pensare dunque a una riforma del Consiglio di Sicurezza è purtroppo naif.

Il governo mondiale in cui molti hanno sperato in momenti meno violenti svanisce sempre più. Come si vede in questo 2022, lo spirito di potenza prevale sullo spirito dell’unità delle Nazioni

Sostanzialmente, il Consiglio è oggi un forum di scontro dove viene reso evidente al mondo come si schierano, o si astengono, sui diversi grandi problemi le Nazioni più potenti, in particolate Usa, Cina e Russia e i loro alleati. Un piccolo passo di valore politico, in un momento in cui si decide della Sicurezza in Europa, potrebbe (e dovrebbe) farlo la Francia cedendo all’Ue il suo seggio permanente. Al Consiglio di Sicurezza del 5 aprile, Volodymyr Zelensky ha chiesto che alla Russia venga tolto il diritto di veto.

Federico Rampini, "la mano dei poteri forti dietro il suicidio dell'Occidente": Putin e Xi Jinping brindano alla nostra morte. Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

In che cosa consiste il “suicidio dell’Occidente” e cosa c’entra con l’operazione militare della Russia in Ucraina? Alcune risposte le ha offerte Federico Rampini in una lunga intervista rilasciata a Il Giorno. “Da anni in Occidente abbiamo potenti correnti politiche e culturali - ha dichiarato - che ci colpevolizzano e demoliscono la nostra storia descrivendola come un concentrato di arroganza, imperialismo, sopraffazione. Veniamo descritti come una società razzista, sessista, i cui valori sono ipocriti”.

“Questo processo a noi stessi - ha proseguito Rampini - esige riti di espiazione, auto-flagellazione. Non stupisce che siamo arrivati impreparati all’aggressione della Russia e indecisi di fronte all’imperialismo cinese. Abbiamo sentito dire per troppo tempo che l’Impero del Male sono noi”. Ma quali sono le motivazioni di questo presunto “suicidio” dell’Occidente? “Le correnti anti-occidentali fra di noi sono antiche - ha risposto Rampini - si rifanno a ideologie del passato come fascismo e comunismo. C’è una vena anti-occidentale anche tra i cattolici. Quelli che oggi sono alla guida dei poteri forti - cioè i giganti del capitalismo digitale - sono figli o nipoti o allievi dei sessantottini”.

Secondo Rampini la crisi dell’Occidente è all’origine del risveglio geopolitico di Russia e Cina: “Putin e Xi Jinping sono concordi nel giudicarci una civiltà decadente, moribonda, incapace di difendersi”. Nel frattempo in Italia la maggioranza della popolazione secondo i sondaggi è contraria all’aumento delle spese militari: “Poiché oso criticare un pacifismo equidistante tra l’aggressore e la vittima, mi arrivano decine di mail che mi accusano di essere uno strumento della propaganda americana. Le armi difensive servono a impedire la guerra, ma c’è chi preferisce lasciare le armi solo ai dittatori”.

Articolo di Paul Krugman per “The New York Times” pubblicato da “la Stampa" l'1 aprile 2022.

L'invasione di Vladimir Putin dell'Ucraina è stata, prima e più di ogni altra cosa, un crimine - e, in verità, mentre leggete queste parole i crimini di guerra proseguono. Ma è stata anche un abbaglio colossale. In meno di cinque settimane Putin ha annientato la reputazione delle forze armate russe, ha malridotto l'economia della sua nazione e ha rafforzato le alleanze democratiche che sperava di danneggiare. Come ha potuto commettere un errore così catastrofico? 

Sono sicuro che parte della risposta è imputabile alla sindrome dell'uomo forte: Putin si è circondato di persone che gli dicono quello che lui vuole sentirsi dire. Tutto lascia intendere che si sia avviato a questa débâcle credendo nella sua stessa propaganda riguardo sia alla bravura marziale del suo esercito sia alla voglia degli ucraini di sottomettersi a un regime russo.

Ci sono, però, anche buoni motivi per ritenere che Putin, come molti suoi ammiratori in Occidente, abbia pensato che le democrazie moderne erano troppo decadenti per offrire una valida resistenza. Eccoci al punto: quando penso agli Stati Uniti, temo che l'Occidente sia reso sul serio più debole dalla sua decadenza, ma non la decadenza del tipo che ossessiona Putin e quanti ripongono fiducia in lui. La nostra vulnerabilità non deriva dal declino dei tradizionali valori della famiglia, bensì dal declino dei tradizionali valori democratici, per esempio credere nella legalità ed essere disposti ad accettare i risultati elettorali che non sono quelli che si sperava fossero.

Naturalmente, l'idea che i facili costumi portino alla distruzione delle grandi potenze risale a molti secoli fa. Nella versione hollywoodiana della storia l'Impero Romano crollò perché le sue élite erano troppo impegnate nelle orge per prendersi la briga di sconfiggere i barbari. Di fatto, le tempistiche di questa versione sono sbagliate, ma ci ritornerò tra poco. 

Chi si colloca a destra, oggi, sembra seccato, più che dalla debolezza che nasce dalla licenziosità sessuale, dalla debolezza originata dall'eguaglianza di genere: Tucker Carlson aveva ammonito che l'esercito cinese stava diventando «più mascolino», mentre il nostro stava diventando «più femmineo, a prescindere da quello che femmineo vuol dire, visto che uomini e donne non esistono più». 

Il senatore Ted Cruz ha ritwittato un filmato nel quale si mettono a confronto un video di reclutamento dell'esercito degli Stati Uniti e le riprese di un paracadutista russo dalla testa rasata e ha dichiarato che un «esercito 'woke' ed effeminato» potrebbe non essere una grande idea. 

Sarebbe interessante scoprire che cosa ne è stato di quel paracadutista da quando Putin ha invaso l'Ucraina. In ogni caso, le pesanti perdite collaterali subite dall'esercito «anti-woke» russo, quando non è riuscito a prevalere sulle forze ucraine di gran lunga inferiori, hanno confermato quello che chiunque abbia studiato la storia sa bene: le guerre moderne non si vincono con la spavalderia da macho. Il coraggio e la perseveranza fisica e morale sono essenziali come non mai; ma lo sono anche altre cose più ordinarie, come la logistica, la manutenzione dei veicoli e i sistemi di comunicazione che funzionano.

A proposito: non posso fare a meno di ricordare di passaggio che i recenti avvenimenti hanno confermato anche il truismo secondo cui molti uomini, forse la maggior parte, che si atteggiano a tipi duri, poi non lo sono La risposta di Putin all'insuccesso in Ucraina è stata estremamente trumpiana: insiste di continuo che la sua invasione sta andando «secondo i piani», si rifiuta di ammettere di aver commesso degli errori, si lamenta della cultura della cancellazione. Mi aspetto quasi che presto diffonda carte geografiche delle battaglie in corso modificate con un tratto di pennarello nero indelebile Sharpie.

Ma torniamo al tipo di decadenza che conta sul serio. Come ho detto poco sopra, la versione hollywoodiana del declino e della caduta di Roma antica non regge a un'analisi rigorosa. È vero: i bottini di guerra dell'impero resero possibile una vita di gran lusso per un numero esiguo di persone, tra cui, forse, qualche orgia qua e là. La controparte moderna più vicina all'élite di quei tempi sarebbe quella degli oligarchi russi. Roma, però, mantenne per secoli la sua integrità territoriale e il suo valore militare dopo l'ascesa di quella élite libertina e viziata.

E allora: che cosa andò storto? Gli storici avranno sicuramente molte teorie, ma una cosa è certa: grande peso l'ha avuto l'erosione delle norme che avevano contribuito a instaurare la legittimità politica, sommata alla crescente predisposizione di alcuni antichi romani, soprattutto dopo il 180 d.C., a ricorrere alla violenza gli uni contro gli altri. 

Naturalmente, quanto sta accadendo oggi negli Stati Uniti non assomiglia in alcun modo ai problemi dell'antichità. Eppure, di questi tempi, non passa mese senza che vi siano nuove rivelazioni su come un'ampia fetta dell'apparato politico americano, comprendente i membri dell'élite politica, disprezzi i principi democratici e sia disposta a fare di tutto pur di vincere.

È incredibile quanto rapidamente abbiamo normalizzato il fatto che l'ultimo Presidente ha cercato di restare al potere malgrado fosse sconfitto alle elezioni e che una folla inferocita, da lui aizzata, abbia fatto irruzione in Campidoglio. Molte persone hanno preso parte al tentativo di rovesciare il risultato elettorale - e tra questi, come abbiamo appreso da poco, anche la moglie di un giudice della Corte Suprema, ancora in carica, che non si è nemmeno astenuto nelle cause riguardanti il tentato colpo di Stato. 

Come se non bastasse, mentre il tentativo di Donald Trump di restare in carica è fallito, buona parte del suo partito, nei fatti, ha sostenuto in retrospettiva quella manovra.

Perché tutto ciò è importante per l'Ucraina? Putin in verità ha scommesso sul fatto che un Occidente effeminato sarebbe rimasto semplicemente a guardare, mentre lui portava avanti il suo progetto di conquista. 

Invece, il presidente Biden ha mobilitato con buoni risultati una alleanza democratica che si è adoperata subito per inviare aiuti all'Ucraina e ha contribuito a umiliare l'aggressore.

La prossima volta che una cosa del genere accadrà, tuttavia, l'America potrebbe non riuscire a mettersi alla guida di una valida alleanza tra le democrazie, perché noi stessi avremo rinunciato ai nostri valori democratici. Se volete la mia opinione, la vera decadenza è questa.

Ucraina, Aleksandr Dugin svela la verità sulla guerra di Putin contro l'Occidente. Il Tempo il 29 marzo 2022.

L'ideologo Aleksandr Dugin rivela le vere ragioni della guerra di Vladimir Putin contro l'Ucraina. In verità il conflitto non è nato per la conquista dell'Ucraina ma come vero e proprio scontro di civiltà. L'ideologo di Putin ne parla durante la puntata di "Fuori dal coro" andata in onda mercoledì 29 marzo su Rete4.

"E' il conflitto tra la civiltà del male che è l'Occidente e la terra del cuore che è precisamente la Russia. La Russia sente molto forte la sua identità culturale e la propria civiltà. Putin dice che la Russia non è un Paese ma è la civiltà stessa. I suoi valori non possono coincidere con quelli dell'Occidente che crede di essere l'unica civiltà. Il mondo occidentale attuale ha perso tutta la misura. Il liberalismo ha iniziato a mostrare tutti i suoi aspetti totalitari e vuole imporre le sue regole agli altri come se fossero universali. La lotta della Russia consiste nel mostrare che possiamo resistere contro questa oppressione. L'operazione militare speciale è una manifestazione della sfida della Russia contro l'egemonia culturale. La Russia lotta contro questa ideologia del genere, LGBT. La guerra di Putin non è contro l'Ucraina ma contro l'ordine globale liberale. E' la guerra della società religiosa e spirituale della Russia contro la società satanica dell'Occidente. E in tutto questo l'Occidente è destinato a soccombere".         

L'Amaca di Michele Serra di domenica 27 marzo 2022 

Non si contano più le culture tradizionali, sincere o pretestuose, che si sentono assediate dall'Occidente. La cultura giapponese (vedi il suicidio rituale di Yukio Mishima), la cultura islamista, ora la cultura russa (ma forse sarebbe più giusto chiamarla russista, alla maniera di quella islamista) che nella versione di Putin lamenta l'arroganza dell'Occidente come minaccia mortale per Santa Madre Russia.

Battista: il nuovo oscurantismo della cancel culture è come il fanatismo maoista. Redazione sabato 20 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia.

Pierluigi Battista, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, oggi firma la rubrica «Uscita di sicurezza» su Huffington Post. Parla del politicamente corretto in una lunga intervista a la Verità. Un tema che gli sta molto a cuore e al quale ha dedicato un titolo, Libri al rogo, per denunciare la nuova cultura dell’intolleranza.

La sfida al conformisticamente corretto con il libro “Mio padre era fascista”

Con un altro libro Battista aveva sfidato il conformismo mainstream. Aveva raccontato in Mio padre era fascista l’amore per l’Italia e la dirittura morale di suo padre Vittorio, un “fascistone” che poi divenne convinto missino. Questo per dire che Battista non è uno che ha timore di dire come la pensa. E neanche di essere accostato alla destra quando dichiara che “dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son 10 anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione”.

La sinistra divide il mondo in due: i buoni, loro, e i cattivi di destra

La politica lo annoia, o meglio non lo interessa più, pur dopo avere sperimentato gli anni Settanta del “tutto è politica”. «Ho smesso di fumare e di votare», dice nell’intervista. Eppure non tace sul manicheismo della sinistra: «A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

Impietoso giudizio su Conte e Casalino

Battista dunque la politica continua a osservarla, e su Conte e il suo apparato propagandistico dà un giudizio impietoso. Quella di Conte – afferma – «non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

La distinzione tra politicamente corretto e “cancel culture”

Quindi introduce una importante distinzione tra il politicamente corretto e la cancel culture. «Con la cancel culture – afferma Battista -c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria». Invece «favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

L’intolleranza colpisce anche il linguaggio

Invece? «L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».Ingabbia anche il linguaggio?«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa». E anche il linguaggio subisce la noelingua dell’intolleranza. L’ultimo episodio: i Maneskin costretti a cambiare il testo della loro canzone Zitti e buoni per l’Eurovision.

L’Occidente sotto scacco: il libro di Rampini contro il politicamente corretto. DANILO TAINO su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.  

Esce il 29 marzo per Mondadori il nuovo saggio dell’editorialista del «Corriere» che analizza e denuncia l’indebolimento delle democrazie nel confronto con le dittature

Vladimir Putin quando guardano l’Occidente? Un mondo che non sarà difficile battere e forse abbattere. Da attaccare, come si vede in Ucraina. Debole, confuso, in declino irreversibile. È così? È questa la nostra realtà? L’ultimo libro di Federico Rampini — Suicidio occidentale, in libreria da oggi per Mondadori — non è solo un esempio di tempismo che spiega cosa si è fissato nella mente dei leader autoritari quando sfidano le democrazie liberali. È soprattutto la ricognizione di come queste ultime si stiano impegnando seriamente nella cancellazione dei propri valori: chiarisce, per dire, che dietro l’invasione di queste settimane ordinata dal Cremlino non c’è solo una generica mossa geopolitica; alla radice c’è il nostro vacillare sociale, culturale, economico, istituzionale e ovviamente politico.

Le potenze autoritarie – scrive Rampini – disprezzano il modello occidentale. Ma, prima ancora, «quest’ultimo è stato ripudiato in casa propria»: da un establishment economico che, dietro la globalizzazione, detesta l’identità nazionale, «cioè quello che fu il collante storico delle democrazie»; e da un establishment culturale germogliato negli Anni Sessanta e oggi in piena fioritura secondo il quale «il Male supremo siamo noi». Il libro è una denuncia ampia e precisa del «politicamente corretto». Ma non una denuncia superficiale dei modi fastidiosi nei quali il conformismo di sinistra si palesa: ne analizza le conseguenze profonde sulle società.

Uno dei luoghi nei quali «l’indottrinamento propagandistico» produce i danni peggiori è il sistema dell’istruzione, soprattutto negli Stati Uniti, «dove la cultura seria è messa al bando». Le scuole e le università sono state in buona parte conquistate da un’ideologia secondo la quale non solo ogni fenomeno negativo è responsabilità dell’uomo bianco, ma anche secondo la quale questo uomo bianco va rieducato e da subito penalizzato. Un razzismo della pelle che si cela dietro le campagne contro il razzismo condotte ad esempio dal movimento Black Lives Matter. E non solo: in molte università è impossibile, per chi non si accoda anche alle posizioni più estreme su sesso e genere, avere diritto di parola. Spesso, docenti che osano esprimere opinioni diverse da quelle di gruppi di militanti organizzati devono poi umiliarsi in autocritiche pubbliche e rischiano comunque di essere allontanati dall’insegnamento da autorità accademiche impaurite.

In questa analisi di quel che succede negli Stati Uniti, Rampini è particolarmente critico con i media cosiddetti progressisti. Soprattutto con il «New York Times», il quale ha compiuto negli anni recenti una svolta intollerante verso il dibattito delle idee. Oltre a essersi chiuso al confronto a causa dell’attivismo di molti suoi giovani giornalisti, il grande quotidiano newyorkese ha avuto un ruolo centrale nella costruzione della critical race theory, la teoria secondo la quale il razzismo è la pietra costitutiva delle istituzioni americane: teoria diventata il collante di movimenti spesso violenti e anche la copertura di gang organizzate.

La responsabilità del «New York Times» è individuata da Rampini nel «1619 Project» che il giornale porta avanti da anni: una serie di analisi storiche spesso infondate per sostenere che la vera fondazione degli Stati Uniti va datata all’anno in cui vi arrivò la prima nave di schiavi dall’Africa.

Nella critica intensa che porta alle ideologie della «sinistra illiberale» che rischiano di sgretolare la forza formidabile dell’Occidente, Rampini non si risparmia. Quando parla dei movimenti ambientalisti che si mobilitano sul clima, parla di «Nuovo Paganesimo», del ruolo sacerdotale di questa religione portata avanti da accademici, politici, capi azienda, star del cinema e della musica. E, parlando di Greta Thunberg, dice che l’averla considerata la portatrice di una nuova filosofia politica «è un segnale di imbarbarimento culturale, l’appiattimento del mondo adulto verso un linguaggio infantile». E chiosa: il comunista e confuciano Xi Jinping «osserva il “fenomeno Greta” come una delle perversioni occidentali», quelle che nella sua lettura testimoniano del declino dell’Occidente.

Il libro non è solo un’analisi dei danni seri che il politicamente corretto arreca. E non riguarda solo gli Stati Uniti. Parla della capacità calante degli Stati democratici di realizzare cose, a cominciare dalle infrastrutture. Parla dei grandi gruppi economici che tendono a imbrigliare la nascita di nuove imprese. Dei politici, soprattutto californiani, che a causa di un’ideologia che disprezza legge e diritto hanno reso invivibili intere parti delle città che governano. Ma non è un libro rassegnato: il sottotitolo è un’apertura, Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori.

Il capitalismo, in particolare quello americano, è in fase di involuzione ma non è certo morto. Elon Musk può nascere solo in America, comunque in Occidente, non certo in Cina e in Russia. Il venture capital continua a finanziare idee e imprese. Il sistema finanziario fondato su dollaro ed euro è dominante. E, sul versante geopolitico, alla ritirata incresciosa di Joe Biden dall’Afghanistan si contrappone il «Blob», l’establishment potente – diplomazia più parte della politica più apparato industrial-militare – che continua ad avere una visione imperiale degli Stati Uniti.

Xi Jinping e Vladimir Putin vedono la convulsione dell’Occidente. Sanno che gli imperi, da quello romano a quello americano, prima o poi finiscono e di solito crollano prima dall’interno. Faranno di tutto per aiutare e accelerare questo processo. Ma non è detto che i tempi li dettino loro. La guerra in Ucraina, per esempio, potrebbe ridare alle democrazie liberali un certo senso di sé stesse. Vedremo. Rampini, intanto, chiude il libro con un una speranza: «Vorrei che sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti».

Zar Will.  Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 29 marzo 2022.

Sempre che non si tratti di una sceneggiata (dopo un mese di guerra, tendo a diffidare di qualunque cosa), un analista della complessità saprebbe sicuramente spiegarci che ha sì tirato uno schiaffo al comico Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar, ma che focalizzarsi su questo pur deprecabile aspetto della questione rappresenta un approccio pigro e semplificatorio. Perché è stato Rock, con la sua battuta sull’alopecia della moglie, ad avere provocato la reazione del grande attore. I grandi attori sono persone suscettibili e la Realpolitik suggerisce di non andarli a stuzzicare con frecciatine di dubbio gusto. Dopo avergli addossato la responsabilità del ceffone, l’analista elogerebbe però il comportamento del comico, che a differenza del collega Zelensky si è lasciato picchiare senza opporre resistenza. E concluderebbe dando la colpa agli Stati Uniti (su, aprite gli occhi: chi organizza la serata degli Oscar?), capacissimi di avere indotto Rock a provocare Smith per qualche losco fine economico travestito da libertà di espressione. Come ragionamento non fa una grinza. Eppure, dai tempi della testata di Zidane a Materazzi, il sempliciotto dentro di me si ostina a credere che il passaggio dall’aggressività latente a quella manifesta non sia marginale. Appena invadi, o appena meni, lo scenario cambia di colpo e le motivazioni della violenza non contano più. Resta solo la violenza. Anche quando, come nel caso di Will Smith, si vorrebbe spacciarla per amore . 

DONNE, LGBT, MINORANZE ETNICHE. I NUOVI REQUISITI POLITICALLY CORRECT PER VINCERE UN OSCAR. Niccolò Brighella su vdnews.tv/ il 10.09.2020.  

L’Academy ha preso una decisione, per il 2024, che è l’esito di un percorso ormai decennale, di tutto lo show business americano, verso una più forte inclusività. Il politically correct, sviluppatosi negli anni Novanta tra i campus delle Università americane per formare una zona sicura dove realizzare la società multiculturale immaginata dagli studenti dell’epoca, è sbarcato a Hollywood da tempo. Da molti anni anche le scelte dell’Academy cercano di essere le più inclusive possibile, basti pensare agli Oscar di Moonlight e Green Book, interpretati entrambi dallo straordinario Mahershala Ali.

Come funzionano i nuovi standard

Gli Oscar non sono la prima istituzione del cinema a creare una serie di standard di inclusività e diversità. Iniziò il British Film Institute con una serie di impegni per poter accedere alla produzione e alla distribuzione di film e programmi tv, seguendo l’UK Act of Equality del 2010. Ora tocca all’Academy che, progressivamente, introdurrà gli stessi standard obbligatori del BFI per poter competere come Miglior Film mentre «tutte le categorie diverse da quella saranno soggette ai loro attuali requisiti di idoneità» fa sapere l’Academy. I nuovi standard sono divisi in quattro settori: A, che riguarda sia il tema del film che la rappresentazione sullo schermo attraverso attori principali e secondari; B, sulla composizione del team creativo e dei suoi leader; C, per aumentare l’accessibilità della produzione per i lavoratori; D, su una maggiore inclusività nella leadership che formerà la comunicazione e il marketing della produzione nei confronti del pubblico. In pratica, per essere candidata come Miglior Film, la pellicola dovrà scegliere tra una storia che parli di: 

Donne

Gruppo razziale o etnico

LGBTQ+

Persone con disabilità cognitive o fisiche, non udenti o ipoudenti

Impiegare nella produzione, da uno dei protagonisti al 30% del cast secondario, da due leader del team creativo a sei altri membri della squadra e il 30% della troupe, lavoratori di questi gruppi: 

Donne

Gruppo razziale o etnico

Asiatico

Ispaico/Latino

Nero/afroamericano

Indigeno(Nativo americano/ nativo dell’Alaska

Mediorientale/nordafricano

Nativo hawaiano o altro isolano del Pacifico

Altra razza o etnia sottorappresentata

LGBTQ+

Individui con disabilità cognitive o fisiche, non udenti o ipoudenti

Oppure aprire tirocini formativi per persone appartenenti a queste categorie e avere almeno un dirigente senior di questi gruppi nel settore marketing, distribuzione e pubblicità, come spinta a una nuova comunicazione col pubblico, più inclusiva e diversificata. Per poter concorrere come Miglior Film, le pellicole dovranno soddisfare almeno due di queste quattro categorie. 

Quando saranno obbligatori i nuovi standard

L’introduzione di questi nuovi criteri di inclusività non sarà immediata. D’accordo con l’AMPAS e la Producers Guild of America, l’Academy chiederà alle produzioni di compilare un modulo confidenziale dalla 94° edizione degli Oscar. Solo dalla 96° edizione, quella del 2024, i criteri diventeranno obbligatori e sarà impossibile competere al premio cinematografico più famoso del mondo senza rispettarne almeno due su quattro. Il presidente dell’Academy David Rubin e il CEO Dawn Hudson, hanno commentato: «Dobbiamo ampliare il nostro sguardo per riflettere la popolazione globale sia nella creazione di film che nel pubblico che li guarda. Crediamo che questi standard di inclusione saranno catalizzatori di un profondo e duraturo cambiamento nella nostra industria».

I 60 anni di Kevin Spacey, due Oscar e una carriera cancellata dallo scandalo. Cinema, per vincere l’Oscar ci vuole il Cencelli del “politically correct”: parola di Pigi Battista. Giacomo Fabi giovedì 18 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fa bene Pigi Battista a lamentarsi della brutta piega presa dalla procedura per l’assegnazione degli Oscar. Ancor di più a bollarlo come una sorta di «manuale Cencelli dei riconoscimenti» con tanto di «percentuali etniche, di genere, di orientamento sessuale, di ceto social». A sentir lui – e non c’è ragione per dubitarne -, «le discussioni sui film» sono ormai «noiose come un simposio sulla legge elettorale». Insomma, spiega il giornalista ex-Corsera ora blogger all’Huffington Post, «si giudica sempre meno la bellezza di un film e di chi lo realizzato». In compenso, «ti premio di più se parli della piaga del nomadismo e meno se rappresenti un interno middle class a Manhattan».

Pigi Battista ora è all’Huffington Post

Con tali premesse, la sua conclusione non poteva che risultare amara sebbene non rassegnata: «Non vinca il migliore». Parole da condividere una per una. Aggiungendo una sola postilla per ricordare che all’Oscar lottizzato il cinema non è arrivato per caso, ma sull’onda di una melassa conformista che ha avviluppato tutti, giornaloni compresi, incluso quello dove la firma di Pigi Battista ha campeggiato per anni. Non è una colpa, ci mancherebbe. Ma è tutt’altro che un fuor d’opera ricordare come certe tendenze non siano frutto di improvvisazione. Il culto del politicamente corretto conta sacerdoti zelanti e arcigni custodi un po’ ovunque.

«Ti premio sei parli dei nomadi»

Soprattutto laddove si ferma l’opinione. E se proprio in quei luoghi di pensiero e di critica accade che ogni discostamento dal culto ufficiale diventi eresia da stroncare, è fatale che di posizione in campo ne resti una sola. Unica e perciò stesso dominante. E gli effetti si vedono: nel cinema come nella scuola, nei giornali come nell’università, nelle tv come a teatro. Anno dopo anno, giorno dopo giorno, l’onda di melassa si è fatta sempre più grande fino a travolgere tutto. Lo tsunami del politically correct non risparmia né Rossella O’Hara né le statue pur di imporre, ora per allora, lo spirito del tempo. Spiace ammetterlo, ma purtroppo arriviamo tardi: il peggiore, caro Pigi Battista, ha già vinto.

Gli Oscar sono sempre stati politici e quest'anno non sarà diverso. Mentre guardiamo avanti a una cerimonia pronta per riconoscere la guerra in Ucraina, una storia di come la più grande notte di Hollywood abbia messo in luce decenni di ingiustizie e controversie. DAVID CANFIELD su vanityfair il 24 marzo 2022. 

In questo periodo dell'anno scorso, Donald Trump ha chiamato gli Oscar per essere troppo "politicamente corretti", accusando lo spettacolo di fungere da piattaforma per il Partito Democratico e suggerendo che l'Accademia si stava allontanando dalla sua funzione iniziale per onorare i film senza riconoscere il mondo che li circonda. A parte la natura generale e sconclusionata della dichiarazione, la sua premessa implicita era sbagliata: gli Oscar hanno mostrato momenti politici fintanto che abbiamo prestato attenzione. 

Di conseguenza, i tentativi di lunga data dell'Accademia di raggiungere una più ampia rilevanza culturale troveranno sicuramente eco questa domenica sera, quando i conduttori Wanda Sykes, Amy Schumer e Regina Hall , per non parlare di un caotico assortimento di presentatori , hanno messo in scena uno spettacolo stellato in un momento di guerra in tutto il mondo. L'invasione russa dell'Ucraina è già stata messa in luce e condannata da Maria Bakalova ai Critics Choice Awards, Kristen Stewart ai Film Independent Spirit Awards e altri nel circuito precursore, e i colori e le bandiere ucraine sono stati visibili su un'ampia gamma di tappeti rossi . Mentre l'apparente desiderio di Schumerche il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy appaia nello show via satellite probabilmente non avverrà perché è, uh, altrimenti occupato, il supporto per la lotta del suo paese, senza dubbio, influirà in modo significativo nella trasmissione. 

Non sarebbe nemmeno la prima volta che la tragedia in Ucraina raggiunge il palcoscenico dell'Accademia. Nel 2014, il vincitore dell'attore non protagonista Jared Leto ( Dallas Buyers Club ) ha dedicato il suo discorso a coloro che vivono i disordini in Crimea, che le forze russe hanno recentemente superato, così come al Venezuela: "A tutti i sognatori là fuori in tutto il mondo che guardano questo stasera ...Voglio dire che siamo qui, e mentre lotti per realizzare i tuoi sogni, per vivere l'impossibile, stiamo pensando a te stasera." 

I vincitori spesso usano il loro grande momento per far luce sulle cause a loro più vicine o particolarmente rilevanti nei titoli dei giornali. Durante l'era Trump, tali discorsi erano definiti dal respingimento alla crescente ostilità nei confronti delle popolazioni emarginate, inclusi gli immigrati musulmani e latinoamericani. Nel 2019, Spike Lee ha usato il suo discorso di accettazione della sceneggiatura adattata , per BlacKkKlansman, per mobilitare gli elettori delle elezioni del 2020 ed evidenziare "la scelta morale tra amore e odio". Asghar Farhadi ha rifiutato di partecipare alla cerimonia del 2017 nonostante fosse stato nominato; quando il suo film, The Salesman, ha vinto il premio come miglior film internazionale, il regista iraniano ha scritto una risposta feroceche si leggeva sul podio a suo nome: “La mia assenza è per rispetto delle persone del mio Paese e di quelle di altre sei nazioni che sono state violate dalla legge disumana che vieta l'ingresso degli immigrati negli Stati Uniti” E, infine, diversi i discorsi degli ultimi quattro anni hanno parlato al movimento #MeToo , nato da storie dell'orrore legate sia a Hollywood che allo stesso presidente.

Naturalmente, tutto questo non è iniziato con Trump. Torna agli anni '40 e vedrai l'industria confrontarsi con la prospettiva di congratularsi per la prima volta durante la guerra: gli Oscar furono quasi cancellati nel 1942, dopo il bombardamento di Pearl Harbor, prima di procedere con gli adeguamenti strutturali e il codice di abbigliamento alterazioni. Il vincitore dell'attore non protagonista Donald Crisp ha indossato la sua uniforme militare e, alla cerimonia dell'anno successivo, è tornato a leggere un discorso del presidente Franklin D. Roosevelt : "Nella guerra totale, i film, come tutte le altre imprese umane, hanno un ruolo importante da svolgere nella lotta per la libertà e la sopravvivenza della democrazia”. Entrambe le cerimonie si sono svolte all'ombra del conflitto globale e hanno osservato attentamente quel senso di discordia.

Quando Jane Fonda ha vinto la migliore attrice per Klute nel 1972, al culmine della guerra del Vietnam, è stata una figura fortemente controversa per la sua irremovibile opposizione al conflitto. Il suo discorso di 15 secondi è stato acuto come qualsiasi affermazione o gesto radicale, ringraziando "tutti voi che avete applaudito" prima di concludere: "C'è molto da dire e non lo dirò stasera". Alcuni anni dopo , il film contro la guerra Hearts and Minds vinse l'Oscar del documentario e dopo che il produttore Bert Schneider lesse un telegrammadalla delegazione vietcong agli accordi di pace di Parigi che trasmette amicizia, il co-conduttore Frank Sinatra è stato incaricato di chiarire che l'Accademia non era responsabile di "nessun riferimento politico fatto sul programma". 

Gli anni '70 hanno anche portato forse il momento politico più famigerato nella storia degli Oscar, quando Marlon Brando ha vinto il premio come miglior attore per Il padrino ma ha rifiutato la statuetta. L'attivista per i diritti indigeni americani Sacheen Littlefeather è stato mandato sul podio al suo posto, e per suo conto ha criticato "il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica" e ha richiamato l'attenzione sull'occupazione in corso di Wounded Knee. E se non hai visto Vanessa Redgrave chiamare "teppisti sionisti" nel suo discorso di accettazione del 1978, in risposta alle proteste per il suo sostegno all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, beh, suona anche meglio di come si legge.

Il dissenso sul palcoscenico degli Oscar ha raggiunto di nuovo nuove vette durante la guerra in Iraq; una serie di vittorie ha fornito l'opportunità per le critiche televisive a livello nazionale all'amministrazione di George W. Bush . Quando Bowling for Columbine di Michael Moore ha vinto il premio per il documentario nel 2003, il regista ha gridato: “Siamo contro questa guerra, signor Bush! Vergognati, signor Bush! Vergognatevi!" Gran parte della folla ha fischiato e la musica ha provato a suonarlo ad alta voce prima che lasciasse il palco. Il prossimo vincitore di quel premio, Errol Morris ( The Fog of War ), si è basato sullo slancio di Moore, con un'accoglienza più calorosa nella stanza che riflette un tono più addomesticato (e cambiamenti generali nelle opinioni sulla guerra in Iraq): “Quaranta anni fa, questo paese cadde in una tana di coniglio in Vietnam e milioni di persone morirono. Temo che stiamo andando ancora una volta in una tana del coniglio, e se le persone possono fermarsi a pensare e riflettere su alcune delle idee e dei problemi in questo film, forse ho fatto qualcosa di maledettamente buono qui".

Prima di tutto ciò, però, si verificò l'11 settembre e mise gli Oscar in un punto simile a quello in cui erano stati 60 anni prima durante la seconda guerra mondiale. Le voci di rinvio abbondavano, il tappeto rosso è stato notevolmente ridimensionato per motivi di sicurezza e la trasmissione è andata avanti come una sorta di nobile causa. Poi il presidente dell'Accademia Frank Pierson ha detto che lo spettacolo doveva andare avanti , altrimenti, "I terroristi hanno vinto". Di conseguenza, Tom Cruise ha aperto con un ambizioso invito all'azione sulla creazione di opere d'arte durante i periodi di turbolenza. Woody Allen,che notoriamente non aveva mai partecipato agli Oscar prima, ha fatto un'apparizione a sorpresa dopo essere stato presentato come un "punto di riferimento di New York", ricevendo una standing ovation che sembrava raddoppiare per lui e la città che era stata così brutalmente attaccata. 

Il tono era solenne, addolorato e unitario. Quest'anno, tra le continue questioni di giustizia sociale negli Stati Uniti, dal disegno di legge "Don't Say Gay" della Florida alle misure anti-aborto adottate dagli stati di tutto il paese, ci sono molte opportunità di dissenso e attivismo mentre torniamo a il Teatro Dolby. Ma con gli americani nel loro insieme che continuano a radunarsi dietro l'Ucraina, potrebbe esserci anche la possibilità che alcuni si uniscano. In entrambe le direzioni, comunque, c'è sicuramente un precedente.

David Canfield è uno scrittore dello staff di Hollywood per Vanity Fair. Copre premi tra cui gli Oscar e gli Emmy.

Oscar 2022, la cerimonia: il politically correct colpisce ancora. Il premio più importante a una pellicola per noi decisamente inferiore rispetto a titoli del calibro di «Licorice Pizza», «West Side Story» e «Drive My Car». Stefano Biolchini e Andrea Chimento su Il Sole 24 ore il 28 marzo 2022.

Nel corso della storia degli Oscar non c'è da stupirsi e nemmeno da scandalizzarsi se spesso non ha vinto il migliore, anzi, poiché l'Academy ha di frequente previlegiato film con al centro determinate tematiche o argomenti sensibili, in particolari momenti storici, rispetto al valore artistico delle pellicole. Molte volte, però, le cose sono andate di pari passo, mentre in altri casi hanno preso una piega difficile da accettare.

Politically correct

L'attenzione per il politically correct c'è sempre stata, anche se forse negli ultimi anni si è accentuata per varie situazioni che hanno evidenziato gravi lacune nella storia dell'Academy, relative, in particolare, a un argomento sempre più urgente come quello dell'inclusività, sostenuto con battaglie davvero sacrosante.

L'importante è però non esagerare con una dittatura del politically correct, che finisce per sapere più di ipocrisia che di reale attenzione, a discapito del valore artistico delle opere in concorso: un limite sottile che quest'anno si è decisamente superato con la statuetta più ambita andata a «I segni del cuore – Coda». Non è neanche colpa di questo film che fa comunque in parte il suo dovere: un feel-good-movie piuttosto godibile, se ci si vuole accontentare di poco e passare due ore con un sorriso sulle labbra e qualche emozione da voler sentire nel cuore. 

Sian Heder

Diretto dalla regista Sian Heder, parla dell'adolescente Ruby, unica persona udente della sua famiglia, che durante le prime ore del mattino, prima di entrare a scuola, lavora sulla barca di famiglia per aiutare i suoi genitori e suo fratello a portare avanti la loro attività di pesca. Ruby ha inoltre uno straordinario talento canoro tutto da coltivare. 

Remake di un furbissimo film francese, «La famiglia Bélier», «I segni del cuore – Coda» è un lavoro buonista, che sfrutta le sequenze dell'originale ad alto tasso di retorica offrendo una visione semplice e appagante. Andrebbe tutto bene, per carità, con questa pellicola che può anche meritare una sufficienza piena in termini generali (anche per l'ottima prova del cast e, in particolare, di Troy Kotsur, premiato come miglior non protagonista) ed essere apprezzata per come affronta con il giusto rispetto il tema dell'inclusività ma… qui stiamo parlando dell'Oscar al miglior film.

Come spiegheremo ai posteri che nell'edizione 2022 ha vinto questo film mentre tra i candidati c'erano tre lungometraggi artisticamente meravigliosi come «Licorice Pizza», «Drive My Car» e «West Side Story»? Soltanto l'incipit di ognuno di questi tre titoli vale per noi praticamente dieci volte un intero prodotto convenzionale come «I segni del cuore – Coda». E anche l'altro favorito della vigilia, «Il potere del cane», è un film che, cinematograficamente parlando, non sembra neanche giocare nello stesso campionato del vincitore. Non ha vinto soltanto «I segni del cuore – Coda» l'Oscar al miglior film: l'hanno vinto anche l'ipocrisia e il politically correct e, ancora una volta, a perdere è soprattutto il (grande) Cinema. Stefano Biolchini, redattore

Gli store dell'azienda svizzera presi d'assalto. su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.

(LaPresse) Da Milano a Torino, passando per Arese, Roma, Napoli, e Venezia sono migliaia le persone che hanno trascorso ore in fila davanti agli store Swatch per accaparrarsi il nuovo Speedmaster MoonSwatch, orologio realizzato in collaborazione con Omega e disponibile per il momento solo nei negozi. Si tratta di un remake dell'iconico Speedmaster Professional di Omega utilizzato ufficialmente dagli astronauti della Nasa che atterrarono per la prima volta sulla Luna nel 1969. Le infinite code non si sono registrate però solo in Italia visto che i negozi dell'azienda svizzera sono stati presi d'assalto ovunque: a Dubai come ad Amsterdam, New York, Francoforte e Toronto. A testimoniarlo le decine di video testimonianza apparsi sui social.

Da ilmessaggero.it il 26 Marzo 2022.

Le file davanti ai negozi sono iniziate da ieri pomeriggio ma solo in pochi alla fine sono riusciti ad acquistare il nuovo orologio Speedmaster MoonSwatch, nato dalla collaborazione tra Swatch e Omega.

I prezzi della rivendita del modello in edizione limitata, dal valore di 260 euro, sono schizzati alle stelle sul web: una vera e propria speculazione ai danni dei migliaia di appassionati di orologeria, pronti a sborsare cifre esagerata pur di accaparrarselo. 

Centinaia di persone in coda anche a Verona per acquistare il nuovo orologio Omega x Swatch: il primo in coda fuori dal negozio a pochi passi da piazza Erbe è arrivato addirittura alle 16 di ieri pomeriggio. Molti poi si sono messi in fila questa notte. Il flusso della coda è stato monitorato anche da una pattuglia della Polizia locale, che è intervenuta sul posto.

Il negozio Swatch ha distribuito 200 biglietti ai clienti in coda, quindi è prevedibile che l'attesa di molte persone sia andata delusa. L'orologio è è in vendita a 250 euro, ma da quanto si è appreso uno dei primi clienti lo avrebbe subito rivenduto a 1.500 euro appena uscito da negozio. Come previsto la speculazione è ben presto passata sul web, dove l'edizione limitata è arrivata a sfiorare i 2 mila euro. 

Resse a Napoli, Torino, Venezia e anche a Roma, in via del Corso, all'angolo con via Borgognona, davanti al negozio della Swatch. A quanto si apprende la calca era stata prevista e sul posto erano infatti schierate diverse unità dei carabinieri e della polizia, i quali hanno tenuto sotto controllo la situazione e mantenuto l'ordine per scongiurare la violazione delle norme a contrasto della diffusione del Covid. 

Ora legale, questa notte lancette avanti, farà risparmiare 190 milioni. Perché non è stata abolita: il mini jet lag che non tutti sopportano

È il fenomeno del reselling, che ha spinto a trascorrere una notte insonne chi punta su un piccolo guadagno con la rivendita dell'orologio, prodotto in 11 modelli, che rielabora lo Speedmaster Moonwatch, l'iconico orologio che era al polso degli astronauti che andarono sulla luna.

Moonwatch mania a Torino: tutti in coda davanti alla Swatch. «Qui da stanotte con sedia e coperte».  Redazione online su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Davanti al negozio sin da venerdì sera per acquistare il nuovo orologio.

Tutti pazzi per il Moonwatch. Occupa un intero isolato, da via Gramsci a piazza Carlo Felice nella centralissima via Roma a Torino, la coda che si è formata davanti al negozio della Swatch. «Sono qui da ieri notte, mi sono attrezzato con zaino, sedia pieghevole e coperte», racconta un trentenne, in attesa come gli altri appassionati di Swatch di mettere le mani sull’ultimo orologio della marca, il Moonwatch, una originale riproduzione in bioceramica dello Speedmaster dell’Omega, che ha collaborato ala realizzazione del modello.

«Non è la prima volta - aggiunge un ragazzo - ho fatto la stessa cosa davanti alla Apple in altre occasioni. Poi è arrivata la pandemia...». In coda c’è chi chiacchiera, chi fa colazione in piedi, con brioche e caffè che si è portato da casa per non perdere il posto.

Anche a Bari sale la febbre dell'orologio Omega X Swatch: gente in fila da ore davanti al negozio in via Sparano. La collezione lanciata dal brand di lusso per Swatch ha chiamato a raccolta molti appassionati e curiosi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022.

La «febbre» ha colpito persone in tutta Italia: da Napoli a Torino, da Milano a Roma, e anche davanti allo store Swatch di via Sparano a Bari si sono create lunghe code per accaparrarsi uno dei modelli speciali di orologi Omega X Swatch, disponibili da questa mattina. Non capita certo tutti i giorni di avere un orologio di un brand di lusso, in collaborazione con una delle marche più accessibili e famose, al «modico» prezzo di 260 euro: perciò molti curiosi, appassionati, collezionisti hanno atteso perfino 24 ore (c'è chi si è messo in coda ieri) per acquistare un esemplare. Molti, comunque, verranno rivenduti a prezzi maggiorati, è risaputo. Sicuramente una «febbre» che ha unito Nord e Sud, senza distinzioni. 

Il mondo è diviso in due parti. I cattivi ed i buoni.

Dipende da quale parte lo si guardi. Ogni parte si arroga il diritto di stare dalla parte giusta.

Noi occidentali, sotto giogo culturale, politico ed economico statunitense, giudichiamo tutti gli altri come regimi religiosi fondamentalisti, ovvero regimi autoritari e dispotici.

Gli altri ci considerano pericolosi perché portatori di pseudo democrazie, governate dalla dittatura delle minoranze, e infette dalle tre C: Capitalismo; Caos, Criminalità.

A ciò si aggiunge l’ateismo dilagante e, cosa fondamentale, il culto del singolo individuo e della sua personalità, o della frammentazione dei singoli Stati servi della loro politica economica.

In mano a legioni di imbecilli, diceva Umberto Eco, guidate dal gradimento di un clik.

Noi vediamo la pagliuzza negli occhi altrui, ignorando la trave nei nostri occhi.

Da noi i casi di censura sono sempre più frequenti. A definirne la pericolosità è la natura ideologica, quasi religiosa, attraversata da una spinta revisionista della propria storia e delle proprie origini. Dunque è la censura a essere figlia del politicamente corretto e non l’inverso. La retorica del politicamente corretto divide la realtà, la storia, gli individui tra bene e male, tra luce e oscurità, e queste opposizioni pretendono adesioni unanimi, omologazione, conformismo. Queste radicalizzazioni non concepiscono alcun relativismo, anzi, presentano evidenze che non possono essere negate. Ideologizzazione e sessualizzazione dell’insegnamento ai minori, fin dalle elementari, sono due problemi enormi. Tendono ad ostentare ed imporre le posizioni di infime minoranze, fino a farle sembrare maggioritarie.

Agli occhi delle altre culture sembriamo essere governati dal femminismo e dagli LGBTI. 

 La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando prepotentemente nel lessico italiano.

Secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra non esiste nulla di tutto ciò: sono solo paranoie.

Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso.

La definizione la traiamo da un articolo di Stefano Magni su Inside Over.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”.

Nelle università più costose anglosassoni sono gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, difetto estetico (obesità, nanismo, handicap) immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili, secondo le mode del momento.

La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimenti più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.

In conclusione bisogna dire che il mondo è contro di noi occidentali perché ai loro occhi ci siamo comunistizzati, ossia siamo molli, effeminati e depravati. E questo stile di vita non vogliono che infetti il loro modo d’essere.

Naturalmente, nessuno dei due mondi scende a compromessi.

Entrambi tendono all'ostentazione ed all'imposizione dei loro difetti.

Federico Rampini per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2022.

Perché Vladimir Putin ha deciso che questo è il momento giusto per scatenare una guerra nel cuore d'Europa? Che cosa unisce la sua visione all'analisi del mondo che fa Xi Jinping? E come mai l'Occidente è arrivato impreparato a una sfida tremenda? Un filo rosso unisce le risposte a questi interrogativi: è la caduta di autostima delle democrazie liberali, assediate dal proprio interno prima ancora che da formidabili avversari esterni. 

Dietro la nostra sottovalutazione delle minacce di Putin negli anni passati, e ora dietro il pacifismo ipocrita «né con la Russia né con la Nato», affiora questo problema più generale, che ha contribuito a far precipitare l'aggressione contro l'Ucraina. È la smobilitazione ideologica dell'Occidente: da tempo concentrato nel processare se stesso, criminalizzare la propria storia, colpevolizzarsi per gli orrori dell'imperialismo. Solo il proprio, s' intende: gli imperialismi russo o cinese non contano. Se tutto il male del mondo è riconducibile a noi, perché avremmo dovuto vigilare su chi ci vuole mettere in ginocchio?

Per quale ragione avremmo dovuto irrobustire le difese sui confini orientali della Nato, se l'unico militarismo ad avere disseminato il pianeta di sofferenze è il nostro? La sindrome Questa sindrome auto-distruttiva è acuta in America. L'attentato alla democrazia americana è stato ben visibile nella presidenza filo-putiniana di Trump. Ancora qualche giorno fa, prima che arrivassero sui nostri schermi le immagini atroci di bombe e di morte in Ucraina, l'ex presidente repubblicano era intento a definire «Putin un genio, Biden un incapace».

Ora il partito repubblicano corregge il tiro e la sua corrente filo-russa è in imbarazzo, ma per troppo tempo questa destra ha descritto l'America come una democrazia truccata, dove gli altri vincono solo grazie ai brogli elettorali. Sul fronte opposto, il disprezzo per la liberaldemocrazia americana è speculare e simmetrico. Il movimento radicale dell'anti-razzismo, Black Lives Matter , da anni denuncia gli Stati Uniti come l'Impero del Male. Le sue analisi e i suoi slogan vengono regolarmente ripresi dalla propaganda russa e cinese. 

I talkshow in lingua inglese di RT (Russian Tv) e Radio Sputnik, i due maggiori organi di propaganda putiniana, pullulavano di ospiti della sinistra radicale americana: attivisti di Black Lives Matter e docenti vetero-marxisti con cattedra nei campus universitari dove domina il pensiero politically correct. La colpa collettiva L'unico genocidio del quale si parla nelle scuole americane non è quello che Putin vorrebbe compiere contro il popolo ucraino, secondo Zelenski: è quello che la sola razza bianca ha perpetrato ai danni dei nativi.

Il razzismo, secondo la Critical Race Theory insegnata nelle scuole pubbliche, è una colpa collettiva che soltanto i bianchi devono ammettere ed espiare. Tra la destra eversiva che diede o giustificò l'assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021, e la sinistra sovversiva che ha predicato l'odio contro le forze dell'ordine, l'America era troppo dilaniata dalle proprie guerre di religione, per avvistare un assalto esterno ormai imminente.

Le strategie diverse Putin e Xi Jinping hanno strategie diverse ma convergono su una diagnosi: l'Occidente è in una decadenza irreversibile, confermata dal nostro crollo di autostima. Quando il patriarca ortodosso prende le difese di Putin, non è solo l'erede di un'alleanza storica fra la religione e gli Zar, è anche il capo spirituale di un mondo che ci considera una società molle, perché ormai priva di certezze. 

Le analisi di Pechino sono identiche. Quando l'amministrazione Biden critica gli abusi contro i diritti umani a Hong Kong o nello Xinjiang, la risposta cinese cita Black Lives Matter, o le requisitorie della sinistra «no border» di Alexandria Ocasio-Cortez che accusa l'America per tutte le ingiustizie planetarie.

Ora Putin sembra aver ottenuto il risultato opposto ai suoi desideri: pare abbia risvegliato davvero l'unità dell'Occidente, il nostro amor proprio e la volontà di difendere la democrazia. La coesione fra Europa e Stati Uniti ha sorpreso tutti. L'arsenale di sanzioni economiche messe in campo è senza precedenti. I tedeschi cominciano a prendere sul serio la difesa e il progetto di esercito comune europeo potrebbe uscire da un letargo trentennale. Si sentono annunciare svolte energetiche drastiche per ridurre la dipendenza insostenibile dalla Russia.

Forse l'aggressione all'Ucraina è stato uno shock salutare, l'inizio di una presa di coscienza, perfino di una rinascita. L'asse Putin e Xi scommettono contro questo scenario. Colpisce il linguaggio della Cina, che pure ha molto da perdere nell'immediato da una guerra che destabilizza l'economia globale. «Non importa quanto la situazione internazionale sia precaria e pericolosa - dice il ministro degli Esteri Wang Yi - Cina e Russia manterranno la concentrazione strategica e la loro partnership per la nuova era». Mosca e Pechino sembrano convinte che dietro la nostra apparente unità, ben presto l'opportunismo del business da una parte, e le nostre fazioni anti-occidentali dall'altra, torneranno a dividerci.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 21 marzo 2022.

Venti giorni e sembra già che questa guerra ucraina non debba finir più. Più che una guerra comincia ad apparirci come un interminabile naufragio, pare che i gli ucraini debbano correr per sempre al fischio delle sirene, i profughi continuare ad ammassarsi alle frontiere in quella bolgia di vivi. L'Occidente sembra ridotto a organizzare, per l'ennesima volta, soltanto fughe, esodi, a far da sponda a ritirate e disastri. Oltre ad aiutare con un rivoletto di armi gli ucraini a diventare eroici e vederli colmare le tombe di eroi, non sembra che nulla ci resti da fare.

È così, da tempo: possiamo sopportare solo un guaio, una spina per volta: il terrorismo, la migrazione, il califfato, l'epidemia, adesso Putin e le sue voglie. Da venti giorni si può dire che non ci guardiamo più intorno, abbiamo abolito il resto del mondo. Che supponiamo, con sazia avarizia anche delle catastrofi, in trance come noi per quanto accade a Kiev e a Leopoli, inchiodato agli schermi televisivi o a decifrare i brutali geroglifici che traccia il Cremlino.

Abbiamo annacquato le innumerevoli crisi mondiali con eufemistico stile nello stesso carattere roseo e amorfo: fermate le vostre piccole apocalissi, se ne riparlerà più avanti Popoli che vegetano nell'angolo inferiore del pianeta, che nessuno veramente conosce, che occupano aridi deserti, sierre slabbrate e severe savane silenziose, beh, non si sono imposti alla nostra attenzione monopolistica. Restano bestia da macello, con loro i boia hanno ancor esitazioni. Invece... invece il mondo al di là dell'Occidente va avanti. 

Abbiamo concentrato tutte le gerarchie del male su Putin e connessi boiari, facendone una specie di epicentro di isterismi e attenzione. Purtroppo altri seminatori di tempeste stanno largamente approfittando di questa epoca di dissoluzione, di liquidazione. La guerra europea li conforta, li rafforza. Quando la mischia in Ucraina si placherà ci accorgeremo che molto è cambiato, in peggio, e per riparare i guasti ci vorrà più sopportazione che gli egizi con le sette piaghe.

Per esempio il califfo. Ne è stato appena nominato un altro, il terzo dinasta, Abu Hasan al Hashemi al Qurashi, che sul trono succede ai due' «martiri» degli americani. Ve ne siete per caso accorti? Ah! la saldezza implicita delle monarchie assolute: i monarchi si succedono senza palpiti, è la carica che resta infinita nel tempo. Quaranta giorni appena di dibattito in shure misteriosissime ed ecco scelto l'uomo che avrà il compito di moltiplicare gli impicci che il jihadismo universale mai vinto, anzi vitalissimo, propone e dispone in mezzo mondo. 

Dicono sia il fratello maggiore di Abu Bakr il Restauratore, l'uomo che ha fatto rinascere nella terra tra i due fiumi lo stato senza frontiere di un dio sanguinario. Si forma una dinastia, si resta in famiglia. Non c'era momento migliore per l'incoronazione: le province liberate dagli apostati, dalla Siria al Sahel, si scambiano in questi giorni messaggi giulivi: i cani infedeli si sbranano tra di loro in Ucraina, ancora una volta il disegno di Allah sconvolge le loro menti e li indebolisce.

Fratelli, siate pronti ad approfittarne, tornano tempi ricchi di messi per il jihad. Attendiamoci, non ci vuole Tiresia a immaginarlo, anche qualche attentato per celebrare l'evento. Intanto i sudditi moltiplicano nella totale indifferenza occidentale raid, attacchi e imboscate, la guerra santa sfrigola come un bosco secco in preda alle fiamme. In Siria hanno dovuto intervenire gli aerei russi per tenerli a bada. 

Ma Abu Hasan sa che non potrà durare a lungo l'appoggio aereo di Putin, nella guerra ucraina ha bisogno di tutte le sue forze aeree. Anche i talebani del Sahel, dopo la fuga francese, sono scatenati, a cercare di salvare dai massacri gli eserciti locali è rimasta l'armata africana di Putin, sempre lui, i mercenari di stato della Wagner impegnati a giustificare alti ingaggi e miniere in appalto, che serviranno a mandare in fumo le non troppo micidiali sanzioni.

E Bashar Assad? Silenzioso e implacabile, mentre l'occidente impegnato a sbranarsi si è perfino dimenticato di lui e del suo popolo affamato, festeggia la vittoria definitiva nella guerra dei dieci anni con una fotografia simbolo: negli Emirati, impettito, in grisaglia presidenziale, accanto al principe ereditario di questo regno da operetta ma benedetto dal petrolio. 

Dal 2011 era un reprobo anche del mondo arabo, per i suoi rapporti teologici e politici con gli odiati ayatollah iraniani. «Pilastro della sicurezza araba», «relazioni fraterne»: l'emiruccio Ben Zayed non ha lesinato gli encomi. È la premessa del rientro da trionfatore nel salotto buono della Lega araba. Ma i bombardamenti a tappeto sulle città? I cinquecentomila morti? I gas? Le condanne occidentali? Polvere, tutto dimenticato. Il mondo sta cambiando. È un trionfo non di poco conto anche per Putin che lo ha difeso contro tutto e contro tutti. E i talebani, cosa fanno i talebani nel frattempo? Tempi fausti.

Anche loro festeggiano e con la accorta prudenza che segna il loro secondo ritorno vittorioso nella storia afgana lo fanno senza chiasso, in sordina. Sì perché l'Onu, in vacanza solo per la crisi ucraina, ha riaperto intanto i contatti ufficiali con i legislatori del burqa obbligatorio e delle esecuzioni in piazza. Con un po' di salamelecchi che la diplomazia degli ipocriti riesce sempre a inventare, ha riconosciuto di fatto il loro potere. Giusto.

Infatti nessuno si occupa più dei burka, delle ragazze senza lavoro e scuola, della sharia implacabile. Tutto dimenticato, non abbiamo tempo, il chiasso si è spento, solo i profughi da Kabul lanciano timide proteste. Non sono più i profughi prediletti. Sono una moda durata pochissimo. E poi la Cina. Di lei si parla, eccome. Ma pochi si sono accorti che silenziosamente Pechino aprirà una nuova base navale per la sua flotta militare in Guinea equatoriale, zona di petrolio e di pirati. Si spalanca un altro oceano.

TUTTE LE COLPE DI…

"Solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore". Lo sfogo del reporter italiano: “Nel Donbass l’Ucraina bombarda da 8 anni, dove eravate?” Redazione su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

“Questo è il centro di Donetsk che in questo momento viene bombardato e non dalla Russia, non da Putin ma dall’esercito ucraino“. E’ lo sfogo del reporter italiano Vittorio Rangeloni che dal 2015 vive nel Donbass. “In questi giorni sono tante le persone che scendono nelle piazza d’Italia e non solo nel mondo e invocano la pace, condannano la Russia, manifestano contro la guerra. Tutto questo è fantastico, è giusto, la guerra è qualcosa di sbagliato, di ingiusto ma è altrettanto sbagliata l’ipocrisia di chi se ne fotte del fatto che…”.

Originario di Lecco, Rangeloni attacca: “Non è una cosa che accade in questi giorni ma sono 8 anni che tutti i giorni sparano contro queste città e a voi non ve n’è fregato assolutamente niente, solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore. Scusate lo sfogo…“. Raggiunto anche dall’Adnkronos, il reporter parla di “bagno di sangue” a Mariupol, nel sud dell’Ucraina, accerchiata oggi dalle truppe russe e dalle milizie popolari di Donetsk, nel Donbass. ”Ci saranno enormi perdite, scorrerà molto sangue da entrambi le parti” e a pagare ”saranno anche i civili”, perché ”le milizie popolari hanno creato due corridoi umanitari dando alla popolazione la possibilità di uscire da Mariupol e andare a Donetsk o nella Federazione russa, ma i soldati ucraini glielo stanno impedendo facendo da scudo con i loro corpi”.

Poi aggiunge: “Domani o dopodomani andrò a Mariupol, o almeno lì vicino, per capire quello che succede”. Per ora dice di ricevere ”messaggi dalla popolazione di Mariupol che dicono di stare attenti, che sono stati minati i ponti, le strade e che i militari ucraini hanno creato posizioni nel centro della città, nei parchi gioco e negli asili”. Secondo Rangeloni “da domani inizieranno le operazioni di bonifica della città”, ovvero ”si cercherà in modo molto difficile di avanzare o di far deporre le armi all’esercito ucraino, o di colpirlo dove si trova”. Ma sarà ”una battaglia molto difficile”. Anche perché a Mariupol ha la sua base il reggimento Azov, reparto militare ultranazionalista ucraino, e la 36esima brigata della Marina militare ucraina. ”Si sono trincerati in città e la città ora è assediata. Purtroppo ci sono tutte le premesse per una battaglia pesante”, afferma.

Donetsk e Lugansk. Le pseudo-repubbliche nate nel 2014 e l’Occidente che ha fatto di tutto per non vedere. Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi su L'Inkiesta il 17 Marzo 2022.

Come raccontano Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi nel loro reportage “La guerra che non c’era” (Baldini + Castoldi) quello è l’inizio di un conflitto a bassa intensità tra trincee, diritti calpestati, false democrazie e morti veri che a lungo si è scelto di ignorare. 

Il 2 novembre è una giornata storica per il Donbass: per la prima volta gli abitanti delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk sono chiamati alle urne per eleggere i loro parlamenti.

La comunità internazionale ha severamente condannato l’iniziativa definendola illegittima. «Si tratta di una vergognosa farsa», ha annunciato il presidente Poroshenko. «Una farsa molto pericolosa, perché mette seriamente a rischio il processo di pace e viola gli accordi di Minsk». Solo la Russia di Putin ha dichiarato che riconoscerà come valida la kermesse elettorale. Il resto del pianeta ha preferito voltarsi dall’altra parte.

Siamo riusciti a discuterne con uno dei massimi dirigenti separatisti, il presidente del Consiglio supremo della Repubblica di Donetsk, Boris Litvinov. Intervistarlo non è per nulla facile: non perché lui non sia disponibile – lo è al cento per cento – ma, molto più banalmente, per la drammatica assenza di una lingua in comune. Noi non parliamo russo e lui non parla inglese, così come tutti i membri della sua segreteria. Potremmo procurarci un interprete ma il problema è che non ne abbiamo il tempo: il via libera per l’intervista giunge praticamente all’improvviso. La convocazione è di lì a un’ora ed è impossibile ottenere rinvii.

Decidiamo di arrangiarci: aiutandoci col traduttore di Google, buttiamo giù una mezza dozzina di domande in caratteri cirillici. Salviamo il file sul cellulare che mostreremo poi a una delle segretarie di Litvinov, chiedendole di leggere per noi i vari quesiti. Una volta registrate le risposte invieremo via mail il file audio al nostro amico Molotov, il quale procederà alla traduzione dal russo all’italiano. È un sistema arrangiatissimo, al limite del bislacco, ma dovrebbe funzionare. Certo, non potremo replicare in diretta, dovremo limitarci ad annuire in silenzio qualunque siano le risposte. Ma perlomeno non resteremo a mani vuote.

Boris Litvinov è un uomo alto e curvo. È membro del partito comunista locale. Scopriamo che aderì al Pcus nel 1979: da allora non ha mai cambiato bandiera. Ci accoglie sorridendo con un timido «My name is Boris», che suona moscio come il lamento di un convalescente: il suo inglese si interrompe qui. Fisicamente assomiglia all’attore Toni Servillo nel film “Il divo”. Tra i due vi è una sola differenza: oltre agli occhiali a montatura spessa, il nostro uomo sfoggia anche una vasta collezione di tic.

Non capendo una parola di ciò che ci dice finiamo per concentrarci sulle sue smorfie. Scopriremo poi – leggendo le traduzioni di Molotov – che Litvinov non è per nulla uno sciocco: al contrario, sa decisamente il fatto suo. È un teorico puro, un ideologo convinto della supremazia filorussa.

«Queste elezioni», dice, «rappresenteranno la prova definitiva della nostra totale indipendenza. Fino a oggi il potere era in mano ai rivoluzionari: ora tocca ai rappresentanti eletti dal popolo che a partire da domani reggeranno le sorti del Paese». Una delle nostre traballanti domande riguardava l’annosa questione del riconoscimento internazionale. Litvinov risponde così: «Anche la Russia bolscevica faticò anni prima di essere riconosciuta. Lo stesso vale per noi: ci vorrà del tempo, certo, dovremo vincere la guerra. Ma statene pur certi: i fatti hanno la testa dura. Presto o tardi anche gli altri Paesi dovranno fare i conti con la nostra esistenza. Il primo passo è già fatto: siamo passati dalla rivoluzione alla democrazia. Vedrete: tutto il resto verrà da sé». È un’ottimista il compagno Litvinov: forse fin troppo.

Parlare di liste e candidati nella neonata federazione della Novarossia appare a dir poco eufemistico. Gli aspiranti leader sono sostanzialmente due, uno per Repubblica. Sono entrambi già al potere, semplicemente dovranno essere riconfermati. A Lugansk c’è Igor Plotnitsky, un ex militare di carriera dal volto grasso contornato da imponenti sopracciglia nere. Non è considerato granché, neppure dai suoi stessi compagni: la sua azione più significativa, pochi giorni dopo il voto, consisterà nello sfidare a duello Petro Poroshenko precisando che l’evento verrebbe trasmesso in diretta dalla Tv locale.

A Donetsk c’è invece Aleksandr Zakharchenko, il cui spessore politico è indubbiamente maggiore rispetto a quello del collega. Zakharchenko, i cui cartelloni elettorali sorridono su tutti i muri della capitale, è il leader indiscusso del battaglione Oplot, una delle più potenti formazioni dell’esercito miliziano. Ex elettricista in una miniera locale, il rampante leader ha solo 38 anni, ama indossare la divisa ed è celebre per il suo carisma aggressivo. Degli sfidanti – che pure esistono, almeno sulla carta – si conosce a malapena il nome. 

Il proselitismo elettorale è ovviamente a senso unico: Zakharchenko parla in piazza, Zakharchenko incontra i lavoratori, Zakharchenko viene intervistato dalla Tv separatista. In quanto giornalisti con accredito veniamo invitati a seguire l’onnipresente leader durante uno dei suoi tour propagandistici. È la vigilia dell’election day: l’occasione è di quelle ghiotte da non farsi scappare. Veniamo convocati alle sette di mattina nel centro di Donetsk, a ploshchad Lenina, piazza Lenin. Verremo caricati su un pulmino insieme agli altri cronisti; viaggeremo in direzione sud verso le linee del fronte, quindi raggiungeremo una località non meglio specificata dove il presidente parlerà ai soldati e agli uomini del popolo, in quello che sarà l’ultimo grande comizio della sua campagna. A che ora faremo ritorno in città? Visiteremo le trincee? Verso quali villaggi ci dirigeremo? Mistero.

Il tragitto si rivela molto più lungo del previsto. Gli altri giornalisti sono quasi tutti russi a parte un paio di francesi. Sono anche loro all’oscuro di tutto e la cosa non sembra rallegrarli. Puntiamo verso il meridione attraversando a sbuffi e sobbalzi l’intero Donbass centrale. Superiamo località dal nome sconosciuto, miseri villaggi che sembrano usciti dall’Ottocento, immense miniere a cielo aperto, laghetti dalle acque stagnanti e infiniti campi dall’aspetto incolto.

A un certo punto, dopo aver percorso una curva a gomito, costeggiamo una grande colonna di carri armati fermi: i serventi ci osservano con curiosità mentre un fotografo d’Oltralpe – con mossa tutt’altro che saggia – fa il gesto di immortalarli con la sua Reflex. Sono le undici passate: con stupore improvviso ci rendiamo conto di essere finiti così a sud che ormai siamo in riva al mare.

L’Azov si apre maestoso di fronte a noi ed è la seconda volta che lo fronteggiamo nel giro di una manciata di giorni. Mariupol deve trovarsi sulla nostra destra, a poca distanza in direzione ovest. È strano: abbiamo percorso centinaia di chilometri, attraversando in lungo e in largo l’intero Donbass.

Veniamo fatti smontare accanto a una casupola in mezzo alla campagna. Il cortiletto è affollato di militari e civili. I nostri accompagnatori ci fanno cenno di restare uniti in disparte all’ombra di un grande albero.

Restiamo fermi per una decina di minuti, poi improvvisamente avvistiamo una piccola colonna di Suv: sono quattro o cinque mezzi in tutto e procedono nella nostra direzione. A bordo c’è lui, Aleksandr Zakharchenko, accompagnato dagli uomini della sua scorta armata. Il presidente si mette in posa per i fotografi: indossa una divisa mimetica e fuma infinite sigarette. Appesi al cinturone ha un coltello e una pistola. Militari e civili gli si fanno incontro applaudendo ma il vento è molto forte e la claque si disperde.

La cerimonia è fulminea e festosa. Un’orchestrina comincia a suonare inni patriottici mentre un paio di vecchietti – visibilmente ubriachi – si scatenano nella danza del cosacco, ginocchia piegate e piedi saltellanti. I miliziani li osservano ridacchiando. Zakharchenko improvvisa un breve discorso del quale ovviamente non cogliamo che il significato generale. I termini «poboda», vittoria, «voina», guerra e «raboti», lavoratori, sono particolarmente ricorrenti.

Uno dei soldati parla qualche parola di spagnolo. Gli chiediamo di tradurci i punti salienti dell’orazione: «Il nostro presidente si è rivolto ai contadini che vivono in queste case», ci spiega il miliziano. «Ha detto che molto presto arriverà la vittoria e tutto ciò che è stato distrutto verrà ricostruito. Allora il Donbass vivrà in pace e il fascismo sarà finalmente sconfitto.»

La dialettica, purtroppo, è quasi esclusivamente a senso unico. Un cronista francese prova ad avvicinarsi a Zakharchenko per rivolgergli qualche breve domanda: come si fa avanti viene abbrancato dalla scorta e spintonato da parte. La stessa sorte tocca a un cineoperatore finlandese che si era avventurato con la sua telecamera in mezzo a un campo. L’orchestrina nel frattempo continua a suonare. Tre vecchine in lacrime chiedono di poter abbracciare il giovane leader: il loro gesto appare autentico, di una spontaneità quasi commovente.

La kermesse si conclude in modo brusco esattamente come era iniziata. Senza troppe cerimonie veniamo fatti risalire sul nostro autobus e condotti alla nuova destinazione: un misero villaggio a qualche chilometro di distanza. Anche questa volta bisogna fare tutto in fretta: smontare a terra, infilarsi in un piccolo teatro in mezzo agli alberi e prendere posto nelle ultime file. La sala è colma di gente: anziani, giovani, bambini. L’ingresso di Zakharchenko è accolto da una grande esplosione di applausi. Il presidente sale sul palco e, senza nemmeno sedersi, inizia ad arringare la folla. Lo fa gridando, agitando le mani, picchiando i pugni sul tavolo. Sembra quasi un ossesso.

Il pubblico, tuttavia, non gli è completamente favorevole. Qualcuno alza la mano, si fa portare un microfono e attacca con una breve contro-filippica. Altri cittadini seguono lo stesso esempio mentre il resto della platea, a mezza bocca, commenta l’appassionante dibattito. I contenuti ci verranno riferiti in seguito. Sono tutti di questo tenore: «I supermercati sono praticamente vuoti. Quando arriveranno le nuove provviste?» «Molte aree sono rimaste senza né luce né gas. Quando riavremo l’elettricità?» «Sono mesi che non riceviamo più le pensioni. Quando ricomincerete a versarcele?»

Ma Aleksandr Zakharchenko è un uomo con la stoffa del leader: non rifiuta il dibattito, lo affronta di petto. Urla promesse, bercia raccomandazioni, sibila impegni. Quando si avvia verso l’uscita, la folla lo saluta con un secondo, fragoroso applauso.

Il 2 novembre è una giornata gelida. Un vento umido sferza le case di Donetsk trascinando con sé qualche timido fiocco di neve. Siamo curiosi di vedere che accadrà e vogliamo vederlo da vicino. Dal momento che il tour della vigilia è andato tutto sommato bene, l’ufficio stampa governativo ha deciso di organizzarne un altro: questa volta i giornalisti verranno accompagnati a visitare i seggi. La partenza è fissata la mattina presto: si comincerà da Donetsk per poi spostarsi nei villaggi vicini.

Anche qui, come in Ucraina, la vera posta in gioco è l’affluenza. Più persone si recheranno alle urne, più il Paese risulterà legittimato. È un gioco molto semplice, che con la democrazia – intesa in senso stretto – ha decisamente ben poco a che vedere. La vera lotta non è tra Zakharchenko e i suoi misteriosi sfidanti: la vera lotta, ancora una volta, è tra il governo del Donbass e il governo di Kiev. Che si combatta con cannoni e fucili piuttosto che con le schede elettorali in fondo poco importa. Non contano i mezzi, conta solo la vittoria.

Partiamo per il nostro tour che fin da subito si rivela per quello che è: molto noioso e molto ripetitivo. Visitiamo una lunga serie di seggi ma in fondo potrebbe bastarne uno solo. La scena a cui assistiamo, infatti, è più o meno sempre la stessa. Anche qui le urne sono trasparenti. L’unica diffe- renza è che al posto del tridente di Kiev c’è il tricolore nero, blu e rosso della Novarossia. Fuori dalle sezioni elettorali si snodano lunghe colonne di persone. La folla viene allietata da piccoli concerti di musica patriottica mentre proprio di fronte alle urne vengono venduti pasticcini, dolcetti e altre goloserie.

Lo spettacolo più interessante si svolge però all’esterno dove diversi camion scaricano grosse quantità di patate, cipolle, carote e altre verdure. Dopo aver votato i cittadini si mettono in fila per fare provviste: è un affresco che ci si presenta innanzi identico a ogni tappa del nostro percorso. Proviamo a chiedere spiegazioni: «Il governo distribuisce cibo a prezzo simbolico», ci viene detto, «una grivna ogni cassetta». Il fatto che ciò avvenga proprio davanti ai seggi e proprio nel giorno delle elezioni non sembra turbare nessuno. L’atmosfera, nonostante tutto, appare serena e rilassata: la gente sorride.

Gli unici a non potersi distendere siamo proprio noi. I nostri accompagnatori – rigorosamente in borghese – non ci perdono di vista un attimo. Il programma della gita è tassativo e serrato: bisogna entrare laddove previsto, osservare per qualche minuto, uscire e ripartire, tutto ciò senza mai indugiare più del dovuto. Meno domande si fanno meglio è. Buona parte dei giornalisti – avendo intuito l’antifona – hanno preferito dare forfait. Agli altri, noi compresi, non resta che mugugnare qualche inutile protesta ma i membri della scorta sono irremovibili: ci sono ordini ben precisi, guai a sgarrare. «Davai, davai», ripetono: «Su, forza, avanti».

L’ultima tappa del tour è la cittadina di Ilovaisk, teatro – a fine estate – della più clamorosa vittoria dell’esercito separatista. Ne abbiamo sentito parlare molte volte e siamo decisamente curiosi di visitarla. Fuori dai finestrini della marshrutka sfilano le drammatiche vestigia del campo di battaglia: case distrutte, muri traforati da proiettili, intrichi di trincee e camminamenti, carri armati bruciati, elmetti arrugginiti, distese di bossoli e schegge di granata. Tutto appare triste, smorto. Anche qui il seggio è affollato di gente ma sono uomini e donne senza sorriso, dallo sguardo vuoto. Hanno in mano grandi sacchetti di plastica: si accalcano silenziosi attorno ai camion e con le dita tremanti raccolgono piccoli pugni di verdura.

«No electricity», annuncia una ragazza minuta indicando le case vicine. Ilovaisk è un deserto di gelo e di disperazione: di tanto in tanto, dai campi attorno al villaggio, emergono ancora i resti di qualche soldato ucciso. Oggi il fronte si trova a parecchi chilometri di distanza ma in un certo senso è come se non fosse mai stato spostato. Parliamo con un giovane scrutatore che si dice più che soddisfatto per come stanno andando le cose: «Good affluence», esclama. «Ottima affluenza.» Vorremmo chiedergli conto delle patate e delle carote ma in fondo non ci sembra il caso. In un certo senso ci fa quasi tenerezza. Il suo volto ricorda un po’ quello di Pavel, la nostra guida di Mariupol. L’età più o meno è la stessa: l’entusiasmo pure.

I risultati arrivano in serata e sono esattamente quelli che dovevano essere. Oltre un milione e mezzo di persone si sono recate alle urne. Zakharchenko ha ottenuto l’81,4% dei consensi, Igor Plotnitsky il 63,8%. «Coloro che sono stati eletti», si è affrettato a dichiarare il ministro degli Esteri della Federazione Russa, «hanno ottenuto un mandato per risolvere vari problemi pratici e ripristinare la normalità nelle due regioni.»

Nella capitale si festeggia: ai piedi del monumento di Lenin in piazza è stato organizzato un piccolo concerto di festeggiamento. La folla non è numerosissima ma in fondo fa freddo e si continuano a sentire colpi di cannone: gli assenti sono più che giustificati. Qualche volontario distribuisce bandierine rosse col nome di Zakharchenko. La sua icona – stilizzata alla Andy Warhol – è stata persino stampata su alcune magliette: non potendo restare all’aperto in maniche corte, i supporter indossano le t-shirt sopra le giacche. L’effetto è piuttosto grottesco ma poco importa.

Ci viene raccontata una storia interessante: per dare maggior credibilità al voto, il governo separatista ha deciso di mettere in piedi una commissione di controllo internazionale convocata «ad hoc» per l’occasione. Il suo nome è «Asce», da non confondere – o forse sì – con la quasi omonima Osce che ovviamente ha disertato l’appuntamento. La compongono una ventina di personaggi dal curriculum piuttosto bizzarro: c’è Marton Gyongyosi, numero due del partito neofascista ungherese Jobbik, ci sono due rappresentanti dell’estrema destra belga, un membro del partito ultranazionalista bulgaro Ataka, due dirigenti ultraconservatori serbi e via dicendo.

Le logiche politiche che hanno determinato le varie convocazioni ci risultano piuttosto oscure: quel che è certo è che l’Asce ha svolto con perizia il proprio dovere proclamando – a urne appena chiuse – che «le elezioni a Donetsk si sono svolte in modo regolare e con un’ampia partecipazione della cittadinanza».

Della bizzarra commissione fanno parte anche quattro italiani, tutti incredibilmente di Forza Italia. Li guida il senatore Lucio Malan, per dieci anni portavoce della propaganda berlusconiana. La cosa ci sembra a dir poco incredibile: tramite un complesso giro di contatti riusciamo a ottenere un’intervista con un membro del curioso quartetto, l’ex europarlamentare Fabrizio Bertot, già sindaco del comune di Rivarolo Canavese in provincia di Torino. Lo incontriamo a tarda serata nella hall dell’hotel Ramada dove i componenti dell’Asce sono stati generosamente alloggiati. Fuori fa sempre più freddo ma oltre le porte girevoli del lussuoso albergo si respira un’atmosfera di satolla abbondanza: camerieri in abito scuro, hostess vestite di bianco, manicaretti di alta cucina, calici di spumante, musica, donne.

Bertot ci viene incontro sorridendo. È arrivato in città da meno di ventiquattr’ore e farà ritorno in Italia già domani mattina. Della guerra non ha visto quasi nulla: solo qualche cratere, un paio di tank carbonizzati, le solite case distrutte. Tuttavia appare nervoso: «Ma vi rendete conto che qui si ammazzano come bestie?» sbotta di punto in bianco. «È incredibile, questa è gente come noi, gente cristiana che va in chiesa.» Il suo è un orrore naïf, da perfetto neofita. Non riesce a concepire il concetto di guerra: a maggior ragione, quando questa gli si scatena proprio nel cortile di casa.

«Ma vi rendete conto?» ripete con furore. «Posso capire i massacri in Africa, lì le cose funzionano così. Ma qui? In Europa? In un Paese cristiano?» La drammaticità del colloquio va via via scemando quando si comincia a parlare di affari. Bertot è apertamente filorusso: come tanti imprenditori del Nord Italia anche lui si è opposto con tutte le forze all’embargo economico nei confronti del Cremlino. Mosca è un partner prezioso al di là delle questioni politiche, del fascismo e dell’antifascismo. Solo questo conta: perciò ha deciso di fare le valige, salire su un aereo e venire a Donetsk. Chissà se chi lo ha invitato ha mai sentito parlare di Silvio Berlusconi.

Esauriti i convenevoli, Bertot prende a scalpitare. La prospettiva di un’intervista lo rallegra molto: «Vogliamo cominciare?» domanda impaziente sfregandosi le mani. Cominciamo. Domanda: «Esattamente, da quanti membri è composta la commissione?» Risposta: «Esattamente non lo so, sono più o meno alcuni di questi signori che vedete qui in giro». Domanda: «L’Asce è per caso collegata a qualche organizzazione internazionale?» Risposta: «Ah, guardate, non ne ho proprio idea». Domanda: «Chi l’ha invitata?» Risposta: «Be’, la commissione elettorale del Donbass».

Domanda: «Come giudica queste elezioni?» Risposta: «Be’, ovviamente tutto si è svolto in modo regolare, da quello che ho potuto vedere». Domanda: «Può dirci qual è il nome preciso della commissione?» Risposta: «Ecco, il nome preciso sta scritto qui, su questa targhetta che ho sulla giacca. Però è in russo, e io il russo non lo capisco: voi siete in grado di leggerlo?»

La notte cala implacabile sulle strade gelate di Donetsk.

da “La guerra che non c’era”, di Andrea Sceresini, Lorenzo Giroffi, Baldini + Castoldi, 2022, pp. 272, euro 18

Ucraina: una guerra frutto di 30 anni di errori e fraintendimenti tra Russia e Occidente. Paolo Mauri su Inside Over il 5 marzo 2022.

Il conflitto che sta imperversando ormai da più di una settimana in Ucraina non è frutto della follia del Cremlino, né deve essere considerato un “fulmine a ciel sereno”: i presupposti sono stati chiari sia nel breve sia nel lungo periodo e hanno radici storiche, diplomatiche e perfino culturali che vanno tenute in considerazione in ogni analisi.

Cerchiamo quindi di dare un contesto storico che possa aiutare a chiarire le motivazioni che hanno portato, non solo alla guerra, ma all’allontanamento della Russia dall’Occidente, e in particolar modo dall’Europa.

Il punto di vista occidentale

Occorre chiarire qualche passaggio storico afferente, in parte, al diritto internazionale. L’espansione a est della Nato non è stata improvvisa, né immotivata. Andiamo per gradi.

Tra il 1994 ed il 1997 vengono aperti, dall’Alleanza, dei forum per la cooperazione internazionale tra la Nato ed i Paesi confinanti come la Partnership for Peace (Pfp), il Mediterranean Dialogue e l’Euro-Atlantic Partnership Council. Nel 1998 viene stabilito il Nato-Russia Permanent joint Council che avrebbe dovuto portare all’ingresso di Mosca nell’Alleanza Atlantica, e a giugno del 1994 Mosca firma l’accordo quadro della Partnership for Peace, ovvero il primo vero passo per la sua adesione all’Alleanza. Parallelamente, negli stessi anni, negli Stati Uniti si assiste a un forte dibattito interno sull’opportunità dell’espansione a est dell’Alleanza: l’amministrazione democratica di Bill Clinton, spinta da diverse lobby, tra cui quella degli immigrati polacchi, decise di procedere in questo senso pensando anche che l’allargamento avrebbe contribuito all’estensione della democrazia in Europa, a causa dei requisiti minimi che devono rispettare i Paesi per poter diventare membri (anche se nella storia passata dell’Alleanza non è stato sempre così, ma vigevano altre regole dettate dalla Guerra Fredda). Questi sono il sostegno della democrazia, inclusa la tolleranza per la diversità, il progredire verso un’economia di mercato, l’avere le loro forze militari sotto il fermo controllo civile, avere dei rapporti di “buon vicinato” e rispettate la sovranità delle altre nazioni, infine un punto più squisitamente tecnico che afferma l’impegno a lavorare per l’interoperabilità con le forze Nato.

La guerra in Serbia nel 1999, decisa unilateralmente dall’Alleanza senza mandato Onu, provoca la prima vera rottura con Mosca: Eugeny Primakov, allora Primo Ministro della Federazione Russa, la notte dell’attacco stava volando a Washington per dei colloqui e quando ne venne a conoscenza ordinò di tornare indietro. La rottura però si ricompose, del resto i rapporti tra Russia e Occidente (Nato/Usa) sono sempre stati caratterizzati da un andamento altalenante almeno sino al 2014: Mosca, ad esempio, continua a far parte della Pfp nonostante la “rottura” per il conflitto nei Balcani.

Sempre nel 1999 la Nato comincia la sua prima grande espansione a est con l’ingresso di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. Nonostante questo nel 2001 la Russia appoggia le operazioni della coalizione Usa in Afghanistan, dando libertà di transito ai voli militari (poi bloccati nel 2015 a seguito delle sanzioni post Crimea) e avallando l’utilizzo di basi nelle repubbliche dell’Asia Centrale ex sovietica (come Bishkek in Kirghizistan, Dushanbe in Tagikistan e Termez in Uzbekistan) durato sino al 2014 circa, che possiamo considerare come l’anno della grande svolta nei rapporti.

Nel 2004 Bulgaria, Paesi Baltici, Romania, Slovacchia e Slovenia entrano nella Nato causando la prima vera crisi tra Stati Uniti e Russia che porterà all’uscita di questa dal Trattato CFE (Forze Convenzionali in Europa) avvenuta nel 2007 a causa del conseguente mutato bilancio tra le forze convenzionali (dall’Atlantico agli Urali) divise tra Nato e Russia per via dell’ingresso di nuovi Paesi facenti parte dell’ex blocco sovietico nell’Alleanza.

Va chiarito un punto fondamentale: nessun Paese dell’Europa Orientale è stato costretto con la pistola alla tempia da Washington a entrare nella Nato. Si è sempre trattato di libere scelte, dettate sia da “sentimenti” russofobi che appaiono fondati dal punto di vista degli stessi essendo causati da motivazioni storiche (i Baltici, e la Polonia soprattutto, hanno visto sparire la loro identità sotto il tallone sovietico), sia per effettive considerazioni di sicurezza, in quanto la Nato offriva un “servizio” di difesa che avrebbe sopperito alle carenze nelle forze armate sostanzialmente ferme, dal punto di vista dei mezzi, alla Guerra Fredda.

L’intervento russo in Georgia, nel 2008, non ha fatto altro che confermare questi timori, e quello in Ucraina – probabilmente pensato già all’indomani di quel breve conflitto – li ha esacerbati coi risultati che stiamo vivendo. Spesso, poi, si dimentica (non si sa quanto volutamente o meno) di riportare come l’annessione da parte di Mosca della Crimea avvenuta a marzo del 2014 sia stata una violazione del trattato di frontiera concluso tra Russia e Ucraina nel 2003, ossia dell’accordo di amicizia e cooperazione in cui veniva riconosciuta l’intangibilità delle frontiere inter sé e la sovranità ucraina sulla Crimea.

Il punto di vista russo

Nello studio della geopolitica, quando si affronta quella della Russia, spesso ci si chiede se non sia stata una “occasione persa”. Come abbiamo appena visto c’è stato un tempo, a cavallo tra gli anni ’90 e i primi anni 2000, in cui Mosca guardava con favore alla possibilità di entrare nell’Alleanza Atlantica e di legare maggiormente il suo destino a quello europeo: i russi si sentono profondamente europei culturalmente parlando, anche se questo processo è stato in qualche modo indotto (o forzato) dallo Zar Pietro il Grande, ma basterebbe guardare alla letteratura, all’arte e all’architettura per capire come la Russia abbia più di un legame col resto del continente europeo, che, di fatto, è un’appendice occidentale dell’Asia.

Sebbene si possa affermare con ragionevole certezza che l’avvicinamento alla Nato degli anni ’90 sia stato frutto della debolezza della Federazione, appena uscita sconfitta dalla Guerra Fredda, resta comunque il principio che Mosca ha sempre cercato di connettersi con l’Europa, appunto per motivazioni culturali e per interessi strategici.

In quegli anni, però, sono stati fatti errori da entrambe le parti, frutto di fraintendimenti ma anche dettati da opportunismo politico e mercantile: la Russia era “fragile” ma era una fragilità del tutto contingente stante le sue risorse, e non essendole stato riconosciuto il giusto peso, è stata trattata come minor player dagli Stati Uniti, che hanno cercato di diventare gli unici attori di un mondo che, di fatto, era unipolare, e dall’Europa, che ha approfittato di questa debolezza per cercare di depredarla – insieme agli Usa – delle sue ricchezze con la complicità degli oligarchi. Non è infatti un caso che quando Vladimir Putin arrivò al Cremlino, cominciò un durissimo contrasto alle oligarchie russe, ree di aver “svenduto” il Paese e accusate di corruzione.

La prima vera rottura con l’Occidente, come già detto, non ha comunque allontanato la Russia dall’Occidente, ma nei primi anni del 2000, quando Mosca sosteneva la Coalizione Usa in Afghanistan, Washington decise unilateralmente di uscire dal Trattato ABM (Anti Ballistic Missile) che sino ad allora garantiva l’efficacia delle forze missilistiche strategiche russe viste come l’unico efficace strumento di deterrenza (ancora oggi a onor del vero) dato il disastroso stato in cui versavano quelle convenzionali. Mosca ha letto questa decisione come il primo vero attacco alla propria sicurezza, ma ancora non decise di troncare i rapporti con gli Usa, cosa che non fece nemmeno quando, come già detto, la Nato incluse altri Paesi dell’est europeo nella sua seconda grande espansione nel 2004.

Comincia però a serpeggiare un sentimento di accerchiamento, ma soprattutto l’Unione Europea viene sempre più vista come un’entità priva di effettiva capacità negoziale che affida la propria difesa alla Nato. Questo spiega, oggi, perché il Cremlino, nei mesi precedenti la guerra in Ucraina, abbia scelto di trattare con gli Stati Uniti e la Nato, e solo unilateralmente con alcuni Paesi Ue (Francia e Germania).

Il conflitto in Georgia deve pertanto essere letto come il primo vero avviso che Mosca ha dato alla Nato e all’Occidente di non interferire in quello che si definisce “near abroad” (estero vicino): non una vera e propria sfera di influenza di stampo sovietico, ma uno spazio in cui una potenza globale – come di fatto era al tempo ed è tutt’ora la Russia – agisce per la propria sicurezza economica, politica e militare. In questo senso bisogna considerare il ruolo, per nulla secondario, dei conflitti e delle insurrezioni di stampo islamico: Mosca temeva un effetto domino che dalle regioni del Caucaso, o dalle repubbliche dell’Asia Centrale, potesse portare a sovvertimenti interni (c’era stata pur sempre Beslan e l’attacco al teatro di Mosca), anche in considerazione dell’appoggio di cui godevano gli estremisti islamici proveniente da Paesi considerati, in qualche modo, nell’orbita statunitense.

Il 2014, coi suoi prodromi delle rivoluzioni colorate (2003), è l’anno della svolta: Mosca rompe gli indugi e annette la Crimea dopo una magistrale operazione di Hybrid Warfare quando ritiene che Kiev possa seriamente entrare nella Nato e nell’Ue, quest’ultima vista con altrettanta preoccupazione per la sua espansione a est.

Un’occasione persa

Ora, col conflitto in atto, si può dire con certezza che quella “occasione” è sicuramente persa: l’Europa, per errori di valutazione e fraintendimenti, ha “perso” la Russia consegnandola mani e piedi legati alla Cina. Questo idillio tra due “quasi amici” non durerà, e forse questo allontanamento russo dall’Europa non sarà per sempre, ma probabilmente per i prossimi 15/20 anni (o forse più) una nuova Cortina di Ferro, dal Mare di Barents (attenzione ai Paesi Scandinavi) sino al Mar Nero, calerà tra Russia e Occidente, perché questa guerra rivoluzionerà gli assetti globali e nulla sarà più come prima: dalle relazioni diplomatiche a quelle commerciali.

In 30 anni sono stati fatti tanti errori, da ambo le parti, frutto anche dei differenti equilibri di potere che si sono succeduti: del resto “pacta sunt servanda“, benché principio base del diritto, viene quasi sempre applicato in base all’effettivo peso di una parte o dell’altra, soprattutto se si tratta di accordi informali, o gentlemen’s agreement.

Sicuramente noi europei, invece di trattare la Russia come un minor player, avremmo dovuto, con un po’ più di lungimiranza, proporre una serie di garanzie economiche, commerciali e politiche alla Russia, come, magari, una fascia di rispetto nell’est europeo in cui non si sarebbero piazzate basi militari, e soprattutto stabilire un tipo di meccanismo economico 50-50 che permettesse una mutua prosperità (invece di farne terra di preda), in cambio della loro rinuncia scritta al ripristino della “sfera di influenza”. Da parte russa, avrebbe dovuto esserci una minore assertività (nel tempo diventata vera e propria aggressività), evitando di usare la forza in Georgia, ad esempio, ma cercando maggiori legami di tipo economico e commerciale coi Paesi del suo near abroad e riconoscendone il diritto alla “democrazia”. Ora, forse, è tardi, ma la diplomazia è l’arte del possibile, e siamo convinti che a Mosca, nel lungo periodo, si accorgeranno del pericolo insito nei legami a doppio filo stabiliti con Pechino.

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Ucraina, tutte le colpe di Putin. È tutta colpa di Vladimir Putin. La resistenza passiva dei servizi segreti russi: “Non siamo allineati”. Il Tempo il 29 marzo 2022.

«Per la prima volta gli apparati non sono allineati con il Cremlino. Pensano che ci sia un solo uomo da incolpare per tutti gli errori commessi in Ucraina e che quell’uomo sia Vladimir Putin». A dirlo, in un’intervista a Repubblica, è Andrej Soldatov, esperto dei servizi d’intelligence russi che insieme a Irina Borogan ha fondato il sito web Agentura.ru (bloccato una settimana fa dalla censura moscovita) e scritto diversi libri. «Putin - spiega - ha cambiato le regole del gioco. E lo ha fatto drasticamente. Non aveva mai attaccato pubblicamente i suoi uomini, gli uomini dei servizi». Soldatov sottolinea: «Quest’operazione è totalmente diversa dal passato. Gli apparati del potere erano tutti d’accordo con l’invasione della Georgia nel 2008 e l’annessione della Crimea nel 2014. Stavolta no. E pensano ci sia solo Putin da incolpare. Non si tratta ancora di crepe o di una resistenza aperta, ma di presa di distanza. Si sentono tutti vittime degli errori di Putin. E stanno opponendo una resistenza passiva. Resta da vedere a che cosa porterà». Un’operazione diversa dalle altre anche «perché è iniziata con un attacco contro l’intelligence. Alla riunione del Consiglio di sicurezza, Putin ha umiliato pubblicamente il direttore dell’intelligence estera, Svr, Serghej Naryshkin. Due settimane e mezzo dopo, abbiamo saputo di purghe all’interno del dipartimento estero dell’Fsb, un dipartimento cruciale perché è responsabile delle operazioni nell’ex Urss e in Ucraina. Due alti dirigenti sono stati interrogati e messi agli arresti. Dovevano insediare politici filo-Cremlino e hanno fallito. Non c’era sostegno popolare né politico per un’invasione in Ucraina ed era loro compito garantire entrambi».  

In questo momento, «Putin è contrariato, persino arrabbiato, con i protagonisti dell’operazione in Ucraina, e la Guardia nazionale è tra questi. Non è contento dell’operazione, ma crede ancora nella bontà del suo piano originale. E pur di non ammettere colpe, cerca capri espiatori: intelligence errata, sottrazione di fondi, traditori…». Peraltro, spiega Soldatov, Putin non aveva informato dei suoi piani neanche i fedelissimi: «Molti erano all’oscuro, quanto meno della portata dell’operazione. Credevano che si sarebbe limitata a Lugansk e Donetsk. O che sarebbe stata condotta diversamente. Nell’Fsb c’è un’ossessione per i raid Nato in Jugoslavia del ’99. Il successo dell’operazione li ha convinti che basti bombardare un Paese per sovvertirne gli equilibri. Pensavano di replicare quel modello. Invece Putin ha fatto diversamente: lanciato raid aerei e mandato truppe di terra. E ha fatto cilecca».  

Ora Putin si fida di «quattro o cinque persone al massimo. Il ministro della Difesa Serghej Shoigu, il capo del Consiglio di Sicurezza Patrushev. Jurij Kovalchuk (principale azionista di Rossija Bank, ndr), si dice. E uno o due amici di San Pietroburgo». Su un eventuale rovesciamento del regime, Soldatov spiega: «I russi non sono bravi nelle cospirazioni. Per ordire un golpe bisogna avere il sostegno politico di una sorta d’opposizione e in Russia non esiste. Secondo mie fonti, Putin non era contento della resa militare di Shoigu, che però è insostituibile e potrebbe avergli inviato un messaggio: ‘Non puoi liberarti di me, sono il volto della guerra’». 

L'Aria che Tira, Vittorio Feltri sta con Joe Biden su Vladimir Putin: “Macellaio, neanche i sonniferi lo calmano”. La farsa negoziati. Il Tempo il 29 marzo 2022.

Joe Biden ha alzato il livello dello scontro con Vladimir Putin anche a livello verbale, usando parole dure nei confronti del presidente della Russia. Le dichiarazioni del numero uno americano hanno fatto storcere la bocca a molti, non a Vittorio Feltri. Il direttore di Libero è ospite in collegamento della puntata del 29 marzo de L’Aria che Tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, e si scaglia contro il leader di Mosca: “Ho ascoltato il discorso di Joe Biden, che è stato molto criticato, ma in realtà il presidente Usa ha detto la verità e descritto la realtà. Anche se non mi è simpatico, il macellaio è esattamente Vladimir Putin che non si fa calmare neanche dai sonniferi, non facciamo la guerra alle parole, che descrivono la realtà. Non mi sento di criticare Biden, è una polemica del tutto opportunistica, è finalizzare a calmare Putin. 

La Merlino interviene e chiede conto delle discussioni in corso tra Russia ed Ucraina, “avranno un risultato?”. “Impossibile”, risponde secco Feltri, argomentando così la risposta: “Uno che vuole discutere non ne ammazza ogni giorno una quantità sterminata, dovrebbe dimostrare un po’ di buona volontà. Quando si tratta normalmente ci dovrebbe essere il 'cessate il fuoco', si dovrebbero sospendere i bombardamenti, poi si discute e si vede. Discutere mentre i cannoni sparano mi fa pensare che sia improbabile che la trattativa possa sfociare in decisioni positive”.

Gli italiani e la guerra: il 70% dà la colpa a Putin. Solo tre su dieci i filo-russi. Bocciato anche Biden. Adele Sirocchi venerdì 4 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

Gli italiani e la guerra. Cosa pensano gli italiani dell’offensiva scatenata in Ucraina? Uno spaccato delle opinioni, prevedibili, dei nostri connazionali lo offre un sondaggio pubblicato oggi sul quotidiano Domani. La ricerca (Legacoop e Ipsos) si è svolta tra il 28 febbraio e il 1 marzo. 

Gli italiani e la guerra: prevale la paura

Il sentimento che prevale è quello della paura. “Il 75 per cento degli italiani teme che si possa arrivare allo scoppio della Terza guerra mondiale; l’80 per cento ha paura che una delle parti in gioco possa perdere il controllo e usare le armi atomiche; l’81 per cento teme che vengano danneggiate le centrali nucleari ucraine e che ci sia una nuova Chernobyl“.

Gli italiani e la guerra: le ripercussioni economiche

Una paura che non riguarda solo le armi ma anche le ripercussioni economiche dalla guerra. “Il 66 per cento è preoccupato per il probabile ennesimo rincaro dei prezzi; il 58 per cento ritiene altamente probabile una riduzione nelle forniture di gas, mentre il 30 per cento denuncia il rischio di tagli e riduzioni nelle esportazioni, con conseguenti perdite per interi settori produttivi e un altro 30 per cento è preoccupato dall’ipotesi di dover inviare dei soldati italiani a combattere. Un terzo delle famiglie italiane, infine, sta già pensando di ridurre i consumi per risparmiare di più. Le responsabilità”.

La responsabilità è di Putin, bocciato Biden, il 30% accusa la Nato

Per il 74% degli italiani, infine, la responsabilità del conflitto  “è completamente da imputare al presidente russo Vladimir Putin, ma anche sugli altri attori in campo ci sono alcune annotazioni critiche”. Ma tre su dieci pensano he ci siano responsabilità della Nato a causa della sua volontà di spingersi a est; il 23 per cento – infine – pensa che l’Ucraina, con la sua intenzione di aderire alla Nato, non abbia fatto tutto il possibile per scongiurare il conflitto e, sempre il 23 per cento, imputa agli Usa la colpa di aver alimentato da anni il conflitto.

Molto critici i giudizi su Joe Biden, bocciato dal 51% degli intervistati. Il 91%, infine, si augura “un accordo tra le grandi potenze per non schierare armi nucleari in Europa o nella Russia occidentale e (90 per cento) per ridurre gli arsenali nucleari”.

L’Ucraina è stata aggredita, che colpe ha in questa guerra? Iuri Maria Prado su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

Avrei questa umilissima osservazione da fare a proposito del “No a tutte le guerre” che riassume il comune intendimento pacifista. E cioè che lo slogan ha cominciato a diffondersi e impennarsi non quando i russi hanno attaccato gli ucraini, ma quando questi hanno preso a difendersi. E un’altra: che quel pacifismo – rispettabilissimo, per carità – dal primo momento e poi durante i bombardamenti sembrava rivolgersi contro l’ipotesi di una guerra che avrebbe potuto esserci, trascurando la guerra che c’era. Che le due mende affliggano magari non tutto, ma una buona quota dell’atteggiamento pacifista, a me pare abbastanza evidente. E, di fatto, salvo il routinario riconoscimento che l’aggressore è uno e l’aggredito è l’altro, resta che siccome uno non smette di aggredire allora la colpa somma è dell’aggredito che non si arrende. Che a noialtri poco perspicaci sembra un cortocircuito logico mica male.

Un’ultima, sommessa nota. Tra gli argomenti adoperati non dico a favore degli uni (gli aggressori), ma certamente a contrasto degli altri (gli aggrediti), c’è che questi non possono vincere: ciò che, secondo quella prospettazione, aggrava la responsabilità di chi non si arrende. Domanda: quindi se l’aggredito ha la possibilità di vincere cessano le ragioni che fan gridare “No a tutte le guerre”? Mi rendo conto che si tratta di considerazioni grossolane, e sprovvedute di sufficiente dottrina: ma mi piacerebbe capire dove pecchino nel merito. E perché. Iuri Maria Prado 

Perché il disastro ucraino non è colpa della Nato.  Stefano Magni il 15 Marzo 2022 su Nicolaporro.it su Il Giornale.

Passi l’autocritica, che è una pratica dei forti, passi il dubbio di aver sbagliato molto in passato. Ma, per favore: piantiamola di accusare la Nato per lo scoppio della guerra in Ucraina.

Anche i nazisti si lamentavano

In primo luogo, ad invasione avvenuta, è moralmente ripugnante continuare a puntare il dito sull’aggredito e su chi lo avrebbe spinto nelle fauci dell’aggressore. L’immoralità di questo argomento si può toccare con mano se facciamo qualche paragone storico. Persino la Germania nazista, nel 1939, aveva “le sue ragioni” per invadere la Polonia. Berlino lamentava, infatti, di aver subito delle condizioni di pace ingiustamente dure nel trattato di Versailles dopo aver perso la Grande Guerra. Queste “ragioni” si devono ascoltare, finché non c’è la guerra, per cercare di ricomporre pacificamente una questione internazionale. Ma nel momento in cui una delle parti ricorre alla forza per costringere gli altri al suo volere, ogni ragione viene a mancare. Conta, per l’aggressore, solo la legge del più forte. Nessuno parlava più della legittimità della pace di Versailles, mentre i panzer tedeschi avanzavano su Varsavia. Oggi è assurdo continuare a parlare dell’ordine nato dopo la Guerra Fredda, mentre i carri russi avanzano su Kiev.

Perché Kiev vuole la Nato

La smania di autocritica ci ha resi ciechi nei confronti dei torti dell’aggressore, ma anche delle ragioni dell’aggredito. L’Ucraina aveva tutto il suo legittimo interesse ad entrare nella Nato ed aveva perfettamente ragione di aver paura della Russia. Nel febbraio del 2014 la Crimea è stata occupata da truppe russe e, un anno dopo, era stata annessa alla Federazione Russa. Nessuna nazione europea, dal 1945, ha mai subito una simile mutilazione territoriale, ad opera di un vicino, senza reagire militarmente. Per di più, nell’aprile del 2014 è scoppiata una guerriglia separatista nel Donbass che (benché i russofili e i russi lo neghino) era platealmente alimentata da armi e consiglieri militari russi.

L’Ucraina si sentiva giustamente minacciata nella sua stessa esistenza da un presidente russo, Vladimir Putin, che l’ha sempre considerata un errore della storia, una parte dello stesso “spazio spirituale”. E dunque i presidenti che si sono succeduti a Kiev, almeno dal 2014, avevano tutto l’interesse e tutte le ragioni per chiedere di aderire alla Nato, per esserne protetti. I fatti di oggi dimostrano che le paure degli ucraini fossero più che fondate, non che abbiano “aizzato” i russi chiedendo aiuto all’Occidente.

La Russia non è l’Urss

E veniamo, infine, al “peccato originale”, come viene sempre considerato l’allargamento della Nato ad Est, ai Paesi del Patto di Varsavia e alle tre Repubbliche Baltiche che erano parte della stessa Urss. Si cita spesso un presunto accordo siglato fra gli Usa dell’amministrazione Bush (padre) e l’Urss di Gorbachev, in cui la Nato si prendeva l’impegno solenne di non allargarsi mai ad Est dell’Oder, confine orientale della Germania riunificata. C’è molta confusione anche sulla data e sull’identità stessa di questi accordi. Si citano soprattutto di colloqui “4+2” sulla riunificazione della Germania, avvenuti nel settembre 1990. Ebbene: nel settembre del 1990 non c’era la Russia, c’era l’Urss. Sempre nel settembre del 1990, a Est dell’Oder c’era ancora il Patto di Varsavia. Di cosa stiamo parlando allora?

Il Patto di Varsavia, la mutua difesa dei “fratelli” socialisti, le basi sovietiche nell’Est europeo, la stessa Unione Sovietica, dopo il 1991 hanno cessato di esistere. Pretendere di mantenere la validità di accordi siglati da Stati e alleanze che non esistono più, obiettivamente, è un gioco ideologico che può essere sostenuto solo da revanscisti sovietici, in Russia, non si può accettare anche da noi. La Russia non è l’Urss, ne è solo in parte l’erede diretta e, dal 1994, ha siglato altri accordi bilaterali con la Nato. Il 27 maggio 1997, con il Nato-Russia Founding Act, le due parti hanno anche preso l’impegno di non creare nuove sfere di influenza e di non arrogarsi un diritto di veto sulla controparte.

Si può obiettare che non fosse politicamente saggio ammettere nella Nato degli Stati che si erano appena liberati dal comunismo, o si erano appena resi indipendenti dall’Urss? Perché, se la Russia non costituiva più una minaccia, quegli Stati avrebbero dovuto chiedere aiuto alla Nato e perché noi avremmo dovuto assecondare la loro “paranoia”? Perché, come nel caso dell’Ucraina, non era paranoia, ma un legittimo allarme. Prima di tutto perché sin da subito la Russia ha mantenuto, nel cuore dell’ex Patto di Varsavia, una sua exclave, quella di Kaliningrad (incastonata fra Lituania e Polonia) militarizzatissima. Una presenza ingombrante che, ai baltici e ai polacchi, ha sempre dato la stessa impressione del delinquente che, dopo una fuga, tiene comunque il piede nella porta, pronto a rientrare, con le peggiori intenzioni.

In secondo luogo, tutti i Paesi dell’Est hanno problemi di minoranze etniche e linguistiche, nel caso di Estonia e Lettonia, di minoranze russe. Ed hanno visto che, sin dal 1992, la Russia tendeva a risolvere i problemi delle minoranze con la forza delle armi, in Moldavia (occupando la Transnistria) e in Georgia (ben due guerre, per separare Abkhazia e Ossezia nel 1992-94 e nel 2008). Non volevano essere prossimi nella lista.

Terzo, ma non da ultimo: anche quando era presidente Eltsin, filo-occidentale, il parlamento russo era dominato da forze nazionaliste e comuniste che puntavano esplicitamente alla rifondazione dell’impero sovietico sotto altre spoglie. Queste forze hanno cercato di prendere il potere, e quasi ce l’hanno fatta, nell’ottobre del 1993. I Paesi che facevano parte dell’Urss e del Patto di Varsavia e se ne erano appena liberati, avevano tutte le ragioni per temere un ritorno improvviso nel passato.

I Paesi che sono entrati a far parte della Nato, dopo il classico percorso ad ostacoli per accedervi, non hanno avuto problemi militari con le loro minoranze e non sono più stati concretamente minacciati da Mosca. L’Ucraina è fuori dalla Nato ed è stata invasa. Sarà un caso?

Stefano Magni, 15 marzo 2022

Vladimir Putin, perché è lo zar a tradire la Russia: la prova sta nella letteratura. Corrado Ocone su Libero Quotidiano il 04 marzo 2022

Diversi organi di stampa si stanno sbizzarrendo in questi giorni nel compilare liste di "putiniani d'Italia", cioè di politici e uomini di cultura che giustificano l'intervento russo in Ucraina o che comunque sono comprensivi delle "ragioni" che avrebbero spinto Putin a infrangere così palesemente le regole del diritto internazionale. L'elemento che più viene messo in evidenza è il filo rosso che collegherebbe destra e sinistra, paracomunisti e parafascisti, in questa presa di posizione così poco allineata con la maggioranza dell'opinione pubblica. In verità, l'elemento comune, nell'un caso e nell'altro, è l'antioccidentalismo, la tendenza a fustigare l'Occidente, e l'America in primo luogo, deprecandone vere o presunte malefatte storiche o attuali. Eppure, gli antioccidentalisti non possono essere presi e messi in un fascio, confusi in una "notte in cui tutte le vacche sono nere" per dirla con Hegel. Prima di tutto, scansiamo un equivoco: anche se è il nostro oriente, così come lo sono tutti i Paesi del vecchio "Patto di Varsavia", la Russia è, per la sua cultura, Occidente a tutti gli effetti. 

Diretta "Rischio catastrofe nucleare, la Nato intervenga": Putin fuori controllo. Indiscrezioni-choc: centrale in fiamme? Pompieri bloccati per 2 ore dai russi: cercano l'incidente?

Senza la sua grande letteratura ottocentesca, giusto per fare un esempio di attualità (dopo l'incredibile censura milanese a Dostoevskij), la stessa nostra identità culturale sarebbe monca e incomprensibile. Ed in effetti in molti, soprattutto a destra, contestano alla nostra parte di mondo, materialista ed edonista, di aver tradito i veri valori dell'Occidente che invece la Russia, con la sua "spiritualità", conserverebbe intatti o quasi e che anche noi dovremmo recuperare. Che è poi la narrazione avvalorata dallo stesso Putin, sulla cui veridicità è più che lecito dubitare, se non altro perché settanta annidi "ateismo di Stato" sovietico qualche effetto sicuramente lo hanno sortito. In ogni caso, tutta la vasta bibliografia sul tradimento che l'Occidente avrebbe compiuto di sé stesso, e quindi sul suo suicidio o tramonto, e sulla necessità di contrastarlo, vorrebbe più e non meno Occidente, ovvero vorrebbe sostituire quello "falso" che si è affermato con quello "vero" dei bei tempi antichi. C'è però poi anche chi, soprattutto a sinistra, alla metafora del tradimento preferisce quella del compimento: l'Occidente capitalistico avrebbe appunto realizzato i suoi principi, mostrato la sua vera faccia, feroce e disumanizzante, ed ora bisogna superarlo imponendo nuovi valori e realizzando la "vera" democrazia. Da qui l'attenzione per la rivoluzione e il sovvertimento dello status quo proprio dei marxismi e comunismi e l'apertura alle culture "altre" delle varie culture (o subculture) terzomondiste o multiculturaliste. 

Qui si chiede non più ma meno Occidente, non il vero Occidente ma l'altro dall'Occidente. Due forme di antioccidentalismo che coincidono, suppergiù, con le culture tradizionaliste a destra e con quelle del "politicamente corretto" a sinistra. E se la verità stesse al centro? Non potrebbe essere, voglio dire, che proprio la conflittualità che accompagna l'Occidente fra chi lo vorrebbe migliore e chi invece vorrebbe sorpassarlo sia ad esso vitale, cioè la cifra più vera della sua identità. La quale non è mai conclusa o definita, sempre imperfetta, tutta protesa ad evitare le reductio ad unum della realtà complessa del mondo da qualunque parte esse provengano. L'Occidente aborre quella uniformità o armonia, quella tranquillizzante vittoria di un "pensiero unico", che sognano e a cui anelano sia autocrati pericolosi come Putin sia i tanti illiberali di testa che affollano il nostro mondo. 

Scuola, caos in piazza a Roma: gli studenti non vogliono l'alternanza scuola lavoro...Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.

Noi italiani dobbiamo stare attenti, è uno dei tanti nostri vizi, a trasformare anche questa volta la tragedia in farsa come è successo ieri con il tentativo dell'Università Bicocca di Milano di annullare una lezione su Dostoevskij, il grande romanziere e pensatore vissuto nell'Ottocento che non è patrimonio della Russia di Pu tin ma dell'umanità intera. E dobbiamo stare pure attenti a non confondere i due piani della crisi in Ucraina. Un conto è la battaglia su campo, il cui esito è scontato fin dall'inizio, che deve finire il prima possibile a qualsiasi costo e condizione, anche quella di poter far dire già oggi, al termine del secondo incontro di trattativa col nemico, a Putin "abbiamo vinto noi". 

Altro è tenere il punto sul fatto che da una settimana Putin e la sua corte non fanno più fare parte della comunità civile internazionale e mai più potranno tornare ad esserlo né dentro né fuori i loro confini. Il fatto che il magnate amico suo, Roman Abramovich - uno degli uomini più ricchi e potenti al mondo - ieri ha annunciato di vendere la squadra di calcio inglese del Chelsea e di destinare il ricavato alle famiglie degli ucraini vittime dell'aggressione è un indizio che va oltre il fatto di cronaca. È possibile, in teoria, che quello di Abramovich sia un depistaggio magari concordato con il Cremlino.  

Ma se fosse una decisione sincera, se cioè il magnate avesse deciso di fare da capofila ai tanti russi che tra Putin e vivere nel mondo scelgono e sceglieranno la seconda ipotesi, ecco che l'Occidente libero segna un primo importante punto a suo favore. L'accerchiamento economico e sociale alla Russia di Putin deve essere determinato e ferreo quanto lo è in queste ore quello dei soldati russi alle città ucraine. Se oggi il presidente ucraino accetterà una tregua e se anche questa tregua fosse umiliante, avrà tutta la nostra comprensione perché il suo compito è di evitare un inutile massacro del suo popolo visto che nessuno in armi può andare a difendere quelle donne e quei bambini pena lo scoppio di una nuova guerra mondiale. Zelensky deve però sapere che per noi la guerra, non a Dostoevskij ma a Putin, non finirà né oggi né mai.

Lo zar non ha mai digerito la fine del comunismo e il valore della libertà offerto dalla Nato. Max Del Papa il 2 Marzo 2022 su Nicolaporro.it su Il Giornale.

Il diavolo si nasconde nei dettagli ma i dettagli sono macroscopici. Chi difende l’invasione russa dell’Ucraina? I partigiani dell’Anpi, sempre in odio all’America e ben sintonizzati su radio Mosca anche quando è tornata zarista. Ma fin qui niente di strano, sono i revisionisti ad uso e consumo, che vedono fascisti ovunque e invitano storici da cartoni animati e giornalisti da centro sociale.

Giustificazionisti di casa nostra

L’Anpi è un centro sociale diffuso, con diverse filiali, sorretto dal Pd che manifesta, chissà quanto convinto, in favore del popolo ucraino. Chi non si fa problemi è la sinistra affaristica dei Prodi e dei D’Alema i quali contestualizzano Putin per abbracciare Xi Jinping. I Prodi, i D’Alema sono ambasciatori della Cina in Italia, i negoziatori, i procacciatori di ventilatori durante la pandemia e comunque sono quelli che sui diritti umani tirano via e dicono: la Cina è un grande Paese e bisogna andarci d’accordo. Un grande Paese, così come si dice una grande democrazia. Del tipo che piace storicamente a D’Alema e ai comunisti orgogliosamente stalinisti come Marco Rizzo al quale garba più il sistema cinese della dittatura finanziaria di stampo americano e occidentale.

Ha colto bene Francesco Borgonovo sulla Verità tutta la morbidezza della formula baffina, partire con una accusa e subito ribaltarla in comprensione: le ragioni russe stanno nell’avversione alla Nato imperialista, cui peraltro Putin voleva unirsi. E dietro le ragioni russe, ci stanno quelle cinesi.

Putin, dicono le groupie della libertà pro domo propria, non è un dittatore, è un liberatore. Un liberatore che invade Paesi sovrani? Ma no, quale invasione, li libera dal nazismo. Non c’è niente da fare, zio Vlad è il loro tiranno e se glielo fai notare, loro scantonano, scivolano via: l’Ucraina è in guerra da otto anni e nessuno diceva niente. Compresi loro. Ma la logica del benaltrismo è penosa.

Putin incompatibile con la libertà

Espansionismo per espansionismo, se vedi quello della Nato come fai a non vedere quello di Putin, come fai a glissare sulla Crimea, la Georgia, la Cecenia, l’intervento in Siria, l’Ucraina oggi, la Moldavia domani? Certo, la geopolitica non si taglia con l’accetta e di vergini tra chi comanda non ce ne sono, però partire da presupposti reali per ricostruire uno scenario menzognero è inaccettabile; dire che tutti sono dittatori allo stesso modo è insostenibile. I Paesi “annessi” al blocco Nato sono stati forzati o lo hanno fatto spontaneamente per non finire in bocca a un neozarista incompatibile con l’idea di libertà, uno che non tollerava uno Stato democratico alle porte, che non ha mai digerito la fine del comunismo e dal 1999 stringe la Madre Russia in una morsa dopo averla rilevata da Eltsin, a capo di una cricca di malavitosi?

Putin, racconta Federico Rampini, della Nato voleva far parte già nel 2008, però senza pagare dazio a nessuno. E l’idea di occupare l’Ucraina la accarezza da allora: oggi si ritrova gli Stati Uniti a guida debolissima e una Ue di molluschi: mentre divampava una invasione nel cuore dell’Europa, Bruxelles era latitante, in “settimana verde” dopo aver trattato di paguri, di vongole e di smalti gender per infanti. Il continente è largamente dipendente dal gas russo anche per le criminali scelte di Angela Merkel e il despota russo ha capito che era il suo momento, incoraggiato dall’altro dittatore democratico Xi, che però lo ha già imbrigliato.

Tifosi dello Zar

Ma queste, insistono i tifosi dello Zar, sono solo ricostruzioni mainstream e il mainstream mente sempre, per vocazione, lo ha fatto pure sui vaccini. Invece gli avventurieri romantici della controinformazione, le modelle ucraine su TikTok, quelli sono vangelo. Mettere tutto nel mucchio per non pensare, per non ammettere. Sta uscendo una feccia che avremmo preferito non conoscere, anche tra chi ci segue, gentaglia che tranquillamente ti scrive: i bambini morti? I bombardamenti? Esagerazioni, e poi la guerra è guerra, allora i Balcani? Sì, e allora l’impero Romano, Ciro il Grande, il generale Custer?

Sull’invasione russa dell’Ucraina le estreme di sinistra e di destra legano le loro code di paglia: devono in qualche modo criticarla, non possono giocarsi decenni di retorica populista e resistenziale, oppure nazionalista, ma lo fanno in quel modo doppio, peloso e non riescono a contenere l’ammirazione per il condottiero che fa terra bruciata. Non vogliono il green pass ma gli sta bene il Donbass invaso, Kiev distrutta, la prospettiva di una guerra nucleare. Ma è vero o non è vero che nei piani di Putin c’è l’aggressione, in forme diverse, di altri Paesi, è vero o non è vero che Svezia, Finlandia sono state pesantemente minacciate? È vero o no che la Svizzera, stato neutrale per vocazione, ha scelto di schierarsi come non le succedeva dal 1515? A questi dati di fatto le groupie dello zar reagiscono con insulti, ti ripudiano, ti danno dell’imperialista americano, vai Vlad, finisci il lavoro Vlad, tu sì che sei un vero democratico, dopo l’Ucraina vieni a liberare anche noi. Max Del Papa, 2 marzo 2022 

Ucraina, tutte le colpe della Nato. Non è l'Arena, Andrew Spannaus: "Resistenza ucraina? Tutto come pianificato". Cia contro Putin: la guerra in tutta l'Est Europa. Libero Quotidiano il 21 marzo 2022

Andrew Spannaus è un esperto di geopolitica intervistato dalla redazione di Massimo Giletti, che ha mandato in onda le sue dichiarazioni nel corso della puntata di Non è l’Arena di domenica 20 marzo. L’americano ha sostanzialmente confermato quello che era apparso chiaramente dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ovvero che stavolta gli Stati Uniti si erano mossi con largo anticipo, quando ancora nessuno credeva ai loro allarmi sull’imminente invasione russa.

E invece la storia ha dimostrato che gli americani sapevano tutto da mesi e che quindi avevano preparato gli ucraini alla resistenza che ha prodotto il pantano in cui si è infilato Vladimir Putin, costretto a continuare una guerra che nei suoi piani originari doveva essere rapida e quasi indolore. “C’è stato un errore politico dell’Occidente - ha dichiarato Spannaus - non rendersi conto di quanto sia fondamentale per la Russia quella zona di cuscinetto. Trattare la Russia come un paese poco importante è piuttosto pericoloso, ma la difesa ucraina sta procedendo come pianificato dagli Usa”.

Secondo l’esperto americano, c’è un “progetto Usa per creare la resistenza nei paesi dell’Est in caso di invasione russa. Hanno addestrato le forze speciali e i soldati, hanno anche creato un programma per un ponte tra esercito e popolazione civile per resistere. Il più grande errore di Putin è di aver invaso tutto il paese: poteva occupare soltanto il Donbass, adesso la minaccia russa è spuntata. Invadere i paesi baltici? Ma dove vai… La genialità della strategia americana è costata chiamare il bluff. Cia coinvolta? Sì, ha avuto un ruolo principale nel gestire questa crisi dall’anno scorso in poi, ha capito cosa voleva fare Putin”.

Esercitazioni o provocazioni? Perchè la Nato ha sistematicamente irritato la Russia? Facciamoci due domande…. Leopoldo Gasbarro su Nicolaporro.it su Il Giornale il 23 Marzo 2022.

Tre importanti esercitazioni a ridosso dei confini russi, palesando la massima potenza offensiva. Mezzi, carri , navi, aerei, migliaia di uomini, di tutto di più. A due passi dall’obiettivo, o forse il vero obiettivo lo scopriremo strada facendo. E’ come se le bombe su Kiev fossero state sganciate anche da parte degli alleati. Non si tratta di ordigni reali, ma è come se lo fossero. Hanno l’effetto dirompente di una parte consistente di questi. E’ l’effetto della provocazione, è l’effetto del voler innescare un braccio di ferro inutile. Quando ho letto questa notizia mi sono allarmato, ma soprattutto mi sono chiesto perchè. Perchè in realtà, viste le cose come stanno, appare chiaro che qualcuno la guerra la voglia davvero.

Chi vuole la guerra?

Chi sta guadagnando dalla crisi?

Le sanzioni servono davvero?

Quale sarà il disegno a cui si aspira?

Facciamoci qualche domanda, ma soprattutto cerchiamo le risposte e cerchiamo di comprendere chi e perchè vuole portare il Mondo alla terza Guerra Mondiale e…fermiamoli.

Ma veniamo ai fatti.

Nell’ultimo anno, la NATO ha svolto numerose esercitazioni militari congiunte nei territori dell’Est Europa, nei pressi del confine con la Federazione Russa. Migliaia di uomini, mezzi, navi, aerei. Uno schieramento di forze che avrà fatto sollevare Putin non  poco e che probabilmente ha acceso la miccia della Guerra in corso. 

La serie è lunga, perchè alle tre esercitazioni più imponenti, di cui vi sto per dare conto, se ne sono sommate tante altre locali.

21 giugno 2021.  Prima esercitazione della NATO a pochi chilometri da Mosca. Chiamata Summer Breeze. E’ stata forse l’esercitazione più imponente di tutte. Anche la pubblicazione e l’annuncio sono stati di pari livello.

“La sesta flotta degli Stati Uniti ha annunciato formalmente la partecipazione alla prossima esercitazione annuale Sea Breeze 2021 (SB21) in collaborazione con la Marina ucraina, il 21 giugno 2021.

Lo spiegamento di forze è stato straordinario lì a due passi da Mosca. 

E’ ottobre, sempre del 2021. L’Ucraina ha avviato nuove esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti e altri Paesi della Nato, in un contesto di persistenti tensioni con la Russia per il sostegno dato agli insorti nell’est del Paese. 

Le esercitazioni militari annuali Rapid Trident 2021, che si svolgono nell’Ucraina occidentale fino al primo ottobre, coinvolgono circa 6.000 soldati provenienti da 15 Paesi, ha affermato il ministero della Difesa ucraino in una nota.

E poi l’ultima la Winter Shields 2021, la goccia che ha capovolto il vaso della calma di Putin. Un’altra prova di forza in pratica dentro o a ridosso di Casa-Putin.

Che dire? Che è ora che ci dicano cosa sta succedendo davero. Insomma dovrebbero spiegare il perchè di tante esercitazioni in quella zona. E non solo. 

Chi aveva interesse a far crescere l’escalation militare per approfittarne economicamente?

Joe Biden, "ribellione russa alla Nato". La profezia e il sospetto sul presidente: ha voluto questa guerra? Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 22 marzo 2022

Il ministero degli Esteri russo ha convocato l'ambasciatore americano, John Sullivan, e gli ha consegnato una nota di protesta contro i commenti, definiti «inaccettabili», del presidente Joe Biden, il quale l'altro giorno ha dato del «criminale di guerra» e del «dittatore assassino» a Vladimir Putin. Le frasi, si legge nella nota diffusa da Mosca, sono «indegne di uno statista di così alto rango» e, prosegue la nota, «hanno portato le relazioni Usa-Russia sull'orlo della rottura». Biden però ha detto anche altro, quando era un potente senatore del Partito Democratico in rappresentanza dello Stato del Delaware, nel 1997, poco prima di assumere la presidenza della Commissione Esteri del Senato e l'anno prima che la Nato iniziasse a espandere la propria influenza attorno alla Russia (Putin allora era un funzionario pubblico). «In primo luogo», testuali parole di Biden, «penso che l'ammissione a breve termine della Nato degli Stati baltici provocherebbe delle conseguenze negative nei rapporti tra l'Alleanza, Usa e Russia. Se mai esistesse una circostanza capace di protendere verso una reazione vigorosa e ostile, la Russia sarebbe proprio questo».

Il virgolettato è stato riproposto nell'ultima puntata di Fratelli di Crozza, su La7. Stati Uniti e Nato, dal 1999 a oggi, hanno allargato l'alleanza atlantica a una serie di Paesi "cuscinetto" (e non soltanto), e la sequenza è numericamente rilevante: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, il primo anno. Nel 2004 è stato il turno di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia. Altro allargamento, tecnicamente il sesto dalla creazione della Nato: nel 2009 Albania e Croazia. Il 5 giugno 2017 è entrato nella Nato il Montenegro. Il 27 marzo 2020 la Macedonia del Nord. L'osservazione, cercando di guardare i fatti nel modo più oggettivo possibile, è che non era difficile prevedere una reazione di Mosca, per quanto nessuno potesse avere la sfera di cristallo. «A Cuba, nel '62», questa l'uscita tranciante di Crozza, «gli americani non hanno mica lasciato che i russi gli mettessero dei missili ai confini. Giustamente si sono incazzati. È chiaro che anche la Russia si sarebbe incazzata».

E infatti lo stesso Biden l'aveva detto, quando la discussione verteva sull'ammettere o meno nell'alleanza atlantica Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. Aveva però escluso, l'attuale presidente, che la Russia avrebbe risposto militarmente, e si era dichiarato ottimista per una soluzione pacifica. Venticinque anni dopo, purtroppo, le cose sono andate diversamente e di mezzo ci sono andati anche donne e bambini. Il senatore Dem, allora, affermava che i russi gli avevano detto che Mosca, di fronte all'allargamento della Nato, avrebbero potuto cominciare a guardare alla Cina per espandere la propria economia (altro fatto verificatosi). Lo stesso Biden però, facendo una battuta, aveva aggiunto «Good luck», «buona fortuna». Fragorosa risata degli astanti. Ecco, good luck, a tutti.  

Vladimir Putin, cosa sa Grachev portavoce di Gorbaciov: "L'interesse di Biden per una crisi in Europa, come cadrà lo Zar". Libero Quotidiano il 21 marzo 2022

E' Andrei Grachev a fare le ultime correzioni, quel 25 dicembre 1991, al discorso con cui Mikhail GorJbaciov annunciò la dissoluzione dell'Urss. "Subito prima lo rilesse ad alta voce a me", ricorda il portavoce dell'ultimo presidente dell'Unione sovietica, in una intervista a La Stampa. "Provo un grande rimpianto, perché né la Russia né l'Occidente hanno saputo approfittare della chance storica e miracolosa offerta da Gorbaciov - afferma parlando da Parigi -. La Russia ha fallito il test della libertà. Ma l'Occidente non ha passato quello della vittoria nella Guerra Fredda: invece di trovare il modo di associare Mosca alla costruzione di un mondo comune, ha scelto d'isolarla e allontanarla".

Putin è pazzo? "Troppo facile spiegare la guerra così. Anche se l'operazione lanciata è irrazionale, assurda e soprattutto controproducente, perché la sicurezza della Russia, che lui vorrebbe rafforzare, ne soffre. L'economia è devastata dalle sanzioni. La Nato, invece di allontanarsi dalle frontiere del Paese, si avvicina sempre più. E l'Ucraina, che voleva smilitarizzarsi, uscirà dalla crisi più ostile a Mosca e riarmata dall'Occidente". In più, gli Usa, che si disinteressavano della difesa in Europa, vi ritornano in forze... "Sì. E sospetto che i circoli di Joe Biden avessero degli interessi a una rottura tra l'Europa e la Russia e tra questa e l'Ucraina: a una crisi tipo Afghanistan bis per Mosca. Permette agli Usa di far dimenticare la disfatta e la vergogna per la loro gestione della tragedia in Afghanistan. Gli americani adesso spostano l'attenzione dalla Cina e ritornano in Europa. Questo fa il gioco di Pechino. E' un tentativo curioso e paradossale, che fa pensare a Henry Kissinger nel 1972, quando utilizzò la Cina in funzione anti-sovietica".

Esiste in Russia una vera opposizione a Putin e al suo clan? "Dopo l'intervento voluto da Breznev in Cecoslovacchia, ci furono otto persone che protestarono nella Piazza Rossa, nel 1968. Dopo l'invasione dell'Afghanistan, nel 1979, ci vollero sei anni prima che Gorbaciov prendesse il potere. Ma ormai la storia si accelera: questa volta non aspetteremo sei anni per vedere un nuovo dirigente al posto dell'attuale presidente e la Russia gestita da un sistema post-Putin", "l'ottica di Gorbaciov prevarrà su Putin. I giovani di oggi, figli della generazione di Gorbaciov, non vogliono essere trascinati nel passato sovietico e neppure in una nuova versione asiatica dell'impero". 

Conclude Grochev: "Ora bbisogna accompagnare i due Paesi impegnati nel conflitto verso un'uscita d'emergenza", "bisogna ritornare, nonostante tutto, alla formula discussa al momento degli accordi di Minsk: la neutralità e, quindi, la finlandizzazione dell'Ucraina. Altra questione dibattuta per otto anni: fare dell'Ucraina uno Stato federale, per confermare a livello istituzionale l'esistenza di una minoranza di lingua russa, che corrisponde a quasi un terzo della popolazione. Questo tipo di soluzioni potrebbero calmare il gioco, offrire a Putin la possibilità di giustificare l'alt all'offensiva".  

Massimo Cacciari su Joe Biden: "Putin criminale e dittatore? Perché il presidente mi preoccupa". Libero Quotidiano il 22 marzo 2022

Massimo Cacciari si è detto preoccupato per il linguaggio e i termini che il presidente degli StatI uniti Joe Biden usa contro Vladimir Putin da quando è iniziata la guerra in Ucraina. Il capo della Casa Bianca, infatti, ha definito lo zar "criminale di guerra" e "dittatore", inasprendo di volta in volta i toni. "Sono stupefatto da un certo linguaggio. Il linguaggio in politica ha un suo peso. Anche se penso che il mio oppositore politico abbia torto marcio, se voglio arrivare a una pace concordata con lui non posso dargli in continuazione del bandito o del criminale", ha detto il filosofo a Radio Cusano Campus.

Cacciari, però, si è augurato che dietro le parole del presidente ci sia qualcos'altro, magari persone che portano avanti le trattative. Il filosofo ha spiegato che c'è una grossa differenza con il passato: "Si tratta di un linguaggio diverso rispetto a quello che la diplomazia americana ha sempre avuto in situazioni simili. Ai tempi del Vietnam, nessun presidente Usa ha usato termini di questo tipo verso i russi". E poi ha invitato le grandi potenze a "incontrarsi e stabilire zone neutrali, cuscinetti di protezione, quali zone de-militarizzare".

Sul ruolo dell'Europa, infine, ha detto: "Vuole giocare il suo ruolo? Facesse da ponte tra queste potenze (Stati Uniti, Russia e Cina). Questo dovrebbe essere il suo ruolo, non quello militare, che fa ridere, senza nemmeno un esercito comune". Secondo lui, inoltre, solo la Germania con Angela Merkel potrebbe davvero avere un ruolo da mediatore. 

La "profezia" dello Zar: "George, lo capisci? Non è niente, il nulla..." Federico Garau su Il Giornale il 23 marzo 2022. 

L'espansione della Nato verso l'Ucraina, nonostante gli impegni a non estendere la propria influenza a Est nei territori dell’ex Urss, e uno Stato in realtà mai considerato tale, ma ritenuto un'invenzione del Partito comunista dell'Unione sovietica di inizio '900: queste considerazioni di Putin ritornano in auge nei giorni del conflitto.

Il Corriere della Sera approfitta dell'occasione per ricordare un episodio che sarebbe avvenuto nell'aprile del 2008 nel corso di un incontro tra Russia e Nato, quando all'epoca dei fatti George Bush era presidente degli Stati Uniti d'America. Si parlava allora, nello specifico, della questione della Georgia, nazione verso la quale l'Alleanza atlantica iniziava a espandere i propri interessi. È bene specificare, per chiarire al meglio la vicenda, che si trattò di un incontro a porte chiuse, e che quanto riportato dal quotidiano si basa sul racconto di una presunta fonte interna della delegazione di un paese Nato al quotidiano Kommersant.

Vladimir Putin spiegò ai partecipanti che Mosca valutava come una minaccia l'estensione verso oriente da parte della Nato fino ai confini russi, promettendo ritorsioni in caso di un mancato dietrofront. Avrebbe altresì aggiunto che, nel caso in cui l'Alleanza atlantica avesse deciso di concedere una membership alla Georgia, il suo Paese avrebbe riconosciuto l’Abkhazia e l’Ossezia del Nord. "Ma della Georgia", avrebbe riferito al Kommersant la presunta fonte interna,"Putin ha parlato con calma e come en passant". Nel momento in cui il discorso iniziò a vertere sull'Ucraina, il presidente Russo avrebbe avuto "uno scatto d'ira". "Rivolgendosi a Bush ha detto: ma capisci George che quello non è nemmeno uno Stato", prosegue il Kommersant, presentando ai propri lettori il quadro di un vero e proprio sfogo. "Che cosa è l’Ucraina? Una parte dei suoi territori è Europa dell’est e una parte, per giunta notevole, glie l’abbiamo regalata noi! Dovete dirmi che cos’è l’Ucraina, perché io proprio non lo so, l’Ucraina non è niente", avrebbe aggiunto Putin, chiedendo scusa per aver alzato la voce. Poi la puntualizzazione del presidente della Russia, il quale avrebbe dichiarato ai presenti che se l'Ucraina fosse stata accolta nella Nato avrebbe cessato di essere considerata come Stato. Dinanzi alla richiesta di precisazioni a riguardo, sempre stando a quanto riferito dal Kommersant, Putin spiegò che un'eventualità del genere avrebbe potuto comportare l'annessione della Crimea e dell’est ucraino.

Il pensiero ritorna a tempi più recenti, e si ricollega al discorso pronunciato dal presidente russo in occasione del riconoscimento dell'indipendenza delle repubbliche del Lugansk e del Donetsk lo scorso 21 febbraio. "L’Ucraina è parte integrante della nostra storia e cultura. Non è solo un Paese confinante, sono parenti, persone con cui abbiamo legami di sangue", dichiarò ai suoi Putin, come riportato da Sky Tg24. "L'Ucraina è stata creata dalla Russia. Fu Lenin a chiamarla in questo modo, è stato il suo creatore e il suo architetto. Lenin aveva un interesse particolare anche per il Donbass". Fu un errore, secondo Putin, la scelta da parte del leader bolscevico di sottrarre territori dalla Russia per creare l'Ucraina. "L’Ucraina moderna è stata interamente e completamente creata dalla Russia", aggiunse il presidente russo. "ha sempre rifiutato di riconoscere i legami storici con la Russia, e non c'è da meravigliarsi quindi per l'ondata di nazismo e nazionalismo".

Bruno Vespa, la colpa degli Usa dietro alla guerra in Ucraina: "Non hanno mantenuto la parola", come si arriva all'orrore di Putin. Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.

La guerra russa in Ucraina non accenna a finire e per ora l'eventualità del cessate-il-fuoco non sembra essere nemmeno sul tavolo. Ne ha parlato Bruno Vespa in un editoriale sul Giorno: "Non sappiamo quanto durerà questa guerra. Sappiamo che alla fine il mondo sarà diverso e l’Italia si troverà a risolvere l’ennesima crisi dovuta alla sua debolezza strutturale". Il giornalista non condivide la teoria di chi dice che l'Occidente se la sia cercata, anche se poi puntualizza: "Gli Stati Uniti hanno mancato alla parola data dal vecchio George Bush a Gorbaciov che la Nato non sarebbe arrivata ai confini di quella che fu l’Urss. Ma ha ragione Martin Wolf quando scrive sul Financial Times che 'buoni recinti fanno buoni vicini'".

In ogni caso, secondo Vespa, alla fine "lo zar uscirà indebolito da questa guerra". Chi può ricavarne qualcosa di buono invece è il leader cinese Xi Jinping, "uomo di lunghe vedute". A tal proposito il giornalista ha scritto: "La Russia si prospetta come un alleato debole e inquieto e domani sarà la Cina ancor più di ieri l’interlocutore che conta per l’Occidente". 

Nulla da dire sulla Nato, che invece sarebbe risorta dalle sue ceneri dopo il disastro di Kabul: "Si trova nelle condizioni migliori della sua storia", si legge ancora nell'articolo del Giorno. Uno dei Paesi più in difficoltà, oltre all'Ucraina ovviamente, sarebbe l'Italia: "Con il gas ci siamo impiccati alla Russia cedendo alla sottile campagna dei servizi di sicurezza di quel Paese e ne abbiamo esaltato la necessità castrando le ricerche in Adriatico e altrove e facendo crollare negli anni la nostra produzione". Una dipendenza energetica da Mosca che avremmo dovuto evitare fin dall'inizio.  

LO SCOOP DI “DER SPIEGEL”. I PATTI 1991 CON LA RUSSIA TRADITI DAGLI AMERICANI. OGGI PUTIN HA RAGIONE…Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 23 Febbraio 2022.

Quando gli accordi internazionali vengono traditi e calpestati.

Quando un Paese invade “democraticamente” altre nazioni a ridosso dell’avversario di sempre.

Quando poi lo stesso Paese “dimentica” le sue invasioni e invece accusa l’avversario di fare quello sporco gioco.

E’ quanto è successo negli ultimi 30 anni e sta giungendo oggi al suo atto finale, ad uno storico redde rationem.

Le gigantesche responsabilità degli Stati Uniti nella ventennale, “democratica” occupazione, via NATO, di ben 14 paesi dell’Europa orientale e poi addirittura di ex repubbliche sovietiche, stanno emergendo proprio in queste ore in cui Vladimir Putin viene massacrato dal mainstream occidentale per il ‘peacekeeping’ in Donbass. 

LO SCOOP DI “DER SPIEGEL”

E stanno emergendo grazie al settimanale tedesco ‘Der Spiegel’ che ha messo a segno un vero scoop mondiale, scovando documenti custoditi ai ‘British National Archives’ di Londra, desecretati cinque anni fa ma fino ad oggi inediti, cioè mai pubblicati da alcun organo di informazione, in nessun paese al mondo.

Li ha tenacemente cercati e trovati un politico americano, Joshua Shifrinson, il quale ha poi collaborato con Der Spiegel’ per la lunga inchiesta titolata “Vladimir Putin ha ragione?”, che può davvero incidere sui destini del pianeta: perché svela una realtà diplomatica e internazionale del tutto inedita, che la dice lunga sulla credibilità e affidabilità degli Stati Uniti, della NATO e degli attuali vertici UE.  Autentiche bande di pericolosi commedianti, capaci di recitare per trent’anni un copione zeppo di colossali menzogne.

Ma eccoci, finalmente, ai fatti. 

QUEI SUMMIT DEL 1991

Si tratta di alcuni verbali tenuti segreti fino al 2017.

Riguardano quanto successe nel corso degli incontri che si svolsero dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990 e nel 1991, tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di quattro paesi: USA, Gran Bretagna, Francia e Germania. Alla base delle discussioni, in particolare, il processo di riunificazione delle due Germanie.

Ma il summit clou si tenne il 6 marzo 1991, in quella occasione incentrato sulla sicurezza nell’Europa centrale e orientale, oltre che sui rapporti con la Russia, all’epoca guidata da Michail Gorbacev.  

Ebbene, di fronte alle richieste avanzate da alcuni paesi dell’est di entrare nella NATO – Polonia in prima fila – i rappresentanti dei 4 paesi definirono “INACCETTABILI” quelle richieste.

Il diplomatico tedesco occidentale Jurgen Hrobos – dettaglia ‘Der Spiegel’ nel suo ampio reportage – testualmente disse: “Abbiamo chiarito durante i negoziati 2+4 (così venivano definiti quegli incontri, ndr) che non intendiamo far avanzare l’Alleanza Atlantica oltre l’Oder. Pertanto non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e

orientale di aderirvi”.

Tale posizione, aggiunse Hrobos, era stata concordata con il cancelliere tedesco Helmuth Kohl e con il ministro degli Esteri Dietrich Genscher.

Parole che non si prestano ad equivoci.

Ma ecco un’altra testimonianza chiave, sempre relativa a quello strategico summit di marzo ’91.

Il rappresentante statunitense, Raymond Seitz, dichiarò: “Abbiamo promesso ufficialmente all’Unione Sovietica nei colloqui 2+4, così come in altri contatti bilaterali tra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centro-orientale e che la NATO non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania, né formalmente né informalmente”.

Altre parole che più chiare non si può.

Del resto, tali circostanze e tali dettagli sono stati sempre rammentati da Michail Gorbacev. Il quale, per fare un solo esempio, in un’intervista rilasciata il 7 maggio 2008 al ‘Daily Telgraph’ ricordò che Kohl gli aveva esplicitamente assicurato: “La NATO non si muoverà di un centimetro più ad est”.

Fu non solo il cancelliere tedesco a promettergli ufficialmente e formalmente tutto ciò, ma addirittura il segretario di Stato Usa in persona, James Baker.

Il quale, però, è ben presto diventato un bugiardo, o, se preferite, uno smemorato: smentì infatti quella promessa.

Ma, a sua volta, Baker fu smentito da svariati diplomatici occidentali.

E perfino dall’ambasciatore americano a Mosca, Jack Malok, il quale sottolineò che gli Stati Uniti avevano fornito “GARANZIE CATEGORICHE” all’Unione Sovietica sulla non espansione a est della NATO.

La cover story di ‘Der Spiegel’ aggiunge altri tasselli al mosaico: ad esempio, le promesse dello stesso tenore fatte a Gorbacev e al ministro degli Esteri russo da parte di diplomatici britannici e francesi. 

LE INVASIONI “DEMOCRATICHE”   

Ma cosa è invece successo da allora in poi?

Esattamente il contrario.

Perché è iniziata la campagna imperialista di occupazione militare attraverso la NATO proprio ad est.

Non un centimetro di territori occupati, ma gigantesche distese, interi paesi, una sfilza di nazioni.

Appena otto anni dopo, nel 1999, è la volta della scalpitante Polonia, accompagnata da Ungheria e Repubblica Ceca, a fare trionfalmente ingresso nella famiglia NATO: e il tutto succede in un momento storico ben preciso, e molto delicato per gli equilibri geopolitici internazionali, ed europei in particolare: a breve distanza, infatti, scoppierà la guerra in Jugoslavia, con i relativi bombardamenti NATO ed il vergognoso avallo del nostro governo D’Alema.

Il copione di ‘democratica occupazione’ continua cinque anni dopo, nel 2004, con l’annessione alla NATO di un bel tris di ex repubbliche sovietiche: Lituania, Lettonia ed Estonia.

Il numero totale dei paesi e delle ex repubbliche finite – sempre  “democraticamente” – sotto il protettivo ombrello dell’Alleanza Atlantica,   alla fine della conta, assommerà a ben 14.

Portando così a compimento una vera e propria operazione di accerchiamento della Russia, un cappio sempre più stretto intorno al collo, con missili letteralmente puntati contro dai paesi ex amici o dalle care ex repubbliche. E con tanto di super laboratori segreti militari – disseminati tra le ex repubbliche – pronti a preparare il terreno per le ‘biologic wars’, come la Voce ha ampiamente documentato nelle settimane scorse con tre inchieste dedicate all’Ucraina, alla Georgia e al Kazakistan.

Ma si trattava e si tratta – non ne dubitiamo – di missili e laboratori sempre molto ‘democratici’, in perfetto stile clintoniano, obamiano e, ora, bideniano.

Per tutti questi motivi ora Vladimir Putin sbotta: “Mosca fino ad oggi è stata imbrogliata e palesemente ingannata. E’ venuto il momento di dire basta”.

Come dargli torto? 

OLIGARCHI CORROTTI VOLUTI DAGLI USA

E a questo punto non ci resta che ripassare alcune frasi appena pronunciate dal capo del Cremlino, quando ha firmato le carte del Dombass, subito attaccato a testa bassa dalle potenze occidentali, of course Usa in pole position, e gli scodinzolanti alleati NATO al seguito.

“In questi anni abbiamo assistito ad una rapina occidentale del popolo ucraino”.

“Nel 2018 in Ucraina si sono persi 6 milioni di posti di lavoro, il 18 per cento nel giro di un anno”.

“Il crollo economico è stato perpetrato non solo in modo diretto dai paesi occidentali, ma anche localmente tramite una rete di consulenti stranieri, ong e altre organizzazioni dislocate in Ucraina”.

“L’Ambasciata americana a Kiev controlla direttamente l’Agenzia Nazionale per la Prevenzione della Corruzione. Ma dove sono i risultati, dal momento che la corruzione persiste ed anzi è aumentata? Lo capiscono gli ucraini che il loro paese non è più nemmeno un protettorato, ma una colonia governata da burattini?”.

“Gli occidentali stanno pompando l’Ucraina con armi di distruzione di massa”.

“Negli ultimi mesi le attività dell’esercito ucraino sono state guidate da consulenti stranieri”.

“L’anno scorso, con la scusa dei ‘Giochi di guerra’, i contingenti militari NATO sono stati schierati in Ucraina. L’esercito ucraino, nei fatti, è già integrato nella NATO. Ma se l’Ucraina entra ufficialmente nella NATO, ciò costituisce una minaccia diretta alla sicurezza russa”.

“Le infrastrutture militari statunitensi si sono avvicinate molto alla Russia. La situazione continua a peggiorare nelle aree strategiche, così come in Romania e in Polonia, e nell’ambito del progetto americano di dispiegare sistemi difensivi anti-missile. Sappiamo tutti che i lanciatori dispiegati possono essere utilizzati per missili da crociera. Gli Stati Uniti stanno anche sviluppando sei missili standard che possono colpire nostri obiettivi”.

Nel suo lungo intervento, Putin ha sottolineato il peso sempre crescente, e soffocante, in Ucraina, delle oligarchie affaristiche che stanno massacrando l’economia e la popolazione.

A questo punto, è mancato solo l’affondo finale: ossia ricordare i colossali affari messi per anni a segno da Hunter Biden, il rampollo presidenziale, in terra d’Ucraina (ma anche in Cina, per fare un altro esempio).

Do you remember ‘Burisma’, la magica sigla che ha fatto incamerare miliardi di dollari nelle casse presidenziali, raccolti con la pala da Hunter sotto il vigile sguardo paterno?

NEWSWEEK. ECCO LE INVASIONI DELLA NATO AD EST. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 14 Marzo 2022.

Per contrastare le fake news e la ‘propaganda’ che come una metastasi divora il panorama mediatico di casa nostra, pezzo dopo pezzo, può essere salutare leggere reportage di giornalisti occidentali, meglio ancora se americani, ed ancor più se sono pubblicati su riviste al di sopra di ogni sospetto, ‘storiche’ nel panorama editoriale internazionale. Come, ad esempio, il settimanale a stelle e strisce ‘Newsweek’.

Per la serie: c’è stampa e stampa, c’è informazione e informazione. Come anche nel caso di ‘Der Spiegel’, l’autorevole settimanale ‘conservatore’ che qualche settimana fa ha avuto il coraggio e il merito di pubblicare un vero scoop, scovando nell’archivio storico di Londra documenti desecretati nel 2017 sugli accordi del 1991 raggiunti da Usa, Germania, Francia e Gran Bretagna di “non oltrepassare l’Oder”, cioè di non sfondare con la NATO ad est.

Ma torniamo allo statunitense ‘Newsweek’. Sul quale è appena comparso un intervento firmato da un politologo difficilmente sospettabile di simpatie ‘comunistoidi’ o comunque putiniane, al giorno d’oggi: Ted Galen Carpenter.

Ecco i passaggi salienti del suo articolo.

“E’ diventato particolarmente di moda, in certi ambienti, insistere sul fatto che l’espansione della NATO al confine con la Russia non è in alcun modo responsabile dell’attuale crisi ucraina. Molti respingono tutte le argomentazioni contrarie in quanto ‘riprendono i punti di vista di Putin’ o ‘si sta diffondendo propaganda e disinformazione russa’. Lasciando da parte il brutto miasma del maccartismo che avvolge tali accuse, l’argomento di fondo è di fatto sbagliato”.

“George Kennan, il pensatore che è stato definito l’architetto della politica di contenimento americana durante la Guerra Fredda, in un’intervista al ‘New York Times’ del 2 maggio 1998 avvertì su quanto avrebbe provocato il movimento della NATO verso Est. ‘Penso che sia l’inizio di una nuova guerra fredda’, ha affermato. ‘Penso che i russi reagiranno gradualmente in modo piuttosto negativo e ciò influenzerà le loro politiche. Penso che sia un tragico errore’”.

Continua Carpenter. “Eppure i funzionari statunitensi ed europei hanno attraversato un semaforo rosso dopo l’altro. George W. Bush iniziò a trattare la Georgia e l’Ucraina come stimati alleati politici e militari degli Stati Uniti e nel 2008 fece pressioni sulla NATO affinchè ammettesse l’Ucraina e la Georgia come membri. La diffidenza francese e tedesca ha ritardato tale impegno, ma il comunicato del vertice NATO ha affermato che entrambi i paesi alla fine avrebbero raggiunto tale status”.

“Nel suo libro di memorie del 2014, ‘Duty’, Robert M. Gates, che ha servito come Segretario alla Difesa sia nell’amministrazione Bush che in quella di Barack Obama, ha ammesso che ‘cercare di portare Georgia e Ucraina nella NATO è stato davvero esagerato’. Tale iniziativa, ha concluso, ha ‘ignorato sconsideratamente ciò che i russi consideravano i propri interessi nazionali vitali’”.

Scrive sempre Carpenter per ‘Newsweek’: “Nel 2014 gli Stati Uniti e diversi governi europei si sono intromessi spudoratamente per sostenere gli sforzi dei manifestanti per spodestare il presidente ucraino filo-russo, Victor Yanukovich, circa due anni prima della scadenza del suo mandato, ottenuto dopo un’elezione che persino l’Unione Europea e altri osservatori internazionali hanno riconosciuto essere ragionevolmente libera ed equa. Invece l’Occidente ha sostenuto a spada tratta le violente manifestazioni di piazza che hanno posto fine a tale governo e portato sugli scudi un altro potere, stavolta filo-occidentale. La registrazione della famigerata telefonata trapelata tra l’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland e l’ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina Goeffrey Pyatt, ha confermato la portata dell’ingerenza di Washington negli affari di un paese sovrano. La Nuland, oggi ancora in servizio al Dipartimento di Stato e particolarmente attiva sul fronte ucraina, spiegava ai suoi interlocutori chi avrebbe dovuto andare al governo”.

L’intervento di Carpenter continua. “Quanto avvenuto in Ucraina si è rivelata un’intollerabile provocazione per la vicina Russia. Putin ha risposto annettendo la strategica penisola della Crimea e gli Stati Uniti e i suoi partner della NATOhanno quindi imposto sanzioni economiche alla Russia. La nuova guerra fredda era iniziata sul serio”.

“Eppure Washington si rifiutava ancora di fare marcia indietro. Invece, le amministrazioni Trump e Biden hanno riversato armi in Ucraina, approvato esercitazioni militari congiunte tra le forze statunitensi e ucraine e hanno persino spinto gli alleati a includere l’Ucraina nei giochi di guerra della NATO”.

“Alla fine del 2021, è diventato chiaro che le carte in mano al Cremlino si erano esaurite. Mosca ha avanzato richieste di garanzie di sicurezza, compreso il ritiro delle forze militari già dispiegate nei paesi orientali della NATO. Per quanto riguarda l’Ucraina, la richiesta era molto chiara e intransigente: non solo Kiev non avrebbe mai dovuto ricevere un invito all’adesione, ma neanche armi e truppe dalla NATO. Quando l’Occidente non ha fornito tali garanzie, Putin ha lanciato la sua guerra devastante su larga scala”.

Così conclude Carpenter il suo intervento per ‘Newsweek’: “Si può facilmente immaginare come reagirebbero gli americani se Russia, Cina, India o un altro concorrente nostro pari ammettessero paesi dell’America centrale o dei Caraibi in un’alleanza di sicurezza a loro guida, e poi cercassero di aggiungere il Canada come alleato militare, ufficialmente o di fatto. Eppure, anche se l’Ucraina ha un’importanza per la Russia paragonabile a quella del Canada per gli Stati Uniti, i nostri leader si aspettavano che Mosca rispondesse passivamente alla crescente invasione”.

Ed il finale: “I calcoli degli Stati Uniti e della NATO si sono rivelati disastrosamente sbagliati e, grazie alla loro inettitudine, il mondo è ora un posto molto più pericoloso”.

"Soldati inglesi a Yavoriv" il pesante sospetto di Maurizio Belpietro. Il ruolo occulto della Nato in Ucraina. Il Tempo il 15 marzo 2022.

C'è la Nato che deve si occupare della pace ma qualche errore è stato fatto dall'una e dall'altra parte. A Fuori dal coro martedì 15 marzo si parla della drammatica escalation della guerra in Ucraina con la Russia che bombarda a pochi chilometri dal confine con la Polonia, Paese Nato. In studio tra gli altri c'è Maurizio Belpietro che sottolinea: "Il risultato" della situazione ormai sfuggita di mano "purtroppo sono le vittime che avete appena mostrato", dice il direttore della Verità a Mario Giordano. Fermo restando che come sempre anche in questo caso c'è un aggressore, che è il "criminale "Vladimir Putin, e un aggredito: "Ma bisogna capire come se ne esce". 

Tra le notizie più drammatiche dei giorni scorsi c'è il bombardamento del addestramento militare situato a 30 km dal centro di Leopoli, per la precisione all'interno del distretto di Yavoriv, dove c'erano numerosi combattenti stranieri che, in base a quanto detto dal Cremlino, erano gli obiettivi dell'attacco russo, a poca distanza dalla Polonia. Il conduttore ricorda come fino a poco tempo fai la Nato ha svolto a ridosso di quell'area tre esercitazioni militari con migliaia di uomini e mezzi coinvolti. 

"Sotto l'ombrello della Nato già nel 2016 in Polonia ha organizzato con decine di migliaia di militari che ha chiamato Anaconda - ricorda Beelpietro - il nome non vuol dire nulla ma come ha sottolineato l'ambasciatore Sergio Romano evocare un serpente che ti stritola non è il miglior biglietto da visita che puoi dare, soprattutto se dici che la Nato si vuole occupare della pace".

Tornando all'attacco di Yavoriv, Belpietro riporta i sospetti su chi c'era davvero nel centro addestramento militare colpito dai russi con numerose vittime. "Forse c'erano anche dei soldati inglesi, magari non ufficialmente della Nato ma certo non cerano solo miliziani appena sbarcati" dice il giornalista evocando il ruolo più o meno occulto dell'Alleanza Atlantica anche in queste ore nel conflitto ucraino. 

La storia delle armi americane all’Ucraina, da Obama a oggi. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 16 marzo 2022.

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, negli Stati Uniti – così come in tutto l’occidente – il tema della fornitura di armi a Kiev è diventato centrale. Come riportato dall’agenzia Ansa, negli Usa è salita negli ultimi giorni la pressione sul presidente Joe Biden per la fornitura di più armi e jet da combattimento all’Ucraina. Un coro di voci bipartisan si è alzato infatti dal Congresso americano, premendo sul presidente dem per fare di più e per aiutare Kiev contro l’esercito russo. Il senatore repubblicano Rob Portman ha esortato Biden a inviare aerei da combattimento agli ucraini: farlo, è la teoria, non creerebbe alcuna escalation. Un altro gruppo bipartisan di 58 legislatori ha chiesto invece all’amministrazione Usa di cercare di facilitare l’accordo per i jet polacchi, bocciato dalla Casa Bianca, ma anche di fornire a Kiev sistemi di difesa aerea, inclusi droni e missili terra-aria.

“Gli Stati Uniti devono agire con decisione per sostenere l’Ucraina”, si legge in una lettera del bipartisan Problem Solvers Caucus, che ha elogiato il governo polacco per “aver compiuto passi proattivi” per sostenere l’aviazione ucraina. “Dobbiamo esortare i nostri alleati e partner a fare lo stesso”. Come osserva Politico, la dinamica in atto tra Capitol Hill e la Casa Bianca è alquanto insolita: è il Congresso questa volta che ha spinto l’amministrazione Biden a prendere misure ancora più importanti a sostegno dell’Ucraina e contro la Russia. L’amministrazione Biden teme, dal canto suo, che l’aumento degli aiuti militari possa aggravare ulteriormente la crisi, allargando il conflitto oltre i confini dell’Ucraina.

Altri 200 milioni di dollari in armi all’Ucraina da Washington

Sabato l’amministrazione Biden ha confermato che avrebbe stanziato fino a 200 milioni di dollari in ulteriori armi leggere, anticarro e antiaeree da destinare all’Ucraina: il presidente Joe Biden ha autorizzato l’operazione, aprendo la strada alla fornitura “immediata” di equipaggiamento militare per fronteggiare l’avanzata dell’esercito russo. La decisione di Biden porta il totale degli aiuti militari degli Stati Uniti all’Ucraina a 1,2 miliardi di dollari da gennaio 2021 e a 3,2 miliardi di dollari dal 2014 ad oggi, quando la Russia ha annesso la regione della Crimea a seguito del colpo di stato di Euromaidan.

I 200 milioni di dollari verranno stanziati a Kiev per mezzo del Foreign Assistance Act. Nei giorni precedenti, Kiev aveva chiesto più armi anticarro Javelin e missili Stinger per abbattere gli aerei russi. Il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha sottolineato la necessità di avere ulteriori rifornimenti militari in un’intervista rilasciata all’organizzazione no-profit Renew Democracy Initiative fondata dall’ex campione del mondo di scacchi e attivista politico, Garry Kasparov. Giovedì, inoltre, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un pacchetto da 13,6 miliardi di dollari in aiuti, che coprirà coprirà anche il costo di ulteriori dispiegamenti di risorse e truppe militari statunitensi nella regione.

Obama, Trump, Biden: come si sono comportati i presidenti americani

Un’inchiesta di The Intercept ricorda tutti gli aiuti militari che gli Stati Uniti hanno deciso di concedere a Kiev negli ultimi 8 anni. Durante i suoi due mandati, l’amministrazione Obama si è dimostrata restia a fornire a Kiev armi letali, con il timore che tale mossa avrebbe provocato il presidente russo, Vladimir Putin. Anche dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, il presidente Barack Obama ha mantenuto questa posizione, sebbene la sua amministrazione abbia fornito all’Ucraina una serie di altri servizi militari e di intelligence non letali, compreso l’addestramento. Quella posizione è cambiata sotto il presidente Donald Trump, quando Washington ha iniziato a destinare a Kiev un flusso relativamente modesto di spedizioni di armi. Supporto che è costantemente aumentato fino all’entrata in carica di Joe Biden, che ha subito avviato un deciso aumento della spesa militare destinata a Kiev.

Nel suo primo anno in carica, osserva The Intercept, Biden ha approvato uno stanziamento in assistenza militare di circa 650 milioni di dollari. Il 26 febbraio, a seguito dell’invasione russa, è stato approvato un pacchetto di armi aggiuntivo “senza precedenti” da 350 milioni di dollari Gli Stati Uniti si sono mossi con grande velocità per consegnare le armi approvate da Biden alla fine di febbraio: una serie di missili anticarro Javelin, lanciarazzi, pistole e munizioni sono già a disposizione dell’esercito ucraino. “La spedizione di armi – fra cui missili antiaerei Stinger provenienti dalle scorte militari statunitensi in Germania – rappresenta il più grande trasferimento autorizzato di armi dai magazzini militari statunitensi a un altro Paese della storia”, spiega il New York Times, citando un funzionario del Pentagono.

Come ricorda Domenico Quirico su La Stampa, chi ha memoria ha sussultato quando nell’elenco degli armamenti forniti agli ucraini ha letto un nome: “stinger”, i “missili antiaerei portatili”. “Fu la fornitura risolutiva sulle montagne afghane – osserva -. i piloti di bombardieri ed elicotteri russi scoprirono che non potevano più fulminare senza rischi gli afghani mettendo nel nulla i focolai di resistenza, le imboscate, le astuzie dei guerriglieri in ciabatte. Con l’aviazione che si fa cauta, anche la superiorità russa in Ucraina subirebbe una vistosa menomazione”. Oltre agli Stati Uniti, più di una dozzina di altri paesi Nato e diverse nazioni europee hanno deciso di destinare aiuti militari all’Ucraina. In realtà. come spiega The Intercept, i trattati dell’Ue vieterebbero l’uso del denaro pubblico per i trasferimenti di armi, quindi l’unione ha attinto fondi dal suo “Fondo europeo per la pace”.

Federigo Argentieri per “la Lettura - Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.

Il secondo dopoguerra iniziò a tutti gli effetti nell'ottobre del 1944, quando Winston Churchill si recò a Mosca per un vertice con Stalin, cui era assente il presidente Franklin Delano Roosevelt, impegnato in quella che sarebbe stata la sua quarta e ultima rielezione. Per qualche motivo assai misterioso si tratta di un incontro poco trattato dalla storiografia, mentre invece ebbe un'influenza decisiva su tutto il dopoguerra, fin quasi alla fine del secolo. 

Roma era stata liberata a inizio giugno, Parigi a fine agosto, la Germania era in ritirata sia a est che a ovest: un anno dopo l'incontro di Teheran si poteva cominciare a tirare le somme. Il famoso scambio di bigliettini, con la percentuale di influenza che ciascuno avrebbe avuto su Bulgaria, Romania, Ungheria, Jugoslavia e Grecia avrebbe avuto notevole influenza sulla sorte di ciascun Paese, in particolare gli ultimi tre, destinati ad attraversare crisi devastanti.

Forte del 90% dell'influenza attribuitagli per la Grecia, Churchill non tardò a servirsene: gli inglesi scatenarono dal 3 dicembre al 12 febbraio 1945 una selvaggia repressione contro la sinistra greca, giustamente individuata come assai più forte dei sostenitori della monarchia fascistoide, uccidendo migliaia di semplici militanti e simpatizzanti allo scopo di facilitare il ritorno al potere dei loro amici moderati. 

Come ha raccontato lui stesso, Churchill ebbe la faccia tosta, parlando alla Camera, di dire che ad Atene era stata soppressa un'insurrezione «trotskista», in modo tale da non offendere Stalin con la parola «comunista»; e come rilevò il «Guardian» in occasione del settantesimo anniversario, si tratta di uno dei (numerosi) «segreti sporchi» nella storia della Gran Bretagna, sempre pronta ad autocelebrarsi, meno a indagare sulle pagine buie. Da parte sua, Stalin non si lasciò impressionare, essendo in procinto di incassare il suo 90% di quota sulla Romania, dove non a caso il partito comunista locale si sarebbe insediato al potere poco dopo.

La guerra civile greca riprese nel 1946 in seguito al rifiuto della sinistra di riconoscere la restaurazione monarchica e si concluse nel 1949 con la vittoria di quest' ultima, grazie anche all'appoggio decisivo degli Stati Uniti, subentrati alla Gran Bretagna, e all'abbandono da parte della Jugoslavia dell'appoggio ai ribelli dopo la rottura tra Tito e Stalin. Il secondo conflitto riguardò l'Ungheria, divisa fifty-fifty nell'incontro di Mosca, che aveva potuto tenere libere elezioni nel 1945 nelle quali i comunisti avevano ottenuto il 17%. 

Il loro capo Mátyás Rákosi non tardò a instaurare una dittatura talmente settaria da suscitare lo sconcerto dei dirigenti sovietici post-staliniani, le cui direttive spesso confuse e contraddittorie però aumentarono la rabbia popolare in tutti e quattro i principali satelliti: dapprima Cecoslovacchia e Germania Est, i cui moti popolari nel giugno 1953 sarebbero stati definiti «nazisti» da Pci e Psi in coro, poi la Polonia con Poznan tre anni dopo, infine l'Ungheria, la cui ventata rivoluzionaria nell'autunno del 1956 ebbe forti somiglianze con quella ucraina degli ultimi vent' anni. 

L'amministrazione di Dwight Eisenhower, in procinto di essere riconfermata al potere, mandò chiari messaggi ai sovietici, secondo cui gli Usa non erano interessati a contrarre alleanze con gli ungheresi. Dal canto suo Anthony Eden, ex ministro di Churchill succedutogli a capo del governo di Londra, pensò bene di escogitare una spedizione punitiva contro l'egiziano Gamal Abdel Nasser colpevole di avere nazionalizzato il canale di Suez, la quale ebbe esito catastrofico ma servì egregiamente a distrarre l'attenzione da Budapest.

Da notare tre cose: l'Ungheria non voleva la Nato ma una neutralità affine a quella ottenuta dall'Austria un anno prima; l'uscita dal patto di Varsavia fu decretata dopo, non prima, il secondo intervento sovietico; infine, i documenti relativi a Suez risultano ancora indisponibili negli archivi britannici. Inoltre, le velenose falsità rovesciate da Mosca e dai suoi accoliti (soprattutto, ma non solo, italiani) contro ungheresi e ucraini, a 65 anni di distanza, si assomigliano in modo inquietante: l'unica differenza è che nel 1956 l'accolito era Palmiro Togliatti e oggi è Matteo Salvini, a dimostrazione ulteriore che la storia è dapprima tragedia e poi si ripete come farsa. 

Un decennio dopo, furono nuovamente la Grecia e poi la Cecoslovacchia a salire alla ribalta: di fronte a una sinistra che aumentava i consensi, nel 1967 fu deciso con il pieno appoggio degli Usa e della Nato di sostituire la monarchia parlamentare di Atene con un regime militare, mentre a Praga e Bratislava gli effetti tardivi del disgelo kruscioviano producevano un graduale trapasso dall'oppressiva rigidità burocratica a un'atmosfera di creatività e di ritrovato consenso popolare verso un partito comunista, guidato da Alexander Dubcek, inconsapevolmente trasformatosi in socialdemocrazia di tipo nordico, aperta al confronto politico, alla sperimentazione economica e alla completa espressione culturale.

Il nuovo capo del Cremlino, Leonid Breznev non tardò a mettere in moto un meccanismo di accerchiamento, mobilitando tutti i satelliti confinanti con la Cecoslovacchia, più la Bulgaria, allo scopo di soffocare al più presto un esperimento giudicato molto pericoloso per la ventata di libertà che implicava. 

L'intervento armato del 21 agosto 1968 fu un'altra tragedia europea e mondiale: nonostante il carattere sempre assolutamente pacifico degli otto mesi e mezzo noti come Primavera di Praga, da esso arrivarono morte e distruzione, dolore ed esilio, oltre a un altro ventennio di oppressione ottusa e burocratica. Molto interessante notare che, come rilevò Hannah Arendt in un brillante e poco noto saggio del 1958 sulla rivoluzione ungherese, l'imperialismo totalitario moscovita, contrariamente a quello occidentale, può essere influenzato in modo decisivo dai Paesi che opprime. E infatti Mikhail Gorbaciov, arrivato al potere a metà degli anni Ottanta, avrebbe seguito una linea fortemente improntata al tipo di aperture e di riforme precedentemente realizzate in Cecoslovacchia.

Tornando indietro agli anni Settanta, la giunta militare greca era entrata in grave crisi dopo la strage di studenti del dicembre 1973. Presa dal panico, anche a causa della crisi economica, nel luglio dell'anno successivo cercò di approfittare della situazione cipriota, dove le popolazioni greca e turca si combattevano senza esclusione di colpi fin dall'indipendenza del 1960, nientemeno che con il tentativo di annettere l'isola. 

Allarmati dal rischio di fratture nella Nato, cui anche la Turchia aveva aderito fin dal 1952, gli Stati Uniti dettero luce verde a un'invasione militare turca da nord, la quale contribuì a creare una divisione che ancora oggi - a quasi mezzo secolo di distanza - appare insormontabile. Si diceva delle riforme di Gorbaciov, che decollarono in modo decisivo nel 1988, anno in cui lo stesso Dubcek uscì dal suo confino ventennale grazie a una nota intervista rilasciata a Renzo Foa. Nel marzo di quell'anno, il capo del Cremlino effettuò una visita a Belgrado, capitale di una Jugoslavia anch' essa spartita fifty-fifty nel 1944 e da otto anni orfana di Tito.

Egli disse ai nuovi dirigenti che non solo Stalin aveva sbagliato quarant' anni prima, ma che Tito aveva avuto pienamente ragione e che il modello da lui costruito era uno degli esempi che lo stesso Gorbaciov era intenzionato a seguire. Questa dichiarazione paradossalmente segnò l'inizio della fine del regime, che si sarebbe sfaldato nel giro di tre anni in conseguenza della trasformazione di alcuni dirigenti delle repubbliche in sciovinisti estremi, mentre altri più prudenti tentavano l'aggancio con l'Ue, creata a Maastricht in concomitanza con la fine dell'Urss. 

La mancata differenziazione tra gli uni e gli altri, compiuta sia da Washington che da Bruxelles, quest' ultima nonostante i saggi consigli del francese Robert Badinter, portò a gravi conseguenze e a un'accentuazione delle guerre di successione, ulteriormente aggravata dalla terribile insipienza di un'Onu incapace perfino di analizzare la situazione reale esistente e di concordare un minimo di intervento dotato di qualche efficacia. Non servì molto tempo perché emergesse con chiarezza che il problema principale era la furia del presidente serbo Slobodan Milosevic, deciso a scatenare guerra e repressione ovunque fossero presenti popolazioni serbe, in modo non dissimile da quanto attualmente compiuto da Vladimir Putin con quelle russe nei territori dell'ex Urss.

Dopo la terribile strage di Srebrenica, villaggio di popolazione musulmana nella parte serba della Bosnia, avvenuta nel luglio 1995, l'amministrazione di Bill Clinton, d'accordo con la Russia di Boris Eltsin, dichiarò concluso il mandato delle inefficientissime Nazioni Unite e investì la Nato del compito di porre fine a una guerra che aveva già mietuto decine di migliaia di vite umane. L'operazione riuscì in Bosnia, ma tre anni e mezzo dopo fu necessario un altro pesante intervento di dubbia legalità internazionale contro la Serbia, dove il caparbio Milosevic aveva scatenato una feroce repressione contro la maggioranza albanese presente in Kosovo.

Quest' ultimo in Jugoslavia aveva lo status di regione autonoma, non di repubblica: l'incoraggiamento dato dagli occidentali alla sua indipendenza, dichiarata nel febbraio 2008, irritò moltissimo la Russia di Putin - oltre naturalmente alla Serbia - la quale riteneva non a torto che ci fosse stato un accordo non scritto di riconoscere solo quelle entità che avevano lo status di repubbliche, sia nell'ex Urss che nell'ex Jugoslavia.

Da allora la tensione tornò a crescere, con l'invasione di due regioni russofone della Georgia - l'Abkhazia e l'Ossezia del sud - seguita 5 anni dopo dall'aggressione all'Ucraina colpevole di avere spodestato a furor di popolo un presidente eletto che aveva disdetto importanti accordi presi con l'Ue - non con la Nato - e di non nascondere il suo desiderio di staccarsi dalla Russia in base a una narrativa storico-culturale completamente diversa, nonché molto più convincente, di quella putiniana. Il resto è storia di questi giorni, ma le versioni calunniose e denigratorie delle legittime aspirazioni di Kiev ricordano tragicamente quelle scatenate 65 anni fa contro l'Ungheria, le quali furono poi seguite a lunga distanza da tardivi pentimenti e andate a Canossa da parte di molti di coloro che le avevano profferite: chissà che lo stesso non avvenga anche per l'Ucraina, sebbene il detto marxiano sulla tragedia seguita dalla farsa non andrebbe dimenticato.

Dagoreport il 14 marzo 2022.

“L’allargamento a est della Nato è il peccato originale che ha alimentato una tensione crescente tra Russia e Occidente, fino alla guerra in Ucraina? È una questione controversa e non così scontata come viene raccontata”. Marco Carnelos, ex consigliere dei presidenti Prodi e Berlusconi, ex ambasciatore in Iraq ed ex inviato speciale per la Siria, affida a Dagospia le sue considerazioni sulla guerra In Ucraina. 

L’Occidente promise alla Russia di non allargare la Nato a est?

Alcune promesse verbali furono fatte. Ci sono anche alcuni documenti, prodotti da riunioni di alto livello, in cui si evidenzia come l’assunzione che c’era in quel momento storico fosse che la Nato non sarebbe andata oltre il confine della Germania, riunificata a ottobre 1990.

Chi si intestò questa rassicurazione?

L’allora Segretario di stato americano, James Baker. La sua promessa fu: “Not one inch eastward”, ovvero “non un centimetro più a est”. Dopodiché la storia è evoluta. Il Patto di Varsavia, l’alleanza militare che si contrapponeva alla Nato, nel 1991 s’è sciolto. Da quel momento Putin ha fatto presente in più di un’occasione: “Ma senza il Patto di Varsavia contro chi allargate a est la Nato?”. 

Putin vuole ricreare una Grande Russia sul modello imperiale o sovietico?

Putin ha vissuto in Germania est nel 1989 e non sappiamo quanto il crollo del suo mondo abbia inciso psicologicamente su di lui. Nessuno può sapere se effettivamente la fine dell’Urss lo abbia segnato. Lo sa il suo analista, ammesso ne frequenti uno.

L’ambasciatore Massolo è convinto che a muovere Putin sia la voglia di rivincita, il bisogno di vendicare i torti che lui crede che la Russia abbia subìto…

Lo dice perché da capo dell’Intelligence ha avuto dei resoconti specifici in tal senso o è una semplice speculazione, come la fanno tanti? Io non credo che Putin sia pazzo. Le sue prese di posizione pubbliche mi sembrano coerenti, benché a tratti inaccettabili. Denotava problemi psichiatrici più seri Donald Trump, se vogliamo… 

In Occidente fa comodo pensare che Putin abbia perso il senno per non dover riconoscere le sue ragioni?

È un tipico atteggiamento occidentale: chi non la pensa in un determinato modo, o ha altre categorie mentali, viene marchiato. “L’eccezionalismo americano” non contempla una diversità. È un riflesso culturale, che manca di “empatia cognitiva”: l’incapacità di mettersi nei panni degli altri. E poi ci sono schematismi tipicamente occidentali, fondati su valori diversi: “Quello è un dittatore”, “in quel paese manca la libertà”, o cose del genere.

Saranno anche assunzioni veritiere ma vanno contestualizzate, inserite in un disegno storico più ampio. Ad esempio, è difficile comprendere l’autocrazia di Putin se non si considera che la Russia non ha praticamente mai conosciuto la democrazia. La norma nella cultura politica russa è l’autoritarismo. Ma se guardiamo gli ultimi vent’anni anche noi in Occidente abbiamo qualche problema con l’esercizio della forza e la gestione del dissenso. Basti pensare a come sono stati talvolta repressi i “gilet gialli” in Francia. La brutalità, spesso gratuita, della polizia americana, sovente in assetto anti-sommossa, è documentata da migliaia di fatti di cronaca. La complessità del mondo non può essere ricondotta a uno schema mentale binario e manicheo di buoni-cattivi. 

Vale anche nel caso della guerra all’Ucraina?

La vicenda Ucraina non si può ridurre alle vicende iniziate il 24 febbraio 2022. Bisogna tornare al 3 ottobre 1990, giorno della riunificazione della Germania, e provare a capire come si sono sviluppati gli eventi da allora. In Italia chi opera i distinguo, provando a capire la realtà, anche nelle sue pieghe meno rassicuranti, viene troppo sommariamente etichettato come “putiniano”. È assurdo.

Partendo dal 1990, allora, quali eventi hanno portato all’attacco all’Ucraina?

Ci sono state azioni e omissioni da parte dell’Occidente, affiancate da responsabilità anche russe beninteso, che hanno alimentato le incomprensioni. Se si fosse provato a intavolare un dialogo serio non sarebbe mai scoppiato questo conflitto. 

Quali sono le omissioni dell’Occidente?

Non voler capire che l’allargamento a est della Nato creava un problema alla Russia.

Per vent’anni, dal 2001, il paradigma di sicurezza americano si è basato nel contrasto al terrorismo islamico. L’ascesa della Cina e quella della Russia da un punto di vista militare hanno riorientato il dibattito strategico americano. A Washington si è preso atto che nuovi attori stavano minacciando la centralità statunitense: stava ripartendo una competizione tra grandi potenze. E queste grandi potenze, è evidente, si muovono per far valere i loro interessi sullo scacchiere internazionale. 

Vale per gli Stati Uniti ma anche per Russia e Cina…

Certo. Pechino ha mostrato le sue “linee rosse”, da cui non intende indietreggiare (Taiwan, Hong Kong, lo Xinjiang), Mosca aveva i suoi imperativi: no all’allargamento della Nato a est e in particolare all’Ucraina. E per una ragione, anche storica: tutte le invasioni della Russia sono passate dall’Ucraina, da Napoleone a Hitler. Quel paese è una porta d’ingresso. 

Sta dicendo che verso i russi l’Occidente si è comportato da “Marchese del Grillo”: io so’ io e voi…

Per quanto questo accostamento strida con la semantica propria della diplomazia debbo riconoscere che è corretto. Washington poteva farlo nel 1991 con la Russia a pezzi e la Cina che non aveva consolidato la sua forza economica e tecnologica. Ma dal 2012 le cose sono iniziate a cambiare. Pechino è cresciuta esponenzialmente e Mosca ha mostrato la sua insofferenza dopo il primo allargamento della Nato a est nel 1999. Eltsin comunicò a Clinton, vero responsabile del progetto, la sua contrarietà e fu ignorato. L’allargamento fu fatto senza alcuna ragione perché la Russia non minacciava più nessuno! Sì, era scoppiata la guerra in Cecenia ma abbiamo visto contro chi si combatteva: un gruppo di integralisti islamici che a Mosca hanno fatto saltare interi palazzi.

La Russia ha reso nota la propria frustrazione?

Altroché! Il 10 febbraio 2007 alla conferenza della sicurezza di Monaco Putin tenne un discorso durissimo, mostrando chiaramente la sua insofferenza verso gli allargamenti a est della Nato ma promettendo opposizione durissima agli allora ventilati ingressi di Ucraina e Georgia. Reiterò questa posizione al Vertice NATO di Bucarest dell’Aprile del 2008 dove potei constatare personalmente il suo livore. Per gli occidentali non si può limitare la sovranità degli stati imponendo loro di non entrare in un’alleanza. Bisognerebbe però prima spiegare l’alleanza Nato contro chi agisce. E poi esiste la realpolitik: prima della sovranità degli stati, talvolta, esiste l’inevitabile stabilità del sistema internazionale.

Cosa intende dire?

Ospite a “DiMartedì” Alessandro Di Battista ha provocato i suoi interlocutori dicendo: “Ma se domani il Messico, magari con un presidente filo-cinese, decidesse di installare sul suo territorio dei missili della Cina, gli americani cosa farebbero? Glielo permetterebbero?”. Nessuno ha risposto. 

Nel 1959 Cuba era diventata comunista dopo la rivoluzione con cui Fidel Castro aveva deposto Batista. Gli americani provarono a contrastarlo e non ci riuscirono. Fallirono innumerevoli tentativi di avvelenarlo. Nel 1961 andò male l’assalto alla Baia dei porci, organizzato dagli americani. Fino a quando nel 1962 Castro chiese aiuto all’Unione Sovietica. Decise di installare missili nucleari sul territorio cubano, gli americani reagirono con il blocco navale, minacciando la guerra nucleare, e a quel punto le navi sovietiche tornarono indietro.

E quindi?

La narrativa storica su questa vicenda, dal 1962 al 2012, è stata: Kennedy eroico ha sconfitto i sovietici. La realtà storica è diversa. Sì, i russi hanno fatto dietrofront e non hanno installato i missili. Ma ci fu un accordo segreto che obbligò gli americani a togliere i loro missili nucleari dalla Turchia, che allora confinava con l’Unione sovietica. Se guardiamo quella crisi, così come è stata raccontata, hanno vinto gli americani. Invece furono costretti a due concessioni: togliere i missili dal territorio turco e impegnarsi a non invadere Cuba. Ai sovietici bastò restare fermi, cioè non piazzare postazioni missilistiche all’Avana.

Nel 2012, Leslie Gelb, il presidente emerito del “Council of foreign relations”, il sancta sanctorum dei think tank americani, scrisse un articolo su Foreign Policy in cui disse: “E’ ora che sfatiamo il mito della crisi dei missili a Cuba”. 

Sta dicendo che ognuno racconta la storia come vuole?

Pensi alla crisi di Monaco del 1938, quando Francia e Germania, per cercare di salvare la pace, siglarono un accordo con Hitler cedendogli la regione cecoslovacca dei Sudeti. Daladier e Chamberlain passarono per imbelli, incapaci di reagire alle pretese tedesche. Invece molti non sanno che la Gran Bretagna, nel ’38, non era pronta alla guerra contro la Germania.

Quell’accordo diede a Londra un ulteriore anno di tempo per armarsi, soprattutto con la costruzione di aeroplani, che le permise nel 1940 di vincere la battaglia d’Inghilterra sopra i cieli della Manica. La storia della Seconda guerra mondiale è cambiata nella primavera- estate del ’40 e leggendo i libri di Andreas Hillgruber, grande storico tedesco di quel periodo, si capisce che Hitler dopo la sconfitta nella battaglia d’Inghilterra era già convinto che la guerra fosse in qualche modo perduta. Quindi decise l’azione più folle di tutte, l’invasione dell’Unione sovietica. E senza l’Urss non avremmo mai vinto la guerra al nazi-fascismo. Sul fronte russo la Wermacht impiegò 500 divisioni corazzate. Contro gli alleati sbarcati nel ’44 ne impiegò 150. Chi ha retto l’urto tedesco, sul piano militare e delle vittime (20 milioni) è stata l’Unione sovietica. E queste cose Putin le sa, le ha studiate…

Le pretese di “Mad Vlad” non possono legittimarsi nei successi dell’Armata Rossa…

No. Ma va precisato che il Cremlino ha una sua visione su quello che dovrebbe essere l’assetto russo. Nel 2004 mentre l’Occidente applaudì alla “Rivoluzione arancione” in Ucraina in nome della democrazia, Putin ci vide una minaccia alla sicurezza russa. Nel 2008, al già citato Vertice NATO di Bucarest, Francia e Germania si opposero fermamente a far entrare Ucraina e Georgia nella Nato perché sapevano che la reazione di Mosca sarebbe stata durissima.

L’Europa conosceva da tempo i “cahiers de doleances” di Putin?

Quando nel 2013-2014 è emersa la volontà di Kiev di entrare nell’Unione europea, la Russia ha posto più di un problema. Ad esempio, l’Ucraina era legata alla Russia e al Kazakhistan da un accordo doganale, che prevedeva libera circolazione delle merci. Se l’Ucraina fosse entrata nell’Ue automaticamente dal confine ucraino sarebbero entrate merci nel mercato russo senza dazi né controlli, con un enorme danno economico per il Cremlino. E questo aspetto fu ignorato e furono minimizzate le riserve di Putin.

Senza contare i mal di pancia a Mosca per la cacciata del presidente filorusso Yanukovich. Gli storici un giorno diranno se quella del 2014 fu una rivolta popolare o un colpo di stato. Quel che è certo, è che ci sono le registrazioni portate dai russi dell’Assistance Secretary of State americana, Victoria Nuland, che davanti alle perplessità degli europei per la rivolta a Kiev diceva: “Che si fottano gli europei”. 

Come reagì la Russia?

Invase la Crimea e incoraggiò le due repubbliche separatiste nel Donbass. 

È il periodo in cui il Cremlino si lagnava della “russofobia” occidentale.

Non solo gli americani ma anche i polacchi, i bulgari, i romeni, le repubbliche baltiche hanno continuato a vedere la Russia come una minaccia, proprio mentre Mosca ribadiva la necessità di non allargare a est la Nato. In questa storia nessuno è innocente. Tranne la povera popolazione ucraina.

Negli ultimi 8 anni, dal 2014 quando furono siglati gli accordi di Minsk, poco o nulla si è fatto. L’Ucraina doveva riformare la Costituzione, garantire il bilinguismo ai russi e riconoscere autonomia alle repubbliche del Donbass e invece, apparentemente, non ne ha voluto sapere. E poi la Crimea è sempre stata russa: la diede Kruscev all’Ucraina negli anni ’50. E poi non si è voluto capire il significato storico-culturale-identitario che quel paese ha per i russi: l’identità russa è nata mille anni fa proprio in Ucraina. Si chiamava “Rus’ di Kiev” lo stato slavo nato nel 1054 che comprendeva territori che oggi fanno parte di Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali. L’identità russa non è nata a Mosca ma a Kiev.

Gli Stati uniti hanno voluto l’allargamento a est della Nato e hanno scientemente fatto in modo che le tensioni successive, dal 2008 a oggi, restassero senza soluzione?

Lo stesso hanno fatto alcuni leader europei, che avrebbero dovuto essere i primi a preoccuparsi della questione Russia-Ucraina. Avrebbero dovuto operare per pervenire alla neutralità dell’Ucraina, impedendone l’ingresso nella Nato. In cambio avrebbero potuto aprire alla sua entrata nell’Unione europea, processo che avrebbe richiesto comunque anni, per il rispetto dei parametri necessari. A quel punto, forse, un negoziato con la Russia si poteva intavolare.

Senza dimenticare che l’Ucraina è un paese pieno di contraddizioni politiche, dove la presenza di formazioni neonaziste è accertata. Non è una fake news. E non è da escludere che Zelensky possa aver subìto pressioni da queste formazioni. Quando fu eletto, avrebbe dovuto essere il presidente del dialogo con la Russia. E invece… 

L’anglo-sfera (Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna) ha una linea durissima contro Mosca, nonostante le sue contraddizioni. Negli Stati uniti, poi, negli ultimi dieci anni, la Russia è tornata a essere una minaccia con i democratici americani convinti che le elezioni, nel 2016, Trump le abbia vinte perché è stato aiutato da Putin. Che appare inverosimile. La Gran Bretagna, che spinge per la linea dura contro il Cremlino, per anni ha fatto ponti d’oro agli oligarchi russi che portavano soldi e investimenti a Londra drogandone il mercato immobiliare. E le sanzioni economiche imposte alla Russia hanno come unico obiettivo far collassare l’economia per aizzare una rivolta interna contro Putin.

Con le tensioni tenute latenti per anni, Washington ha spinto Putin a commettere un errore fatale. Era un trappolone?

E ci è cascato con tutte le scarpe. Ma nella mente di Putin le cose funzionano diversamente. A lui non interessa più mantenere un rapporto con l’Occidente, di cui non si fida più. A lui preme la Russia profonda, che è ancora con lui. E non confondiamo il punto di vista dei cittadini di Mosca e San Pietroburgo con il resto del paese. E come se un giornalista tentasse di spiegare l’America soltanto da New York o Los Angeles. L’Occidente andrebbe in crisi isterica senza Netflix o McDonald’s, la Russia probabilmente no.

Putin, che da anni credo abbia maturato questa diffidenza verso Ue e Usa, deve aver pensato che fosse questo il momento storico giusto per l’invasione. Ha visto gli americani battere in ritirata dall’Afghanistan, il presidente Biden in crisi di consenso, un’Europa divisa. Se abbia fatto bene i suoi calcoli, lo vedremo. 

Che errori ha commesso Putin negli ultimi 30 anni?

Non ha varato riforme significative per fare della Russia un paese moderno, sottraendo l’economia alle grinfie degli oligarchi. Anche dal punto di vista delle libertà fondamentali: l’Occidente si aspettava molto più coraggio. Certo, sono cambiamenti che sarebbero andati contro il dna russo, così abituato all’autoritarismo. Sicuramente Putin avrebbe potuto dovuto offrire un’immagine di una Russia democratica, più rassicurante e tranquillizzante per i suoi vicini di casa. Soprattutto i paesi ex sovietici. E non lo ha fatto, anzi. Dagli omicidi di giornalisti e dissidenti, alle svolte repressive: la Russia non ha fatto niente per farsi amare. Poi certo, si è innestata la nostra solita ipocrisia: abbiamo tenuto un occhio chiuso visto che Mosca ci riforniva di gas e le nostre aziende esportavano.

Dall’omicidio di Anna Politkovskaja agli avvelenamenti al polonio, tutti sapevano cosa stesse accadendo in Russia. Eppure, nessuno s’è mai sognato di chiudere i rapporti con Putin…

In Italia, nessuno. In Germania, idem. In Gran Bretagna e Stati uniti il sentimento era diverso. Negli anni si è evoluto in modo sempre più negativo.

Putin non si è mosso solo “in casa”. È intervenuto in Libia e in Siria.

Sono stato inviato speciale per la Siria e ricordo bene che Putin sosteneva che a Damasco fosse in corso un tentativo di rovesciare un regime per portare al potere gli integralisti islamici. Era convinto che dalla Siria sarebbe partito un “contagio” fondamentalista verso il Caucaso che avrebbe infiammato le minoranze musulmane in Russia. L’Occidente invece ha visto solo l’inaccettabile sostegno al dittatore sanguinario Assad. Purtroppo il contesto era molto più complicato, anche se questo non assolve nessuno dai crimini che non stati commessi anche in quel Paese.

Su questo punto, l’Occidente alimenta le sue ipocrisie. Ad esempio, di quello che stanno facendo l’Arabia saudita e gli Emirati nello Yemen non si parla mai: una vera catastrofe umanitaria. Che non è narrata dai media, forse perché Washington e Londra sono alleate di Riad a cui vendono armi. E poi i profughi ucraini, biondi con gli occhi azzurri, forse appaiono “biologicamente più gradevoli” di quelli yemeniti che hanno la pelle scura. 

Trovano più consenso e copertura mediatica. Eppure, i profughi sono tutti uguali. Con queste distinzioni si fatto le democrazie occidentali non ci fanno una bella figura. I nostri conclamati valori devono essere rispettati sempre, non solo quando conviene. Rimproveriamo a Putin la censura del dissenso e poi le grandi corporation, tipo Youtube, Twitter o Facebook, censurano allo stesso modo. È il doppio standard. Non è sostenibile un sistema internazionale stabile dove ci sono delle regole che per alcuni valgono e per altri no. 

Se si considera necessaria la neutralità dell’Ucraina (mai nella Nato) per il bene dell’Europa e della sua sicurezza, implicitamente si riconosce che l’autodeterminazione dei popoli debba essere subordinata a esigenze di politica internazionale più ampie…

Alcuni fattori, ahimé, finiscono per incidere sulla stabilità complessiva del sistema internazionale. Bisogna tenerne conto. Questo purtroppo vale per i tibetani in Cina, per i Palestinesi in Terra Santa e per i Curdi in Turchia, Siria, Iraq e Iran. 

E chi lo decide?

Teoricamente il Consiglio di sicurezza dell’Onu, sulla base di quello che è stato stabilito nel 1945. 

Con il meccanismo del diritto di veto, il Consiglio è sempre ingessato…

È questo l’ordine che si è creato dopo la Seconda guerra mondiale. Non va più bene? Lo si cambi. Ci sono state anche situazioni in cui il Consiglio ha votato all’unanimità. Come nel 1990, quando si doveva decidere se intervenire contro l’Iraq dopo la decisione di Saddam Hussein di invadere il Kuwait. Nel 2003, quando gli americani hanno invaso l’Iraq quella risoluzione unanime non l’hanno avuta. Hanno provato in tutti i modi a farsela dare ma Russia e Francia si opposero. Dissero chiaramente che se fosse stata portata la risoluzione in Consiglio avrebbero posto il veto. E gli americani attaccarono lo stesso. 

Con Colin Powell che il 5 febbraio 2003 sventolò all’Onu una provetta con le presunte “armi chimiche” nelle mani del regime di Saddam Hussein. Il 20 marzo gli americani invasero l’Iraq.

A dimostrazione che, quando serve, una legittimazione alla guerra si trova. Ma bisogna distinguere tra legittimità e legalità. Ci sono guerre che appaiono “legittime” senza copertura legale. Viceversa, altre che hanno la copertura legale ma sono percepite come illegittime. 

Per la Russia la guerra in Ucraina è legittima.

Putin ha invocato l’articolo 51 della Carta, quello che riguarda l’autodifesa. Sostiene di avere cittadini russi nel Donbass minacciati dai bombardamenti di artiglieria ucraini. Dal suo punto di vista ha invaso per difendere i suoi cittadini. Negli ultimi 8 anni, nelle repubbliche separatiste del Donbass, ci sono stati 16 mila morti. Non ne ha parlato nessuno. E la maggioranza dei morti, sembra, siano russi. Bisogna allargare un po’ il quadro per avere un giudizio più equilibrato. 

Per Kiev è uno scenario da incubo: deve subìre e non fiatare?

Se a eccepire sullo status dell’Ucraina fosse stato l’Azerbaijan, non sarebbe fregato a nessuno. Diventa un problema perché c’è di mezzo la Russia, potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di sicurezza. Perché l’autodeterminazione di Cuba nel decidere di installare sul suo territorio missili nucleari sovietici non poteva essere accettata? Perché gli Stati uniti d’America non l’avrebbero permesso. Perché l’autodeterminazione dei palestinesi non può essere accolta, ancorché riconosciuta da un’infinità di risoluzioni Onu? Perché c’è di mezzo Israele, che ha le sue esigenze di sicurezza.

E se la Cina decidesse di dare seguito militare alle sue pretese su Taiwan?

È una situazione ancora più delicata di quella esistente tra Russia e Ucraina. Fino al 24 febbraio 2022, Mosca non ha mai messo in discussione l’esistenza di uno stato indipendente ucraino. Semmai si è opposta al suo ingresso nella Nato. La Cina considera Taiwan parte integrante del proprio territorio e, dal punto di vista internazionale, nessuno ha formali relazioni diplomatiche con l’isola (nemmeno gli Stati Uniti!) che non è neanche membro delle Nazioni Unite.

Fino agli anni 70’ il seggio della Cina all’Onu era occupato da Taiwan. Poi il disgelo sino-americano, ispirato da Nixon, ha ribaltato lo scenario: gli americani hanno buttato fuori Taiwan e ci hanno messo la Cina, concedendole anche il diritto di veto. Poi Pechino è cresciuta fino a diventare una potenza economica, tecnologica e commerciale e questo a Washington non è piaciuto perché metteva in discussione la sua leadership o egemonia. 

La Nato è a tutti gli effetti una sfera d’influenza…

Certo. Con l’errore, commesso spesso in Occidente, di considerare la Nato un organismo di legittimazione giuridica internazionale. Quando è invece l’Onu, con le sue risoluzioni votate dal Consiglio di sicurezza, ai sensi del capitolo 7 della Carta riguardante le minacce all’ordine e alla sicurezza internazionale, a rendere la guerra “legale”. La Nato è un’alleanza militare occidentale e quello che stabilisce non è diritto internazionale. Non “produce” diritto come l’Onu né dirime sulle controversie come fanno le Alte Corti internazionali, salvo se i 5 membri permanenti del CdS concordano. 

Quindi, cosa bisognerebbe fare con l’Ucraina?

Uno stato a sovranità limitata, purtroppo, per salvaguardare la sua popolazione e le sue infrastrutture risparmiandogli ulteriori sofferenze e distruzioni. Come d’altronde sono, per certi versi (inutile che ce lo nascondiamo) l’Italia e altri paesi europei. Putin ha sollevato il problema ucraino da quasi un ventennio ma tutti se ne sono infischiati. O hanno ritenuto che la situazione non potesse essere affrontata nei termini richiesti da Mosca. E siamo arrivati alla guerra. Ora l’Ucraina potrebbe essere addirittura smembrata.

Bisognava accettare le prepotenze russe?

È una prepotenza che, nel corso degli ultimi 30 anni, si è alimentata per tutta una serie di omissioni che forse andavano messe sul tavolo e risolte. Ma la “prepotenza” in politica internazionale ricorre costantemente. Pensi agli Stati Uniti: in 250 anni di storia hanno fatto guerre ovunque. Hanno salvato l’Europa dal nazifascismo ma hanno condotto pure guerre imperiali che potevano essere evitate. La “Brown University” di Providence ha un programma che permette di censire i danni delle guerre americane nel mondo. Dal 2001, si stima, che le guerre americane in Medioriente e Afghanistan abbiano provocato quasi un milione di morti e 38 milioni di profughi. Senza contare le conseguenze politiche e gli 8 mila miliardi di dollari spesi. Magari parliamone.    

L'Ucraina è colpa nostra, De Masi smaschera gli errori dell'Occidente. Federica Pascale su Il Tempo l'11 marzo 2022.

Gli scontri in Ucraina proseguono senza sosta e la sensazione sempre più diffusa nei Paesi europei è che la guerra si stia avvicinando sempre di più alla soglia di casa. “Stiamo rasentando in modo terribile una guerra mondiale” afferma senza usare mezzi termini Domenico De Masi, ospite di Barbara Palombelli durante la puntata di venerdì 11 marzo di Stasera Italia su Rete4. Il sociologo boccia la politica estera portata avanti negli ultimi 30 anni dall’occidente, e che ci ha portati oggi ad avere un conflitto in corso pronto a degenerare da un momento all’altro.

“Quando si sarà sistemata questa situazione specifica, bisogna cambiare politica, perché la politica che abbiamo avuto negli ultimi trent'anni ci ha portato a questa conseguenza” spiega De Masi. “C'è qualcosa che abbiamo sbagliato anche noi” sottolinea, e aggiunge: “La Nato aveva 12 Paesi iscritti al momento della caduta del muro di Berlino, ora ne ha il doppio. E spende sette volte più della Russia in armamenti". Tanti gli errori dei Paesi europei e dei loro leader che, negli anni, hanno mancato di visione, quella che invece, secondo De Masi, aveva Silvio Berlusconi, che con il presidente russo Vladimir Putin ha sempre avuto ottimi rapporti.

“Credo che un esempio ci è venuto da Berlusconi. Bisognava avere con la Russia qualcosa di simile a quello che Berlusconi ha avuto con Putin” ribadisce il sociologo. La Palombelli in studio ricorda, però, che Putin negli anni è cambiato e anche De Masi afferma che il presidente russo, a differenza del presidente ucraino Zelensky, “sempre più saggio”, è invece “diventato di anno in anno sempre più irrazionale”. Tuttavia, questa sua ipotetica irrazionalità non va confusa con una debolezza: “Bisogna tenere in conto che, essendo pazzo, nella sua follia ragiona in modo lucidissimo e, quindi, è doppiamente pericoloso” conclude.

Dritto e Rovescio, Dasha accusa gli ucraini: "Venivo dal Donbass, cosa ho subito", testimonianza-choc. Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.

In studio a Dritto e Rovescio, nella puntata in onda giovedì 3 marzo, c'è anche Dasha. È lei a portare ai telespettatori di Paolo Del Debbio la sua testimonianza sulla guerra in Ucraina. "Noi non abbiamo creato Putin - premette su Rete 4 - e siamo contro quello che sta facendo, quella guerra è disumana e ogni persona normale lo capisce". Dasha infatti viene dal Donbass, la zona ucraina filorussa in cui i separatisti combatto a fianco dell'esercito di Vladimir Putin.

Tirata in ballo la ragazza si difende spiegando che "nel 2014 quello che è successo non è accaduto perché abbiamo chiamato Putin, ma perché non volevamo partecipare al colpo di stato a Kiev". Il riferimento è alla rivoluzione ucraina che ha avuto luogo dopo una serie di episodi di violenza nella capitale di Kiev, culminata con la cacciata dell'allora presidente dell'Ucraina, Viktor Janukovyč. Anch'esso filorusso.

"Dopo, quando dovevo scappare dalla guerra e non potevo perché nel Donbass era stato distrutto tutto, ho cercato una casa in affitto a Kiev ma nessuno me la dava perché venivo dal Donbass". Insomma, la ragazza sembra accusare l'Ucraina di averla discriminata perché veniva da quell'area a lungo contesa con la Russia. 

Dritto e Rovescio, la sparata del comunista Paolo Ferrero sull'Ucraina: "Atto criminale della Nato". Libero Quotidiano il 04 marzo 2022

L'orrore delle bombe, della mattanza di civili, almeno 2mila morti in poco più di una settimana stando alle prime stime, anche se il conto sembra drammaticamente prudenziale. Si parla ovviamente della guerra di Vladimir Putin, quella scatenata dalla Russia in Ucraina, una guerra che nelle ultime ore si sta combattendo attorno ai reattori delle centrali nucleari. Inutile stare a sottolineare quali potrebbero essere le catastrofiche conseguenze di un simile azzardo.

E di questa maledetta guerra se ne parla a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio in onda su Rete 4. La puntata è quella di ieri sera, giovedì 3 marzo, ospite in studio ecco un Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista. Insomma, uno col cuore "rosso". E Ferrero ragiona sulle responsabilità del conflitto, condannando in modo netto Putin ma spendendo parole durissime anche sulla Nato, che non esita a definire "criminale".

"Io penso così: Putin è un delinquente che ha aperto una guerra, è sempre un atto criminale - premette -. La guerra sta producendo la sofferenza che conosciamo, quindi assolutamente da condannare, senza se e senza ma. Secondo, però, penso che Putin non è l'unico delinquente: credo che la responsabilità sia anche della Nato, che dopo il crollo del muro di Berlino, invece di lavorare al disgelo, ha lavorato per estendere la Nato ad est verso la Russia. Un atto criminale e del tutto irresponsabile", conclude picchiando durissimo il comunista Ferrero.

Dritto e Rovescio, lo sfogo di Giuseppe Cruciani: "Civili massacrati. Putin? No, prendiamocela con l'Occidente". Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.

Il dramma in Ucraina, l'orrore scatenato da Vladimir Putin e dai soldati russi, è il tema che monopolizza l'intero dibattito televisivo. E Dritto e Rovescio, la trasmissione di Paolo Del Debbio, ovviamente non fa eccezione. Nella puntata in onda su Rete 4 giovedì 3 marzo a fare il punto ci pensa Giueppe Cruciani.

"Dopo tante battaglie sul Covid mi trovo d'accordo al 100% con quello che ha detto Antonio Caprarica", premette con un pizzico di ironia il conduttore de La Zanzara. "Ti preoccupa la cosa?", scherza Del Debbio. E Cruciani riprende: "Sono d'accordo, però se uno va a sentire bene quello che ha detto Antonio, uno se la dovrebbe prendere più con l'ignavia e con la debolezza dell'occidente di fronte a quello che accade. Vero che è difficile".

"Io penso una cosa - riprende -. Siccome in Occidente ci sono potenze nucleari esattamente come in Russia, che come noi può temere il conflitto nucleare, lasciare che degli inermi vengano massacrati quotidianamente sperando che Putin si fermi senza volerci mettere un soldato, una vita umana, ma semplicemente dando aiuti militari che non si sa quando arriveranno e come verranno usati, si tratta di un errore clamoroso - rimarca -. Nonostante l'isolamento e l'annunciato aiuto militare, persino dalla Germania, io credo che la debolezza estrema dell'Occidente di fronte a Putin è diventata lampante. Anche per colpa nostra: non vogliamo metterci un soldato, non vogliamo metterci un uomo", conclude Cruciani insistendo sulle responsabilità di Nato, Occidente ed Europa.

Ucraina, Nicola Porro ribalta il quadro: "Le colpe della Nato e di Joe Biden". Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.

Precisando che non vuole in alcun modo giustificare l'invasore, Nicola Porro dice la sua sulla guerra in Ucraina. Il giornalista e conduttore di Quarta Repubblica fa un passo indietro, spiegando da dove arriva tutta quella "follia" di Vladimir Putin. "Di sicuro - si legge sul suo sito - allo zar farebbe comodo riscrivere l’architettura securitaria postsovietica, ristabilire un’area d’influenza regionale, anche per poter trattare su livelli meno impari con quello che può diventare il suo partener strategico – Pechino". Eppure, secondo Porro anche la Nato ha fatto la sua.  

"Mosca è condizionata pure da un riflesso difensivo nei confronti di quella che ha percepito come la crescente minaccia dell’espansione a Est della Nato, talora per interposta Unione europea. Non è, banalmente, un’ossessione di Putin. Dopo il crollo del Muro di Berlino, Michail Gorbaciov ottenne dai governi occidentali l’assicurazione che la Nato non si sarebbe 'mossa di un millimetro' verso Oriente". 

Ma così non è stato. Non solo, perché stando a quanto riferito dal giornalista "dietro la rivoluzione arancione del 2004, che portò alla caduta del governo filorusso e al trionfo elettorale di Petro Poroshenko, pro Europa e Usa, pare ci fossero stati interventi diretti e finanziamenti del Dipartimento di Stato americano, oltre che di varie Ong, in parte legate al filantropo di origini ungheresi, George Soros". Quest’ultimo - prosegue - "rivendicò altresì un ruolo importante nel sostegno alle proteste di piazza Maidan del 2013-2014, che segnarono il secondo rivolgimento filoccidentale". Proprio quello che Putin non avrebbe mai accettato.

L’azione di Putin è condizionata pure da un riflesso difensivo contro l’espansione a Est della Nato. Redazione il 2 Marzo 2022 su Nicolaporro.it su Il Giornale.

Giustificare l’invasore? No. Comprendere come si è arrivati alla guerra, però, non solo è lecito, ma è anche doveroso. L’alternativa è rimanere prigionieri dell’isterica narrativa liberal: dell’epopea delle donne in armi “contro il patriarcato” (La Stampa), al filone psicologico sul Vladimir Putin folle, in fuga dalla realtà per paura del virus, addirittura affetto da long Covid. Indubbiamente, nella dottrina del Cremlino, giocano la loro parte le ambizioni imperialiste. Ovvio, non si tratta di uno sconclusionato disegno di egemonia globale, ma di sicuro allo zar farebbe comodo riscrivere l’architettura securitaria postsovietica, ristabilire un’area d’influenza regionale, anche per poter trattare su livelli meno impari con quello che può diventare il suo partener strategico – Pechino.

Tuttavia, Mosca è condizionata pure da un riflesso difensivo nei confronti di quella che ha percepito come la crescente minaccia dell’espansione a Est della Nato, talora per interposta Unione europea. Non è, banalmente, un’ossessione di Putin. Dopo il crollo del Muro di Berlino, Michail Gorbaciov ottenne dai governi occidentali l’assicurazione che la Nato non si sarebbe “mossa di un millimetro” verso Oriente. Così non è stato: a partire dagli anni dell’amministrazione Clinton, l’Alleanza atlantica ha reclutato sempre più Paesi dell’ex Urss (Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, alcune Repubbliche baltiche, Romania, Slovenia, Slovacchia eccetera). Dai primi anni Duemila, poi, le mire della coalizione occidentale si sono concentrate anche sull’Ucraina.

Così, dietro la rivoluzione arancione del 2004, che portò alla caduta del governo filorusso e al trionfo elettorale di Petro Poroshenko, pro Europa e Usa, pare ci fossero stati interventi diretti e finanziamenti del Dipartimento di Stato americano, oltre che di varie Ong, in parte legate al filantropo di origini ungheresi, George Soros. Quest’ultimo rivendicò altresì un ruolo importante nel sostegno alle proteste di piazza Maidan del 2013-2014, che segnarono il secondo rivolgimento filoccidentale e la cacciata definitiva di Viktor Janukovych, presidente amico di Mosca.

Chiariamolo: in più occasioni il popolo ucraino ha espresso la propria preferenza per un percorso di occidentalizzazione, di adesione all’Ue e di avvicinamento alla Nato. Probabilmente, irretito dalla convinzione di avere ormai le spalle coperte dall’America. Però bisogna essere realisti: durante la guerra fredda, ad esempio, nessuno considerava particolarmente scandalosa la neutralità di Finlandia e Austria, cioè l’esistenza di Stati cuscinetto che attenuassero la percezione di minaccia da parte dell’Unione sovietica. È comprensibile che Kiev rivendicasse il diritto di decidere autonomamente il proprio destino; l’indipendenza politica e militare, tuttavia, comporta conseguenze sugli equilibri di potenza e – diciamocelo – sulla pace mondiale. È un dato di fatto con cui bisognava fare i conti per tempo.

Dal canto suo, la Nato ha garantito di volersi allargare semplicemente per dare seguito alle richieste volontarie dei Paesi dell’Est, ma di non stare ordendo alcuna trama offensiva nei confronti della Russia. Questo messaggio, però, a Mosca non è passato. Esattamente come l’Alleanza atlantica aveva rotto l’accordo tra galantuomini strappato da Gorbaciov, così, hanno sempre creduto al Cremlino, avrebbe potuto mutare le proprie intenzioni, una volta installata in forze ai confini russi. Non si tratta soltanto dell’ombra proiettata da truppe e missili; Putin temeva anche una destabilizzante importazione del modello delle rivoluzioni colorate. Insomma, aveva timore di una sorta di golpe bianco a Mosca, foraggiato dagli Stati Uniti, con il contributo di Bruxelles (che comunque era stata sostanzialmente marginalizzata ai tempi di Euromaidan, tanto che la diplomatica Victoria Nuland, per rivendicare il primato di Washington nel teatro ucraino, disse all’ambasciatore a Kiev: “L’Ue si fotta”).

Ad alimentare le angosce di Mosca contribuiscono gli otto anni di violenze e soprusi subiti dai russofoni nel Donbass. L’episodio più clamoroso fu il massacro di Odessa, nel maggio 2014, quando le milizie neonaziste che avevano partecipato alla rivolta di Euromaidan diedero fuoco alla Casa del sindacato, dove si erano asserragliati manifestanti antioccidentali, insieme a persone completamente estranee agli scontri. Una strage: tra i corpi delle vittime, morte carbonizzate o linciate mentre cercavano di scappare dall’edificio, furono rinvenuti persino i cadaveri di donne incinte, seviziate e stuprate. Quando parla di difesa dei russofoni e “denazificazione” dell’Ucraina, insomma, Putin attiva un dispositivo retorico meno farneticante di quanto appare all’opinione pubblica delle nostre latitudini.

Queste sono le premesse storiche di un conflitto che, a intensità variabile, dura da parecchio tempo. La situazione non è semplice da gestire: un’eccessiva arrendevolezza autorizzerebbe lo zar ad alzare il tiro (verso Moldavia, Polonia e il Baltico) e trasmetterebbe alla Cina – a proposito delle mire su Taiwan – un messaggio pericoloso. Al tempo stesso, il coinvolgimento dell’Occidente in Ucraina può innescare un’escalation dagli esiti imprevedibili. Su un aspetto, infatti, il ministro russo Sergej Lavrov ha ragione, che egli ci piaccia o meno: una terza mondiale sarebbe nucleare. Al di qua e al di là di questa nuova cortina di ferro, siamo disposti al reciproco annientamento?

LE TRATTATIVE.

Cosa sono i “confini del 1991”. Francesca Salvatore il 2 Novembre 2022 su Inside Over.

Dallo scoppio del conflitto in Ucraina nel febbraio scorso, Kiev ha strenuamente richiesto la cessazione delle ostilità ponendo sempre e comunque come condizione il ritorno ai “confini del 1991”. Ma quali sono esattamente questi confini? Cosa prevedevano gli accordi del 1991?

Alle origini dell’indipendenza dell’Ucraina

Nel 1991 l’Ucraina, come nuovo stato indipendente, ereditò i confini dell’ex Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina. All’epoca, il confine tra Russia e Ucraina era una mera linea amministrativa, che non era stata tracciata tantomeno realizzata materialmente. Da allora l’Ucraina ha cercato di stabilire un confine adeguato.

La fine dell’Urss venne trattata dal diritto internazionale come un caso di smembramento, con il quale lo Stato precedente si estinse per dare vita alla formazione di due o più Stati nuovi, ammessi poi all’Onu in base all’art. 4 della Carta delle Nazioni Unite. Tutti gli Stati sorti dallo smantellamento vennero ammessi ex novo, ad eccezione di Ucraina e Bielorussia, già membri fondatori delle Nazioni Unite. La Dichiarazione del 1942, infatti, aveva qualificato come “Stati” anche alcune entità che non lo erano, per l’assenza del requisito di indipendenza, come l’Ucraina e la Bielorussia, realizzando una presunzione iuris et de iure.

Il processo venne regolato dagli accordi di Minsk dell’8 dicembre del 1991 e dall’Intesa di Alma Ata del 21 dicembre 1991.

L'Accordo di Minsk (1991)

L’8 dicembre 1991 il presidente russo Boris Eltsin incontrava i leader di Ucraina e Bielorussia. Assieme finalizzarono quello che divenne noto come l’Accordo di Minsk, che sciolse formalmente l’Unione Sovietica e la sostituì con una Comunità di Stati Indipendenti (Csi). I tre contraenti si impegnarono a garantire ai propri cittadini uguali diritti e libertà, indipendentemente dalla nazionalità o da altre distinzioni. Ciascuna delle parti contraenti si impegnava poi a garantire ai cittadini delle altre parti diritti e libertà civili, politici, sociali, economici e culturali secondo le norme internazionali generalmente riconosciute in materia di diritti umani, indipendentemente da fedeltà nazionale o altre distinzioni. Gli accordi si allargavano alla protezione delle minoranze, assunta come obbligo da ognuno degli Stati contraenti.

Ma soprattutto, all’art. 5, i contraenti riconoscevano e rispettavano reciprocamente l’integrità territoriale e l’inviolabilità dei confini esistenti all’interno del Commonwealth ex sovietico.

La debolezza dei confini del 1991

Gli accordi di Minsk, pur promettendo una svolta, non furono dettagliati. Il problema del confine fu oscurato da un evento dirompente come la disintegrazione dell’Urss. Eltsin aveva sostenuto l’indipendenza dell’Ucraina al fine di sconfiggere la sua nemesi Mikhail Gorbaciov, ma gli sforzi si erano fermati lì. La dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina nell’agosto 1991 e il successivo referendum segnarono una “separazione consensuale” fra le parti, adornata da dichiarazioni di principio molto ampie come il rispetto reciproco dell’integrità territoriale e l’inviolabilità dei confini esistenti “all’interno del Commonwealth”, un impegno che significava promettere di mantenere le frontiere aperte e i controlli transfrontalieri.

Ma nulla fu detto o scritto su come delimitare i confini, fino ad allora puramente interni tra le “province” dell’Urss. Questo declassamento a questione secondaria era intimamente legato al contributo che Kiev diede alla Comunità degli Stati Indipendenti, foraggiando la convinzione-in quel di Mosca-che ciò sarebbe bastato alla neonata nazione che, in questo modo, avrebbe continuato a gravitare attorno all’impero ex-sovietico.

Ci vollero ancora tre anni affinché la Federazione russa mollasse la presa sull’Ucraina, abbandonando, almeno sulla carta, la clausola del “riconoscimento dei confini dell’Ucraina all’interno della CSI”. Servirono l’Accordo Trilaterale del 1994 – tra Russia, Ucraina e Stati Uniti – e il Memorandum di Budapest, per ottenere un impegno formale a garantire i confini e la sovranità dell’Ucraina in cambio della rinuncia al suo arsenale nucleare.

Per Mosca fu quella l’occasione giusta per esercitare un ricatto parallelo, legando indissolubilmente il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina alla questione della Flotta del Mar Nero, di stanza nella penisola di Crimea. Il fatto che quest’ultima fosse legata a doppio filo allo status della base navale di Sebastopoli creò il primo vero garbuglio giuridico-diplomatico internazionale post-Guerra Fredda. La convinzione, poi, da parte delle élite politiche russe che la Crimea dovesse restare esclusivamente russa contribuì a creare una zona grigia che ha permesso gli eventi del 2014.

Il memorandum di Budapest (1994)

Con il Memorandum di Budapest, la vicenda dell’integrità territoriale ucraina guadagnò nuovamente il palcoscenico internazionale nonché dei garanti d’eccellenza.

Il Memorandum comprende tre accordi politici sostanzialmente identici firmati alla conferenza dell’Osce a Budapest, in Ungheria, il 5 dicembre 1994, per fornire garanzie di sicurezza dai suoi firmatari in relazione all’adesione della Bielorussia, del Kazakistan e dell’Ucraina al Trattato sulla non Proliferazione delle armi nucleari (Npt). I tre memorandum sono stati originariamente firmati da Federazione Russa, Regno Unito e gli Stati Uniti. Cina e Francia fornirono assicurazioni più labili attraverso accordi separati.

I memorandum vietavano alla Federazione Russa, al Regno Unito e agli Stati Uniti di minacciare o usare la forza militare o la coercizione economica contro Ucraina, Bielorussia e Kazakistan, “tranne per legittima difesa o altrimenti in conformità con la Carta delle Nazioni Unite”. A seguito del memorandum e dei suoi corollari, tra il 1993 e il 1996, Bielorussia, Kazakistan e Ucraina rinunciarono ai loro arsenali nucleari.

Il Trattato sull’amicizia (1997)

Negli Accordi di Sochi del 1995, la Russia confermò lo status della Crimea come parte dell’Ucraina, spingendo per i diritti esclusivi su Sebastopoli come parte di un lungo contratto di locazione. È stato solo nel maggio 1997 che Russia e Ucraina hanno finalizzato i dettagli della questione, concordando un contratto di locazione per 20 anni.

Questo accordo ha finalmente aperto la strada al “Grande Trattato” sull’amicizia, la cooperazione e il partenariato firmato a Kiev il 31 maggio 1997 dal presidente dell’Ucraina Leonid Kuchma e dal presidente russo Eltsin. Questo trattato ha assicurato il riconoscimento formale dell’Ucraina come “Stato uguale e sovrano” con i firmatari che si sono impegnati a rispettare l’integrità territoriale dell’altro e l’inviolabilità dei confini “esistenti”.

Il Trattato fissava i principi del partenariato strategico come il riconoscimento dell’inviolabilità dei confini esistenti, il rispetto dell’integrità territoriale e l’impegno reciproco a non utilizzare il proprio territorio per nuocere alla sicurezza reciproca. Il trattato impediva all’Ucraina e alla Russia di invadere rispettivamente l’altro e di dichiarargli guerra.

In base all’accordo, entrambe le parti garantivano i diritti e le libertà dei cittadini degli altri Paesi sulla stessa base e nella stessa misura in cui prevedeva per i propri cittadini, salvo quanto prescritto dalla legislazione nazionale degli Stati o dai trattati internazionali. Ogni Paese avrebbe protetto nell’ordine stabilito i diritti dei suoi cittadini residenti in un altro Paese, in conformità con gli impegni previsti dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, da altri principi e norme universalmente riconosciuti del diritto internazionale, dagli accordi all’interno del Commonwealth degli Stati indipendenti. L’accordo, tra l’altro, confermava-con una certa preveggenza- l’inviolabilità dei confini dei Paesi, indipendentemente dal fatto che Russia e Ucraina non avessero finalizzato materialmente un confine.

Gli sviluppi recenti

Sebbene il “Grande Trattato” sia passato come una vittoria politica per l’Ucraina, gli accordi hanno fornito alla Russia una capacità a lungo termine di minare l’integrità territoriale della controparte, come evidenziato dall’uso della base militare, delle truppe e della Marina in Crimea. Per fare pressione su Kiev, il Cremlino ha bloccato la ratifica del trattato del 1997 al fine di garantirsi la partecipazione dell’Ucraina all’Assemblea interparlamentare della Csi, organo di integrazione parzialmente svuotato ma dall’alta valenza simbolica.

Il Trattato sul confine di Stato Russia-Ucraina, firmato nel gennaio 2003, ha sostanzialmente definito i confini terrestri comuni, sebbene fosse solo la facciata della strategia russa di sostenere il presidente ucraino Kuchma in cambio dell’ottenimento della partecipazione di Kiev a due nuovi progetti di integrazione, la Comunità economica eurasiatica e lo Spazio economico comune nei primi anni Duemila.

Il Trattato tra la Federazione Russa e l’Ucraina sul confine di Stato russo-ucraino è stato firmato il 28 gennaio 2003 dall’allora Presidente Kuchma e da Putin. Questo afferma che il confine di Stato russo-ucraino sarebbe stato la linea e la superficie verticale che si realizza “seguendo quella linea che divide i territori statali delle parti del Trattato dal punto in cui i confini statali di Ucraina, Russia e Bielorussia si incontrano fino a un punto situato sulla costa del Golfo di Taganrog”.

Il punto in cui si incontrano i confini statali di Ucraina, Russia e Bielorussia avrebbe dovuto essere definito da un trattato separato. Il 14 maggio 2010, il governo della Federazione Russa ha emesso la risoluzione n. 720-r, ordinando al Ministero degli Affari Esteri della Federazione di iniziare a lavorare per concludere un accordo con il governo ucraino sulla demarcazione del confine.

Al dicembre 2014 nessun lavoro sulla definizione del confine era stato realizzato. Fino ad allora l’Ucraina aveva posizionato un paio di centinaia di segnali di confine a fronte di almeno una decina di migliaia necessari, essendo il confine Russia-Ucraina lungo più di 1.200 miglia.

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Guerra Russia-Ucraina: a marzo c'era l'accordo per la pace. Il no di Putin e il retroscena sulla Nato. Il Tempo il 15 settembre 2022

La guerra tra Russia e Ucraina poteva finire dopo pochi giorni, precisamente ad inizio marzo. A rivelarlo è la Reuters in un lungo articolo che svela numerosi retroscena sul conflitto. Dmitry Kozak, il principale emissario di Vladimir Putin per la questione dell’Ucraina, aveva annunciato al leader del Cremlino di aver trovato un accordo provvisorio con Kiev che avrebbe soddisfatto la richiesta russa di tenere l'Ucraina fuori dalla Nato. Putin ha però rifiutato la proposta e ha proseguito con la sua campagna militare. Secondo Kozak l’intesa faceva venir meno la necessità per la Russia di perseguire un'occupazione su larga scala dell’Ucraina, ma, nonostante il precedente appoggio ai negoziati, Putin, quando gli è stato presentato l'accordo di Kozak, ha deciso che le condizioni negoziate dal suo emissario non erano sufficienti e che a quel punto aveva ampliato i suoi obiettivi includendo l'annessione di ampie porzioni di territorio ucraino, oltre al non voler avere la minaccia della Nato al confine.

Il risultato, racconta la Reuters, è che alla fine non si è arrivati alla fumata bianca per la pace. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha smentito la ricostruzione: “Tutto ciò non ha assolutamente alcuna attinenza alla realtà. Non è mai successa una cosa del genere. È un'informazione assolutamente errata”. Kozak invece non ha risposto alle richieste di commento. Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, ha affermato che la Russia ha usato i negoziati come paravento per preparare l'invasione, ma non ha risposto a domande sulla sostanza dei colloqui né ha confermato che era stato raggiunto un accordo preliminare. La spinta a finalizzare l'accordo è avvenuta subito dopo l'invasione russa del 24 febbraio. Nel giro di pochi giorni Kozak era riuscito ad ottenere l’ok dell’Ucraina sui principali termini richiesti dalla Russia e ha raccomandato a Putin di firmare l’accordo, sul quale gli era stata data carta bianca.

“Tutto è stato cancellato. Putin ha semplicemente cambiato il piano in corso d’opera", ha dichiarato una delle fonti vicine alla leadership russa. Anche se Putin avesse accettato il piano di Kozak, rimane incerto se la guerra sarebbe finita. Reuters non è stata infatti in grado di verificare in modo indipendente che il presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy o alti funzionari del suo governo fossero impegnati nell'accordo. Kozak, 63 anni, è un fedele luogotenente di Putin da quando lavorava con lui negli anni '90 nell'ufficio del sindaco di San Pietroburgo. Già nel 2020 lo Zar lo aveva incaricato di condurre colloqui con le controparti ucraine sulla regione del Donbas. Ora, a sei mesi dall'inizio della guerra, Kozak rimane al suo posto di vice capo di gabinetto del Cremlino, ma non si occupa più del dossier Ucraina. "Kozak non si vede da nessuna parte", la notizia svelata da una delle fonti.

Così Putin disse no alla pace: «L’Ucraina offrì la rinuncia alla Nato, lui decise di proseguire l’invasione». Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022.

Lo zar avrebbe preferito procedere con l’invasione su larga scala. Il retroscena rivelato da Reuters con le testimonianze di fonti vicine alla leadership russa

La guerra in Ucraina avrebbe forse potuto essere fermata sul nascere. 

Nelle prime fasi del conflitto c’era un piano di pace concordato tra le parti che Putin però, alla fine, avrebbe rifiutato. 

Glielo aveva presentato quello che all’epoca era un suo fidato collaboratore, Dmitry Kozak, capo negoziatore dello zar per il Donbass dal 2020. 

Kozak, 63 anni, origini ucraine, era sicuro di aver fatto centro: era riuscito a trovare un’intesa con Kiev in grado di soddisfare la richiesta russa di tenere l’Ucraina fuori dalla Nato, un’intesa che avrebbe potuto evitare che Mosca si imbarcasse in una occupazione su larga scala del Paese. 

Ma il Cremlino avrebbe bloccato l’accordo preferendo proseguire con la sua campagna militare. Putin avrebbe chiarito che le concessioni negoziate dal suo collaboratore non erano sufficienti perché nel frattempo aveva ampliato i suoi obiettivi: puntava all’annessione di ampie porzioni di territorio ucraino. Per questo l’intesa è stata stracciata. 

Il retroscena è stato rivelato dalla Reuters sulla base delle testimonianze di tre fonti vicine alla leadership russa. 

Il Cremlino nega tutto. «Ciò è privo di ogni riferimento con la realtà. Non è mai successa una cosa del genere. È un’informazione assolutamente errata» ha reagito il portavoce Dmitry Peskov. Kozak non ha risposto alle richieste di commento inviate tramite il Cremlino. 

Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino, ha affermato che la Russia ha usato i negoziati come una cortina fumogena per prepararsi alla sua invasione, ma non ha risposto alle domande sulla sostanza dei colloqui né ha confermato che è stato raggiunto un accordo preliminare. «Oggi capiamo chiaramente che la parte russa non è mai stata interessata a un accordo pacifico», ha osservato Podolyak. 

Prima della guerra, Putin aveva ripetutamente affermato che la Nato e le sue infrastrutture militari si stavano avvicinando troppo ai confini della Russia accogliendo nuovi membri dall’Europa orientale, e che l’alleanza si stava preparando a portare anche l’Ucraina nella sua orbita: una minaccia per l’esistenza stessa della Russia che l’avrebbe costretto a reagire. Poi, a combattimenti avviati, pur rassicurato sul fronte Nato, lo zar avrebbe alzato la posta o rivelato i suoi veri obiettivi. 

Un individuo intervistato da Reuters, che ha collaborato ai colloqui post-invasione, ha detto che le trattative si sono arenate all’inizio di marzo quando i funzionari ucraini hanno capito che Putin voleva portare avanti l’invasione su larga scala. 

«Dopo il 24 febbraio, a Kozak è stata data carta bianca: gli hanno dato il via libera; ha ottenuto l’accordo. Lo ha presentato a Mosca ma gli hanno detto di cancellarlo. Tutto è stato cancellato. Putin ha semplicemente cambiato il piano mentre andava avanti» ha detto una delle fonti vicine alla leadership russa. 

La bocciatura dell’accordo potrebbe spiegare perché Kozak, per anni uno degli uomini più potenti della Russia, anche vicedirettore dello staff di Putin, amico di lunga data dello zar (negli anni ‘90 lavoravano insieme nell’ufficio del sindaco di San Pietroburgo) sia caduto in disgrazia: di lui da mesi si sono perse le tracce e fonti ucraine lo davano arrestato per collaborazionismo a maggio. 

In realtà a oltre sei mesi dall’inizio della guerra, Kozak mantiene ancora ufficialmente il suo posto di vice capo di stato maggiore del Cremlino. Ma non si occupa più del dossier Ucraina. E soprattutto «da quello che posso vedere, Kozak non si vede da nessuna parte» riferisce una fonte.

Da “il Giornale” il 15 settembre 2021.

L'inviato russo per l'Ucraina, Dmitry Kozak, avrebbe cercato di fermare la cosiddetta operazione militare speciale di Mosca al suo inizio raggiungendo con la leadership di Kiev un accordo che prevedeva la rinuncia ad entrare nella Nato. Ma il presidente Vladimir Putin avrebbe rifiutato l'offerta, continuando nei suoi progetti di annessione di parte del territorio ucraino. 

È quanto scrive la Reuters sul suo sito citando «tre persone vicine alla leadership russa». Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha tuttavia smentito la notizia, dicendo alla stessa Reuters che «ciò non ha nulla a che vedere con la realtà». «Niente del genere è mai avvenuto, è assolutamente un'informazione falsa», ha insistito il portavoce, ripreso dall'agenzia russa Tass.

Secondo la Reuters, Kozak, nato ucraino, avrebbe detto a Putin che a suo giudizio l'accordo raggiunto rendeva inutile l'operazione militare. Ma, nonostante in un primo momento avesse appoggiato i negoziati, il presidente russo avrebbe giudicato non sufficienti le concessioni di Kiev, dicendo che aveva ormai ampliato i suoi piani con l'obiettivo di annettere parti del territorio ucraino. L'accordo era quindi stato lasciato cadere.

Intanto il Cremlino ha dovuto ammettere per la prima volta una sconfitta contro l'Ucraina, nella controffensiva di Kiev nella regione di Kharkiv. Lo ha affermato nel suo rapporto quotidiano l'Istituto americano per lo studio della guerra (Isw). Allo stesso tempo, secondo il documento, Mosca sta cercando di deviare le critiche dal presidente russo Vladimir Putin dando la colpa ai suoi consiglieri militari. Il think tank Usa ha ricordato che il Cremlino non ha ammesso la sconfitta quando ha ritirato le sue truppe da Kiev o dall'isola di Zmíny e nell'offensiva delle forze armate ucraine nella regione di Kharkiv, ha cercato di agire in modo simile.

Il ministero della Difesa russo, riconoscendo il ritiro delle truppe, lo ha definito «raggruppamento. «Ma questa falsa narrativa - si legge nel rapporto - è stata accolta da molte critiche su Internet e dunque l'ammissione della sconfitta da parte del Cremlino fa parte di uno sforzo per ammorbidire e deviare le critiche per un fallimento così devastante dal presidente Putin al ministero della Difesa russo e al comando militare».

E continuano le indiscrezioni sullo stato di salute di Putin. Secondo i media il presidente russo Vladimir Putin è spesso visitato da un medico specializzato nel trattamento chirurgico del cancro alla tiroide. Ma non solo: un fitto elenco di dodici medici personali sarebbero al seguito del presidente russo; un team di medici esperti che lo seguirebbe come un'ombra. Documenti top secret dimostrerebbero come Putin sia costantemente seguito nei suoi spostamenti nel Paese, e fuori dalla nutrita equipe medica. Tra questi figurerebbe il medico endocrinologo del Central Clinical Hospital di Mosca Evgeny Selivanov, autore tra l'altro di uno studio sulla diagnosi del tumore alla tiroide. 

Francesca Sforza per “la Stampa” il 19 luglio 2022.

Si ritrova il passo del grande inviato nelle considerazioni che Bernardo Valli, storica firma di Repubblica, accetta di condividere nel corso della nostra conversazione sulla guerra in Ucraina. «Una guerra vecchio stampo», dice, che forse anche per questo consente l'emersione di ricordi che sono piccoli gioielli: «Non sono in molti a sapere che nel Donbass, durante la seconda guerra mondiale, furono tantissimi gli italiani che rimasero fra i prigionieri», né che tra le caratteristiche della leadership ucraina «si ritrova la forza di quegli ebrei che sfuggirono ai nazisti, poi ai comunisti, e persino agli stessi avversari interni che ne volevano l'eliminazione, una cosa che sa di rivincita, ma anche di compensazione». Ci troviamo di fronte a una guerra di attrito, con grande impiego di uomini e mezzi. 

Bernardo Valli, come si esce da una guerra così?

«Prima di tutto bisognerebbe capire come ci si è entrati, in questa guerra. La fila di carrarmati che nelle fasi iniziali premeva alle porte di Kiev riassume la situazione in modo plastico: i russi dovevano occupare Kiev e compiere così un gesto decisivo, invece quella colonna si è dispersa, la guerra si è frantumata, ed è chiaro che da allora c'è stato un cambio di strategia, da parte russa, sia sugli obiettivi che sulle conseguenze. Il problema è che né gli uni né gli altri sono ancora molto chiari».

Quali sono?

«Innanzitutto: la Russia vuole occupare tutta l'Ucraina o mantenere quel 20 per cento di popolazione nel Donbass? La mia impressione è che dopo quello smacco iniziale, i militari - con cui Putin è legato a doppio filo da tempi molto remoti - siano entrati in confusione, e per un verso non abbiano perdonato a Putin quell'invasione generalizzata, che aveva il fine di annettere l'Ucraina con un colpo di mano.

E poi non sono stati in grado di gestire quella diversa Ucraina che si sono trovati di fronte: gli schemi usati fino a quel momento per interpretare gli stratificati rapporti complessi tra i due Paesi non funzionavano più. È evidente che il governo di Kiev non può essere disposto ad accettare una mutilazione, né può esserlo l'Occidente, dopo un simile dispiego di mezzi». 

Quando Putin agita lo spettro dell'atomica c'è da avere paura o si tratta di un riflesso da guerra fredda?

«Soprattutto è un segno di irresponsabilità politica seria, perché l'impiego dell'atomica, Putin lo sa benissimo, implica una risposta. Questa cosa però dice molto sul personaggio Putin, un uomo che è cresciuto - da agente del Kgb nella Germania orientale fino a presidente della Federazione Russa - grazie all'aiuto dei militari, un aiuto che costituisce un'ipoteca sulla sua intera azione politica. Se i militari oggi siano soddisfatti di lui è un punto interrogativo. Come del resto lo è anche per Zelensky, visti gli ultimi licenziamenti ai vertici di Kiev».

La diplomazia è spaccata tra coloro che sostengono il dialogo con Putin e chi ritiene inutile qualsiasi colloquio. Che ne pensa?

«Putin si è rivelato un personaggio molto inaffidabile. Il problema è che resta un personaggio chiave, sempre che non sia completamente sotto il controllo di un gruppo militare. Quando ci si interroga sul dialogo con Putin non bisogna dimenticare la relazione che la Russia intrattiene con la Cina, che certo non è più quella che ho conosciuto io». 

Cina e Russia sembrano allineate nel contestare il sistema di valori delle democrazie occidentali. Che tipo di alleanza è la loro?

«Mi è capitato di seguire da vicino la relazione tra Russia e Cina nella guerra del Vietnam, quando erano quasi sul punto di interrompere i rapporti. Poi dopo l'89 si è strutturato un rapporto diverso, che negli ultimi tempi si è consolidato a partire dall'amicizia tra Putin e Xi. Un'amicizia ambigua, che non ha dato vita ad accordi o ad alleanze decisive, ma che si è strutturata su accordi economici - l'ultimo quella dell'apertura del gas russo a Pechino - e su una serie di intese che hanno creato una sorta di semi-alleanza, da cui sarà impossibile prescindere nel futuro».

Crede alla mediazione di Erdogan?

«Non credo che abbia la chiave del negoziato. E poi sono visibili degli accordi? Nulla, né da una parte né dall'altra. Al momento nessuno può accettare una pace che preveda un'Ucraina divisa, anche perdere il Donbass sarebbe una mutilazione che il governo di Kiev può difficilmente sopportare. Pesa in questa fase la debolezza europea: il cancelliere tedesco Scholz fatica a spezzare la dipendenza dal gas russo, Macron ha perso la maggioranza assoluta all'Assemblea Nazionale, l'Italia non ne parliamo Una mediazione in questa fase non sembra affatto vicina».

L'Europa fa bene ad accelerare il percorso di ingresso dell'Ucraina nell'Ue?

«Sì, è una questione di credibilità, e anche una presa d'atto del fatto che l'Ucraina, oltre ad avere dei legami già abbastanza importanti con gli stati europei, deve accelerare la sua separazione dalla Russia. Poi è evidente che all'interno dell'Ucraina ci sono ancora molte spaccature, ma la prospettiva europea può aiutare a ricomporle». 

Chi sta vincendo la guerra della propaganda?

«Se si guarda alle atmosfere dei Paesi occidentali, e alla differenza tra l'inizio della guerra e adesso, ho l'impressione che i russi abbiano guadagnato terreno. Fattori come la crisi economica e l'inflazione, che mostrano come il benessere sia minacciato dalla guerra, oltretutto nel momento che coincide con l'esplosione delle vacanze dopo l'esperienza della pandemia, rendono molto impopolare il conflitto».

Come la stiamo raccontando, questa guerra?

«Questa è una guerra antiquata, e colpisce la grande presenza femminile rispetto al passato: i corrispondenti sono in gran parte donne, immerse nella realtà, delle vere reporter, molto efficaci. Vedo una copertura sul posto molto seria». 

Lei ha condiviso con Eugenio Scalfari una grande e lunga esperienza professionale. Qual è oggi la sua eredità?

«Il giornale che ha fondato non è più quello, è completamente cambiato, direi che non c'è nessun erede nel giornale che lui ha creato. Nel giornalismo in generale, be' sì, ha lasciato il senso per le grandi inchieste, per il linguaggio preciso - non amava l'uso del condizionale, né del congiuntivo. Prima di lui, e anche i suoi predecessori immediati, impostavano i giornali sulle valutazioni, sui discorsi morali, sulle considerazioni storiche. Con lui si è imposta la serietà dei fatti, ha portato il giornalismo sul terreno, grazie ai suoi giornalisti».

Ucraina: «Fiat iustitia, pereat mundus». Piccole Note il 20 giugno 2022 su Il Giornale.

Tempo di lettura 4min  – “Non cederemo il Sud dell’Ucraina alla Russia”. Così Zelensky ieri, mettendo una pietra tombale sulle possibilità di avviare a breve un negoziato con i russi. In tal modo ha voluto rispondere, in maniera pubblica e inequivocabile, alle richieste di Macron e Scholz, i quali, nel corso delle visita a Kiev (insieme a Draghi), gli avevano chiesto di riprendere i negoziati.

Nulla di fatto, il presidente che ostenta la magliettina verde dell’esercito in ogni circostanza, non può smarcarsi dall’America, che non gli consente alternative alla guerra. A rafforzare il rilancio di Zelensky, la parallela dichiarazione del Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il quale ha affermato che la guerra “potrebbe durare anni“.

Se nei giorni scorsi il “partito della pace” aveva avuto un sussulto in Occidente, aprendo spiragli, si può registrare con certa tristezza che tale accenno di vitalità è stato prontamente tacitato. D’altronde era abbastanza evidente anche nei report del viaggio della speranza (per usare un termine in uso ai pellegrinaggi religiosi) di Scholz e Macron: ben pochi media importanti avevano riferito della richiesta avanzata dai leader (e chi ne ha riferito lo ha fatto con la distrazione del caso), limitandosi a ribadire il mantra dell’ingresso dell’Ucraina nella Ue.

La definizione “partito della pace” l’abbiamo ripresa da Steven Erlanger, cronista del Times e premio Pulitzer, il quale, interpellato da Yana Dlugy per il New York Times, ha detto che sull’Ucraina in Occidente si registra il conflitto tra il “partito della pace” e il “partito della giustizia”.

“Il partito della giustizia – spiega Erlanger -, formato fondamentalmente dall’Europa dell’Est, gli Stati baltici e la Gran Bretagna [e gli Usa, ovviamente], ritiene che c’è in ballo qualcosa di più dell’Ucraina, che è a tema la sicurezza europea. E che se Putin non si sente sconfitto, se non si ferma qui, allora, in qualche modo, proseguirà” nella sua assertività.

“Il partito della pace teme che gli obiettivi del partito della giustizia siano l’estensione della guerra, fino a rischiare un’escalation, al coinvolgimento dei paesi della NATO nella guerra, con il fine di mettere Putin all’angolo”.

C’è qualcosa di vero in queste righe, ma ancora più corretta la considerazione conclusiva, cioè che se l’America non sostenesse più l’Ucraina, la guerra finirebbe rapidamente, se non subito.

La cessazione delle ostilità vedrebbe non tanto Mosca invadere Kiev – mossa che minaccerebbe del caso solo per forzare la mano all’avversario – quanto la leadership ucraina aprirsi subito al negoziato, che i russi accoglierebbero con favore, potendo dichiarare chiusa la guerra e proclamare la vittoria.

In realtà, lo scontro in atto non è solo tra un’asserita “giustizia” e una irenica “pace”, ma soprattutto tra una politica estera improntata al realismo e quella, dominante in America (e, in subordine perché subordinata, in Europa), forgiata dall’ideologia liper-liberista e/o neoconservatrice.

Tale scontro è descritto molto bene in un articolo di Sumantra Maitra sul National Interest, al quale rimandiamo. In questa sede ci limitiamo a riportare una riflessione di Hans Morgenthau ivi riportata sulla necessità del realismo in politica.

“Il realismo sostiene che i principi morali universali non possono essere applicati alle azioni degli Stati nella loro formulazione universale astratta, ma che devono essere filtrati attraverso le circostanze concrete del tempo e del luogo. L’individuo può dire: “ Fiat iustitia, pereat mundus (Sia fatta giustizia, anche se il mondo perisce),” ma lo Stato non ha il diritto di dirlo in nome di coloro che sono sotto la propria tutela”.

“Sia l’individuo che lo stato devono giudicare l’azione politica in base a principi morali universali, come quello della libertà. Tuttavia, mentre l’individuo ha il diritto morale di sacrificarsi in difesa di un tale principio morale, lo Stato non ha il diritto di far sì che la sua disapprovazione morale per la violazione della libertà ostacoli un’azione politica di successo, a sua volta ispirata dal principio morale di una sopravvivenza nazionale. Non può esserci moralità politica senza prudenza; cioè, senza considerare le conseguenze politiche di un’azione apparentemente morale” .

Riflessione che il cronista del NI commenta spiegando che se certo il realismo non è alieno da aspetti negativi, “non è paragonabile alle crociate per la democrazia degli ultimi trent’anni”.

Commento precipuo, dal momento che anche il sostegno all’ucraina e alla sua lotta “fino all’ultimo ucraino” contro l’invasore, se pure all’inizio poteva identificarsi come un doveroso sostegno verso l’aggredito, oramai, caduta tale foglia di fico, ha assunto l’aspetto di una crociata per la libertà e la democrazia proprio delle guerre infinite.

Tale natura religiosa, che non consente dissidenza (la dissidenza è  eresia), fa di questa guerra un conflitto esistenziale e insanabile, escludendo a priori non solo il negoziato, ma la stessa idea del negoziato. Tanto che nelle disquisizioni degli esperti e degli analisti che parlano a nome e per conto del potere dominante, il negoziato non è neanche evocato se non come vago residuo colloquiale per rassicurare le masse.

Nulla importa che il mondo sia flagellato dalle conseguenze della guerra e soprattutto delle sanzioni: inflazione e rischio stagflazione in Occidente, fame in Africa, turbolenze e violenze di piazza diffuse all’orizzonte, rischio di nuove ondate migratorie, incremento della destabilizzazione globale… solo per parlare delle conseguenze certe, che all’incerto non c’è limite.

Già, nulla importa: Fiat iustitia, pereat mundus. Dove, ovviamente, la giustizia è Cosa loro.

NYT: se la guerra non si ferma, la responsabilità è made in Usa. Piccole Note l'1 giugno 2022 su Il Giornale.

Sul New York Times Christopher Caldwell porta un attacco pesantissimo all’amministrazione americana sulla guerra ucraina, come si nota fin dal titolo dell’articolo: “Potrebbe risultare impossibile fermare la guerra in Ucraina. E gli Stati Uniti hanno gran parte della colpa”.

Riprendendo uno scritto da Henri Guaino, ex consigliere di Nicolas Sarkozy, Caldwell scrive: “Gli Stati Uniti hanno contribuito a trasformare questo conflitto tragico, locale e ambiguo in una potenziale conflagrazione mondiale. Fraintendendo la logica della guerra, sostiene Guaino, l’Occidente, guidato dall’amministrazione Biden, sta dando al conflitto uno slancio che potrebbe essere impossibile da fermare. Ha ragione”.

Il cronista ripercorre quanto avvenuto prima della guerra, a iniziare dal 2014, quando, con la rivoluzione e/o colpo di Stato di Maidan, gli Stati Uniti hanno preso il controllo di Kiev, innescando una guerra locale che si è conclusa con la conquista della Crimea da parte della Russia (va ricordato che l’esercito ucraino fu annientato: se Mosca avesse voluto conquistare l’Ucraina, poteva farlo tranquillamente allora).

“Si può discutere sulle pretese russe riguardo la Crimea – spiega Caldwell – ma i russi le prendono sul serio. Centinaia di migliaia di soldati russi e sovietici morirono difendendo la città di Sebastopoli, in Crimea, dalle forze europee durante due assedi: il primo durante la guerra di Crimea e il secondo nel corso della Seconda guerra mondiale. Negli ultimi anni, il controllo russo della Crimea sembrò assicurare un accordo regionale stabile” avendo guadagnato l’acquiescenza dei Paesi europei.

“Ma gli Stati Uniti non hanno mai accettato l’accordo. Il 10 novembre 2021, gli Stati Uniti e l’Ucraina hanno firmato una ‘carta sul partenariato strategico’ che chiedeva all’Ucraina di aderire alla NATO, condannava ‘l’aggressione russa in corso’ (1) e affermava un ‘impegno incrollabile’ per la reintegrazione della Crimea all’Ucraina. Quella carta ‘convinse la Russia che doveva attaccare o essere attaccata’, ha scritto Guaino. ‘È l’ineluttabile processo del 1914 in tutta la sua terrificante purezza’“.

Non solo tale accordo, ad allarmare la Russia era anche il flusso crescente di armi Nato nel Paese confinante, che ne ha fatto un Paese “armato fino ai denti”. Armi che hanno continuato a fluire copiose anche dopo l’invasione russa, tanto che Caldwell trova “fuori luogo” le narrazioni che descrivono la disfatta della campagna russa.

“La Russia – scrive, infatti, il cronista – non si sta scontrando contro un coraggioso paese agricolo grande un terzo di essa; sta tenendo testa, almeno per ora, contro le avanzate armi economiche, informatiche e da guerra della NATO” (osservazione interessante per tanti motivi).

“Ed è qui  – aggiunge Caldwell – che ha ragione Guaino ad accusare l’Occidente di sonnambulismo. Gli Stati Uniti stanno cercando di mantenere la finzione che armare i propri alleati non sia la stessa cosa che partecipare a una guerra”.

“Oltrepassare il confine tra l’essere un fornitore di armi e l’essere un combattente, è facile quanto oltrepassare il confine tra una guerra per procura e una guerra segreta. Nell’era informatica, questa distinzione sta diventando sempre più artificiale”.

E osserva: “Anche se non accettiamo le dichiarazioni di Putin secondo cui l’armamento americano affluito in Ucraina è stato causa della guerra, è certamente il motivo per cui la guerra ha assunto la forma cinetica, esplosiva e letale che ha adesso. Il nostro ruolo in tutto ciò non è passivo o incidentale. Abbiamo dato agli ucraini motivo di credere che possono vincere attraverso una guerra fatta di escalation”.

Quindi, dopo aver accennato ai tanti “volontari” (leggi mercenari) stranieri presenti in Ucraina, Caldwell elenca tutte le defaillance della comunicazione dell’amministrazione Usa, a iniziare dalle dichiarazioni che chiedevano un regime-change a Mosca per finire alla promessa di sostenere l’Ucraina fino alla “vittoria” sulla Russia. Tutte dichiarazioni il cui “effetto, voluto o meno, è stato quello di precludere qualsiasi via ai negoziati di pace”. Non solo, anche continuare a inviare armi è “un potente incentivo a non far finire la guerra in tempi brevi”.

“Ma se la guerra non finisce presto, i pericoli connessi aumenteranno. ‘I negoziati devono iniziare nei prossimi due mesi’, ha ammonito la scorsa settimana l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, ‘prima che si creino sconvolgimenti e tensioni tali” da rendere difficilissima la risoluzione del conflitto.

“Nel chiedere un ritorno allo status quo ante bellum, [Kissinger] ha aggiunto: ‘Perseguire la guerra oltre quel punto non sarebbe più garantire la libertà dell’Ucraina, ma sarebbe una nuova guerra contro la stessa Russia’”.

“In questo, Kissinger concorda con Guaino – scrive Caldwell – “Fare concessioni alla Russia significherebbe cedere all’aggressione”, ha avvertito Guaino. “Non farne nessuno sarebbe cedere alla follia”.

E conclude: “Gli Stati Uniti non faranno concessioni, perché perderebbe la faccia. Ci sono elezioni in arrivo. Quindi l’amministrazione sta chiudendo le vie dei negoziati e sta lavorando per intensificare la guerra. Siamo in questo gioco per vincere. Con il tempo, l’enorme flusso di armi mortali, comprese quelle provenienti dallo stanziamento di 40 miliardi di dollari appena autorizzato, potrebbe portare la guerra a un livello diverso. Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky,questo mese, in un discorso agli studenti ha avvertito che i giorni più sanguinosi della guerra stavano arrivando”.

Quadro fosco quello dipinto, forse troppo, dal momento che sottotraccia qualcosa si muove. Ma è bene tenere presente certe analisi permeate di sano realismo che adagiarsi sulle tante narrazioni consegnate a un vacuo quanto folle ottimismo.

piccolenote.it è un sito a cura di Davide Malacaria

Il grande negoziato. Il piano italiano per la pace ha qualche pregio e molti limiti, ma almeno guarda avanti. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 24 Maggio 2022.

Pur non trattandosi di un documento perfetto, la proposta ha sicuramente il merito di segmentare la mostruosa quantità di patologie politiche che affliggono la regione, secondo il principio che presto o tardi saremo costretti a trattare con un regime con cui non condividiamo nulla. 

La pace, come la guerra, è una gara di resistenza. La comunità euroatlantica (Ue e Nato) e le truppe ucraine hanno decisamente dimostrato di poter usare la forza del proprio peso economico e, soprattutto, gli aiuti militari a Kiev. Ma la guerra ha una propria logica, si autoalimenta ed è quasi impossibile controllarne la traiettoria; la pace può essere raggiunta solo quando esiste un piano sensato presentato quando le fazioni maggiormente coinvolte raggiungono uno stato di “mutually hurting stalemate”, uno stallo il cui tributo di soldi, sangue e capitale politico pesa su tutti.

Il piano di pace del governo italiano, presentato al Segretario generale delle Nazioni Unite, ha molti meriti e sicuramente rappresenta il programma più dettagliato degli ultimi giorni e l’unico con la lungimiranza di porre l’accento sui passaggi politici che dovrebbero avvenire dopo il cessate-il-fuoco. È improbabile che vedrà mai la luce: le reazioni modeste degli alleati italiani e le dinamiche nel campo militare russo suggeriscono che il momento in cui riuscirà a coinvolgere le fazioni rilevanti per la sua attuazione non è ancora arrivato. In più, non mancano i difetti, soprattutto per quel che riguarda alcune scelte rispetto al coinvolgimento multilaterale di altri attori globali.

Detto questo, il buon impianto presentato dal governo italiano si avvicina verosimilmente a quello che sarà il processo che potrebbe emergere se e quando Mosca si deciderà a interrompere la corsa verso il baratro. Per questo vale la pena di analizzare il riassunto della bozza pubblicata da Repubblica la settimana scorsa.

Il piano si delinea in quattro fasi. Prima di tutto si prevede un cessate-il-fuoco e la demilitarizzazione della linea del fronte. Basandoci sulla tradizione della politica estera italiana e le proposte emerse soprattutto nel contesto libico per limitare le ingerenze di potenze straniere, è verosimile che ciò includerebbe il coinvolgimento di peacekeeper delle Nazioni Unite. Una missione di osservatori, effettivamente, non sarebbe sufficiente per la situazione. Il vero problema sarebbe però la presenza di attori non-statali e nazionalmente autonomi rispetto allo stato russo. Se è vero che le missioni dei caschi blu richiedono il consenso di chi è schierato su entrambi i lati del fronte, le truppe delle repubbliche separatiste potrebbero plausibilmente agire da “peace spoilers”. In termini pratici, ciò vuol dire che potrebbero effettuare azioni di disturbo ai danni degli ucraini godendo della protezione politica dei russi, che potrebbero nascondersi dietro alle formalità: i separatisti hanno strutture militari autonome, Mosca può fare pressione ma non può certo controllare soldati di stati che ritiene indipendenti. Questo è lo stesso stratagemma utilizzato durante le trattative sul Donbass prima del 24 febbraio 2022, e la neutralità assoluta dell’Onu costringerebbe il contingente a prendere per buona la posizione del Cremlino.

La seconda fase riguarda un negoziato sullo status futuro dell’Ucraina, resuscitando le proposte circolate nelle ultime settimane su una neutralità di Kiev con garanzie militari offerte dalle grandi potenze. Questo trattato dovrebbe essere espressione di una conferenza multilaterale e permettere comunque il futuro accesso ucraino all’Ue. Un fattore positivo è che ciò fornirebbe all’Ucraina uno scudo politico e militare prima della fine del processo di pace, diminuendo così i rischi e i sospetti di possibili colpi di mano durante i colloqui diplomatici.

La terza fase dovrebbe poi sfociare in un trattato bilaterale fra Russia e Ucraina sui confini fra i due paesi, mediato sempre dal Gruppo di Contatto multinazionale. Essenzialmente si potrebbe puntare a una soluzione di tipo “vivi e lascia vivere”: anche senza un riconoscimento reciproco fra Mosca e Kiev, vengono citate infatti questioni come la libera circolazione dei cittadini fra zone occupate e resto del paese, una zona economica comune, garanzie linguistiche per la minoranza russa eccetera. L’intenzione sarebbe replicare il punto d’arrivo a cui tendevano i negoziati del 2015-22, una soluzione che permetterebbe di superare l’impasse politico permettendo ai cittadini di ricominciare a vivere.

Se l’esperienza della guerra di posizione in Donbass è indicativa, anche solo l’apertura dei posti di blocco lungo il fronte congelato sarebbe molto difficile. Nella prima fase della guerra il Donbass è rimasto sostanzialmente isolato dal resto del Paese e ci sono voluti anni prima che l’Ucraina accettasse di farsi carico dei costi di sostentamento per una regione funzionalmente annessa alla Russia. Questo tipo di accordi informali non sono sostenibili nel lungo periodo e sono le principali cause che portano i “frozen conflict” (conflitti a lungo sopiti ma mai veramente risolti) a riemergere con violenza periodica. Rimane anche da vedere se l’Ucraina sarebbe disposta a un tale compromesso su Kherson, la città più grande attualmente occupata dai russi.

L’ultimo capitolo del piano riguarda un grande accordo fra Ue, Nato e Russia, con un rinnovamento dell’Osce come forum est-ovest. Anche questo è stato uno dei fini ultimi che molti leader europei, specialmente in Germania, hanno perseguito fra il 2008 (su iniziativa della colomba Dimitri Medvedev, prima della sua spettacolare trasformazione in mastino di guerra) fino agli ultimi giorni di pace. Un’aggiunta positiva è il ruolo previsto per la Partnership Orientale dell’Unione Europea, grande assente finora nell’architettura europea di sicurezza.

Insomma, pur non trattandosi di un piano perfetto, la proposta ha sicuramente il merito di segmentare la mostruosa quantità di patologie politiche che affliggono la regione, secondo il principio che presto o tardi saremo costretti a trattare con un regime con cui non condividiamo praticamente nulla.

Per ora la comunità internazionale ha reagito tiepidamente, ed effettivamente è difficile immaginare come questo processo potrebbe essere lanciato a ridosso del fallimento di Istanbul nel mediare un cessate-il-fuoco. Il ruolo centrale del Gruppo di Contatto (che includerebbe le potenze con diritto di veto alle Nazioni Unite, Ue, Onu, Germania, Italia, Turchia e Israele), più il lancio di un circuito di conferenze multilaterali, ha sicuramente sia sostenitori che detrattori. Un tale approccio ottocentesco ha dimostrato di riuscire a raggiungere obiettivi a corto termine, come è stato per il cessate-il-fuoco negoziato in Libia all’indomani della Conferenza di Berlino nel 2020. È però difficile che un tale gruppo sia sostenibile nel lungo periodo e che abbia più successo di formati multilaterali già esistenti e dotati di una robusta struttura amministrativa.

L’intraprendenza del governo Draghi è supportata dal recente viaggio a Washington e, nonostante la velata irritazione di Bruxelles, dal fatto che il piano presenta alcune parole d’ordine care sia a Berlino che a Mosca. Questo è un passo forse necessario che però comporta anche un grosso rischio. L’idea di un “grande negoziato” non è lontana dalle posizioni russe, come ha scritto Dimitry Drize del Kommersant, ed evoca lo spettro di Yalta, il riconoscimento della Russia come co-egemone per grazia divina nell’ordine europeo. È una chimera inseguita a lungo da Mosca: sarebbe strategicamente saggio per l’Ue conformarsi alle preferenze del suo avversario?

Cristiana Mangani per il Messaggero su il 24 Maggio 2022.

La Russia ha occupato in tre mesi di guerra circa il 20% del territorio ucraino, pari a 125 mila chilometri quadrati. E sebbene Mosca, in più occasioni, abbia rallentato l'avanzata per tentare di recuperare le forze, Kiev è ora in difficoltà, ha esigenze immediate e di lunga scadenza. Per questo sul terreno, secondo Forbes, c'è stata una crescita evidente di conquiste da parte del Cremlino. 

Il 23 febbraio, giorno prima dell'invasione, il territorio occupato era di 43.300 metri quadrati. Quello in mano alla Russia è ora praticamente triplicato. «Gli ucraini stanno facendo un lavoro fantastico ma la situazione nel Donbass, dal punto di vista militare, è diventata molto difficile», è il messaggio che arriva dalla Nato, dove spiegano anche che è «essenziale» che l'Alleanza o i singoli Paesi membri continuino la fornitura di armi all'Ucraina.

In questo scenario la strada per la mediazioni è sempre più in salita.

Mosca ha ricevuto il piano di pace che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha presentato all'Onu, ma sembra che non sia stato ben recepito. Per il momento ha incassato la bocciatura dell'ex presidente russo Medvedev. «È un puro flusso di coscienza slegato dalla realtà: Donbass e Crimea non torneranno mai indietro a Kiev», ha detto il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, secondo il quale il piano è stato elaborato basandosi sulle menzogne degli ucraini. Ma il Cremlino frena: «Non lo abbiamo ancora visto», ha affermato il portavoce Dmitri Peskov.

L'attenzione delle truppe dello zar è ora concentrata nell'area di Vasylivka a Zaporizhzhia e i combattimenti non sembrano trovare sosta, con i russi che hanno bombardato la ferrovia Dnipropetrovsk. Sul terreno la battaglia continua a infuriare nel Donbass, dove a dare man forte ai soldati di Putin sono arrivate le unità d'élite di Spetsnatz e i contractor della Wagner che si stanno concentrando sulla conquista dell'intera regione di Lugansk. Al centro dell'offensiva resta il centro strategico di Severodonetsk, assediato da tre direzioni. Per il governatore Serhiy Gaidai, è ormai troppo tardi per la fuga dei circa 15 mila civili bloccati.

«A questo punto - ha sostenuto - non dirò più: uscite, evacuate. Ora dirò: rimanete in un rifugio. Perché una tale densità di bombardamenti non ci permetterà di andare a prendere le persone». Le forze nemiche, ha spiegato, hanno concentrato gli sforzi sull'operazione per accerchiare le città gemelle di Lysychansk e Severodonetsk, separate dal fiume Seversky Donets. 

In questo momento sul campo è in atto una manovra a tenaglia per cercare di tagliare le linee di rifornimento ucraine, controllando le strade chiave per i collegamenti a ovest, mentre continuano i bombardamenti a tappeto, con almeno 7 civili uccisi e 10 feriti in 24 ore. «Ora - ha detto il portavoce del ministero della Difesa ucraino, Oleksandr Motuzyanyk - stiamo osservando la fase più attiva dell'aggressione».

La campagna russa prosegue anche nel resto del Paese, con nuovi raid sulle regioni di Mykolaiv e Dnipro. Nelle zone già conquistate, la Russia sta cercando, intanto, di stringere la presa. A Mariupol, i genieri dell'esercito e gli specialisti della flotta del mar Nero hanno completato le operazioni di sminamento della fascia costiera e del porto, dove secondo la Difesa di Mosca sono stati trovati 12 mila esplosivi e armi. 

Una bonifica che riguarda anche l'Azovstal, mentre il leader dei separatisti filorussi di Donetsk, Denis Pushilin, ha fatto sapere che le corti marziali per i combattenti ucraini fatti prigionieri dopo l'uscita dalla fabbrica-bunker sono in preparazione e che rappresentanti di diversi Paesi, compresi occidentali, saranno invitati ad assistere alle udienze. Una presenza destinata a consolidarsi anche a Kherson, dove il vicecapo della nuova amministrazione fedele al Cremlino, Kirill Stremousov, ha annunciato che chiederà a Mosca l'installazione di una base militare.

SOLDATI MINORENNI Mentre la battaglia si fa ancora più violenta, Putin deve, comunque fare i conti con le truppe stanche e demoralizzate. Un altro generale, questa volta dell'Aviazione, è stato ucciso nell'Ucraina orientale: un missile Stinger ha colpito l'aereo del generale Botashov che era in guerra nonostante fosse in pensione dal 2013. Sembrerebbe, poi, che per inserire nuove forze sul campo, il presidente sia pronto a inviare anche minorenni in Ucraina per sostenere l'invasione. 

Sul sito del governo di Kiev viene mostrato un documento che proverebbe la decisione dei vertici russi di mettere in atto l'ordine «sull'organizzazione del coinvolgimento dei membri del movimento pubblico militare-patriottico Unarmiya nella conduzione di un'operazione speciale sul territorio dell'Ucraina». Ordine che vede la firma del ministro della Difesa di Mosca Sergej Shoigu. 

Federico Rampini per il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

«Zelensky è un grande personaggio. Ma deve ancora spiegarci quale mondo immagina dopo la guerra. Io non ho mai detto che l’Ucraina deve cedere parte del suo territorio nazionale se vuole la pace. Ho detto che la migliore linea di demarcazione per un cessate il fuoco è lo status quo che precedeva il 24 febbraio, con la Crimea in mano ai russi e un piccolo angolo del Donbass, circa il 4,5% del totale. Io sono senza riserve per la libertà dell’Ucraina e il suo ruolo in Europa. Ma non trasformiamo una guerra per la libertà dell’Ucraina in un conflitto sul futuro della Russia». 

A 99 anni l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger è ancora così autorevole che le «interpretazioni» del suo pensiero abbondano, e lo costringono a puntuali precisazioni. Sulla propria longevità sa scherzare: «Ho scelto molto bene i miei genitori» (tutti e due camparono ultranovantenni). Gli anni lo hanno reso solo meno mobile rispetto all’era in cui inventò la shuttle-diplomacy girando il mondo come una trottola: ora lo si trova soprattutto nella sua casa di Kent, Connecticut, circondato da migliaia di libri. È meno presente nelle cronache mondane, dove un tempo fu una vera star.

La vita privata

Negli anni d’oro la sua vita privata era onnipresente sui rotocalchi, nonostante non avesse proprio il physique du role del Don Giovanni: tra le sue relazioni figurarono attrici celebri come Shirley Maclaine, Liv Ullman, Candice Bergen. Nel 1972 le «conigliette» di Playboy lo votarono come l’uomo dei loro sogni per un appuntamento galante. (Dal 1974 è sposato con Nancy Maginess, che ha sempre definito «offensive» le voci su una crisi del loro matrimonio). 

A coronamento della sua fama di seduttore c’è uno strano aneddoto che incrocia vita privata e carriera diplomatica. Quando Kissinger orchestrò il disgelo fra Stati Uniti e Cina, il presidente Mao Zedong gli offrì «dieci milioni di donne». La proposta fu accolta con sconcerto e inizialmente scambiata per un errore di traduzione. Mao insisteva e allora si capì che alludeva a un’emigrazione forzata come rimedio alla sovrappopolazione cinese. Kissinger se la cavò: «È un’idea nuova. Dovremo studiarla».

Il calcio

Fra le altre passioni ai margini della diplomazia c’è il calcio. Come sostenitore della squadra dei New York Cosmos, che negli anni Settanta reclutò vecchie glorie dal mondo (inclusi Chinaglia, Beckenbauer, Carlos Alberto), il più celebre diplomatico del Novecento negoziò personalmente col governo brasiliano il trasferimento di Pelè. Ha visto ogni finale dei Mondiali in tribuna d’onore con l’unica eccezione del 2002; ha contribuito a far vincere la candidatura agli Stati Uniti. Tra le sue squadre del cuore: Manchester United e Juventus, quest’ultima in ricordo dell’amicizia con Gianni Agnelli. 

Il libro

Giunto alla soglia del secolo di vita Kissinger ha pubblicato in America il suo 19esimo libro, «Leadership», che uscirà in Italia (Mondadori) a novembre. Contiene i ritratti di sei statisti della seconda metà del XX secolo che hanno impresso un segno nella storia mondiale: Adenauer, De Gaulle, Nixon, Sadat, Thatcher, Lee Kuan Yu. Densa di dottrina geopolitica, questa galleria di personaggi analizza i vincoli entro cui si muove l’azione dei leader: la scarsità di risorse; lo spirito del tempo; la competizione con altri Stati dagli obiettivi conflittuali; l’imprevedibilità degli eventi. Non c’è dubbio che Kissinger metterebbe se stesso almeno alla pari con quei sette giganti defunti, per l’impronta lasciata sulla storia globale. La sua è una vita ben riempita. 

Chi è

Heinz Alfred Kissinger nasce a Furth in Germania il 27 maggio 1923 da una famiglia di ebrei tedeschi. I suoi decidono di fuggire negli Stati Uniti quando lui è quattordicenne, nel 1938, poco prima della fatidica Notte dei Cristalli che segna una feroce escalation nelle persecuzioni naziste. 

Dal 1943 al 1949 è capitano dell’esercito americano, svolge missioni d’intelligence sul territorio tedesco, guadagna una medaglia dando la caccia agli ufficiali della Gestapo. 

Si laurea a Harvard dove si distingue come uno storico autorevole di due eventi che hanno creato la diplomazia del mondo moderno: la Pace di Vestfalia che pone fine alle guerre di religione nel 1648, e il Congresso di Vienna che stabilizza l’Europa dopo le conquiste napoleoniche nel 1815.

Si fa notare dall’establishment politico per le sue tesi innovative sull’era degli armamenti nucleari. Un filo conduttore del suo pensiero è la logica dell’equilibrio fra le grandi potenze. Dal 1969 fino al 1977 è National Security Adviser e segretario di Stato per due presidenti repubblicani, Richard Nixon e Gerald Ford. Con Nixon architetta il vertice che ha cambiato il corso della storia, l’incontro con Mao a Pechino il 21 febbraio 1972: l’antefatto che consentirà d’integrare la Cina nella globalizzazione, nonché una delle spiegazioni della sconfitta dell’Unione sovietica nella guerra fredda. 

È sempre Kissinger a negoziare la fine della guerra del Vietnam, conquistandosi nel 1973 il Nobel per la pace. Nel 1982 crea la Kissinger Associates, tra le più importanti società di consulenza strategica per i governi di tutto il mondo.

La sua attività è rimasta frenetica a lungo, nonostante qualche problema di salute: nel 1982 triplo bypass coronarico, nel 2005 intervento angioplastico, nel 2009 operazione all’anca, nel 2014 sostituzione di una valvola dell’aorta. Ha avuto anche una robusta dose di controversie. Invece del Nobel per la Pace, i detrattori lo avrebbero trascinato davanti a un tribunale per crimini contro l’umanità, contestando il suo ruolo nei bombardamenti illegali della Cambogia e nel golpe cileno che depose Salvador Allende. Dopo essere stato nominato da George Bush a capo della commissione d’indagine sull’11 settembre, dovette dimettersi per i potenziali conflitti d’interessi (l’Arabia saudita è uno dei tanti regimi che hanno consultato la Kissinger Associates). 

Il contributo attuale

A 99 anni i suoi interventi al World Economic Forum di Davos continuano a conquistare le prime pagine dei giornali. Xi Jinping lo ascolta come un grande saggio nella tradizione confuciana. Tutti i presidenti americani lo hanno invitato alla Casa Bianca per chiedergli consigli, salvo uno: Joe Biden. Il castigo di Kissinger arriva puntuale: «Biden è troppo influenzato dalla politica interna. Avrebbe bisogno di una flessibilità nixoniana, per disinnescare gli attuali conflitti con la Russia e con la Cina».

Ciò che lo preoccupa è soprattutto il futuro delle relazioni tra America e Cina, da cui dipende il futuro dell’umanità intera. Il vecchio Henry disegna un percorso stretto. «Stati Uniti e Repubblica Popolare cinese hanno in comune il fatto di considerarsi nazioni eccezionali, entrambe pensano di avere il diritto di prevalere. Bisogna capire la permanenza storica della Cina, e al tempo stesso impedirle di diventare egemone. Non ci riusciremo attraverso prove di forza». 

L’America di oggi gli sembra più spaccata che negli anni Sessanta. «Perfino durante la guerra del Vietnam c’era consenso su alcuni obiettivi nazionali, anche se eravamo divisi sui modi per raggiungerli. Oggi è controversa la definizione stessa dell’interesse nazionale e dei valori del paese. Eppure nessuna società può rimanere grande se perde fiducia in se stessa e distrugge la propria autostima». 

A proposito dell’inchiesta parlamentare sull’assalto al Congresso il 6 gennaio 2021: «Non punta alla verità storica, è funzionale a impedire che Donald Trump si ripresenti». Finiremo per rimpiangerlo e riscopriremo la canzone del gruppo comico inglese Monty Python a lui dedicata, infarcita di ironie politicamente scorrette come quella sul «pappagallo tedesco» (allusione al suo accento, invariato dopo una vita in America). Henry Kissinger mi manchi / Sei il Dottore dei miei sogni / coi capelli crespi e lo sguardo occhialuto / i piani machiavellici / Lo so dicono che sei vanitoso / Basso grasso e prepotente / Però almeno non sei matto. 

Testo di Laura Secor pubblicato da La Stampa il 15 agosto 2022.

A novantanove anni, Henry Kissinger ha appena pubblicato il suo diciannovesimo libro intitolato Leadership: Six Studies in World Strategy. Si tratta di un'analisi della visione e dei successi storici di un pantheon quanto mai diversificato di leader del secondo Dopoguerra: Konrad Adenauer, Charles De Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan-Yew e Margaret Thatcher. 

Nel suo ufficio di Midtown Manhattan, in una soffocante giornata estiva, Kissinger mi racconta che negli anni Cinquanta, «prima di impegnarmi in politica, mi riproponevo di scrivere un libro sul processo di pace e la fine della pace nel XIX secolo, a cominciare dal Congresso di Vienna. Poco alla volta ho iniziato a scriverlo e mi sono ritrovato con un terzo del libro dedicato a Bismarck. Avrebbe dovuto concludersi con lo scoppio della Prima guerra mondiale». Il suo ultimo libro, ha aggiunto, «è una specie di continuazione di quello, non è soltanto una riflessione sui nostri tempi».

Tutti i sei personaggi politici delineati in Leadership, dice l'ex segretario di Stato, furono influenzati da quella che lui chiama la "Seconda guerra dei Trent' anni", il periodo compreso tra il 1914 e il 1945 che contribuì a plasmare il mondo che sarebbe venuto dopo. Dagli anni Cinquanta, quando era uno studioso di Harvard che scriveva di strategia nucleare, Kissinger ha sempre concepito la diplomazia come un'azione di equilibrio tra le grandi potenze ottenebrata dalla possibilità di una catastrofe nucleare. Nella sua ottica, il potenziale apocalittico della moderna tecnologia delle armi fa del mantenimento dell'equilibrio tra potenze ostili - per quanto sia un'operazione assai difficile - un imperativo categorico superiore nelle relazioni internazionali.

«Dal mio punto di vista, l'equilibrio ha due componenti primarie - conferma -. Il primo è l'equilibrio di potere, con l'accettazione della legittimità di valori talvolta contrastanti. Infatti, se credi che il fine ultimo di ogni tua azione debba essere l'imposizione dei tuoi valori, allora l'equilibrio secondo me diventa impossibile. Quindi il primo è una sorta di equilibrio assoluto». L'altro, prosegue, «è l'equilibrio nei comportamenti, il che significa che esistono limiti all'esercizio delle proprie competenze e del proprio potere in relazione a ciò che è indispensabile all'equilibrio complessivo». Ottenere un connubio perfetto esige «una capacità quasi artistica». 

Kissinger ammette che l'equilibrio, per quanto indispensabile, di per sé non è un valore.

«Possono verificarsi situazioni nelle quali la convivenza è moralmente impossibile», osserva. «Per esempio, è il caso di Hitler. Con Hitler era del tutto inutile discutere di equilibrio, anche se provo qualche simpatia per Chamberlain se pensò di dover guadagnare tempo in vista di una prova di forza che egli supponeva inevitabile in ogni caso». Da Leadership trapela in parte la speranza di Kissinger che gli statisti americani contemporanei riescano a fare proprie le lezioni dei loro predecessori. «Penso che questo periodo sia caratterizzato da notevoli difficoltà a decidere la direzione da imboccare», ribadisce: «Si reagisce in modo istintivo all'emozione del momento».

Gli americani sono riluttanti a separare l'idea di diplomazia dal concetto di fondo della "relazione personale con l'avversario". Tendono, insomma, a considerare i negoziati - mi dice - in termini missionari, più che psicologici, cercando di convertire o di condannare i loro interlocutori invece di approfondirne e capirne la mentalità.

Kissinger pensa che il mondo di oggi stia rasentando i limiti di uno squilibrio pericoloso.

«Siamo sull'orlo di una guerra con la Russia e la Cina per questioni che in parte abbiamo creato noi stessi, senza nessuna idea precisa di come andrà a finire o di dove dovrebbe portarci», sottolinea. Gli Stati Uniti sarebbero in grado di gestire i due avversari con una sorta di triangolazione, come accadde durante gli anni di Nixon? Risponde senza offrire una soluzione semplice: «Adesso è impossibile dire se riusciremo a dividerli e a far sì che diventino avversari tra loro. Tutto quello che possiamo fare è non acuire le tensioni, è creare possibilità. Per questo è indispensabile avere in mente una finalità precisa». In merito a Taiwan, Kissinger teme che gli Stati Uniti e la Cina stiano manovrando verso una crisi e consiglia fermezza da parte di Washington. «La politica attuata da entrambi le parti ha prodotto e consentito a Taiwan di progredire diventando un'entità democratica autonoma e ha mantenuto la pace tra Cina e Stati Uniti per mezzo secolo - osserva -. Si dovrebbe essere molto prudenti, di conseguenza, in relazione a qualsiasi azione in grado di modificare la struttura di base».

Kissinger ha sfiorato la controversia all'inizio di quest' anno lasciando intendere che le incaute politiche da parte di Stati Uniti e Nato avrebbero provocato la crisi in Ucraina. 

Non vede alternative: è indispensabile prendere sul serio le preoccupazioni per la sicurezza espresse da Vladimir Putin, e crede che per la Nato sia stato un errore lanciare all'Ucraina il segnale che avrebbe potuto entrare a far parte dell'Alleanza. 

«La Polonia - e tutti i Paesi tradizionali occidentali che hanno fatto parte della Storia dell'Occidente - apparteneva logicamente alla Nato», spiega. L'Ucraina, invece, dal suo punto di vista è un insieme di territori che un tempo erano collegati alla Russia, che i russi consideravano di loro proprietà, anche se per "alcuni ucraini" non era così. Si renderebbe dunque un servizio migliore alla stabilità agendo da cuscinetto tampone tra la Russia e l'Occidente: «Ero favorevole alla piena indipendenza dell'Ucraina, ma ho pensato che per lei sarebbe meglio un ruolo simile a quello della Finlandia».

In ogni caso, aggiunge Kissinger, il dado ormai è tratto. Dopo il comportamento della Russia in Ucraina, «adesso penso che, in un modo o in un altro, formalmente o informalmente, alla fine di tutto questo l'Ucraina debba essere trattata alla stregua di un membro della Nato». Eppure, Kissinger pronostica un'intesa che preservi le conquiste russe risalenti alla sua incursione iniziale del 2014, quando ci fu l'annessione della Crimea e di alcune zone nella regione del Donbass, per quanto non sappia rispondere con precisione alla domanda di come tale intesa possa differire dal patto che otto anni fa non riuscì a stabilizzare il conflitto.

La pretesa morale posta dalla democrazia e dall'indipendenza dell'Ucraina - dal 2014, ampie maggioranze si sono dette favorevoli all'adesione all'Ue e alla Nato - e il cupo destino della sua popolazione sotto l'occupazione russa si inseriscono in modo maldestro nell'arte di governo di Kissinger. Se il bene superiore è scongiurare un conflitto nucleare, che cosa si deve ai piccoli Stati il cui unico ruolo nell'equilibrio globale è subire le decisioni di quelli più grandi? «Capire come coniugare la nostra potenza militare con le nostre finalità strategiche», riflette Kissinger a voce alta, «e come mettere in relazione queste con i nostri obiettivi morali è un problema ancora irrisolto». 

Ripensando alla sua lunga carriera, spesso controversa, tuttavia, non si concede autocritiche. Quando gli chiedo se ha rimpianti riguardo agli anni in cui era in carica, risponde: «Da un punto di vista manipolativo, dovrei imparare a dare una risposta di peso a questa domanda, perché mi viene rivolta sempre». Tuttavia, nel complesso, «se anche modificassi alcuni punti tattici di secondaria importanza», dice, «non mi assillo a pensare a cosa avremmo potuto fare in modo diverso». 

La «profezia» di Kissinger sull'Ucraina. Gianluca Mercuri su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.

Otto anni fa, l'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger scrisse un articolo definendo tre punti per «porre fine alla crisi dell'Ucraina». Riguardavano l'ingresso nell'Ue, quello nella Nato e la sua finlandizzazione. Lette ora, quelle righe sembrano ad alcuni l'ennesima profezia di un oracolo delle relazioni internazionali, e ad altri la certificazione dei suoi errori. 

Kissinger, eternamente Kissinger, inevitabilmente Kissinger. A quasi 99 anni, l’ex segretario di Stato americano è ancora una specie di oracolo delle relazioni internazionali, un uomo il cui impareggiabile (e controverso) mix di pensiero e azione rappresenta un punto di riferimento ineludibile, anche quando si punti a superarlo o demolirlo. Talmente onnipresente, l’uomo che in un modo o nell’altro si è visto consultare da tutti gli inquilini della Casa Bianca da Kennedy in poi, che anche quando non parla è come se lo facesse, perché c’è sempre un suo pronunciamento, un suo atto, un suo scritto che improvvisamente torna attuale, e dà l’idea di adattarsi perfettamente all’ultima crisi. 

L’ultimo esempio è il suo articolo sul Washington Post di 8 anni fa — 5 marzo 2014 — che in questi giorni è tornato a circolare insistentemente in Rete come una sorta di profezia, col corollario da molti desunto che, se il mondo avesse dato retta al maestro dell’approccio realista alle questioni di politica estera, la tragedia ucraina sarebbe stata evitata.

Il pezzo si intitolava «To settle the Ukraine crisis, start at the end» («Per risolvere la crisi ucraina, si cominci dalla fine») e commentava gli effetti della rivoluzione di Euromaidan, esplosa a cavallo tra il ‘13 e il ‘14 dopo che il presidente Yanukovyc aveva rifiutato di firmare l’accordo di associazione con l’Ue per siglarne uno con la Russia, finendo per essere costretto alla fuga dalla reazione popolare. 

Cosa diceva Kissinger? In sintesi:

• Sì a un’Ucraina associata all’Europa

• No a un’Ucraina nella Nato

• Ucraina «finlandizzata». 

Tutte questioni, come si vede, estremamente attuali e ricorrenti in ogni analisi di questi giorni terribili. 

La finlandizzazione, in particolare, veniva spiegata così: «Saggi leader ucraini dovrebbero optare per una politica di riconciliazione tra le varie parti del loro paese. A livello internazionale, dovrebbero perseguire una posizione paragonabile a quella della Finlandia. Quella nazione non lascia dubbi sulla sua fiera indipendenza e coopera con l’Occidente nella maggior parte dei campi, ma evita accuratamente l’ostilità istituzionale verso la Russia». 

Naturalmente l’analisi era molto più articolata. In particolare, tendeva a sottolineare errori e contraddizioni del campo occidentale. Si sosteneva che l’Ucraina «non deve essere l’avamposto di una delle due parti contro l’altra, ma funzionare come un ponte tra loro». Che la Russia «deve capire che cercare di costringere l’Ucraina a uno status di satellite condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia ciclica di pressioni reciproche con l’Europa e gli Stati Uniti». Che «l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero», con relative citazioni sulle radici storiche e religiose della Russia ben piantate in Ucraina che sentiamo ripetere di frequente. Che l’Ucraina ha «una storia complessa e una composizione poliglotta», riassunte schematicamente così: «L’ovest è in gran parte cattolico; l’est in gran parte russo-ortodosso. L’ovest parla ucraino; l’est parla soprattutto russo». 

Poi c’erano altre due affermazioni chiave: «La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi»; e «per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l’assenza di una politica». 

Ripreso e citato spesso, l’articolo «profetico» di Kissinger ha avuto soprattutto commenti positivi, che ne hanno sottolineato la lucidità, l’equilibrio e la preveggenza. Su tutti quello di un politologo stimato come Piero Ignazi, che sul Domani ha scritto che il grande diplomatico americano aveva ragione quando sosteneva che «trascinare l’Ucraina in un confronto tra Est e Ovest avrebbe impedito per decenni di portare la Russia in un sistema internazionale cooperativo». Interessanti anche altri rilievi di Ignazi: «Si poteva fermare prima Putin e salvare l’Ucraina? Forse sì, ma la supponenza politico-morale occidentale ha impedito passi intelligenti in questa direzione». E ancora: «Il superiority complex che noi occidentali spesso esprimiamo risulta fastidioso, e financo insopportabile, agli altri paesi». 

È curioso, e perfino divertente, notare che Kissinger — l’icona dell’imperialismo Usa contro cui le sinistre mondiali hanno marciato per anni in ogni angolo del pianeta — è stato così arruolato nel campo dei critici dell’Occidente. Una forzatura? Fino a un certo punto, perché gli argomenti kissingeriani sono in effetti affini a quelli di un certo pacifismo di sinistra molto criticato (per esempio da Paolo Mieli) per il suo presunto filo-putinismo di fondo (e a proposito di alibi e Putin, Mieli nega al leader russo quello della presunta politica aggressiva della Nato nei confronti della Russia). 

L’entusiasmo per la profezia kissingeriana, però, non è unanime. Chi proprio non lo condivide è Mario Del Pero, storico a SciencesPo, che il mito di Kissinger lo demolisce punto per punto: non arriva ai livelli di Christopher Hitchens, che in un libro memorabile lo descrisse come «uno splendido bugiardo dalla straordinaria memoria», e soprattutto come un criminale di guerra; ma certo è ben distante dall’apologia che Niall Ferguson ne ha fatto nella sua biografia in due volumi, in cui contesta l’opinione comune sulla sua spietatezza. 

Sul sito della Treccani, Del Pero smonta dunque «la presunta profezia kissingeriana». Quei commenti del 2014, afferma, «esprimono in forma plastica, verrebbe voglia di dire quintessenziale, il suo stile, il suo metodo e il suo approccio. E ovviamente i suoi limiti, analitici e prescrittivi. Il lessico utilizzato, denso di aforismi, è quello — all’apparenza savio e preciso e nei fatti spesso delfico e vago — che si ritrova in tanti scritti kissingeriani: “il test della politica è come finisce, non come inizia”; “la politica estera è l’arte di stabilire delle priorità”», e altri ancora. «A queste verità — talora banali, non di rado oracolari — si aggiunge l’uso di una storia che fisserebbe paletti, o meglio essenze, ineludibili per tutti i soggetti coinvolti». Perché «una visione essenzialista come quella kissingeriana fatica a confrontarsi con processi storici che definiscono la creazione, la costruzione, l’adattamento e il costante ripensamento di una nazione e dei suoi fondamenti identitari». 

Nel caso dell’Ucraina, «sembra dare quasi per scontato che la popolazione russofona sia inevitabilmente, e perennemente, filorussa (e quindi filoputiniana). Numerosi esperti ci spiegano invece con chiarezza quanto una specifica identità ucraina sia stata ridefinita (e rafforzata) dagli anni successivi alla crisi del 2014-15 (ndr: ne ha scritto Luca Angelini sulla Rassegna di mercoledì). Ed è davvero difficile immaginare che la resistenza all’invasione russa e questa terribile guerra non siano destinate a dare un contributo fortissimo alla costante ridefinizione dell’identità nazionale ucraina». 

Del Pero, in linea con Mieli, contesta soprattutto un punto: «È la Nato, nel 2014, a essere individuata da Kissinger come la causa principale della crisi che si aprì allora». Alla fine sembra ammettere in qualche modo che il nocciolo delle sue proposte di allora si mostri resistente al tempo: «Restano sul tavolo la neutralità — nella forma di un riconoscimento che l’Ucraina non farà mai parte della Nato — e il legame con Europa, che ora include addirittura l’adesione di Kiev alla Ue». Ma poi precisa che si tratta di «due elementi che paiono offrire delle basi negoziali molto fragili e futuribili nel contesto di guerra attuale», in cui «i costi crescenti del conflitto alzano per entrambe le parti la soglia per accettare un compromesso». 

Eppure, quanto le idee kissingeriane siano ancora attuali — il che non vuol dire che siano le uniche soluzioni percorribili, me che forse non «nascevano deboli e su premesse problematiche già otto anni fa» — lo ha confermato sul Corriere Franco Venturini: «Perché non perseguire un accordo negoziale che preveda l’ingresso accelerato dell’Ucraina nella Unione europea, la sua neutralità (dunque niente Nato), e una serie di garanzie per tutte le parti in causa?». 

Gli europei sembrano «esitanti», ma «davvero si opporrebbero a una intesa che potrebbe portare alla sospirata pace? E l’Ucraina non potrebbe finalmente smettere di essere uno Stato-cuscinetto e rafforzare i suoi legami con l’Occidente, con la Ue e senza i missili che allarmano i russi?». 

Naturalmente, accanto a quello della collocazione internazionale dell’Ucraina resta il nodo dei suoi confini e del destino del Donbass. Intanto, piaccia o non piaccia, il vecchio Kissinger è sempre lì, a fare arricciare nasi ma sempre a farsi ascoltare.

Editoriale di Henry Kissinger per il “Washington Post” del 5 marzo 2014, tradotto e pubblicato da ilgiornaleditalia.it l'1 marzo 2022.  

La discussione pubblica sull'Ucraina riguarda il confronto. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nella mia vita ho visto iniziare quattro guerre con grande entusiasmo e sostegno pubblico, tutte che non sapevamo come finire e da tre delle quali ci siamo ritirati unilateralmente. Il test della politica è come finisce, non come inizia. 

Troppo spesso la questione ucraina viene presentata come una resa dei conti: se l'Ucraina si unisce all'Est o all'Ovest. Ma se l'Ucraina vuole sopravvivere e prosperare, non deve essere l'avamposto di nessuna delle due parti contro l'altra: dovrebbe fungere da ponte tra di loro.

La Russia deve accettare che tentare di costringere l'Ucraina a diventare un satellite, e quindi spostare nuovamente i confini della Russia, condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia di cicli che si autoavverano di pressioni reciproche con l'Europa e gli Stati Uniti. 

L'Occidente deve capire che, per la Russia, l'Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero. La storia russa iniziò in quella che fu chiamata Kievan-Rus. Da lì si diffuse la religione russa. L'Ucraina fa parte della Russia da secoli e le loro storie si sono intrecciate prima di allora.

Alcune delle battaglie più importanti per la libertà russa, a cominciare dalla battaglia di Poltava nel 1709 , furono combattute sul suolo ucraino. 

La flotta del Mar Nero, il mezzo della Russia per proiettare potenza nel Mediterraneo, ha sede a Sebastopoli, in Crimea, con un contratto di locazione a lungo termine. Anche famosi dissidenti come Aleksandr Solzhenitsyn e Joseph Brodsky hanno insistito sul fatto che l'Ucraina fosse parte integrante della storia russa e, in effetti, della Russia.

L'Unione Europea deve riconoscere che la sua dilatorietà burocratica, e la subordinazione dell'elemento strategico alla politica interna nel negoziare le relazioni dell'Ucraina con l'Europa, hanno contribuito a trasformare un negoziato in una crisi. La politica estera è l'arte di stabilire le priorità.

Gli ucraini sono l'elemento decisivo. Vivono in un paese con una storia complessa e una composizione poliglotta. La parte occidentale fu incorporata nell'Unione Sovietica nel 1939 , quando Stalin e Hitler si divisero il bottino. La Crimea, la cui popolazione è per il 60 per cento russa , divenne parte dell'Ucraina solo nel 1954 , quando Nikita Khrushchev, ucraino di nascita, lo assegnò come parte della celebrazione del 300° anno di un accordo russo con i cosacchi.

L'ovest è in gran parte cattolico; l'est in gran parte russo-ortodosso. L'occidente parla ucraino; l'est parla principalmente russo. 

Qualsiasi tentativo da parte di un'ala dell'Ucraina di dominare l'altra - come è stato il modello - porterebbe alla fine alla guerra civile o alla rottura. 

Trattare l'Ucraina come parte di un confronto est-ovest farebbe affondare per decenni qualsiasi prospettiva di portare la Russia e l'Occidente, in particolare Russia ed Europa, in un sistema internazionale cooperativo.

L'Ucraina è indipendente da soli 23 anni; in precedenza era stata sotto una sorta di dominio straniero sin dal XIV secolo. Non sorprende che i suoi leader non abbiano imparato l'arte del compromesso, tanto meno della prospettiva storica. 

La politica dell'Ucraina post-indipendenza dimostra chiaramente che la radice del problema risiede negli sforzi dei politici ucraini di imporre la loro volontà alle parti recalcitranti del paese, prima da una fazione, poi dall'altra.

Questa è l'essenza del conflitto tra Viktor Yanukovich e la sua principale rivale politica, Yulia Tymoshenko. Rappresentano le due ali dell'Ucraina e non sono state disposte a condividere il potere. Una saggia politica statunitense nei confronti dell'Ucraina cercherebbe un modo per le due parti del paese di cooperare tra loro. Dovremmo cercare la riconciliazione, non il dominio di una fazione.

La Russia e l'Occidente, e meno di tutte le varie fazioni in Ucraina, non hanno agito secondo questo principio. Ognuno ha peggiorato la situazione. La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi in un momento in cui molti dei suoi confini sono già precari. Per l'Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l'assenza di una qualsiasi politica.

Putin dovrebbe rendersi conto che, qualunque siano le sue lamentele, una politica di imposizioni militari produrrebbe un'altra Guerra Fredda. Da parte loro, gli Stati Uniti devono evitare di trattare la Russia come un aberrante a cui vengono insegnate con pazienza le regole di condotta stabilite da Washington. Putin è uno stratega serio, sulla base della storia russa. Comprendere i valori e la psicologia degli Stati Uniti non sono i suoi punti di forza. Né la comprensione della storia e della psicologia russe è stata un punto di forza dei politici statunitensi.

I leader di tutte le parti dovrebbero tornare a esaminare i risultati, non competere nella posizione. Ecco la mia nozione di risultato compatibile con i valori e gli interessi di sicurezza di tutte le parti: 

1. L'Ucraina dovrebbe avere il diritto di scegliere liberamente le sue associazioni economiche e politiche, anche con l'Europa. 

2. L'Ucraina non dovrebbe aderire alla NATO, una posizione che ho preso sette anni fa, quando è emersa l'ultima volta.

3. L'Ucraina dovrebbe essere libera di creare qualsiasi governo compatibile con la volontà espressa del suo popolo. I saggi leader ucraini opterebbero quindi per una politica di riconciliazione tra le varie parti del loro paese. A livello internazionale, dovrebbero perseguire un atteggiamento paragonabile a quello della Finlandia. 

Quella nazione non lascia dubbi sulla sua feroce indipendenza e coopera con l'Occidente nella maggior parte dei campi, ma evita accuratamente l'ostilità istituzionale nei confronti della Russia.

4. L'annessione della Crimea da parte della Russia è incompatibile con le regole dell'ordine mondiale esistente. Ma dovrebbe essere possibile porre le relazioni della Crimea con l'Ucraina su basi meno difficili. A tal fine, la Russia riconoscerebbe la sovranità dell'Ucraina sulla Crimea. L'Ucraina dovrebbe rafforzare l'autonomia della Crimea nelle elezioni che si terranno alla presenza di osservatori internazionali. Il processo includerebbe la rimozione di qualsiasi ambiguità sullo stato della flotta del Mar Nero a Sebastopoli.

Questi sono principi, non prescrizioni. Le persone che hanno familiarità con la regione sapranno che non tutti saranno appetibili a tutte le parti. Il test non è la soddisfazione assoluta ma l'insoddisfazione equilibrata. Se non si raggiunge una soluzione basata su questi o elementi comparabili, la deriva verso il confronto accelererà. Il momento arriverà abbastanza presto. 

Trascrizione del colloquio di David Axelrod con Henry Kissinger – dal podcast della CNN “The Axe Files with David Axelrod” – pubblicata da “TPI – The Post Internazionale” il 26 agosto 2022. Traduzione di Anna Bissanti 

Quando era piccolo, l’ex Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Henry Kissinger scappò con la sua famiglia dalla Germania nazista. In seguito, da soldato dell’esercito Usa, contribuì a liberare il campo di concentramento di Ahlem, un’esperienza surreale e lacerante per un emigrato ebreo.

Stimato quanto controverso, Kissinger è meglio noto come figura eminente in politica estera, guidato dalla sua fiducia nella realpolitik. Ha incontrato David Axelrod per parlare di quando lavorava con il presidente repubblicano Nixon, dell’apertura delle relazioni con la Cina, dell’attuale stato dei rapporti tra Pechino e Washington, di come porre fine alla guerra della Russia in Ucraina, e del suo nuovo libro intitolato “Leadership: Six Studies in World Strategy”. 

Mi permetta di farle una domanda su cosa realizzò con Richard Nixon, con ogni probabilità il più importante evento politico per cui sarà ricordato: la mano tesa alla Cina per far uscire Pechino dalla Guerra fredda e accoglierla nella comunità internazionale. Quel passo rese le cose più facili? So che lei ne fu l’artefice. Che ne pensa oggi?

«Io vi contribuii, ma lui agì anche in modo indipendente. Quando l’amministrazione Nixon iniziò il suo mandato, si riteneva e poi divenne chiaro che tra i due grandi Paesi comunisti c’era ostilità. Le parti arrivarono a scontrarsi militarmente in Manciuria. 

Così giungemmo alla conclusione che, quando hai due nemici ed è poco saggio spingerli l’uno verso l’altro, dovresti cercare di studiare quali differenze sfruttare meglio, e nel caso tu debba sostenere uno contro l’altro è sempre meglio scegliere il più debole contro il più forte.

All’epoca, la Cina era di gran lunga la più debole. Aveva vissuto la Rivoluzione Culturale, o forse vi era ancora dentro. In ogni caso, accadevano cose agghiaccianti in quel Paese. Quindi Nixon prese la coraggiosa decisione di tendere una mano ai cinesi partendo dal presupposto che avevamo entrambi un interesse comune nello scongiurare il predominio sovietico. 

Fra i due Paesi, però, vi erano pochissime comunicazioni, in pratica nessuna. Quindi, dovemmo trovare un modo per comunicare con Pechino. Da parte loro, i cinesi fecero altrettanto: è evidente che pensarono in modo pragmatico e che se avessero voluto darlo a vedere e se noi avessimo dimostrato interesse questo avrebbe dissuaso i sovietici. E li avremmo sconfitti. E accadde proprio così. Ma fin dall’inizio, non fu ovvio che le cose sarebbero andate in questo modo.

Una volta nato un rapporto, lo usammo deliberatamente per cercare di schierare le due parti una contro l’altra e di posizionarci in modo tale da essere più vicini a ciascuna di esse di quanto non fosse il loro avversario. In verità, si trattò di un’evoluzione, non accadde tutto subito, perché in un primo tempo non sapevamo come comunicare con loro. E quindi sperimentammo vari canali. 

Alla fine, il messaggio che facemmo pervenire tramite il presidente pachistano ottenne una risposta. In verità, fu un percorso molto accidentato, scrivevamo i messaggi, li battevamo su macchine da scrivere che non si potevano individuare fino a sera, e poi li inviavamo tramite un messaggero in Pakistan.

I pachistani mandavano un loro mediatore a Pechino così da poter aprire un dialogo. Visto che i cinesi temevano una reazione sovietica e noi volevamo accertarci se ci potesse essere un canale di comunicazione, le cose andarono avanti per circa nove mesi prima che Nixon mi inviasse a Pechino in veste di suo rappresentante». 

Ovviamente i vantaggi strategici ottenuti nei vent’anni seguenti diedero risultati. Oggi però ci troviamo in una situazione in cui la Cina è un avversario, uno sfidante in sempre maggiore ascesa. Le relazioni non sono buone.  E poi c’è Xi Jinping, che ha assunto un atteggiamento di gran lunga più aggressivo per un Paese che, come è noto, ruba segreti commerciali, sopprime la democrazia a Hong Kong e minaccia Taiwan. Ha spedito in campi di lavoro e di concentramento più di un milione di uiguri. Quella mossa fu una sorta di boomerang? Avete contribuito in modo inconsapevole alla creazione di un Frankenstein?

«Prima di tutto vorrei dire la mia opinione personale sulla politica estera: abbiamo imparato che i partiti devono sempre restare in contatto con l’amministrazione in carica. E io non attacco mai i presidenti o i segretari di Stato avversari». 

Lei si è rivelato molto utile all’amministrazione Obama quando ha cercato di concludere il trattato nucleare New Start, una questione a cui ha lavorato per più di 60 anni.

«La ringrazio di averlo ricordato. L’ho fatto senza alcuna forma di pubblicità».

Beh, ora glielo stiamo riconoscendo.

«Grazie per averlo fatto. Allora: l’apertura alla Cina fu un errore? Non penso. Credo che sia stata enormemente utile agli Stati Uniti per trent’anni. Poi la Cina si è sviluppata rapidamente, molto più rapidamente di quanto chiunque potesse supporre. E, forse, avremmo dovuto pensarci prima. 

Perché questo ha creato una capacità da parte dei cinesi di trasformare il loro Paese nel secondo Stato più potente al mondo, fino a quando non si è presentato un problema fondamentale: abbiamo pensato se fosse nell’interesse dell’America che esistesse un Paese in grado di mettere in secondo piano gli Stati Uniti. 

E così, automaticamente, questo ci ha portato a un confronto diretto. Il tutto divenne davvero chiaro, allora più che in passato, alla fine dell’amministrazione Obama o all’inizio di quella di Trump.

La scelta si riduceva a due possibilità: o affrontarla scontrandoci o provare a trattare una situazione assolutamente unica con il dialogo, almeno in prima battuta, perché entrambi i Paesi hanno la capacità di distruggere il mondo. Se si fosse entrati in conflitto non vi sarebbe stata alcuna astensione implicita in campo tecnologico. 

Se si pensa alla Prima guerra mondiale e si fa un confronto, nessuno dei leader che combatterono la Grande guerra si sarebbe mai sognato di scatenare un conflitto se avesse saputo come sarebbe diventato il mondo. Oggi, all’indomani di un conflitto tra Cina e Stati Uniti il pianeta apparirebbe infinitamente peggiore dello scenario emerso dopo la Prima guerra mondiale.

Penso sia d’obbligo per la nostra e la loro politica estera (della Cina, ndr) discutere tutti gli aspetti che potrebbero innescare una situazione fuori controllo. E questo non l’abbiamo gestito tanto bene. Trump ha iniziato e Biden, dal mio punto di vista, sta conducendo esattamente lo stesso tipo di politica nei confronti della Cina. È l’equilibrio più importante per l’umanità, (per questo, ndr) negli ultimi anni della mia vita ho cominciato a interessarmi all’intelligenza artificiale».

Ha anche scritto un libro su questo.

«Sì. Ebbene, se si pensa all’intelligenza artificiale e si studia un po’, si scopre che gli oggetti possono mettere a punto i loro stessi obiettivi e puntare le armi che loro stessi hanno creato. Si tratta di una trappola in senso assoluto. Quindi siamo in presenza di due esigenze in contraddizione tra loro.

La prima è difendere gli interessi nazionali e garantire la nostra sicurezza. La seconda è costruire la tecnologia utile alla prima, ma intrattenere anche un dialogo con gli altri Paesi hi-tech su come evitare che le cose ci sfuggano di mano. A questo non siamo ancora arrivati». 

Qual è stata la sua reazione alla visita della portavoce Pelosi a Taiwan?

«Ho pensato che sia stato un tentativo poco saggio. In pubblico non ho detto nulla, ma ho pensato che fosse davvero poco saggio. In fondo, si è trattato soltanto di una goccia d’acqua in più nell’oceano, una goccia che ha dato alla controparte il pretesto e l’opportunità di minacciare esplicitamente il blocco di Taiwan.

La visita di Pelosi è soltanto uno dei tanti esempi dei vari tentativi da parte di qualche estraneo di gestire questa faccenda sulla base del confronto diretto ma poi, quando capitano brutte cose o si minacciano brutte cose, si deve essere disposti ad affrontarle. 

Io, insieme a molti tuoi amici, mi porrei in maniera intransigente nei confronti di questa questione così importante per la guerra e la pace. Penso che entrambe le parti abbiano bisogno di un nuovo approccio. Non possiamo fare tutto da soli. Se i cinesi non collaborano, ci sarà uno scontro. Mi sento molto a disagio.

Non so dove si arriverà nel caso di Taiwan e non è che non mi preoccupi, ma è un tema importante per cui democratici e repubblicani dovrebbero fare qualcosa, parlarsi apertamente e dirsi che cosa ne pensano. Ci sono molti altri argomenti su cui possono facilmente essere in disaccordo. Ma non si può sollevare ogni quattro anni la questione su chi difenderà meglio l’America. Dovrebbe essere scontato che chi subentra al governo difenderà l’America. E che è indispensabile collaborare per farlo».

Qual è stata la sua reazione quando la settimana scorsa ha sentito di intere risme di documenti, carte della sicurezza nazionale, finite nella cantina dell’ex presidente Trump a Mar-a-Lago? La preoccupa?

«Dal mio punto di vista, ovviamente dovrebbero essere restituite al governo. Però inviare degli agenti federali nella residenza di un ex presidente mi innervosisce, ma non ho preso alcuna posizione pubblica in merito».

Immagino che la vera questione riguardi quello che accadrebbe se il presidente non restituisse i documenti...

«Non sono sufficientemente a conoscenza dei dettagli». 

Le volevo chiedere qualcosa anche sull’Ucraina. Per anni, lei è stato un grande studioso dell’Unione Sovietica e dei russi. Ha avuto anche un rapporto diretto con Vladimir Putin. Come pensa che andrà a finire questa guerra e come dovrebbe andare a finire?

«Primo, il mio rapporto con Putin: è stato un rapporto istituzionale. Mi riceveva una volta l’anno per discutere questioni di politica estera, che poi riferivo al mio governo, come lei ha ripetutamente sottolineato. Questo è l’unico tipo di rapporto diretto che ho avuto con lui».

Non intendevo alludere a nulla di più.

«Non c’è mai stato un rapporto personale. Che cosa voleva sapere: come mettere fine alla guerra? O cosa?». 

Che cosa crede che implichi tutto questo per l’Europa? Che cosa comporta per l’ordine mondiale?

«Penso che l’amministrazione Usa stia agendo correttamente da questo punto di vista. In sostanza, sono d’accordo con i provvedimenti adottati per opporre resistenza (all’invasione russa, ndr), perché era indispensabile dimostrare che la Russia non ha il diritto o la possibilità di imporsi con la sola forza delle armi. Su questo punto, sono pienamente d’accordo con l’attuale amministrazione».

Come andrà a finire?

«Ecco questa è la vera domanda. Dovrà concludersi con dei negoziati. Si potrebbe ritenere che la Russia continuerà a essere uno Stato e che anche l’Ucraina sarà uno Stato; quindi, la situazione potrebbe cambiare radicalmente perché l’Ucraina è stata armata dalla Nato, ha avuto rapporti strettissimi con l’Alleanza e alla fine della guerra qualche tipo di rapporto dovrà pur continuare.

Immagino che offrire all’Ucraina di aderire alla Nato sia stato un errore, ma alla luce di quanto accaduto è comunque un fatto del passato. Ci dovrà essere un negoziato e vorrei mettere in guardia dal rischio di lasciare che la guerra si trascini all’infinito. Perché in questo caso diventerebbe come la Prima guerra mondiale, porterebbe a un’escalation, quanto meno a una possibile escalation. 

Quindi auspico che a breve, se i Paesi della Nato si metteranno d’accordo su un possibile esito finale, si possa iniziare a vedere dove possa portare un eventuale negoziato. In ogni caso, non si dovrà concedere nulla alla Russia di quanto ha conquistato in Ucraina.

Ho suggerito, e la mia proposta è stata accolta, che i russi tornino al confine precedente allo scoppio del conflitto, il che significa che la Russia prima di un cessate il fuoco dovrebbe rinunciare al 15-20 per cento del territorio ucraino conquistato. Dopo di che, la Nato dovrebbe prendere in considerazione quale rapporto intende avere a lungo termine con la Russia e con chi è sopravvissuto.

Da un certo punto di vista, Mosca ha già perso la guerra, è importante capirlo. L’ha persa nel senso che la vecchia idea che la Russia potesse semplicemente mettersi in marcia in Europa e penetrare ovunque volesse, beh, è finita, perché non è stata nemmeno in grado di sconfiggere l’Ucraina e tanto meno potrebbe prevalere sulla Nato. È quindi impossibile avere un rapporto con la Russia in cui Mosca si consideri parte dell’Europa? Che cosa diventerebbe la Russia, una sorta di avamposto della Cina ai confini dell’Europa? Punterei alla prima opzione. Come riuscirci non è qualcosa che si possa decidere parlandone adesso, ma questo sarebbe il mio obiettivo strategico». 

Quanto sta suggerendo è di fatto il contenuto degli Accordi di Minsk del 2015, che i russi hanno violato. Per quanto riguarda gli ucraini, decidere se tornare allo status quo è una decisione difficile da prendere a questo punto, anche politicamente per Zelensky, tenuto conto delle lacrime e del sangue versati. Immagino stia suggerendo che la Nato abbia un colloquio molto franco e duro con il presidente ucraino.

«Non sto chiedendo a Zelensky di rinunciare a nulla rispetto a quanto dichiarato dall’Ucraina all’inizio della guerra, mentre gli altri territori contesi dovrebbero essere lasciati liberi per i negoziati. Ma non per la guerra. Potrà volerci un po’ per trovare una soluzione, in fondo stiamo parlando di un’esigua porzione dell’Ucraina». 

Parliamo del suo libro, un’opera davvero affascinante. Racchiude il ritratto di sei leader per cui lei prova profonda stima, con cui ha lavorato e che hanno contato molto nella storia del mondo. Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Lee Kuan Yew, Anwar Sadat, Margaret Thatcher e poi, naturalmente, lo stesso Richard Nixon. Ciascuno di questi personaggi aveva qualità uniche ma qual è la linea comune a tutti che ritiene fondamentale per la leadership?

«Avere una convinzione sulle finalità ultime delle loro società e il coraggio di perseguirne gli obiettivi, anche in situazioni complesse, e quindi aiutare le loro società a muoversi e ad arrivare dove non si erano ancora spinte. Scavi a fondo: sono attributi di tutti i leader che ho descritto».

Quasi 60 anni fa, lei disse qualcosa che oggi sottolinea nel suo libro: «Esistono due tipi di realisti: quelli che manipolano i fatti e quelli che li creano. L’Occidente più di qualsiasi altra cosa ha bisogno di uomini che creino la propria realtà». Ora parla proprio di questo: la forza di volontà, la chiarezza di intenti, la visione di come deve essere il futuro, il riconoscimento delle qualità, dei valori e delle caratteristiche più importanti di una società, che devono essere le fondamenta di quel futuro.

«È esattamente quello che stavo cercando di dire, proprio così».

Zelensky deve rinunciare a sovranità su Donbass e Crimea che non controlla da anni. Kissinger maestro di diplomazia, la lezione del grande vecchio a Biden che sogna di umiliare Putin. Tony Capuozzo su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

Henry Kissinger, l’ex segretario del Dipartimento di Stato americano ha 98 anni. È un grande vecchio, un patriarca che sembra quasi un personaggio da ‘Cent’anni di solitudine’. Ecco Kissinger intervenendo al Forum di Davos, che ha riunito i potenti della Terra sul piano economico finanziario, ha detto che forse è arrivato il momento di chiudere il conflitto tra Russia e Ucraina. Kissinger ha detto che è il momento di negoziare e che l’Ucraina dovrà fare dei sacrifici rinunciando a dei territori. La situazione ideale, ha detto Kissinger, sarebbe quella di un ritorno allo status quo prima dell’invasione russa. Questo significherebbe di rinunciare alla pretesa di estendere la sovranità anche sul Donbass e sulla Crimea, dove non la esercita da anni.

A mio parere si tratta di una lezione di realismo di un vecchio maestro della diplomazia. Una lezione di realismo che non sembra sia stata raccolta. Kiev continua a sostenere di non voler cedere nemmeno un millimetro. Ma soprattutto questa lezione non è stata recepita neppure da Washington dove sembra regnare la convinzione che sia necessario umiliare e bastonare Putin. Non importa se la ‘belva’ ferita nell’angolo potrebbe avere chissà quale reazione. La convinzione è che Putin possa imparare a non farlo più, così lo si logora favorendo forse un cambio di regime. 

A questo punto forse la posizione più debole riguardo a questa questione è quella espressa qui in Italia. Spetta agli ucraini decidere e avere la responsabilità di indicare quale sarebbe la pace accettabile. E questo significa dire che si rinvia il discorso sulla pace a un giorno lontanissimo. E se ci si scrolla di dosso le responsabilità di essere realismi, pragmatici e di volere la pace il prima possibile con dei negoziati che portino entrambi a rinunciare a qualcosa, dimostrando però le opinioni pubbliche internazionali, allora si potrà dimostrare all’opinione pubblica internazionale che si può fare un passo indietro fingendo di aver fatto un passo in avanti.  

Le parole dell'ex segretario di Stato USA. La ‘ricetta’ di Kissinger per terminare la guerra in Ucraina: “Kiev rinunci a qualche territorio, Occidente non cerchi sconfitta russa”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

L’Ucraina dovrebbe rinunciare ai territori già occupati dalle forze armate russe, in particolare la Crimea annessa con un referendum illegale nel 2014 e il Donbass, per raggiungere la pace con Mosca. A dirlo non è qualche ‘pericoloso turbo-pacificista’ ma un esperto vero di relazioni internazionali: il 98enne ex segretario di Stato americano Henry Kissinger.

Intervenuto al World Economic Forum di Davos, l’ex ‘ministro degli Esteri’ americano di Richard Nixon e Gerald Ford tra il 1969 e il 1977, vincitore del Nobel per la pace nel 1973, ha fatto appello all’Occidente ricordando come le forze straniere che appoggiano il governo di Kiev non dovrebbero cercare di infliggere una sconfitta alla Russia.

La ricetta di Kissinger, in un discorso citato da diversi media internazionali, è chiara: “Avviare negoziati prima che si creino rivolte e tensioni che non sarà facile superare”. Kissinger ha aggiunto che, “idealmente, il punto di caduta dovrebbe essere un ritorno allo status quo” precedente l’invasione russa nel Paese. “Continuare la guerra oltre quel punto non riguarderebbe più la libertà dell’Ucraina, ma una nuova guerra contro la stessa Russia“, ha aggiunto il 98enne politico e diplomatico americano.

Kissinger che dunque fornisce una risposta contraria a quella di Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino che sempre a Davos aveva lanciato l’allarme sulla necessità di fermare Putin per il rischio che la forza bruta russa possa prendere il sopravvento anche in altri Paesi.

Secondo l’ex segretario di Stato americano dimenticare la posizione di forza che la Russia occupa nel Vecchio continente da secoli sarebbe “un errore fatale” e gli europei non possono perdere i rapporti con Mosca, visto i legami sempre più forti tra questa e la Cina comunista di Xi Jinping.

La ‘profezia’ del 2014

Parole che fanno tornare in mente l’ormai nota ‘profezia’ di Kissinger sull’Ucraina, un articolo scritto nel lontano marzo 2014 sul Washington Post per commentare la rivoluzione di Euromaidan. In “To settle the Ukraine crisis, start at the end”, ovvero “Per risolvere la crisi ucraina, si cominci dalla fine”, Kissinger puntava ad una Ucraina associata all’Europa ma non all’interno della Nato, una “finlandizzazione” di Kiev.

Kissinger evocava infatti per Kiev “una posizione paragonabile a quella della Finlandia” a livello internazionale, posizione che per Helsinki è cambiata proprio nei giorni scorsi, con la storica decisione di chiedere l’adesione alla Nato proprio in risposta all’invasione russa dell’Ucraina.

Tra le affermazioni chiave dell’ex premio Nobel, due ancora oggi sono attualissime: “La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi” e “per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l’assenza di una politica”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

L’appello di Kissinger sulla guerra: “Tornare allo status quo”. Paolo Mauri su Inside Over il 24 maggio 2022.

Henry Kissinger, al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, ha affermato lunedì che l’Occidente dovrebbe smettere di cercare di infliggere una sconfitta schiacciante alla Russia e ha suggerito indirettamente che l’Ucraina dovrebbe cedere i territori che Mosca controlla sin dal 2014.

L’ex segretario di Stato americano, colui che, sotto la presidenza Nixon, è stato fautore della distensione tra Stati Uniti e Cina in chiave anti-sovietica, ha dichiarato che l’Ucraina deve avviare i negoziati “prima che si creino sconvolgimenti e tensioni che non saranno facilmente superate”.

Secondo Kissinger “idealmente, la linea di demarcazione dovrebbe essere un ritorno allo status quo ante. Perseguire la guerra oltre quel punto non riguarderebbe la libertà dell’Ucraina, ma una nuova guerra contro la stessa Russia” aggiungendo anche che la Russia è stata una parte essenziale dell’Europa per 400 anni, agendo come potere di bilanciamento in tempi critici per il continente. Kissinger ha ricordato che i Paesi occidentali non dovrebbero dimenticare l’importanza della Russia in Europa e non farsi travolgere “dall’umore del momento”. Lo status quo ante a cui si riferisce lo statista significa tornare a “come erano le cose prima” ovvero, come commentato dallo stesso Kissinger, che l’Ucraina dovrebbe accettare un accordo di pace per ripristinare la situazione così com’era il 24 febbraio, cioè quando la Russia controllava formalmente la penisola di Crimea ed esercitava la propria influenza diretta su parte della regione del Donbass nell’Ucraina orientale.

La soluzione proposta dall’ex segretario di Stato non è concepibile per il governo di Kiev: il presidente Volodymyr Zelensky, sempre nel medesimo consesso internazionale, ha ricordato che “la forza bruta governerà ancora una volta il mondo se l’invasione russa dell’Ucraina non avrà risposta” e ha anche rimarcato ai delegati che il vertice diventerà inutile se a Putin verrà permesso di vincere la guerra perché “non è interessato ai nostri pensieri” e “la forza bruta… non parla, uccide”. Nessuna concessione territoriale quindi da parte di Kiev, che del resto ha sempre sostenuto che la condizione per poter effettivamente parlare di pace sarebbe non solo il ritiro russo dai territori conquistati in questo conflitto, ma anche dalla Crimea e dal Donbass: del resto se venissero riconosciuti ufficialmente come russi, sarebbe comunque la certificazione della vittoria di Mosca.

Da parte russa si è approfittato di questa narrazione intransigente per poter sottolineare come sia l’Ucraina a non accettare una tregua: il Cremlino ha dichiarato di essere aperto alla possibilità di riprendere i colloqui di pace se Kiev farà il primo passo, come annunciato lunedì dal viceministro degli Esteri russo Andrei Rudenko. “Saremo pronti a tornare alle trattative non appena l’Ucraina mostrerà una posizione costruttiva e fornirà almeno una reazione alle proposte presentate”, ha detto Rudenko parlando con i giornalisti a Mosca, ma non ha specificato quale sarebbe stata questa “posizione costruttiva” per l’Ucraina.

Kissinger ha sempre avuto una posizione molto realista in merito alla questione ucraina. In un editoriale del 2014 apparso sul Washington Post, affermò che “il dibattito pubblico sull’Ucraina riguarda il confronto. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nella mia vita ho visto iniziare quattro guerre con grande entusiasmo e sostegno pubblico, tutte che non sapevamo come finire e da tre delle quali ci siamo ritirati unilateralmente. L’esame per la politica è come si finisce, non come si inizia”.

Dichiarazioni che già allora, ma soprattutto oggi, appaiono quasi profetiche. In quell’intervento sul Post, lo statista mise nero su bianco quello che oggi appare chiaro analizzando la cronaca quotidiana del conflitto, ovvero che “troppo spesso la questione ucraina viene presentata come una resa dei conti: se l’Ucraina si unisce all’Est o all’Ovest. Ma se l’Ucraina vuole sopravvivere e prosperare, non deve essere l’avamposto di nessuna delle due parti contro l’altra: dovrebbe fungere da ponte tra di loro”.

Kissinger andò anche oltre, e la sua lungimiranza appare ancora una volta indiscutibile, quando scrisse che “la Russia deve accettare che tentare di costringere l’Ucraina a diventare un suo satellite, e quindi spostare di nuovo i confini russi, condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia di cicli che si autoavverano di pressioni reciproche con Europa e Stati Uniti”. Sempre secondo l’ex segretario di Stato, la logica conseguenza dell’imporsi della Russia sull’Ucraina, costringendola a tornare a diventare un satellite, comporta la rinascita della politica della Guerra Fredda.

In quella occasione lo statista lanciò un avviso all’Occidente quando disse che “deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non può mai essere solo un Paese straniero. La storia russa iniziò in quella che fu chiamata Kievan-Rus. Da lì si diffuse la religione russa. L’Ucraina fa parte della Russia da secoli e le loro storie si sono intrecciate prima di allora. Alcune delle battaglie più importanti per la libertà russa, a cominciare dalla battaglia di Poltava nel 1709, furono combattute sul suolo ucraino. La flotta del Mar Nero, il mezzo della Russia per proiettare potenza nel Mediterraneo, ha sede a Sebastopoli, in Crimea, con un contratto di locazione a lungo termine. Anche famosi dissidenti come Aleksandr Solzhenitsyn e Joseph Brodsky hanno insistito sul fatto che l’Ucraina fosse parte integrante della storia russa e, in effetti, della Russia”.

Alla fine del suo editoriale, l’autore propose una soluzione in tre punti per risolvere la crisi ucraina: Kiev dovrebbe avere il diritto di scegliere liberamente le sue associazioni economiche e politiche, anche con l’Europa, non dovrebbe aderire alla Nato e dovrebbe essere libera di creare qualsiasi governo compatibile con la volontà espressa del suo popolo.

Kissinger quindi avanzò l’idea di una soluzione “finlandese” per l’Ucraina, ovvero di un Paese indipendente che collabora attivamente con l’Occidente pur evitando atti che potrebbero risultare ostili per la Russia.

Il 24 febbraio, con l’invasione russa, questa possibilità è sfumata, e proprio parlando di Finlandia, la guerra scatenata da Mosca ha spostato un Paese non palesemente allineato definitivamente nell’orbita dell’Alleanza Atlantica, al pari della Svezia, isolando ancora di più la Russia dal Vecchio Continente, ma anche nel consesso globale, dove i Paesi che schierati dalla parte del Cremlino in questo conflitto si contano sulle dita di una mano. Ora la soluzione di una crisi diventata conflitto aperto resta nelle mani dei belligeranti e degli Stati Uniti, e difficilmente, stante gli interessi che travalicano la semplice questione territoriale o quella riguardante “l’espansione a oriente della Nato”, sarà raggiungibile a breve termine.

Marco Gervasoni per “il Giornale” il 31 luglio 2022.

Ogni comunità politica necessita di capi, dalla civiltà assira e dall'Egitto Nagada, cioè da più di cinquemila anni, fino a oggi, E anche se, nel corso dei secoli e dei luoghi, le forme cambiano, le qualità richieste a un capo sembrano essere le medesime. 

Solo con la democrazia e con la società di massa, a partire dalla fine del XIX secolo, nasce il problema se il capo scelto dagli elettori sia veramente tale, o non sia solo un demagogo, un millantatore o un buffone. Ecco quindi biblioteche intere dedicate allo studio della leadership, che è modo gentile per dire capo, non solo in politica ma anche in economia, cioè nella conduzione di imprese.

A questa immensa biblioteca va aggiunto oggi un altro volume, il cui autore non è un passante per caso: Henry Kissinger (Leadership, Basic Books). Quasi centenario, il mitico ex segretario di Stato di Nixon e di Ford non continua solo la sua attività di consigliere internazionale ma anche quello di studioso, che fu sempre. 

Prima di iniziare a lavorare con Nixon, egli era infatti un accademico di vaglia, storico delle relazioni internazionali, autore nel 1957 di un libro fondamentale e ancora a tutt' oggi imprescindibile sul Congresso di Vienna. Da consigliere per la sicurezza nazionale prima e poi da segretario di Stato, Kissinger cercò sempre di far incontrare le ipotesi di studioso con le durezze del mondo reale. 

E non si può dire abbia poco meritato, visto che oggi Nixon, anche grazie a lui, è considerato uno dei migliori presidenti del XX secolo. Da storico, in questo libro Kissinger ci propone una definizione di capo politico, desumendolo all'esempio di alcune personalità della seconda metà del Novecento: Adenauer, De Gaulle, Nixon, il fondatore di Singapore Lee Kan Yuw, il presidente dell'Egitto Sadat, Margaret Thatcher.

Facile il gioco consistente nel marcare le assenze: e Reagan? E Helmut Kohl? Anche se l'autore non lo scrive esplicitatamene, i leader sembrano selezionati in base ai rapporti, politici o amicali, da Kissinger intrattenuti con loro. 

Ogni capitolo, infatti, oltre a fungere da biografia politica del personaggio, utile ai neofiti, un po' meno agli studiosi, è anche corredato da ricordi personali degli incontri con l'autore. 

Vi è qualcosa che tuttavia accomuna questi capi fin dal primo sguardo: sono stati fondatori (o riformatori) di un ordine. È infatti questa la prima caratteristica della leadership, almeno di quella, come si dice in scienza politica, trasformazionale.

Le altre caratteristiche del capo, secondo Kissinger, sono l'umiltà, l'attitudine di ascolto e di confronto con posizioni anche molto diverse, la capacità di decisione, certo, ma che non può essere decisionismo distruttivo: per Kissinger, leader è soprattutto chi sa costruire, non chi sfascia. Per questo il leader può apparire, in alcuni casi, come Nixon, un attendista, un mediatore, addirittura un liberal, come lo accusava a torto, l'ala più conservatrice dei Repubblicani. 

Per Kissinger, un'altra caratteristica fondamentale del capo sta nella volontà di spiazzare. Ogni vero leader pensa quel che credeva Goethe, che la coerenza sia la virtù degli imbecilli. Se il capo si mantiene rigido, scrive Kissinger, diventa prevedibile agli occhi degli avversari, quindi facilmente attaccabile.

Vero leader è chi, quando è necessario, cambia direzione, anche sorprendendo i suoi, che tuttavia, se è un capo, saprà convincere. L'esempio classico è quello di De Gaulle sull'Algeria, eletto presidente come sostenitore dell'Algeria francese, in quattro anni le diede l'indipendenza. 

Un altro elemento che caratterizza il leader sta nella capacità di studiare e di circondarsi di figure che lo aiutino ad analizzare i contesti: questo non vuol dire che il capo debba essere necessariamente acculturato, ma neppure potrà essere un urlatore da social e da comizi, incapace di concentrarsi per più di dieci minuti sui dossier.

Da qui due conclusioni, nostre. La prima è che, seguendo lo schema di Kissinger, di capi oggi se ne vedono assai pochi, nel mondo ma soprattutto in Italia. La seconda è che, contrariamente a quanto si creda, l'acquario populista non potrà mai produrre leader ma solo demagoghi o follower, cioè l'inverso di un capo.

Nessuna delle qualità indicate da Kissinger troviamo infatti nei leader, passati e presenti, del populismo e del sovranismo internazionale: semmai, tutte le caratteristiche opposte.

L'ex segretario di Stato Usa. Chi è Henry Kissinger, il Machiavelli d’America con accento tedesco. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Maggio 2022. 

Criminale di guerra e premio Nobel per la pace: questi i poli tra cui oscilla la mitica figura di Henry Kissinger che oggi compiendo 99 anni entra nel suo centesimo di una vita: una vita dedicata alla politica estera ma da protagonista. È lui che per un lungo periodo ha fatto e disfatto le prospettive del destino del mondo decidendo tra pace e guerra, scontro e incontro. Ed è sempre lui che ieri l’altro a Davos si è presentato con la sua opinione del tutto imprevista e dunque di pesante valore, sulla guerra russa in Ucraina mandando in bestia gran parte del mondo occidentale, specialmente gli inglesi che puntano sulla sconfitta militare russa: “Non pensateci neppure, ha detto. Se umiliaste la Russia aprireste il vaso di Pandora che scatenerà la fine del mondo”.

Panico: come è possibile che un uomo considerato universalmente di estrema destra militarista americana, oggi prenda una posizione favorevole alla chiusura del conflitto in Ucraina con una rinuncia territoriale di quel paese nei confronti della Russia? È possibile, perché Henry Kissinger non è mai stato un uomo di destra e tantomeno di sinistra ma l’espressione più aggiornata e meno ipocrita del pensiero di Machiavelli. Solido e imperturbabile come un albero secolare, il vecchio ministro degli Esteri e mago degli intrighi planetari e il campione di un realismo oltre i confini del cinismo. È sempre stato e resta il campione del gioco analitico e imperterrito che ha guidato la politica americana prima come segretario di Stato di Richard Nixon e poi come advisor per la sicurezza nazionale. Insomma, è stato l’autore della politica dell’America più dinamica, aggressiva, cinica, ma più che altro aderente alla realtà senza il minimo fronzolo di etica politicamente corretta.

È stato l’uomo che ha chiuso la guerra del Vietnam con gli accordi di Parigi, una guerra aperta dal democratico e giustamente divinizzato John Fitzgerald Kennedy, accettando il dato di fatto: l’America aveva perso non soltanto la guerra, ma il proprio prestigio e persino le proprie armi che furono abbandonate alla fragile Repubblica del Vietnam del Sud. Kissinger tagliò corto e dichiaro quel capitolo chiuso. Ma Kissinger e stato l’ingegnere del brutale colpo di Stato in Cile che tra l’altro ebbe in Italia l’effetto del famoso ripensamento di Enrico Berlinguer che, impressionato proprio da quella brutalità, concepì la strategia di un compromesso storico che non irritasse troppo gli americani, ma anzi li rassicurasse. Salvador Allende, presidente cileno, morì impugnando il mitra regalatogli da Fidel Castro nella casa Rosada finché non fu abbattuto dai militari. Augusto Pinochet inaugurò una feroce dittatura militare anticomunista, teleguidata dal Dipartimento di Stato americano attraverso gli ufficiali della Cia.

Era la risposta americana all’Unione sovietica come avvertimento: avete avuto Cuba per un nostro attimo di distrazione, non sognatevi di poter avere un altro palmo di terra nel continente americano. Anche la Junta militare argentina di Videla e degli altri macellai di Buenos Aires fu opera sua. Si trattava della stessa strategia di contenimento nei confronti dell’espansione sovietica sul continente americano ed è fin troppo evidente il paragone con la guerra russa in Ucraina per impedire l’allargarsi della presenza occidentale nell’Europa ex sovietica ed è questo probabilmente il motivo per cui Henry Kissinger, fra la sorpresa e lo scandalo, di molti falchi anti russi, ha candidamente affermato che umiliare la Russia con una sconfitta militare sarebbe un errore imperdonabile e che la guerra non può e non deve terminare con una vittoria dell’ucraina. In caso contrario, sostiene Kissinger, avrete a che fare con una delle forze meno controllabili del pianeta, scatenata in tutta la sua ira imprevedibile.

Dunque, occhio a chi spinge per una soluzione militare e per l’umiliazione della Russia. Se sia giusto o no, è assolutamente irrilevante, il punto, sostiene Kissinger, è che se l’umanità non vuole rischiare l’estinzione è meglio non giocare la partita del bullismo con la Russia di oggi che non è troppo diversa dall’unione sovietica con la quale lui si è battuto nella seconda metà dello scorso secolo. È stato negli anni Sessanta un valente accademico esperto in “legitimacy”, la scienza del realismo nella legittimazione che – spiegava molti decenni fa – non ha nulla a che vedere con la giustizia e i suoi valori. Si tratta di un principio basato su parametri fisici e non morali perché è su quelli che si gioca il destino delle nazioni e del mondo stesso.

Henry Kissinger è un esperto di mentalità russa, di partita planetaria russa, di gioco di specchi riflesso alla maniera russa e in questo le sue radici sia tedesche che ebraiche hanno un ruolo cui pochi altri americani potrebbero attingere: è il sopravvissuto della vecchia guardia dei Templari della guerra fredda che combatteva come una guerra per nulla affatto così fredda, usando criteri sia militari che politici, impartendo al mondo una gelida lezione. Kissinger è nato in Germania nel 1923 da una famiglia ebrea che fuggì nel 1938 quando era ben chiaro quale sorte fosse riservata a tutti gli ebrei europei e approdò bambino negli States dove imparò un inglese letterario e ricco, ma con un indelebile accento tedesco, delizia di tutti gli imitatori comedian americani. Ha rappresentato con l’anima repubblicana di Richard Nixon e Gerald Ford l’idea centrale della politica internazionale secondo cui si deve cercare il punto di maggior favorevole equilibrio senza concedere quasi nulla ai nobili principi, perché quello della sopravvivenza ha la priorità su tutti.

Il suo periodo d’oro fu quello tra il 1969 e 1977 quando aprì alla Cina di Mao, inaugurando la politica dello shuttle, cioè dell’avanti indietro nel Medio Oriente per porre fine alla guerra dello Yom Kippur e contemporaneamente concludere i negoziati di pace in Vietnam che gli valsero un premio Nobel controverso, contestato da mezzo mondo e tuttavia realistico tanto quanto le sue opere, di cui le meno nobili furono lo schieramento americano con il Pakistan nella guerra genocida con il Bangladesh e la repressione in Cile ed Argentina. Furono più le volte in cui Kissinger si schierò realisticamente con il male che con il bene. È stato profondamente odiato, contestato, considerato l’anima nera dei più detestati presidenti americani come Richard Nixon costretto a dimettersi dopo lo scandalo Watergate.

E dunque sa benissimo egli stesso di non poter essere considerato una figura etica ma soltanto di opportunità politica. Ha quasi cento anni portati con cinica eleganza ed è l’unico uomo al mondo che vanti un’esperienza che ha avuto ragione di quasi tutte le guerre da lui combattute in nome dell’Occidente americano. Oggi Kissinger è convinto che l’Europa debba fare i conti più realistici con una Russia imprevedibile, e dunque pericolosissima: da tenere a bada con la freddezza e la ragione, ma mai con la minaccia dell’uso della forza alla quale, secondo l’ex Segretario di Stato, servirebbe soltanto lo scatenamento brutale di una forza non più arginabile e dunque letale per l’Europa e l’intera umanità.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Giuseppe Sarcina per “La Lettura – Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.

Garrett Graff, 40 anni, è uno dei giornalisti americani più brillanti della generazione di mezzo. Si è laureato ad Harvard. Nel 2005 fu il primo blogger a ottenere l'accredito alla Casa Bianca. Ha diretto le riviste «Politico magazine» e «Washingtonian», ha collaborato con diversi centri studi e oggi, tra l'altro, è direttore per le cyber initiatives all'Aspen Institute. 

Da sempre alterna giornalismo e ricerca storica. Ha scritto diversi libri, compreso un bestseller sull'11 settembre. Lo scorso febbraio ha pubblicato, con Simon & Schuster, Watergate. A New History . Risponde al telefono da Burlington, nel Vermont, il suo territorio di origine in cui è tornato a vivere, senza però perdere i contatti con il milieu politico-culturale della capitale.

Graff non era nato, quando il 17 giugno 1972 cinque uomini forzarono gli uffici del comitato elettorale del Partito Democratico, nel complesso del Watergate, una serie di palazzine bianche e tondeggianti, affacciate sul fiume Potomac, a Washington. Racconta di aver voluto ripercorrere la storia dello scandalo più famoso dell'era contemporanea, dopo aver seguito per quattro anni la presidenza Trump. «Sono partito dall'idea che ciò che accadde 50 anni fa ci potesse aiutare a comprendere meglio anche le dinamiche attuali della politica americana».

Inoltre, dice Graff, «mi sono reso conto che alcune cose andarono in maniera diversa rispetto alla versione consolidata di quella vicenda, alimentata da una valanga di volumi e di film». 

Ci riporti al contesto in cui maturò il Watergate. Richard Nixon era presidente dal 1969. Il Paese era lacerato dalla guerra in Vietnam...

«Molti pensano che il Watergate sia la storia di cinque individui sorpresi a scassinare gli uffici del Partito Democratico, in piena campagna elettorale. Ma con il passare del tempo è diventato chiaro che più che a un episodio ci troviamo di fronte a una mentalità, a un modo di concepire e praticare il potere. 

Il Watergate fu in realtà una specie di ombrello che copriva almeno una dozzina di scandali distinti, ma collegati dalla criminale paranoia di Nixon. Tutto ciò in un Paese precipitato nel caos dalla guerra in Vietnam, stordito dalle rivelazioni contenute nei Pentagon Papers , che svelarono gli intrighi, gli orrori del conflitto». 

Il primo punto, quindi, è proprio la figura di Nixon...

«Nixon, sotto tutti i profili, è stato uno dei due o tre presidenti americani più importanti del XX secolo. È stato una figura di enorme importanza sul piano internazionale per le aperture all'Urss e alla Cina. Non solo. Di fatto è il cardine su cui il secolo americano cambia verso. 

È il presidente che rompe la continuità con il New Deal (il piano di rilancio economico concepito da Franklin D. Roosevelt, ndr ), con la Great Society (progetto socio-economico di Lyndon Johnson, ndr ). Nixon orienta il Partito repubblicano verso una dottrina nazionalista, populista. Oggi si parla spesso di "rivoluzione reaganiana", ma dovremmo parlare di "rivoluzione nixoniana". Nixon voleva diventare un personaggio storico di rilievo mondiale e quasi raggiunse l'obiettivo. Solo che non poteva. Il suo lato oscuro, le sue ossessioni glielo impedirono.

Vedeva nemici dappertutto, persino al picco della sua popolarità, nella primavera del 1972. Ricordiamo che nell'autunno vinse le elezioni con il più grande vantaggio della storia americana (60% del voto popolare, conquistati 49 Stati su 50, ndr )». 

Ed eccoci al 17 giugno 1972. È sabato notte. Cinque uomini si introducono nell'ufficio di Lawrence O' Brien, il presidente del Comitato elettorale democratico. Ancora oggi non sappiamo che cosa cercassero. Si è scritto che probabilmente volessero recuperare i nastri registrati dai microfoni spia. O forse documenti che potessero compromettere George McGovern, l'avversario di Nixon. Che idea si è fatto?

«È incredibile, ma cinquant' anni dopo non sappiamo con certezza chi ordinò a quelle persone di scassinare gli uffici. Non fu Nixon. Non in quel caso. Probabilmente l'operazione faceva parte di una serie di iniziative illegali, organizzate dallo staff del presidente per recuperare materiale compromettente su McGovern o, anche, capire se i democratici avessero documenti che provassero qualche manovra sporca di Nixon.

Negli ultimi vent' anni sono state diffuse le registrazioni delle conversazioni private del presidente. Abbiamo scoperto che nel 1971 aveva ordinato un'irruzione nella sede della Brookings Institution, un centro studi di Washington, convinto che lì stessero raccogliendo materiale contro di lui». 

In ogni caso dal giugno del 1972 il presidente e lo staff si impegnano in una forsennata azione di depistaggio. Ma vengono smascherati grazie anche alle soffiate di Deep Throat, la «Gola profonda» di Bob Woodward e Carl Bernstein del «Washington Post», per tutti noi Dustin Hoffman e Robert Redford nel film «Tutti gli uomini del presidente». Nel suo libro, però, lei smitizza la figura del confidente...

«Sì, è una delle cose che più mi hanno sorpreso, scavando in questa storia. Deep Throat era Mark Felt, il vicedirettore dell'Fbi. Anch' io me l'ero immaginato, suggestionato dal film, come una persona eticamente motivata, disgustata dalla corruzione, dal gioco sporco dell'amministrazione Nixon.

 In realtà è venuto fuori che fosse un carattere a tutti noi più famigliare, una presenza comune nei posti di lavoro. Felt era un burocrate amareggiato perché non aveva ottenuto la promozione che pensava di meritare. Quando contattò i reporter del «Washington Post» il suo obiettivo era danneggiare il suo nuovo boss, Patrick Gray, che lo aveva scavalcato diventando direttore dell'Fbi. Non gli importava molto delle possibili conseguenze su Nixon». 

Il Watergate è stato un punto di svolta per il giornalismo politico?

 «Penso proprio di sì. Fino a quel momento i cronisti di Washington si limitavano a riportare le dichiarazioni dei presidenti o dei ministri. Era quasi un lavoro stenografico. Da lì in avanti sono cominciati i briefing con domande più aggressive e un lavoro di scavo sui retroscena politici». 

Qualche giorno fa Margaret Sullivan, editorialista proprio del «Washington Post», ha scritto che, se capitasse oggi, il Watergate avrebbe un esito diverso. I media sono troppo polarizzati per poter affondare anche una presidenza come quella di Nixon. È d'accordo?

«Sì. Lo abbiamo sperimentato con i due impeachment a carico di Donald Trump. I media dell'estrema destra, guidati da Fox News, non solo hanno difeso ciecamente il presidente, ma hanno condotto una durissima campagna contro chi lo accusava. Il risultato è che oggi gran parte dell'opinione pubblica non crede più che ci siano giornalisti di cui potersi fidare, come accadde con Woodward e Bernstein mezzo secolo fa». 

Da Kissinger agli italiani: chi c'era al Bilderberg (e di cosa hanno parlato). Roberto Vivaldelli il 6 Giugno 2022 su Il Giornale. 

Fra i partecipanti al meeting annuale del Gruppo Bilderberg svoltosi lo scorso weekend a Washington, l'ex Segretario di stato americano Henry Kissinger, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e Anne Applebaum.

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, l'ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger, il direttore della CIA William J. Burns, la premier finalndese Sanna Marin, il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, il Ceo di Rynair Michael O'Leary e quello di Pfizer, Albert Bourla, la celebre editorialista di The Atlantic Anne Applebaum, oltre agli italiani Stefano Feltri, direttore del quotidiano Domani, e Francesco Starace, amministratore delegato di Enel S.p.a. Sono alcune delle personalità che hanno preso parte al meeting annuale del Club Bilderberg, svoltosi tra il 2 e il 5 giugno presso il Mandarin Oriental di Washington, Dc. I partecipanti alla 68esima edizione della conferenza del noto think-tank chiusa al pubblico e alla stampa, che riunisce i maggiori rappresentanti delle élite mondiali, del mondo della politica, della finanza, dell'industria, del mondo accademico e dei media sono stati 120, provenienti da 21 Paesi del mondo. Una sorta di World Economic Forum, ma a porte chiuse.

Ecco di cosa hanno parlato al meeting del Bilderberg

La guerra in Ucraina e le sfide geopolitiche non potevano non essere al centro del dibattito del forum di tre giorni svoltosi lo scorso weekend a Washington. Come riporta il sito ufficiale del Gruppo Bilderberg, i temi principali affrontati sono stati il riallineamento geopolitico, le sfide della Nato, la Cina e la competizione tecnologica sino-americana, la Russia, la sicurezza energetica e la sostenibilità, la salute post-pandemia, nonché la frammentazione delle società democratiche. Come scrive il Guardian, dopo un intervallo di due anni a causa della pandemia, il vertice globale dell'élite torna a svolgersi in un hotel blindato di Washington DC con i vertici della Nato, della CIA, del consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, due primi ministri europei, i miliardi hi-tech ed Henry Kissinger.

In due anni il mondo è completamente cambiato, compreso quell'ordine liberale internazionale che il gruppo Bildergberg ha contributo a costruire. Nel 2019, l'ultima volta che il Bilderberg si era riunito, la conferenza era iniziata con temi perlopiù ottimistici sull'ordine mondiale: ora, con l'invasione russa dell'Ucraina, il panorama geopolitico è fortemente mutato e il sentimento prevalente è il pessismo verso un futuro incerto e pericoloso. A dire il vero, nota il giornale britannico, la conferenza di Washington è un consiglio di guerra di alto livello, presieduto dal segretario generale della Nato, "il veterano del Bilderberg Jens Stoltenberg. È stato raggiunto nel lussuoso hotel Mandarin Oriental dall'ambasciatore ucraino negli Stati Uniti, Oksana Markarova, e dal CEO di Naftogaz, la compagnia petrolifera e del gas ucraina di proprietà dello stato".

La storia del forum delle élite

Nato come progetto congiunto dell'intelligence britannica e statunitense, il primo incontro del Gruppo Bilderberg si svolse presso l'Hotel De Bilderberg a Oosterbeek, nei Paesi Bassi, dal 29 al 31 maggio 1954. Nel corso degli anni le riunioni annuali sono diventate un forum di discussione su un'ampia gamma di argomenti: dal commercio all'occupazione, alla tecnologia, dalla politica monetaria agli investimenti, dalle sfide ecologiche al compito di "promuovere la sicurezza internazionale". La tradizionale riservatezza che contraddistingue quest'appuntamento ha contribuito ad alimentare, nel corso dei decenni, varie teorie - più o meno cospirazioniste - su ciò che viene discusso nella tre giorni che raccoglie l'establishment occidentale. Fra mito e verità, l'unica cosa certa è che, anche quest'anno, solo i partecipanti sanno esattamente cosa è stato detto fra le mura del Mandarin Oriental di Washington, Dc.

Parsi: «È il solito Kissinger. Vuol cedere territori sulla pelle di Kiev». L'ordinario di Relazioni internazionali a Milano, spiega che «Putin sta giocando la carta della crisi alimentare come conseguenza delle sanzioni occidentali». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 26 maggio 2022.

Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali a Milano, spiega che «Putin sta giocando la carta della crisi alimentare come conseguenza delle sanzioni occidentali, mentre è conseguenza dell’invasione russa» e che la proposta di Kissinger all’Ucraina (cedere territori in cambio della pace, ndr) è «irricevibile». Sul futuro del conflitto è netto: «in questo momento è improbabile che possa estendersi – ragiona – ma dobbiamo spiegare a ognuno quale sia il costo di andare avanti e, al contrario, l’opportunità di trovare prima un punto di tregua e poi di fine della guerra».

Professor Parsi, Kissinger, in poche parole, ha detto che l’Ucraina dovrebbe cedere parti del proprio territorio in cambio della pace. Realismo o strafalcione?

Come al solito Kissinger dice cose sulla pelle degli altri. Tanto per ricordare di chi stiamo parlando, è quello del golpe contro Allende in Cile nel 1973. Con le parole sull’Ucraina conferma il suo approccio cinico alla politica internazionale, che però non mi sembra abbia portato gli Stati Uniti molto lontani. Anzi, gran parte dei loro guai in Medio oriente iniziarono proprio con lui. Quindi la sua è una proposta irricevibile.

Penso che quello italiano sia stato un tentativo onesto che però non teneva conto del fatto che non soddisfaceva nessuno degli interlocutori. Per trovare un accordo non basta scontentare un po’ tutti, bisogna anche accontentarli. E farlo in questa situazione è molto difficile, ma non è colpa di Di Maio o dell’Italia. Semplicemente quello che si può dire agli ucraini, in maniera riservata, è che il sostegno occidentale è a tempo indeterminato sia dal punto di vista.

Pensa sia invece ricevibile da parte di Russia e Ucraina il piano di pace italiano?

politico che militare, ma che il costo politico di questo sostegno aumenta mano a mano che la guerra si protrae.

E alla Russia cosa dovremmo dire?

A Mosca dobbiamo dire che andremo avanti a sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario, sapendo benissimo che il protrarsi di questa guerra mette la Russia in condizioni peggiori rispetto all’Occidente. Ribadisco però l’importanza della riservatezza: dobbiamo spiegare a ognuno quale sia il costo di andare avanti e, al contrario, l’opportunità di trovare prima un punto di tregua e poi di fine del conflitto. L’accordo non può essere né un’imposizione agli ucraini, né il riconoscimento di uno stato di fatto, né il reintegro della Russia nel sistema internazionale come se nulla fosse.

Nel frattempo Mosca stringe sempre di più i rapporti con Pechino, proprio mentre Biden incontra gli alleati asiatici: c’è il rischio che il conflitto di espanda?

Che il conflitto si estenda in questo momento è improbabile. I cinesi mostrano i muscoli agli americani sulla questione Taiwan ma hanno appena visto che la forza non paga no solo per gli occidentali in Afghanistan ma anche per i russi in Ucraina. Biden ha parlato di Taiwan sottolineando la disponibilità a intervenire militarmente; i cinesi dal loro punto di vista ritengono Taiwan una provincia ribelle. Ma la deterrenza funziona proprio in questo modo. Ci sono alcuni animali che si fingono morti per salvarsi ma la politica internazionale non funziona così.

C’è poi il problema di un’eventuale crisi alimentare per mancanza di grano dall’Ucraina: certe possibile un intervento occidentale per sbloccare l’impasse?

In questo momento il grano ucraino o sta marcendo nei silos o sta venendo rubato dai russi. Sappiamo ad esempio che un paio di navi sono salpate dalla zona controllata dai russi in territorio ucraino per raggiungere la Siria dall’amico Assad. Certamente bisogna fare in modo che questo grano esca dall’Ucraina, ma il problema è che Putin sta giocando la carta della crisi alimentare come conseguenza delle sanzioni occidentali mentre è conseguenza dell’invasione russa. Su questo punto è l’Onu che potrebbe fare di più, visti i programmi delle Nazioni unite a sostegno dell’alimentazione. Dovrebbe dare assistenza, certo non militare, ma il segretario Guterres non sta facendo nulla. L’impressione è che tutti parlino ma nessuno se ne stia occupando veramente.

Come si potrebbe risolvere la situazione, se non con una scorta militare che tuteli le navi colme di grano?

Ad esempio coinvolgendo Cina e Stati Uniti. Entrambi sono pieni di grano e cereali e se avessero lungimiranza, potrebbero fare un piano di aiuti straordinari a titolo gratuito ai paesi che rischiano una crisi alimentare. Vorrebbe dire stabilizzarli, rendere le sanzioni meno aggirabili e mostrare che oltre alla questione fondamentale di principio, cioè impedire che la guerra torni in Europa, ci si preoccupa anche del resto. È inutile chiedere agli americani di smettere di mandare armi agli ucraini, mentre si potrebbe chiedere loro di mandare grano a paesi terzi. Ma bisogna avere il coraggio di fare le cose e non solo annunciarle.

La guerra russa, l’occidente sonnecchia. L’oscena richiesta agli ucraini di non umiliare i loro persecutori. Christian Rocca su L'Inkiesta il 6 Giugno 2022.

Mentre Putin cerca di cancellare una nazione che chiede solo libertà, democrazia e indipendenza, c’è chi sostiene che bisogna concedergli una via d’uscita non accorgendosi che la narrazione del Cremlino non dipende da che cosa succede davvero nel mondo reale. In ogni caso, la via d’uscita per Mosca c’è già: si imbocca inserendo la retromarcia

Max Kukurudziak, Unspalsh

Ci spiegavano che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina, peraltro sorvolando che l’aveva già invasa nel 2014 e che da allora ne occupava illegalmente alcune parti non riconosciute da nessuno salvo che dalle immonde cartine di Limes. 

Ci dicevano che gli ucraini dell’est avrebbero accolto a braccia aperte i fratelli della Grande Russia e che Kiev sarebbe caduta in un quarto d’ora di fronte alla geometrica potenza dell’Armata rossa.  

Ci avvertivano che la Russia avrebbe sventrato l’Ucraina, ed è l’unica cosa su cui effettivamente ci hanno preso, anche se aggiungevano che Putin in realtà non voleva la guerra né voleva colpire i civili ma solo concedersi una gita fuori porta. 

Ci raccontavano che gli ucraini fossero un popolo di nazisti, scimmiottando la propaganda nera del Cremlino che intanto corredava di svastiche a forma di Z i carri armati e le trasmissioni televisive anche italiane, ora pure in diretta dalla Piazza Rossa e magari prossimamente live dalla Lubyanka. 

Ci ripetevano che gli ucraini non avrebbero mai potuto resistere, straccioni quali erano, e che al massimo avrebbero potuto interpretare il ruolo di carne da macello dell’America, dell’Europa, della Nato e della grande finanza internazionale.

Quando tutte le loro previsioni si sono rivelate per quello che erano, ovvero mastodontiche stronzate, i medesimi esperti anziché nascondersi a vita per l’imbarazzo hanno cambiato registro, argomentando che adesso il mondo non deve umiliare la Russia e che bisogna lasciare una via d’uscita a Putin, alla stessa Russia e allo stesso Putin che intanto bombardano ospedali, chiese, musei e di nuovo, domenica mattina, le abitazioni civili nella capitale Kiev.

Anche questa è un’analisi maldestra almeno quanto le precedent, anche perché la via d’uscita Putin ce l’ha sempre avuta e ce l’ha ancora oggi a portata di retromarcia ed è, appunto, il ritiro dall’Ucraina, la fine dei bombardamenti sui civili e l’apertura dei porti del Mar Nero per consentire l’esportazione del grano in Africa.

Eppure questa cosa non la dice nemmeno uno degli esperti in questione, neanche tra parentesi, come se l’ipotesi che l’aggressore debba smettere di aggredire la vittima fosse un’idea stravagante anche solo da immaginare.

E infatti si agitano tutti a spiegare che Zelensky ha rotto le scatole, che gli ucraini si devono arrendere per il loro bene, che la Nato deve smettere di far piangere Orsini, che l’America non deve offendere l’orso russo, che l’Italia non deve mandare armi ai resistenti, che il mondo non deve innervosire il dittatore suscettibile anche perché siamo a giugno e c’è da andare al mare tranquilli e sereni.

Oltre che essere controintuitivo e francamente ripugnante, tutto ciò è solo volgare propaganda del Cremlino e cinico disinteresse per le decine di migliaia di morti ucraini, per i milioni di sfollati, per la sofferenza di chi è rimasto sotto i missili lanciati da Mosca, per una civiltà a rischio genocidio anche culturale e per i prossimi morti per fame in Africa. 

Tutto questo, come ha raccontato ieri il New York Times in prima pagina, mentre i miliziani nazisti del Cremlino, noti col nome di battaglione Wagner e già protagonisti in Donbas nel 2014 e poi in Siria e di nuovo in Ucraina quest’anno, stanno razziando l’oro del Sudan in cambio dell’aiuto fornito all’esercito locale per sopprimere il movimento democratico sudanese. Garantiamo una via d’uscita anche ai nazibol di Putin in Sudan, visto che ci siamo.  

Come se, peraltro, Putin non avesse già ignorato la via d’uscita otto anni fa, quando non ci fu nessuna mobilitazione internazionale dopo l’annessione russa della Crimea, l’invasione delle milizie in Donbas e la cancellazione dei diritti delle popolazioni autoctone. Nessuno umiliò la Russia, allora, eppure Putin ha deciso lo stesso di invadere su larga scala l’Ucraina. O, come è più probabile, ha pensato di mettere un altro fantoccio a Kiev e poi di cancellare l’Ucraina proprio perché la volta precedente nessuno aveva mosso un dito.  

Ma è ancora più pericoloso non capire, o far finta di non capire, che la questione del “non umiliare Putin” non è una questione reale, semmai il prodotto di una fantasia europea che ha precedenti catastrofici e nonostante ciò continua a corrompere il dibattito pubblico occidentale. 

È evidente che chiunque parli di non umiliare Putin non si rende conto di come funzioni il sistema di potere in Russia. 

Lo ha spiegato perfettamente Timothy Snyder, da anni l’analista più lucido sulle questioni russo-ucraine cui ha dedicato numerosi, fondamentali e purtroppo inascoltati saggi: «Il sistema politico e informativo della Russia è progettato per tenere Putin al potere a prescindere da che cosa accade nel mondo reale. La politica russa si svolge all’interno di un ambiente informativo chiuso, progettato e guidato dallo stesso Putin, il quale non ha bisogno del mondo reale per creare una finzione rassicurante per i russi. Putin lo fa già da vent’anni e senza il nostro aiuto».

Esattamente come i nostri esperti italiani, Putin prima ha raccontato ai russi che non avrebbe invaso l’Ucraina, poi che non si trattava di una guerra ma di un’operazione speciale per denazificare l’Ucraina a cominciare da Kiev, infine per liberare solo il Donbas, adattando sempre la narrazione interna alle convenienze del momento e negando spudoratamente i crimini di guerra e le ingloriose sconfitte sul campo di battaglia. 

«Nella politica russa – continua Snyder – la cosa importante non è la realtà sul campo di battaglia ma l’abilità del regime di Putin di cambiare le storie a beneficio dei russi, quindi non ha alcun senso, come sanno bene gli ucraini, condannare le persone reali che vivono in territori reali alla sofferenza e alla morte allo scoop di assecondare una narrazione russa che non dipende da che cosa succede davvero nel mondo reale». 

Se Putin perde in Ucraina, insomma, troverà il modo di dire che invece ha vinto, senza bisogno di ricorrere a una via d’uscita occidentale perché il suo potere non dipende da noi, come fantasticano Macron e altri: «Nella realtà virtuale c’è sempre una via d’uscita – scrive Snyder – e per questa ragione Putin non può essere messo in un angolo: se nella realtà verrà sconfitto, Putin dichiarerà vittoria in televisione e i russi gli crederanno o faranno finta di credergli. Lui troverà un altro argomento su cui agganciare la loro attenzione. Questo è un problema del Cremlino, non nostro. Nel meccanismo interno russo gli attori esterni sono essenzialmente irrilevanti». 

Il chiacchiericcio sull’offrire una via d’uscita per non umiliare Putin non fa altro che allungare la durata della guerra, come sanno bene gli ucraini, distogliendo l’attenzione dall’unico modo possibile per fermarla davvero. Questo unico modo per fermare la guerra è la sconfitta della Russia grazie anche al nostro sostegno politico, finanziario e soprattutto militare a un popolo coraggioso che per secoli ha subìto sulla propria pelle l’imperialismo e il colonialismo omicida dei russi e per questo chiede a gran voce di voler far parte dell’Europa e del consesso delle nazioni libere e democratiche.

Pretendere, al contrario, che gli ucraini smettano di difendersi e inizino a consolare i loro persecutori russi affinché non si sentano umiliati nel caso non andasse in porto il progetto di soluzione finale è moralmente osceno. Oltre che umiliante per chi continua a farlo.

(ANSA il 5 giugno 2022) - Massimo D'Alema, intervenendo al Festival dell'economia di Trento all'incontro dal titolo "Dove stanno andando economia e politica mondiale, rischio guerra fredda e ruolo dell'Europa", si dice perplesso sulla gestione del cosiddetto Occidente della guerra in corso: "D'accordo, mandiamo le armi all'Ucraina. Ma come si ricostruisce un ordine mondiale? Cosa vuol dire "vinceremo la guerra" combattendo con una potenza nucleare? A medio termine, chi governa, anche in Italia, che piano ha".

Per D'Alema serve quello che definisce "comprehensive agreement": "Non c'è pace vera senza le ragioni della Russia. Che sono la sua sicurezza e la tutela dei diritti delle sue minoranze nelle repubbliche ex-Urss. Ma non dimentichiamo che la Russia ha perso le sue ragioni mettendo in atto la brutale aggressione all'Ucraina". L'ex premier vede nell'Europa la chiave di volta del conflitto: deve essere il Vecchio continente a dare alla Russia le garanzie che certamente non può dare il presidente ucraino Zelensky. 

Quegli insopportabili angoli acuti. Noi ucraini vogliamo vivere e non ci arrenderemo nemmeno di fronte alla vostra incredulità. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 30 Maggio 2022.

C’è chi in nome della propria tranquillità se la prende con gli aggrediti che si difendono, che chiedono aiuto, che non vogliono finire schiacciati e dimenticati. Ci dispiace rovinarvi l’estate, noi continueremo a gridare le torture che subiamo perché non vi voltiate, di nuovo, dall’altra parte.

Uno degli ultimi spensierati e felici ricordi lo devo a Venezia, dove alla fine di dicembre 2021 sono stata con la mia amica Tanya, arrivata da Kiev. Abbiamo studiato a piedi la città e i musei, abbiamo visitato le isole, abbiamo riso e bevuto dell’ottimo vino. In quel viaggio ho letto “Di là dal fiume e tra gli alberi” (1950) di Ernest Hemingway, la storia del colonnello Richard Cantwell, reduce di due guerre mondiali e tornato a Venezia per il suo abituale pellegrinaggio nei luoghi dei suoi combattimenti. Il colonnello Cantwell era tutto guerra, l’ha vissuta, ce l’aveva dentro, non poteva scrostarsela di dosso, salvo sopprimerla nell’alcol e nell’amore per una giovane nobile donna di nome Renata.

Il testo fu preso a schiaffi dai critici. Lo definirono povero di idee e scarno nel linguaggio, lontano dalla penna di Hemingway cui tutti ormai si erano abituati. La giovane rinata-Renata Europa non voleva un testo sulla nevrosi da guerra, l’Europa voleva velocemente dimenticare gli orrori dei combattimenti e divertirsi tra gli alberghi della laguna e i palazzi della buona società. I baristi-apprendisti dietro i banchi a versare il Carpano al colonnello Cantwell non capivano che cosa stesse tormentando quel vecchio.

L’ultima volta che sono stata a Venezia, ci sono stata di nuovo con Tanya. Sono andata a prenderla ad aprile di quest’anno, lei arrivava sempre dall’Ucraina, ma non da casa sua a Kiev, dove ormai non viveva da due mesi. Era arrivata con la guerra addosso. Tanya era il colonnello Cantwell, lo eravamo entrambe. L’Italia attorno a noi viveva una struggente primavera, i baristi non versavano Carpano, ma Spritz, e noi in mezzo a tutti loro eravamo come aliene. Dopo tre mesi di guerra di invasione, di distruzione delle città, di migliaia di ucraini uccisi, di torturati e stuprati sia civili sia militari – perché i militari fino a gennaio erano semplici civili, arruolati a febbraio per proteggere la propria terra – a tanti di quelli che stanno intorno a noi sembriamo alieni. Con un dolore incomprensibile, con la nevrosi da guerra, con reazioni incontrollabili e poco note anche a noi stessi.

Oltre a sopravvivere ogni giorno, dobbiamo anche preoccuparci di non deludere le aspettative di vari Paesi: Francia, Germania, Italia. Dobbiamo trovare la forza di giustificare perché il nemico non ci piace così tanto e perché non vogliamo salire sui palchi insieme ad artisti russi, di spiegare che no, non siamo nazisti, che il Donbas è sempre stato ucraino e che in Crimea ci sono i Tatari di Crimea, un popolo nativo cui viene di nuovo negata l’esistenza. Dobbiamo dimostrare che i cadaveri di Bucha non erano manichini e che le stragi nelle regioni settentrionali dell’Ucraina non erano messinscene. Come se avessimo molto tempo libero, al punto da utilizzarlo organizzando tutto questo.

La canzone ucraina all’Eurovision non piace, lo stemma ucraino, il tridente, ha troppi angoli acuti, il giallo della bandiera è troppo giallo e il blu è poco blu, sulle foto dei bambini mutilati c’è troppo sangue che esce dalle bende, le storie delle donne stuprate non sono nient’altro che propaganda ucraina e Zelensky ormai è dappertutto. Dobbiamo smettere di tormentare il mondo con questa nostra voglia di libertà, dobbiamo cedere i nostri territori, abbandonare la nostra gente, le loro vite e il loro futuro e farla finita in fretta, perché sta arrivando l’estate e nessuno in spiaggia vuole sentire notizie di combattimenti né pensare in autunno alle bollette del gas e ai prezzi della pasta e della carne.

Quello che voleva dire il colonnello Richard Cantwell ai baristi di Venezia è che l’Europa non sarebbe stata più la stessa. Anche oggi si può continuare a guardare dall’altra parte, a non credere agli orrori della guerra, perché così è più facile, perché così non è richiesta nessuna reazione e nessuna partecipazione.

Eppure l’Europa è già cambiata a causa della guerra della Russia, non solo perché l’Ucraina ne vuole far parte e lo è già con la sua cultura secolare, non solo per gli oltre cinque milioni di sfollati ucraini sparsi tra la Polonia e il Portogallo o per la crisi alimentare globale provocata dall’economia ferma dell’Ucraina invasa: l’Europa è cambiata anche per la risposta (o non risposta) a questo presente così vicino e così terribile.

Gli europei in questo limbo maggese pensano ancora di avere una scelta: votare o non votare i partiti di destra in Francia, guardare o non guardare la televisione italiana con i propagandisti russi, chiedere o non chiedere al governo tedesco di fornire le armi all’Ucraina (quelle vere, non quelle finte).

Noi ucraini questa scelta non ce l’abbiamo più dal 2014 e per questo, come il colonnello Cantwell, continueremo a torturare gli europei con il nostro dolore, con le foto del sangue sulle bende e con gli angoli acuti del tridente finché l’esercito russo continuerà a torturare noi. Ci avete già lasciati soli nel 2014, non ripetete lo stesso errore nel 2022.

Mini Kissinger. Ripensandoci, i propagandisti del Cremlino in tv non possono che alzare la qualità del dibattito italiano. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 31 Maggio 2022.

Armare gli ucraini significa fare un favore a Putin, per fare la pace bisogna dargli quello che ha conquistato e altre singolari teorie del giornalismo italiano. Tutto considerato, meglio i russi.  

Il generale Fabio Mini ha scritto ieri sul Fatto quotidiano che «la Russia ha preso molti abbagli in questa guerra e il primo è stato quello di cedere alla provocazione». Affermazione che se fosse una battuta sarebbe fantastica e avrebbe potuto anche sembrare vagamente ispirata al mafioso di Johnny Stecchino (quello secondo il quale la piaga della Sicilia, come purtroppo ben sappiamo, è il traffico). In ogni caso, non c’è motivo di preoccuparsi. Per quanto riguarda gli altri abbagli, assicura Mini, la Russia «ha già rimediato manovrando sul terreno e sul piano geopolitico».

Resta da capire perché Vladimir Putin continui a chiedere in tutte le sue telefonate con ogni capo di governo occidentale al quale gli capiti di parlare, per primissima cosa, che la si smetta di inviare armi agli ucraini. Infatti, come spiega da giorni il Fatto, «più armiamo Kiev più Putin avanza» (titolo di apertura di sabato). Un argomento che ieri Mini ha ulteriormente sviluppato, con questo implacabile sillogismo: «Se fino ad un mese fa si poteva ipotizzare lo scopo russo di garantire una fascia di sicurezza all’interno dell’Ucraina di una profondità media di 100 km, ora con l’invio di armi statunitensi ed europee con capacità di intervento aumentata nella distanza e accorciata nel tempo di preavviso tale scopo è chiaramente insufficiente». La logica non potrebbe essere più chiara: più gli ucraini saranno in grado di difendersi con armi a lunga gittata, più i russi, per stare tranquilli, saranno costretti ad avanzare. Come dire che se uno mi ammazza di botte la colpa è mia perché mi sono difeso, costringendolo a menarmi più forte.

Mini del resto non è nuovo ad analisi spiazzanti. «Una nazione che si affida all’odio è capace di tutto», aveva scritto per esempio, sempre sul Fatto, il 29 marzo. Di più: «Una nazione che impregna di odio le sue generazioni più giovani, quelle che dovrebbero essere le forze vive per la ricostruzione, non ha futuro». Pensate forse che si riferisse ai giovani con la zeta al braccio mandati da Putin a uccidere gli ucraini? Macché. Nel pieno dell’invasione russa, per Mini, la nazione impregnata di odio è l’Ucraina. Per non parlare della sua tesi secondo cui Finlandia e Svezia avrebbero chiesto di entrare nella Nato perché «sottoposti alla pressione, al limite del ricatto (con noi o contro di noi), che Stati Uniti e Gran Bretagna esercitano già sui paesi europei» (21 maggio). Giuro. Secondo Mini, Svezia e Finlandia hanno chiesto di entrare nella Nato perché sottoposte alla pressione degli Stati Uniti, mica dei russi.

Una simile logica non è però un’esclusiva del generale Mini, né del Fatto quotidiano. Domenica, ospite di Che tempo che fa, il direttore della Stampa, Massimo Giannini, ha ricordato di avere citato, nel suo primo editoriale sulla guerra, due mesi fa, un articolo scritto da Henry Kissinger nel 2014, all’indomani dell’annessione della Crimea. Un articolo in cui l’ex segretario di Stato americano aveva spiegato, riassumeva Giannini, che occorreva «trovare per questa parte del mondo un assetto nel quale ciascuna delle due parti in causa rinunci a qualche cosa, perché se questo non accade la guerra la porteremo avanti per decenni, ed è quello che puntualmente è successo». Infatti, proseguiva Giannini, a Davos Kissinger è intervenuto di recente sostenendo di nuovo questa tesi. Proprio così: come se il fatto di avere usato lo stesso argomento già all’indomani dell’annessione russa della Crimea lo rafforzasse, anziché dimostrare l’esatto contrario, e cioè che una volta ceduto un pezzo dell’Ucraina ai russi, dal giorno dopo si è passati al pezzo successivo.

Niente da fare. Per Giannini-Kissinger c’è «una faglia» che divide un’Ucraina che guarderebbe all’Europa da un’Ucraina che invece guarderebbe alla Russia. Dunque, conclude il direttore della Stampa, «prendiamone atto». In altre parole, lasciamo ai russi la parte di territorio che hanno conquistato finora (ammesso e non concesso che vogliano fermarsi lì). Il che è per l’appunto quello che abbiamo fatto dopo l’annessione della Crimea, e che verosimilmente Giannini ci spiegherà che dovremo fare anche la prossima volta, e quella dopo ancora, fino a quando dell’Ucraina non sarà rimasto più nulla.

Di fronte a una logica così stringente, occorre forse riconsiderare alcuni affrettati giudizi sulla scelta di invitare in tv propagandisti alle dipendenze dirette o indirette del ministero della Difesa russo. Dico proprio per la qualità della discussione. È vero che alcuni dei nostri ospiti più assidui, in patria, hanno occasionalmente minacciato di tirarci contro un missile, se non la smettiamo di aiutare gli ucraini, e questo certamente non è bello. Ma perlomeno nessuno di loro ha mai cercato di farci credere che aiutandoli facciamo un favore a Putin.

Guerra in Ucraina, chi è l’aggredito e chi l’aggressore. Edoardo Crisafulli su Il Riformista il 30 Maggio 2022.

I fautori della complessità animano i talk show. Li irrita il dualismo fra “aggredito” e “aggressore”, che ricorda quello, infantile, fra buoni e cattivi. Il quadro è più complesso, ripetono, sopracciglia aggrottate. Peccato che molti di loro cadano nello stesso tranello: la causa d’ogni sventura sarebbe l’espansionismo scriteriato della NATO, nonché l’imperialismo guerrafondaio degli USA. Fra le due semplificazioni c’è una differenza abissale: la prima dà conto di ciò che sta accadendo – l’aggressione è verificabile mediante dolorosi conteggi di morti e distruzioni –, e posiziona i fari sugli individui in carne e ossa che la guerra l’hanno scatenata.

La seconda s’impantana su una (opinabile) causa remota, indiretta, del conflitto, sminuendo le responsabilità del leader aggressore e dell’apparato politico-militare che lo sostiene. Se le mire della NATO hanno stuzzicato l’orso in letargo, ovvio che ci sia una corresponsabilità occidentale. Ragionamento semplicistico! I complessisti in buona fede avrebbero ragione, se fossero coerenti. Al diavolo i luoghi comuni: gli ucraini (e, ora, anche i miti finlandesi) sarebbero burattini nelle mani degli americani, la NATO un’entità collusa con le industrie belliche la quale ordisce oscure macchinazioni; al diavolo le bufale: l’inesistente genocidio nel Donbass a danno dei russi, e il mirabolante colpo di Stato di Maidan, che fu una rivolta popolare contro un governo filorusso.

I complessisti in cattiva fede ignorano volutamente i fattori che complicano il quadro: a) con il Memorandum di Budapest, sottoscritto nel 1994, gli ucraini rinunciarono alle armi nucleari in cambio di assicurazioni, da parte russa, sulla loro sicurezza e integrità nazionale, i russi avrebbero evitato pressioni economiche volte a condizionare politicamente l’Ucraina; b) la lettera di Putin del 12 luglio 2021, “L’unità storica di russi e ucraini”, nega legittimità all’Ucraina quale nazione indipendente; c) gli ucraini – che sono culturalmente europei, e hanno un’antica aspirazione alla libertà – desiderano far parte dell’Unione Europea.

I complessisti tirano in ballo la Seconda Guerra Mondiale. Sì, le umiliazioni inflitte alla Germania sconfitta, nel 1919, fecero da apripista all’affermazione di Hitler. Poiché anche Keynes ci scrisse sopra un bestseller, Le conseguenze economiche della pace, si pensa sia facile tirar le somme: siamo un po’ tutti corresponsabili di quella carneficina. Eh, no! Il titolo non menziona le “conseguenze morali” della pace punitiva, ‘cartaginese’, che doveva spezzare le reni alla Germania. Il trattato di Versailles, dice Keynes, avrebbe messo a dura prova i limiti di sopportazione del popolo tedesco; nel magma della crisi economica sarebbero sorte “speranze, illusioni e il desiderio di vendetta”.

Ma, conclude saggiamente, “chi può dire quanto sia sopportabile e in quale direzione gli uomini tenteranno di fuggire dalle loro miserie?” Keynes temeva una rivoluzione bolscevica nella Mitteleuropa, più ancora del militarismo germanico. Reminiscenze scolastiche: il mio professore di storia, con chiarezza cristallina. “Vi sono cause profonde della guerra, il punitivo Trattato di Versailles è fra queste: mise la Germania in ginocchio, fornì a Hitler e ai nazionalisti argomenti a iosa.” Al che, io, “ma allora Francia e Gran Bretagna sono corresponsabili del conflitto?” Sguardo ammiccante: “il discorso sulla corresponsabilità è complesso, chiama in causa questioni etiche e politiche. Il fatto che vi fossero cause profonde non significa che Hitler avesse attenuanti, né che la colpa del sangue versato ricada anche su Francia e Gran Bretagna. Gli storici e gli economisti cercano soltanto di capire il contesto in cui maturano le decisioni politiche e militari. Una qualità ci distingue dalle bestie: il libero arbitrio.

” Io, poco convinto, “sì, prof., ma se la Germania non fosse stata umiliata, e se non fosse avvenuto il crollo di Wall Street nel ‘29, la guerra non sarebbe scoppiata, giusto?” Impeccabile, la risposta: “Nessuno storico ha la sfera di cristallo. Troppi ingredienti marci bollivano in pentola: il revanscismo tedesco, granitico a prescindere dai trattati internazionali, il mito dell’invincibilità degli Imperi centrali (la Germania, punta di diamante dell’alleanza, fu pugnalata alle spalle); la popolarità della dottrina hitleriana del Lebensraum, lo spazio vitale a Est, panacea per una Germania sovrappopolata. Morale: la guerra probabilmente sarebbe scoppiata comunque. Certo, con un trattato di pace equo, e senza la crisi del ’29, Hitler non avrebbe vinto le elezioni. Ma si può escludere una marcia su Berlino, un colpo di Stato delle camicie brune negli anni Trenta? Troppo fragile la democrazia tedesca, troppo potente la Wermacht e troppo influenti i reduci nella Repubblica di Weimar.

Fatto sta che un dittatore razzista nel ’39 aggredisce la Polonia per annettersela, nel ‘41 conquista l’Ucraina e tenta di distruggere la Russia, avendo in mente di schiavizzare gli slavi, reputati subumani, e infine pianifica il genocidio del popolo ebraico. Queste azioni infami, frutto di un’ideologia perversa, non hanno alcun rapporto con il fatto che le potenze vincitrici, nel 1919, avevano offeso il principio di nazionalità e imposto inique riparazioni belliche.” Io sono a favore della diplomazia e dei negoziati a oltranza – meglio un trattato imperfetto che un bagno di sangue –, purché le parti in causa siano d’accordo. Però… Storia virtuale: anno del Signore 2030, gli austriaci, dotatosi di un esercito strepitoso e di bombette atomiche, occupano l’Alto Adige e il Trentino, invadono la pianura padana, radono al suolo Trieste, bombardano Padova e Milano.

L’Austria è dominata da un leader che rivendica il superamento di un sopruso: il Sud Tirolo, Trento, Trieste e il suo entroterra fecero parte a lungo dell’Impero asburgico, e il Lombardo-Veneto venne ceduto all’Austria legalmente, nel 1815, con il Congresso di Vienna. Qui casca l’asino: come conciliare pacifismo e amor di patria? Che fare, in concreto, nell’Italia invasa? La soluzione sarebbe molto facile: che si ceda all’austriaco rancoroso l’Alto Adige (lì parlano tedesco, no?), Trento e Trieste, con relativo sbocco sull’Adriatico, e qualche striscia di territorio conteso. Così noi ci teniamo la Lombardia e una parte del Triveneto, sigliamo la pace, e ce ne andiamo in villeggiatura. Cosa direbbero i complessisti, i quali, non ne dubito, sono ardenti patrioti? Mmm, la questione è complessa… Edoardo Crisafulli

La perdita dell’innocenza. Il dibattito sull’Ucraina rivela che nemmeno la nostra atavica cialtroneria basta a proteggerci dal male. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Quello stesso muro di gomma contro cui si scontra ogni sforzo di combinare qualcosa di buono, mi dicevo, è anche la nostra più affidabile difesa contro sventure peggiori. Evidentemente mi sbagliavo.

Il dibattito sulla guerra in Ucraina mi ha tolto l’ultima illusione che ancora conservavo sulla politica italiana, sui suoi attori e sui suoi commentatori, e più in generale su quelle che si usa chiamare classi dirigenti. L’illusione cioè che un certo grado di cialtroneria fosse comunque una garanzia contro mali più gravi.

In fondo, pensavo, un qualche livello di approssimazione, pigrizia e inefficienza, che in Italia rende assai arduo qualunque tentativo di migliorare le cose, rende altrettanto arduo qualsiasi tentativo di peggiorarle oltre un certo limite. Quello stesso muro di gomma contro cui si scontra ogni sforzo di combinare qualcosa di buono, mi dicevo, è anche la nostra più affidabile difesa contro mali più grandi. Evidentemente mi sbagliavo.

Ero convinto che la maggior parte dei nostri politici, intellettuali e giornalisti, per quanto potessero apparirmi a volte ipocriti, altre volte disonesti o semplicemente ignoranti, fossero comunque relativamente inoffensivi. Non ho mai avuto una grande opinione delle nostre classi dirigenti – ma chi ce l’ha? – e in ogni caso mi consolavo ripetendomi che è mille volte più sicuro vivere tra innocui cialtroni che tra efficientissimi criminali. Sbagliavo anche su questo.

Lo dimostra lo spettacolo offerto dal dibattito sull’Ucraina, con gli effetti che ha prodotto e che continua a produrre, sull’opinione pubblica e sulle stesse forze politiche, attraverso questo costante martellamento di idiozie, questa serie asfissiante di assalti alla ragionevolezza e al comune senso del pudore.

Contrariamente a quel che si dice, infatti, la situazione in Ucraina è tragicamente semplice, e proprio non potrebbe essere meno complessa di così: c’è un popolo aggredito che ci chiede armi per potersi difendere, al quale noi possiamo rispondere di sì o di no. Ma rispondere che gli diciamo di no per il suo bene, per non prolungare inutilmente le sue sofferenze, è oltre il limite della decenza, significa portare la discussione a un livello talmente basso, intellettualmente e moralmente, da non consentire alcuno sviluppo ulteriore del dibattito, in nessun senso.

Si può e si deve discutere di cosa è più giusto fare e fin dove possiamo spingerci, nel sostegno politico e militare all’Ucraina e nelle sanzioni economiche alla Russia, e di quale strategia politica e diplomatica sia più utile, più prudente e più giusta, per minimizzare i rischi per noi e per massimizzare le opportunità di interrompere i massacri laggiù. Ma cosa si può rispondere a chi dice che le sanzioni non servono e le armi nemmeno, anzi sono entrambe dannose, sempre però premettendo di essere convintamente dalla parte dell’Ucraina, che ogni giorno ci implora di inviare armi e aumentare le sanzioni? Cosa si può dire a chi prima dice che non dobbiamo aiutare gli ucraini perché tanto la Russia vincerà lo stesso e poi che non dobbiamo aiutare gli ucraini perché è troppo pericoloso mettere Putin in un angolo, ma continua comunque a spergiurare di fare il tifo per l’Ucraina con tutto se stesso, e di svegliarsi ogni mattina augurandosi che riesca a respingere gli invasori? Non dico una controbiezione, dico semplicemente una domanda sensata, che non appartenga a quel ristretto ventaglio di possibilità che va da «stai scherzando?» a «ma non ti vergogni?».

Buongiorno Bieloitalia. Gli ucraini non combattono per procura, sono i nostri compagni contro il fascismo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Kiev denuncia da anni la pianificazione russa volta a cancellare l’Ucraina e a sterminare un’intera nazione. È arrivato il momento di aiutare sul serio un popolo coraggioso che difende la sua indipendenza sul fronte libero dell’Europa.

C’è un formidabile libro di alcuni anni fa scritto da Philip Gourevitch a proposito dell’atroce genocidio in Ruanda del 1994, quello che fece oltre un milione di vittime in poche settimane e tutto il mondo rimase a guardare. Il titolo del saggio è “Desideriamo informarvi che domani saremo uccisi assieme alle nostre famiglie”.

Quell’annuncio insieme burocratico e agghiacciante, come se la notifica di sterminio imminente fosse l’avviso della prossima fermata della metropolitana, è più o meno quello che sta capitando quotidianamente al popolo ucraino in lotta per la sua sopravvivenza. Ogni maledetto giorno a est e a ovest di Kiev suonano le sirene che avvertono dell’arrivo di missili russi, mentre la sera gli ospiti dei nostri talk show fanno un osceno intrattenimento a spese delle vittime che cercano riparo nei corridoi e negli scantinati assieme ai bambini costretti a convivere con gli incubi, il tutto a maggior gloria degli aggressori nazibolscevichi. 

Inascoltati dal 2016, ma in realtà da molto prima, gli ucraini denunciano da anni la pianificazione russa per cancellare il loro paese e per sterminare fisicamente e culturalmente un’intera nazione. Sono stati ignorati, nonostante i russi ci abbiano provato sistematicamente almeno dai tempi dell’Holodomor, della pianificazione staliniana della carestia, a eliminare gli ucraini in quanto nemici del popolo.

Da tempo, gli ucraini avvertono anche noi europei delle intenzioni imperialiste del Cremlino perché sanno che se Putin dovesse prevalere a Kiev, dopo toccherà a noi combattere. 

La Finlandia, la Polonia, la Svezia e i paesi baltici lo sanno benissimo e infatti si mobilitano e prendono decisioni sofferte e storiche che fanno piangere i guitti da talk show.

Noi che siamo più lontani dal fronte, invece, affidiamo la salvaguardia delle nostre libertà alle mani sicure della televisione spazzatura di Urbano Cairo e ai propagandisti russi e bieloitaliani del Cremlino, illudendoci che un solenne inchino a Putin possa farci schivare il colpo e che pettinare il fascismo russo possa rendere Putin ragionevole e caritatevole.

Nel tentativo in corso dei russi di sterminare gli ucraini c’è un’aggravante, rispetto al genocidio Tutsi perpetrato dagli Hutu in Ruanda: gli aggrediti, questa volta, non devono soltanto trovare riparo dai machete aerei russi ed escogitare nuovi modi per resistere e per respingere l’invasore, ma sono anche costretti ad ascoltare i surreali appelli ad arrendersi a mani alzate o a rinunciare a una fetta della propria indipendenza.

Il paradosso è che non si tratta di appelli alla resa lanciati dai russi, i quali invece continuano imperterriti a bombardare i civili indossando gli usuali guanti bianchi già messi in mostra ad Aleppo e a Grozny, ma sono appelli alla capitolazione a cura dei volenterosi complici di Putin in giro per l’Europa e di stanza nei reggimenti dell’operazione speciale televisiva di La7, Rete4 e un pezzo della Rai.

Sentendo il gelido annuncio ucraino «desideriamo informarvi che saremo uccisi dai russi assieme alle nostre famiglie», la risposta degli appeaser bieloitaliani è del tipo: cari ucraini, arrendetevi, lasciatevi soggiogare, in fondo ve la siete cercata. 

Non siamo tutti così, naturalmente, e dobbiamo ancora rallegrarci che Mario Draghi non sia stato rimosso da Palazzo Chigi per andare a svernare al Quirinale, altrimenti oggi anziché del finto piano di pace di Di Maio discuteremmo di una proposta di adesione italiana alla Federazione russa.

Palazzo Chigi, il Quirinale, la Difesa, la Cisl di Luigi Sbarra tengono la barra dritta dell’Italia, ma, come ha scritto Gourevitch nel libro sul Ruanda, le buone intenzioni non bastano perché denunciare il male è tutt’altra cosa rispetto a fare del bene.

Fare del bene oggi è inequivocabilmente salvare l’Ucraina e proteggere gli ucraini con una grande campagna di solidarietà europea e occidentale, accogliendoli a braccia aperte nell’Unione e nella Nato, con aiuti umanitari e finanziari, ma soprattutto con la fornitura accelerata di tutti i sistemi di difesa possibili affinché Kiev rispedisca i russi nelle loro fogne, perlomeno fino a quando continueremo a finanziare lo stragismo russo acquistando il gas e il petrolio dalla cosca del Cremlino. 

Come ha scritto Garri Kasparov su Twitter: senza le armi che ha chiesto, l’Ucraina oggi sanguina e Putin accelera l’annessione di altri territori ucraini, rilasciando passaporti russi ed emettendo rubli, uccidendo e deportando migliaia di ucraini rimpiazzandoli con i russi, come sta facendo da otto anni con l’occupazione della Crimea e del Donbas.

Ha scritto, infine, Kasparov: «Basta pensare alle concessioni che potrebbe fare l’Ucraina, perché l’Ucraina sta pagando un prezzo orrendo in termini di sangue, peraltro sapendo che serviranno decenni per ricostruire il paese; l’Ucraina sta anche pagando il prezzo di anni di debolezza e corruzione delle nazioni europee che hanno concluso affari e stretto rapporti diplomatici con il suo invasore. L’Ucraina ha bisogno delle armi che chiede senza esitazione, e il modo libero è fortunato ad avere un esercito coraggioso e preparato come quello ucraino in prima linea, al fronte di una guerra che gli ucraini non hanno mai voluto e che l’occidente ha fatto finta non esistesse. Gli ucraini non combattano questa guerra per procura, gli ucraini sono i nostri partner». Sono i nostri compagni nella lotta al fascismo.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 27 maggio 2022.

«Napoleone Bonaparte usava dire che non bisogna interferire quando il nemico sta compiendo massicci errori strategici. Ma il nemico di Bonaparte non aveva le armi nucleari. Putin ce le ha. Per questo è arrivato il momento di cercare una via d'uscita, per non chiuderlo nell'angolo». Chi parla non è un pacifista, ma un uomo di guerra, quell'Ammiraglio James Stavridis che è stato il comandante supremo delle forze Nato dal 2009 al 2013, e che oggi sembra schierarsi a fianco di Henry Kissinger sulla necessità di cominciare a ipotizzare «che Putin possa conservare una parte dell'Ucraina». 

Una settimana fa persino il New York Times, il giornale che finora ha appoggiato la guerra con più convinzione di tutti gli altri, ha pubblicato un fondo che ha generato un certo scalpore perché tra le righe si affermava senza mezzi termini che è diventato assolutamente necessario evitare uno scontro Usa-Russia «anche se una pace negoziata potrebbe richiedere all'Ucraina di prendere alcune decisioni difficili».

Il fondo del New York Times che apriva all'idea di sacrificare l'integrità territoriale ucraina scaturiva a sua volta dall'allarme generato dalla testimonianza di Avril Haines, direttore dell'intelligence nazionale, davanti alla Commissione delle Forze armate del Senato. Haines ha annunciato che il conflitto «potrebbe prendere una traiettoria più imprevedibile e potenzialmente portare a una escalation», con una maggiore probabilità che la Russia possa minacciare di utilizzare armi nucleari. È chiaro che l'intervento di Henry Kissinger a Davos teneva conto dell'analisi dell'intelligence Usa, che finora si è rivelata eccezionalmente precisa. 

Il 99enne ex segretario di Stato e riconosciuto esperto mondiale di geopolitica ha dichiarato che «i negoziati devono iniziare nei prossimi due mesi prima che si creino tensioni difficili da superare: idealmente, la linea di divisione dovrebbe essere il ritorno allo status quo».

Due mesi è anche il termine che l'ammiraglio Stavridis ha citato come possibile scadenza dalla quale la situazione potrebbe degenerare: «Tra due, quattro, sei mesi al massimo entriamo in un'area a rischio». 

Stavridis, che conosce bene Biden, visto che fu a capo della Nato proprio quando l'attuale inquilino della Casa Bianca era vicepresidente e aveva avuto da Obama l'incartamento Ucraina, ha sostenuto nella sua conversazione nel podcast The Gist che «l'Amministrazione sta lavorando molto seriamente per portare gli ucraini a riflettere su questo rischio, a ricordare che comunque stia andando la guerra adesso, la Russia rimane una potenza formidabile, e resterà sui loro confini per sempre, e che forse è giunto il momento per loro di discutere se non sia giusto rinunciare al dieci per cento del loro territorio per avere in cambio la pace e garanzie di sicurezza sponsorizzate dall'Ovest».

Un altro analista molto ascoltato, Aaron David Miller, che nella sua lunga carriera al Dipartimento di Stato ha lavorato sia con presidenti repubblicani che democratici, ha riconosciuto che cercare la famosa «exit ramp» la via d'uscita sulla quale la diplomazia si affaticò tanto nelle settimane prima della guerra, è diventato quanto mai pressante: «Kissinger ha sempre lottato sulla base di questo principio: che non si deve mai arrivare alla sconfitta totale di uno dei contendenti, alla sua umiliazione».

Quella direttiva, ricorda Miller, «nel 1973 lo spinse a convincere Israele a non umiliare l'Egitto, lasciando così la porta aperta tra i due Paesi, e la possibilità di una pace». Miller, che è stato parte di moltissimi negoziati ai massimi livelli, pensa tuttavia che il momento non sia ancora arrivato, che Zelensky non può permettersi, davanti al suo popolo, che si è sacrificato tanto e sta combattendo con immenso coraggio, di accettare di sacrificare una parte del Paese, mentre Putin non dà segnali di essere interessato: «Noi occidentali possiamo cominciare a fare pressioni su Zelensky, ma dobbiamo essere assolutamente certi che Putin sia pronto ad accettare un compromesso».

«Condivido i sentimenti che Kissinger ha espresso, ma prima di poter attuare questi programmi dovremo tutti, noi americani, la Nato, l'Ue, lavorare per togliere i tanti ostacoli che ci sono sulla strada, e il primo è proprio questo: capire cosa voglia Putin». 

Henry Kissinger sorprende tutti: “Alla Russia un ruolo importante nel futuro dell'Europa”. Accuse alla Nato. Il Tempo il 28 giugno 2022

Henry Kissinger, ex segretario di Stato degli Stati Uniti, è in uscita con il suo ultimo libro, Leadership, e in occasione della presentazione ha parlato anche di Vladimir Putin, presidente della Russia, alle prese con la guerra in Ucraina: “Rispettavo la sua intelligenza era un attento calcolatore dal punto di vista di una società che lui interpretava come sotto assedio da parte del resto del mondo. L'ho trovato un intelligente analista della situazione internazionale dal punto di vista russo, che rimarrà tale e che dovrà essere considerato quando la guerra finirà. Va sconfitta l'invasione dell'Ucraina, non la Russia come Stato e come entità storica. La questione del rapporto fra Russia ed Europa andrà presa molto seriamente”.

“La Russia - sottolinea Kissinger - è stata parte della storia europea per cinquecento anni, è stata coinvolta in tutte le grandi crisi e in alcuni dei grandi trionfi della storia europea e pertanto dovrebbe essere la missione della diplomazia occidentale e di quella russa di tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo. La Russia deve svolgere un ruolo importante. La Russia vedrà se stessa come una estensione dell'Europa o come un'estensione dll'Asia ai margini dell’Europa”.

La posizione di Kissinger non rispecchia affatto quella del presidente Usa Joe Biden: “L’Occidente è stato poco sensibile ad offrire l'ingresso nella Nato all'Ucraina, perché questo significava che tutta l'area tra il muro di Berlino e il confine russo sarebbe stata riempita dalla Nato, inclusi i territori da cui nella storia sono state lanciate aggressioni contro la Russia. Stiamo arrivando a un momento in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari. Non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo. Se l'Ucraina priva la Russia di ogni conquista, allora può partire un negoziato sulla futura relazione”.

Le parole di Kissinger e Johnson e la strada di un negoziato per l’Ucraina. Gianluca Mercuri su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2022.

Il «più fedele alleato dell’Ucraina» e l’ex segretario di Stato Usa che Kiev aveva accusato di posizioni «filorusse» hanno indicato come obiettivo della guerra il ritorno allo status quo prima del 24 febbraio. Un negoziato può partire da qui?

Nell’intervista pubblicata dal Corriere il 22 giugno scorso, Boris Johnson ha fatto una cosa importantissima: dopo avere per tre mesi incarnato il ruolo del «più fedele alleato dell’Ucraina», più convinto anche dell’America, e aver provato a costruire un asse con Kiev, con i polacchi e i baltici al puro scopo di indebolire l’Unione europea, finalmente è uscito dall’ambiguità strategica del «devono essere gli ucraini a scegliere» — sacrosanto in sé, ma con implicazioni assai complicate — e ha fissato un obiettivo chiaro per il fronte che sostiene il Paese aggredito: «Il territorio ucraino deve essere restaurato, almeno nei confini prima del 24 febbraio, la sovranità e la sicurezza dell’Ucraina devono essere protette». 

Status quo ante, dunque, con Johnson che ammette «il rischio di una stanchezza sull’Ucraina, il rischio che la gente non riesca a vedere che questa è una battaglia vitale per i nostri valori, per il mondo»: il rischio che Mario Draghi aveva segnalato chiaramente a Joe Biden già nella sua visita alla Casa Bianca in maggio. 

Avvertire e denunciare questo rischio, cercare una via d’uscita dalla guerra che rispetti interessi e principi, a cominciare da quelli ucraini, indicare obiettivi che possano conciliarli il più possibile, non sono dunque più segni di cedimento e pavidità europei, ma tracce evidenti di ciò che serve: una politica seria. Quella che indica, per esempio, Jonathan Powell, un inglese che se ne intende: infatti negoziò la pace in Irlanda del Nord per conto di Tony Blair. Scriveva il 23 giugno sul Guardian: «In questo dibattito sembra che non abbiamo imparato nessuna delle lezioni della nostra storia. Si possono imporre condizioni a un Paese solo se lo si invade e lo si conquista, come fecero gli alleati in Germania nel 1945. Altrimenti, anche i “vincitori” devono negoziare, come a Versailles nel 1919. E poiché nessuno propone che l’Ucraina invada la Russia, (...) la Russia continuerà a esistere come vicino dell’Ucraina e avrà ancora forze armate molto più grandi. Ci sarà una pace duratura solo se non lasceremo la Russia a covare il suo rancore, isolata e in attesa della prossima occasione per invadere». 

È esattamente quello che Emmanuel Macron ha sostenuto finora — e ora che il presidente francese è più debole è ancora più importante sottolinearlo — quando ha detto e ripetuto che «non bisogna umiliare la Russia», pensare cioè di poterla fare capitolare totalmente. Ed è esattamente quello a cui gli inglesi si erano opposti finora, fino alle sagge ancorché tardive parole di Johnson. Basti pensare che ancora a maggio, quando Draghi, Macron e Scholz si sforzavano di trovare una via d’uscita e venivano indicati da una parte della stampa anglosassone come imbelli, il ministro della Difesa di Londra Ben Wallace diceva cose così: «Con l’invasione dell’Ucraina, Putin, la sua cerchia ristretta e i suoi generali stanno rispecchiando il fascismo e la tirannia di 70 anni fa, ripetendo gli errori dei regimi totalitari del secolo scorso. Anche il loro destino deve essere, sicuramente, alla fine lo stesso». 

Ora che Johnson si è convinto che conquistare e occupare la Russia e sottoporre Putin e i suoi gerarchi a un nuova Norimberga non sarà semplicissimo, si può finalmente cominciare a discutere seriamente. 

Per riuscirci, il punto di partenza — non necessariamente di arrivo — è l’ultimo sondaggio dello European Council on Foreign Relations (ECFR), quello che ha segnalato la «stanchezza» ora rilevata anche da Johnson. Come spiegano i suoi autori, lo studio, «svolto in nove Stati membri dell’Ue (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia) e in Gran Bretagna, ha rilevato un forte sostegno nei confronti dell’Ucraina; tuttavia, le preoccupazioni non sono più concentrate sugli sviluppi della guerra bensì sulle sue eventuali conseguenze, tra cui l’interruzione dei commerci, l’aumento dei prezzi dell’energia e l’inflazione. Questo dimostra che, in Europa, molti cittadini vogliono che la guerra finisca il prima possibile, anche se ciò implica perdite territoriali per l’Ucraina, e credono che sarà l’Ue, e non gli Stati Uniti o la Cina, a “subire danni” a causa del conflitto». Il sondaggio ha quindi rilevato una spaccatura tra un «campo della pace», pari al 35%, che ha come priorità la fine della guerra e non sottilizza sui modi, e un «campo della giustizia» pari al 25%, che vorrebbe invece una vittoria totale. Con un campo più numeroso, il 43%, che sceglie sia la pace che la giustizia (sconfiggere rapidissimamente la Russia). Non essendo la terza ipotesi realistica, si è teso finora a concentrarsi sulle prime due. 

Campione di una «pace» all’insegna del realismo è, ancora e sempre, Henry Kissinger, che alla soglia dei 100 anni non può che convenire con sé stesso (anche) sull’Ucraina. 

All’ultimo Forum di Davos — e in questa intervista — , l’ex segretario di Stato americano ha detto che la pace si fa barattando con Mosca le sue conquiste più recenti in cambio di quelle del 2014, cedendole cioè definitivamente la Crimea e le parti di Donbass che già controllava prima di questa guerra. Il presidente ucraino Zelensky gli ha replicato che queste proposte sembravano prese più da Monaco 1938 (l’appeasement verso Hitler) che da Davos 2022, ma è esattamente lo status quo ante che ora predica Boris Johnson, «l’alleato di ferro» di Kiev.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Campionessa per eccellenza del «campo della giustizia» è stata invece finora la grande giornalista americana Anne Applebaum. Ancora un mese fa ha scritto sull’Atlantic: «L’Occidente non deve puntare a offrire a Putin un’uscita di sicurezza; il nostro obiettivo, il nostro endgame, deve essere la sua sconfitta. In effetti, l’unica soluzione che offre qualche speranza di stabilità a lungo termine in Europa è una rapida sconfitta o addirittura, per riprendere l’espressione di Macron, l’umiliazione». Applebaum non indica concreti obiettivi militari e territoriali, ma martella sul fatto che «l’ennesimo conflitto congelato, l’ennesima situazione di stallo temporaneo, l’ennesimo compromesso per salvare la faccia non porrà fine all’aggressione russa né porterà una pace permanente». 

Il punto forte di questi ragionamenti è il no al «congelamento» del conflitto e il fatto che Mosca non vuole ancora finire la guerra. Come spiega Jonathan Powell, «Putin non è ancora pronto per negoziati seri. Ma potrebbe diventarlo, a seconda dei suoi calcoli dopo la battaglia del Donbass, quindi dobbiamo essere preparati. Potrebbe dichiarare un cessate il fuoco, come ha fatto nel 2014, mantenendo il territorio conquistato. Ciò lascerebbe l’Ucraina con un altro conflitto congelato, che Putin sfrutterebbe per impedire al Paese di imboccare la strada verso un futuro europeo. Un simile cessate il fuoco sarebbe una trappola». 

Come evitarla, la trappola? Continuando a combattere, ad armare l’Ucraina e allo stesso tempo perseguendo un negoziato soddisfacente. 

Ovvero? Ora che lo status quo ante non è più una bestemmia nemmeno a Londra, un negoziato che obblighi Putin a restituire almeno l’ultima parte del maltolto, quella presa negli ultimi quattro mesi; e restare, noi occidentali e anzitutto noi europei, i garanti dell’Ucraina, quelli «che hanno la chiave delle sanzioni e delle garanzie di sicurezza per dissuadere la Russia dall’invadere di nuovo». Powell è illuminante anche su questo punto: «La più grande garanzia di un futuro sicuro per l’Ucraina è nelle mani dell’Ue». Con lo status di candidato e un percorso chiaro verso l’adesione, anche se lungo, «sarà molto più difficile per la Russia invadere di nuovo. Ciò darebbe anche al governo ucraino le leve e gli incentivi necessari per riformare radicalmente un sistema ancora troppo dominato da un’eredità corrotta di oligarchi e cleptocrati dell’era sovietica». 

Come si vede, è esattamente la strada che gli europei hanno seguito finora. Continuando per questa strada, si capirà presto che la questione territoriale — che ora pare identificare come soluzione lo status quo ante — va inquadrata in una «torta» più ampia, che renda i compromessi accettabili a tutti. Il che richiede, per dirla ancora con Powell, «un negoziato più ampio sul futuro della sicurezza europea, che comprenda un nuovo accordo sulle forze convenzionali e un nuovo rapporto tra la Nato e la Russia». Ricordando, sottolinea questo negoziatore di professione, che «c’è sempre una tensione tra pace e giustizia quando si cerca di risolvere un conflitto». Ma è una «falsa dicotomia». E finora ha fatto il gioco di Putin.

Kissinger su Russia e Ucraina: “Mosca va reintegrata nel sistema europeo”. La Stampa il 28 Giugno 2022.  

A 99 anni compiuti a maggio, Henry Kissingerm, ex segretario di Stato degli Stati Uniti – in uscita con il suo ultimo libro, Leadership - parla della guerra in Ucrana e di Vladimir Putin, presidente della Russia: «Rispettavo la sua intelligenza, era un attento calcolatore dal punto di vista di una società che lui interpretava come sotto assedio da parte del resto del mondo. L'ho trovato un intelligente analista della situazione internazionale dal punto di vista russo, che rimarrà tale e che dovrà essere considerato quando la guerra finirà». «La Russia - sottolinea Kissinger - è stata parte della storia europea per cinquecento anni, è stata coinvolta in tutte le grandi crisi e in alcuni dei grandi trionfi della storia europea e pertanto dovrebbe essere la missione della diplomazia occidentale e di quella russa di tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo. La Russia deve svolgere un ruolo importante. La Russia vedrà se stessa come una estensione dell'Europa o come un'estensione dll'Asia ai margini dell’Europa». Al Corriere della Sera Kissinger dice che «va sconfitta l’invasione della Russia, non la Russia in sè. La questione del rapporto fra Russia ed Europa andrà presa molto seriamente».  L'ex segretario di Stato replica a chi lo ha criticato per le parole di Davos, temendo di essere stato frainteso: «La fine della guerra deve essere espressa in termini di obiettivi politici, oltre che militari. Non si può continuare a combattere senza avere alcun obiettivo a cui rapportarsi».

Dagospia il 27 maggio 2022. Dall’account twitter di Federico Fubini.

Kissinger è uno statista che ha avuto intuizioni giuste e anche sbagliate. Ha sostenuto il disgelo con la Cina nel 1972 ma anche il bombardamento della Cambogia nel '70. Non è detto che concessioni di territorio ucraino alla Russia siano la soluzione perché "lo dice K" 

Proviamo a testare questo "what if": cosa accadrebbe se l'Ucraina chiedesse la pace in cambio dei territori che Putin ha già strappato (e distrutto) con la forza? Putin non ha mai detto che fa la guerra perché vuole il Donbass o Mariupol. 

Putin ha sempre detto 4 cose.

1. Non riconosce il diritto all'esistenza di un'#Ucraina indipendente

2. Vuole un governo-fantoccio a Kiev come a Minsk ("denazificazione")

3. Vuole un'Ucraina incapace di difendersi ("demilitarizzazione")

4. Non riconosce il diritto di #Polonia e #Baltici di far parte della #Nato (ma la Russia nel 1997 accettò l'aspirazione di quei Paesi ex Patto di Varsavia a entrare).

Nessuno di questi 4 problemi sarebbe risolto da una presunta "pace" con cessione di Donbass e Mariupol. Dunque che accadrebbe a quel punto? #Putin avrebbe vinto un'altra partita, dopo quella della #Crimea. L'#Ucraina e i Paesi che la sostengono avrebbero perso un'altra partita. L'Ucraina sarebbe più fragile, più povera, destabilizzata. Putin concluderebbe che aggredire funziona. 

Sarebbe questione di tempo prima che la Russia si riorganizzi per scatenare ancora un'altra offensiva, in base ai fini stabili con trasparenza da tempo: governo-fantoccio a Kiev, destabilizzazione della Nato. A quel punto Moldova, Polonia e Baltici sono direttamente minacciate.

E se sono minacciate nazioni della Nato e della Ue, siamo minacciati noi stessi, lo è il nostro ordine di sicurezza, il nostro ordine politico. Dunque chi dice "diamo parte dell'Ucraina a #Putin e chiudiamola qui" o non capisce o è dalla parte di Putin. Tertium non datur - fine.

Europa divisa fra chi vuole la sconfitta di Putin e chi è disposto a cercare un compromesso. Germania, Francia e Italia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non vedono l’ora che la guerra finisca, anche con un cessate il fuoco che potrebbe durare anni. ALBERTO NEGRI su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.  

È possibile un cessate il fuoco nel conflitto tra Ucraina e Russia? Già sugli attori che dovrebbero decidere una tregua ci sono seri interrogativi. Certamente russi e ucraini, ma determinanti sono anche Stati Uniti e Gran Bretagna. I primi hanno investito oltre 50 miliardi di dollari nella difesa dell’Ucraina, la seconda appare la potenza più determinata nel puntare a una sconfitta di Mosca con l’appoggio della Polonia e dei Paesi baltici.

La verità è che c’è una spaccatura in Europa tra chi non è disposto a concedere nulla a Putin e chi invece è più incline a un compromesso.

Si spiegano così le ultime dichiarazioni di alcuni protagonisti. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha accusato la Nato di “non fare letteralmente nulla” per far fronte all’aggressione russa. Mentre la ministra inglese degli affari esteri Liz Truss proclama che: “L’aggressione russa non può essere condonata”. Kuleba sa di mentire ma anche di affermare una mezza verità. Senza gli aiuti militari americani e inglesi e lo scudo elettronico della Nato fornito da Usa e Gran Bretagna l’Ucraina sarebbe già stata presa per la gola da Putin. Ma è anche vero che l’élite ucraina si è convinta che nei palazzi del potere in Germania e in Francia ben pochi si augurano la sconfitta di Mosca. I ritardi sulle sanzioni e sulle armi da inviare hanno ormai scavato un fossato politico.

Germania, Francia e Italia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non vedono l’ora che la guerra finisca, anche con un cessate il fuoco che potrebbe durare anni, come quello a Cipro tra turchi e greci oppure tra Israele e il Libano. Da decenni su queste frontiere esiste una tregua che non è mai stata seguita da un accordo di pace. Questo tipo di intesa del resto è l’unico accordo possibile, al momento, per mettere fine, almeno temporaneamente, al conflitto. Gli ucraini, anche solo per ragioni di principio e di politica interna, non rinunceranno mai alla sovranità su tutta l’Ucraina e Putin non ha alcuna intenzione di restituire le terre occupate finora. Le discussioni sullo status delle regioni contese potrebbero durare decenni o forse neppure iniziare.

“Le truppe russe resteranno per anni”, dice il generale Salvatore Farina, ex capo di stato maggiore, comandante in Bosnia e Kosovo, oggi docente di peacekeeping al corso di laurea (l’unico in Italia) in Scienza della Pace dell’Università Lateranense. “Certo – aggiunge – se ogni giorno dobbiamo sentire affermazioni roboanti dai leader occidentali come “l’Ucraina deve assolutamente vincere”, è difficile coltivare speranze. Eppure Farina davanti al pubblico di studenti della Lateranense è in un certo senso ottimista. “Nelle prossime settimane è probabile una svolta e se i russi assumeranno qualche posizione di vantaggio, consolidando l’obiettivo minimo del Donbas e Mariupol, potrebbero anche negoziare”.

Il piano di pace italiano è stato impallinato dai russi, ancora prima di leggerlo. Il 25 maggio la portavoce del ministero degli esteri russo lo ha respinto senza neppure conoscerlo nei dettagli. Il ministro degli esteri italiano Luigi Di Maio lo aveva illustrato a grandi linee qualche giorno fa e ne aveva discusso con il segretario generale della Nazioni unite Antonio Guterres.

Più o meno le stesse reazioni, con toni ovviamente diversi, le hanno avute gli ucraini. “Qualsiasi tentativo internazionale di riportare la pace sul territorio ucraino e in Europa è benvenuto”, ha detto il ministro degli Esteri ucraino Kuleba. Il quale però ha aggiunto: “Bene l’iniziativa italiana ma l’integrità territoriale dell’Ucraina va rispettata”. E si vede che questo benedetto piano Kuleba non l’ha letto perché si parla di conservare la sovranità ucraina anche su eventuali territori autonomi.

Ma peggio va con gli alleati (presunti) dell’Italia. La portavoce del governo di Berlino, Christiane Hoffmann, afferma di non conoscerlo ancora e che comunque “spetta all’Ucraina decidere se il piano sia accettabile”. Insomma pure i tedeschi non ne sanno nulla o dicono di non averlo visto. Sembra quasi incredibile – e comunque assai improvvisato – che su un’iniziativa del genere la diplomazia italiana non abbia consultato anche i suoi partner o per lo meno provveduto a recapitare il documento. L’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, è apparso persino piccato: “abbiamo preso nota del piano di pace dell’Italia…ma dal punto di vista europeo tutto questo deve passare dall’immediata cessazione dell’aggressione e dal ritiro senza condizioni dell’esercito russo”.

Una porta in faccia al negoziato. Ma come mai il piano di pace italiano non piace? Forse non è stato “comunicato” nel modo giusto. L’impressione, soprattutto, è che il piano sia stato elaborato all’interno della Farnesina e che la sua esistenza sia stata resa pubblica – in maniera maldestra – senza consultare le parti in conflitto né gli alleati.

L’idea prevalente tra gli esperti comunque è che una tregua sarà possibile quando i due contendenti decideranno di averne abbastanza: i russi sanno di non potere contare su grandi risorse umane e materiali (soldati e armamenti) per occupare una parte del territorio ucraino, gli ucraini dovranno scontrarsi con il principio di realtà, ovvero che una sconfitta di Putin al momento non è possibile o avrebbe costi altissimi e un probabile allargamento del conflitto finora escluso dalla Nato. Oltre a questo si va nell’imprevedibile che qui nessuno si augura.

Il conflitto Russia-Ucraina. Anche i russi ucraini non vogliono Putin, la vera storia della guerra. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Luglio 2022 

Ci sono troppe cose che non sappiamo sull’Ucraina e le radici di questa guerra. Per esempio, nessuno spiega come mai la maggior parte dei cittadini ucraini di lingua madre russa, che parlano scrivono e pensano in russo, anziché accogliere come liberatori i militari della operazione speciale iniziate il 24 Febbraio, insorgano in armi formando gruppi di guerriglia che combattono soldati della loro stessa madrelingua con cui hanno lo stesso rapporto furioso e frontalmente nemico che ebbero i coloni americani con i soldati britannici 200 anni fa. Ricordate che cosa è stato detto?

Che l’Ucraina non esiste, che le aree russofone sono state schiacciate dal governo di Kiev con l’uso dei nazisti del battaglione Azov da cui nascerebbe la comprensibile legittimazione di Mosca a liberarle e ricondurli all’interno della casa madre linguistica e culturale russa. A spiegare come stanno realmente le cose provvede un l’importante e ben documentato saggio di Foreign Affairs, frutto di una lunga analisi sul campo. E allora si scopre qualcosa che quasi tutti ignoriamo. L’Ucraina diventò un paese indipendente nel 1991, una terra distrutta dalle sopraffazioni degli oligarchi connessi con quelli di Mosca: era un paese devastato dalla corruzione, impoverito delle sue risorse, il più desolato d’Europa sotto la dittatura di una marionetta di Putin, Viktor Yanukovic, il quale si comportava esattamente come si comporta oggi il dittatore bielorusso Lukashenko agli ordini di Mosca.

Essendo l’Ucraina un paese confine dell’Europa occidentale i suoi giovani si affezionarono follemente all’Unione europea. Nel 2014, tradendo le promesse fatte agli ucraini, Viktor Yanukovic si presentò in Parlamento e annunciò di avere rigettato la richiesta di entrare nell’Unione Europea e di aver scelto la comunità degli Stati alleati di Mosca. Ciò provocò una lunga rivolta nelle strade di tutta l’Ucraina e non soltanto di Kiev, che dopo mesi di manifestazioni ebbero successo e il dittatore scappò, intercettato da una telecamera a raggi infrarossi mentre sgattaiolava dal suo palazzo per prendere un elicottero che lo portò a Mosca dove ancora si trova. La “rivoluzione arancione” non ebbe dunque come unico scenario piazza Maidan di Kiev, che offrì tuttavia alle telecamere di tutto il mondo i cadaveri di adolescenti morti nelle insanguinate bandiere dell’Unione Europea. La verità più ampia che emerge dall’esame di tutte le cronache è che quelle manifestazioni, conclusesi con la cacciata di Yanukovic, si svolsero in tutte le città dell’Ucraina, comprese quelle di lingua russa, in cui la rivolta contro il dittatore coincise con la rivolta contro il sistema corrotto degli oligarchi ucraini e russi.

Quella rivolta prese poi il nome di Rivoluzione per la Dignità, che dilagò in tutto il Paese e in ogni villaggio, sia di discendenza ucraina che russa. Paradossalmente, Kiev e il suo Presidente non erano il centro di questa rivoluzione che ebbe un carattere diffuso e periferico, popolare e civile, che portò all’elezione di una quantità di giovani sindaci che condividevano, indipendentemente dalla madrelingua, l’ideale di una rigenerazione civile attraverso comitati che appoggiarono dirigenti scelti dal basso, sostenuti da un Consiglio comunale eletto dal popolo. Fu l’inizio della grande pulizia morale del 2014: si cercò di espellere gli oligarchi affaristi e di collegare in maniera irreversibile una generazione di giovani sindaci, consiglieri comunali e patrioti di una patria immaginata sull’idea del modello europeo occidentale. Una spinta diffusa e collettiva che si esprimeva in tutte le lingue alimentando un orgoglio nuovo legato all’idea di una democrazia diffusa non dipendente da Kiev. Forse è questo che i russi non avevano capito, o forse l’avevano capito talmente bene da temerne il contagio sul loro sistema verticistico russo imperiale dittatoriale e centralizzato.

I russi intervennero subito militarmente per conquistare la Crimea, eterno e controverso oggetto del desiderio di Mosca, come dimostra il fatto che già ai tempi di Cavour per la prima volta un distaccamento militare italiano si trovò a combattere contro l’invasione russa. Putin inviò anche un esercito fantasma senza mostrine né uniformi di mercenari che introdussero armi pesanti con cui spinsero per una secessione dei russofoni del Donbass e nelle cosiddette repubbliche autoproclamate. Quell’azione portò a reazioni violentissime da parte del governo di Kiev contro i secessionisti. Ma il punto politico nuovo e sotto i nostri occhi è che i russi – i quali avrebbero dovuto conquistare il Donbass sommersi dai fiori e dai baci si trovano impantanati in una battaglia d’artiglierie, in cui avanzano grazie a un volume di fuoco venti volte superiore a quello ucraino in cui combattono i soldati ucraini di lingua e tradizione russa. I russi quando prendono una città ucraina, per prima cosa chiedono al suo sindaco di schierarsi con loro. Ma i sindaci quasi sempre resistono sicché vengono quasi sempre arrestati, rapiti e in molti casi assassinati. Quando i russi hanno preso Melitopol, la più grande città russofona in cui i militari di Mosca si attendevano di entrare fra due ali di folla plaudente, furono presi a fucilate dai partigiani.

Per far cessare la rivolta, il comando militare russo si rivolse al sindaco russofono Ivan Fedorov affinché si dichiarasse dalla loro parte, ma quello rifiutò e fu rapito sotto gli occhi di una telecamera indiscreta. Scoppiò subito una rivolta popolare che costrinse i russi a rilasciare Fedorov acclamato dalla folla russofona e dichiarato da Zelensky eroe e simbolo della resistenza. Non andò altrettanto bene alla sindaca russofona del villaggio di Motyzhyn poco lontana da Kiev, Olga Sukhenko che fu uccisa con la sua famiglia per essersi rifiutata di cooperare. Registrando questi clamorosi episodi di resistenza antirussa dei russofoni, Zelensky ne ha fatto un ovvio e anche legittimo strumento di propaganda, come prova della fedeltà a Kiev dell’Ucraina russofona. Ma in realtà ciò che stava accadendo (e che ancora accade in queste ore) è che città e villaggi non combattono per “fedeltà a Kiev” ma per fedeltà ai propri rappresentanti eletti – russi o ucraini non importa – secondo un criterio di democrazia di base simile a quella dei soviet del primo bolscevismo.

I russi, Putin in testa, avrebbero commesso l’errore di ritenere che l’appartenenza etnica sarebbe stata l’elemento vincente, mentre l’elemento unificante dei territori abitati da gente priva di alcun legame con l’ex Unione Sovietica, è il desiderio di far parte di una comunità desiderabile come l’Unione Europa di cui noi facciamo parte e senza alcuno slancio affettivo. Se questo fosse il racconto più fedele ai fatti la questione dell’impegno a mantener la resistenza ucraina assumerebbe un valore diverso dal semplice problema se “se mandare altre armi”. I combattenti ucraini se le aspettano, le armi, perché ritengono di aver superato il test, ma sono i primi a rendersi conto del fatto che si trovano in una situazione simile a quella del popolo curdo che, per quanto abbia dimostrato di combattere con valore, è poi stato il primo ad essere sacrificato al “big game” in cui gli ucraini sono appena entrati senza altra via d’uscita se non la resistenza ad oltranza che infastidisce molte coscienze europee.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La guerra Russia-Ucraina. Putin ha fatto un massacro e va cacciato, altro che ricompensa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

Scrivo dagli Stati Uniti così lontani mentalmente non tanto dall’Europa quanto dall’Italia. Anche la percezione della guerra è totalmente diversa, così come lo è negli altri Stati europei per non dire nel Regno Unito. Io ho una mia contiguità con l’America da molti anni – è e resta parte di me, qui vivono due miei figli che metteranno su famiglia – e dunque da un quarto di secolo ho imparato a interpretare la percezione americana attraverso la gente comune, e consumando, se così si può dire, i contenuti di centinaia di catene televisive che non si vedono dall’Europa, più quelle canadesi in inglese e in francese del Québec.

Dibattiti e conferenze si sprecano non sotto forma di truci talk show, ma di discussioni molto formali di esperti e cattedratici davanti all’emiciclo delle aule magne. Dibattiti serissimi e mai noiosi come da noi se ne sente il bisogno. In America, come anche nel resto del mondo occidentale che però include Giappone, Australia e Nuova Zelanda (voci del tutto neglette in Europa e insignificanti in Italia) non esiste, non circola, non ha seguaci la stravagante – per loro americani di sinistra e di destra – idea secondo cui l’aggressione russa all’Ucraina possa alla fine concludersi con un vantaggio dell’aggressore che si porta via dei pezzi di un Paese indipendente e sovrano, secondo l’idea tutta italiana secondo cui è meglio farla finita subito, si arrenda chi è più debole, trionfi chi è più malvagio e “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato ha dato: scurdammoce d’o passato, simme ‘e Napule, paisà”, come si cantava da noi alla fine di una guerra disonorevole e da seppellire nella memoria.

Senza troppo generalizzare, qui tutte le opinioni convergono su quell’ unico punto che è stato il cardine etico del mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale nel 1945 e che recita: d’ora in poi non è più consentito ad alcuno Stato sovrano di invadere un altro stato sovrano per impossessarsi del suo territorio, legalmente riconosciuto dalla comunità internazionale, e farla franca. Qui non si registrano stati emotivi ma prevale la chiarezza condivisa secondo cui non sarebbe cosa buona per il mondo intero consentire a un aggressore che è per di più molte volte recidivo di chiudere un’avventura militare che causa terrificanti danni umani ed economici sia all’Ucraina che a tutti i Paesi che vivono del grano ucraino come l’Egitto, con un vantaggio territoriale e senza pagare i danni ingiustamente causati a una nazione sovrana. È un continuo leitmotiv: Putin non può e non deve essere ricompensato per un atto di pirateria internazionale in Europa.

Anche la percezione del terrore nucleare è molto diversa e non perché sarebbe eventualmente l’Europa a subire i danni devastanti di qualche bomba tattica. Anzi, prevale l’idea che se per disgrazia si dovesse innescare una guerra di questo genere, gli Stati Uniti sarebbero sulla prima linea del fronte e non in una retrovia, perché sono impegnati nella Nato, come gli inglesi e i francesi, a rispondere in maniera simmetrica, e questo dato di fatto rende gli Usa molto realistici. L’obiettivo che tutti chiedono di raggiungere è non tanto la sconfitta della Russia ma la cacciata di Putin, ritenuta possibile e forse imminente dai servizi britannici del MI6 che seguono quel che accade a Mosca con una dedizione di intelligence che non ha l’uguale in alcun altro Paese.

Gli americani, inoltre, e questo appare evidente in alcuni discorsi accademici, stanno facendo un accurato censimento sulle posizioni in Europa particolarmente ostili nei loro confronti e particolarmente vantaggiose per la politica di Putin perché considerano, sia pure con molta prudenza, l’eventualità che la guerra – questa guerra – possa allargarsi al resto dell’Europa dove sono attivi moltissimi snodi affaristici e di pura disinformazione russa. Ma al tempo stesso non ritengono affatto probabile che una tale guerra ci sarà e sono convinti – opinione pubblica, Casa Bianca, Dipartimento di Stato e agenzie di sicurezza, che il conflitto si concluderà su territorio ucraino e che durerà fino al momento in cui Putin avrà esaurito le risorse che sono già limitatissime.

Un altro elemento che si coglie dalle discussioni universitarie del continente americano – e che ha anche un alto valore propagandistico – è la documentazione della incolmabile differenza di qualità delle armi usate: la produzione occidentale – ora si aggiunge quella danese con missili antinave di precisione micidiale che sconvolgono i rapporti di forza sui mari – è dedicata ad armi sempre più precise e che richiedono un minore volume di fuoco rispetto a quelle russe che cercano di colmare il gap di qualità con la quantità. Questa è una ragione per cui l’armata russa pratica come arma militare l’uso del terrore e delle stragi di civili come quella di Bucha, ora accuratamente documentata da filmati pazientemente cercati, trovati e pubblicati da un team di giornalisti del New York Times in cui si vedono gli ostaggi civili bendati costretti a camminare in fila indiana ciascuno con una mano sulla testa di chi precede e avviati al bordo di una fossa comune per essere abbattuti a colpi di mitra.

Anche la condanna all’ergastolo del giovanissimo soldato russo che ha confessato di aver ucciso senza ragione un ciclista settantenne dopo che un superiore gli aveva detto di sparargli, viene presentata come la notizia di un episodio di magnanimità e non di persecuzione: nessuno ha dubbi sul fatto che quell’assassino ragazzino non sconterà mai alcun ergastolo come del resto non è quasi mai accaduto con i criminali di guerra e probabilmente anche quell’assassino finirà negli scambi di prigionieri, marchiato dalla pubblicazione della sua confessione e del suo processo pubblico. Le reti americane pubblicano una quantità enorme di documenti giornalistici, interviste, analisi, ma a nessuno salta in mente di porre come questione reale, oltre che morale, da che parte stiano la ragione e il torto. Semmai vengono trasmessi ampi brani dei notiziari e dei talk show russi come ulteriore prova del fatto che il regime di Putin ha scelto di trasformarsi in una dittatura imperiale e ha fatto molto scandalo un lungo documentario sui bambini soldati, avviati all’uso delle armi fin dalle elementari, come i Balilla di Mussolini o i bambini-soldato della Hitlerjunge negli anni Trenta.

Oggi è evidente l’opinione pubblica prevalente, sia a destra con Fox News che a sinistra con la Cnn che è semplicemente doveroso fornire agi aggrediti tutto ciò che è utile per ricacciare gli aggressori oltre i confini da cui sono entrati, prospettiva che poteva sembrare pazzesca all’inizio della guerra ma che oggi si dimostra ragionevolmente possibile perché tutti i Paesi occidentali inviano non soltanto le armi che condividono nella Nato, ma anche quelle sviluppate autonomamente come i micidiali droni suicidi di Erdogan e i nuovi missili antinave

Come se non bastasse, gli occidentali riforniscono gli ucraini – e lo si vede nei lunghi documentari sulle battaglie aeree e la qualità della contraerea ucraina – di armi russe perfezionate in Occidente, fra cui caccia Mig e Sukhoi con cui i piloti ucraini si sentono a loro agio perché i potenti caccia americani F35 richiederebbero un lunghissimo addestramento per il quale non c’è più tempo.

Tutte queste notizie e materiali documentari abbondano nelle televisioni, sommerse dai materiali umani della desolazione e della disperazione dei civili ucraini. Ma alle notizie ucraine si aggiungono quelle del confronto con la Cina che è considerato il “vero” teatro di una possibile guerra perché gli Stati Uniti non sono disposti – insieme a Giappone, Australia, Vietnam, Indonesia e Taiwan – a consentire a Pechino di impossessarsi del cosiddetto Mare Cinese del Sud, che non è affatto cinese ma è acqua internazionale, dove passa l’ottanta per cento del commercio mondiale marittimo.

La chiave di volta della libertà di traffico sta nell’indipendenza di fatto, anche se non di diritto, di Taiwan e gli americani hanno visto il loro presidente (in calo precipitoso nei sondaggi) rispondere con estrema malavoglia alla domanda di un giornalista dicendo a mezza voce quasi bisbigliando che l’America non manderà truppe combattenti in caso di attacco militare cinese, ma che l’America non permetterà che la Cina faccia a Taiwan ciò che la Russia ha tentato di fare all’Ucraina.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Francesco Battistini e Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2022.

Il primo di marzo, una settimana dopo l’inizio dell’invasione russa, Volodymyr Zelensky s’è collegato dal suo bunker di Kiev col Parlamento europeo, riunito in sessione straordinaria. È stata una giornata a suo modo storica: poche ore prima il presidente ucraino aveva firmato la richiesta d’aderire all’Unione Europea. 

E Strasburgo – con 637 sì, 13 no e 26 astenuti – in quella data ha esortato i 27 Paesi dell’Unione a concedere a Kiev «lo status di candidato membro dell’Ue». Tutti nell’aula si sono trovati d’accordo. Dopo tre mesi di trincea contro l’invasore Putin, che non vuole l’Ucraina nella Nato e neppure in Europa, Kiev ha ormai acquisito il diritto d’entrare nell’Unione.

È il caso di ricordare che, nel 2013, il governo filorusso di Viktor Yanukovich rifiutò d’approvare un accordo d’associazione economica all’Ue – che impegnava l’Ucraina a fare riforme in cambio d’assistenza finanziaria e d’aperture sul mercato europeo – e bastò quel no a scatenare la rivolta di Maidan, la fuga di Yanukovich in Russia, l’annessione della Crimea da parte di Putin, l’inizio della guerra nel Donbass. 

Quell’accordo (richiesto dall’Ucraina e rimangiato da Yanukovich) approvato dal governo filo-occidentale di Porosenko è poi entrato in vigore nel 2017. Ed è una delle ragioni che hanno spinto il Cremlino all’invasione.

La richiesta di scorciatoia

Zelensky ha chiesto al Parlamento di Strasburgo anche una «nuova procedura speciale», cioè una scorciatoia per l’ingresso nell’Ue. Un’eccezione che nei trattati costitutivi dell’Europa, quello di Roma del 1958 e quello di Maastricht del 1993, non è mai esistita. «È una cosa giusta e ce la meritiamo» ha spiegato il presidente. Non si discutono i meriti.

Ma quant’è reale la possibilità che l’Ucraina diventi, in tempi brevi, un membro dell’Europa? E com’è possibile che possa prendere scorciatoie un Paese attualmente in guerra, che non ha il controllo del suo territorio e dov’è impossibile stabilire in via definitiva se la Crimea sia Ucraina oppure no, o se il Donbass sia una regione autonoma? 

Intanto fiutando la possibilità d’una procedura accelerata, alla richiesta di Zelensky si sono accodate anche la Georgia (il 3 marzo) e la Moldova (il 5 maggio). Non basta però bussare, per essere accolti.

I tempi di ingresso nella Ue

Il passaggio successivo è dunque quello di ottenere lo status di candidato. Il Trattato di Maastricht, all’articolo 2, prevede che alla base dell’accesso ci sia la condivisione dei «valori comuni».

A valutare è la Commissione, che normalmente impiega anche un anno e mezzo. La Bosnia ha presentato la domanda di adesione nel 2016, ma ancora oggi non ha ottenuto lo status di candidato.

La commissaria Ursula von der Leyen ha detto però che gli ucraini «ci appartengono e condividono i nostri valori», per questo si è impegnata a pronunciarsi entro giugno. Ma dopo la Commissione, a esprimersi all’unanimità dev’essere il Consiglio europeo che, a sua volta, informa i parlamenti nazionali dei 27 Paesi membri.

A quel punto è il Parlamento europeo, con un voto a maggioranza, a conferire lo status di candidato. Che ancora non significa l’ingresso automatico in Europa: la Turchia è candidata dal 1999, ma è ferma là, perché l’Ue ha preso tempo e perché il presidente Erdogan – tra violazioni dei diritti umani e islamizzazione di Stato – non ha mai fatto un solo passo per andare verso i requisiti richiesti. Entrare nell’Ue richiede una procedura lunghissima. Vediamo.

I negoziati

Ottenuto lo status di candidato, seguono i negoziati su 35 materie, poiché le leggi del Paese candidato devono armonizzarsi a quelle comunitarie. Dal fisco alla giustizia, istruzione, sanità, sistema bancario, politiche energetiche e agricole, dogane, trasporti, diritti umani, ambiente, regole sugli alimenti e sulla veterinaria.

Quando tutta la trafila e le verifiche sono terminate, il trattato d’adesione dev’essere approvato all’unanimità dal Consiglio Ue e a maggioranza dal Parlamento europeo. Infine, sul via libera definitivo all’ingresso in Europa, si devono pronunciare i Parlamenti nazionali dei 27 Stati membri che sono chiamati a ratificare con le solenni procedure richieste per qualsiasi trattato internazionale.

Questi negoziati durano anni perché, sui 35 capitoli, il Paese candidato deve spesso confrontarsi in trattative bilaterali coi singoli Stati membri, quindi riferire alla Commissione europea che, di volta in volta, fissa i parametri per ogni capitolo e le date per il raggiungimento degli obbiettivi in ciascuna delle 35 materie. Alla Croazia per esempio, che dalle guerre balcaniche degli anni Novanta era uscita da un bel pezzo, è servito un intero decennio. 

I casi Albania e Macedonia

La via dell’allargamento dell’Unione europea è a volte così tortuosa che sono le stesse istituzioni comunitarie a stupirsene: il 22 aprile la commissione Esteri del Parlamento europeo s’è «rammaricata» perché l’Albania e la Macedonia del Nord siano ancora così lontane dal traguardo.

Le loro risposte al questionario per il riconoscimento dello status di membro, che Zelensky svela d’avere «completato in poco più d’una settimana», hanno richiesto anni e han riempito decine di volumi: da Tirana e da Skopje ci vollero diverse persone per trasportare tutto quel materiale a Bruxelles. «Qualche giorno fa – racconta il presidente della commissione Esteri della Camera, Piero Fassino – l’ambasciatore macedone mi ha chiesto: scusate, ma per entrare in Europa dobbiamo farci invadere anche noi da Putin?». 

Chi spinge e chi frena

Sulla procedura rapida per dare all’Ucraina lo status di candidato tutti sembrano d’accordo. «Anche a costo di lavorare 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana» dice Ursula von der Leyen. Ma le cose cambiano quando s’ipotizzano le tappe successive, quelle dei negoziati. Ed è il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ad ammettere che sulla faccenda «ci sono opinioni e sensibilità diverse. A favore di un ingresso accelerato dell’Ucraina spingono l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Slovenia. Protestano apertamente quei Paesi che da anni stanno negoziando ma non sono ancora riusciti ad entrare: la Macedonia del Nord ha ottenuto lo status nel 2005, il Montenegro nel 2010, la Serbia nel 2012 e l’Albania nel 2014.

Sono più invece freddi invece sulla reale possibilità di ingresso dell’Ucraina in tempi rapidi la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e la Francia. Il presidente francese Macron ha ricordato che «dobbiamo essere chiari: anche se concediamo domani lo status di candidato, sappiamo tutti perfettamente che il processo durerà decenni». 

Le ragioni della prudenza

Prima di tutto si deve arrivare alla pace e l’Ucraina dovrà definire la sicurezza dei suoi confini. Dovranno seguire gli aiuti per una ricostruzione che la Commissione ha valutato in 500 miliardi di dollari. 

C’è una risoluzione del Parlamento europeo che riguarda l’enorme gravità della corruzione nelle istituzioni ucraine. C’è il capitolo dati personali: l’Ucraina cede banche dati a Paesi che non hanno una legislazione sulla privacy.

E oggi è fra i pochi Paesi al mondo dove la legge permette l’utero in affitto a fini esclusivamente commerciali. Entrando nell’Unione si trascinerebbe dietro Georgia e Moldova e l’esperienza già fatta dell’allargamento ad est, soprattutto con l’Ungheria e la Polonia, dimostra la difficile gestione della macchina burocratica e politica europea. Ma soprattutto, con i suoi 44 milioni di abitanti, diventerebbe per dimensioni e peso il quinto Paese dell’Ue. 

E, di fronte a una nuova aggressione russa, avremmo l’obbligo di «aiuto e assistenza» che c’impone l’articolo 42 del Trattato europeo. Però l’Ue un esercito non ce l’ha. Insomma, oltre le dichiarazioni e le buone intenzioni, la strada da fare è lunga. 

Fabio Govoni per ANSA l'1 maggio 2022.  

Quando Adolf Hitler lo ringraziò personalmente e si congedò da lui e dagli altri suoi stretti collaboratori, "gli tremavano le mani. Mi apparve subito chiaro che aveva scelto con decisione di suicidarsi" e confessò che "non ce la faceva più": questa la drammatica testimonianza diretta di Hans Baur, il pilota personale del Führer, che trascorse con lui gli ultimi giorni nel bunker sotto la cancelleria di Berlino, con le truppe russe ormai a poche centinaia di metri di distanza, prima del suicidio, la sera del 30 aprile del 1945.

L'autobiografia manoscritta di Baur e il verbale del suo interrogatorio in Russia nel 1945 da parte dell'Nkvd, predecessore del Kgb, che lo aveva fatto prigioniero, sono stati infatti pubblicati in Russia dopo essere rimasti quasi 77 anni negli scaffali del servizio segreto di Mosca. Inediti che aggiungono frammenti di testimonianza diretta del clima di quelle ultime ore, sospeso fra deliri di rivincita e il muro della morte certa, nella luce tetra di quei claustrofobici spazi. 

Per Hitler e i suoi, Baur mantenne pronta una piccola squadra di aerei, "nel caso avesse cambiato idea" e avesse acconsentito di provare a mettersi in salvo. Ma decise invece di restare a Berlino. "Fu solo il 30 aprile nel pomeriggio che mi chiamò, insieme al mio aiutante, il colonnello Betz", testimonia Baur nel documento, che contiene anche le sue foto segnaletiche. "Ci incontrammo nel corridoio e mi a condusse nella sua stanza. Mi strinse la mano e mi disse: "Baur, voglio dirle addio e ringraziarla per tutti gli anni di fedele servizio. Ora cerchi di andarsene da qui".

Il Führer, "sembrava molto vecchio e smunto. Gli tremavano le mani". Disse al suo pilota personale che come segno di riconoscenza voleva regalargli il ritratto di Federico il Grande di Prussia dipinto da Rembrandt, che era appeso nella sua stanza. Baur disse ai servizi russi di aver cercato di convincere il Führer a non uccidersi, perché "tutto sarebbe poi crollato nel giro di poche ore". Ma fu inutile: "I miei soldati non possono più resistere e non lo faranno più. Anch'io non ce la faccio più", gli confessò Hoitler, in preda a un risentimento che risparmiava veramente pochi.

Sulla sua Lapide - disse Baur, volle che si scrivesse "Tradito dai suoi generali". Secondo Hitler, i russi erano già a Potsdamer Platz e avevano l'ordine di catturarlo vivo, magari iniettando nel bunker gas sonnifero. Non solo non voleva essere catturato, ma neanche che il suo cadavere fosse esibito come un trofeo, magari appeso a testa in giù come nel truce rituale riservato al suo sodale Benito Mussolini in Piazzale Loreto solo un paio di giorni prima. 

Morì in preda a una lucida disperazione ingoiando una capsula di cianuro e sparandosi in testa durante l'agonia insieme alla compagna Eva Braun, sposata il giorno prima. I loro corpi furono bruciati dalle Ss nel giardino della Cancelleria, dove furono ritrovati dai russi il 13 maggio. L'addio avvenne alle 18. Poi Baur e il suo collaboratore Betz si allontanarono per disfarsi di alcuni documenti e preparare una fuga.

Tornati per un attimo nel bunker alle 21, videro che nella stanza privata di Hitler aleggiava il fumo stagnante degli spari. I cadaveri non c'erano più. Baur decollò il 2 maggio da Berlino diretto verso le linee degli alleati occidentali, ma fu abbattuto dalla contraerea russa e ferito a una gamba, che i medici russi gli amputarono. Fu condannato nel 1950 a 25 anni di carcere, dei quali scontò solo cinque. Tornò nell'allora Germania occidentale nel 1955 e morì nel 1993.

Sui fronti opposti. La trattativa segreta tra generali russi e ucraini per evitare la guerra totale. L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

Linkiesta

Repubblica rivela l’esistenza di contatti tra gli ufficiali di Kiev e Mosca, che fino al 1991 hanno condiviso l’esperienza dell’Accademia militare. Il primo banco di prova sarebbe lo sblocco del grano fermo a Odessa. Si studia come scongiurare l’allargamento del conflitto.

«La trattativa segreta». Così titola la prima pagina di Repubblica del 13 maggio. Il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, tramite il corrispondente da Bruxelles, riporta notizia di un dialogo esistente tra i generali russi e ucraini per evitare l’escalation del conflitto e la guerra totale. Si tratta di un linea di comunicazione che in maniera intermittente si apre tra alti ufficiali e che ad oggi rappresenta un filo sottile di speranza per la pace.

I generali da un fronte all’altro sono uniti da un passato in comune e dalla condivisione dell’esperienza formativa dell’Accademia. Fino al 1991, del resto, le scuole di guerra erano uniche, per russi e ucraini. Quell’esperienza in alcuni casi aveva creato delle amicizie. E quei ricordi adesso rappresentano una chiave per aprire e mantenere aperto un canale che è in grado di trasmettere messaggi e intavolare trattative. Da Mosca a Washington attraverso Kiev.

Anche a Bruxelles, nel quartier generale della Nato, allora, hanno iniziato soppesare l’efficacia di questo canale – scrive Repubblica. È evidente che non si tratta di una modalità formale. Ma può essere utile per cogliere segnali o per risolvere questioni neutrali rispetto alla guerra.

Ad esempio, un primo banco di prova potrebbe essere l’enorme quantità di grano bloccato a Odessa. Porre le condizioni perché quelle derrate possano lasciare il porto o la ferrovia è infatti possibile solo se c’è un’intesa tra militari. Una sorta di tregua “di scopo” per far partire esclusivamente le riserve alimentari.

L’importanza di questa “linea di comunicazione” assume rilievo crescente perché il quadro bellico descritto da tutti i rapporti dell’Alleanza Atlantica viene definito di “stallo”. Da giorni, secondo gli ultimi resoconti, nessuna delle parti – a cominciare dalle truppe di Mosca – riesce a compiere sensibili passi avanti. E più passano i giorni, più cresce la possibilità di un evento imprevisto e involontario. Nei giorni scorsi, ad esempio, è stato sfiorato più di una volta lo scontro tra jet ai confini tra la Russia e i Paesi della Nato, in particolare in Romania. Basta una gestione non accurata delle provocazioni e tutto può precipitare.

Dopo la formale richiesta di adesione alla Nato, certamente la Finlandia vive una situazione di allarme. Ma soprattutto i Paesi Baltici: Lituania, Estonia e Lettonia. Anche a causa della vicina enclave russa di Kaliningrad. Sotto pressione, poi, ci sarebbe anche l’Italia. In particolare per le importanti basi Nato sul nostro territorio.

Quella linea di contatto tra alti ufficiali, quindi, può rivelarsi una delle contromisure più efficienti per allontanare lo spettro di un conflitto globale e, come ha minacciato Dmitry Medvedev, vice presidente del Consiglio di sicurezza russo, di «una guerra nucleare totale».

Fra.Man per “la Stampa” il 10 maggio 2022.

Konstantin Nemichev, ex combattente del battaglione Azov è oggi a capo dell'unità Kraken, affiliato al partito di estrema destra del National Corps di cui è esponente a Kharkiv. È stata la sua unità militare a liberare paesi e villaggi decisivi a nord di Kharkiv nella controffensiva in atto. È stato lui a dichiarare liberata la cittadina di Ruska Luzova, e sono della Kraken i veicoli incontrati ieri mattina a Tsirkuny, nord di Kharkiv, pochi giorni dopo la liberazione dell'area. 

Il partito di cui è esponente, il National Corps, è stato fondato nel 2016 da veterani del Battaglione Azov e membri del Corpo Civile Azov, un'organizzazione civile non governativa affiliata al Battaglione Azov. Oggi è guidato da Andriy Biletsky. Nemichev ha accettato di incontrarci in piazza della Libertà, a Kharkiv, nella sede dell'amministrazione locale, distrutta dall'attacco russo del primo marzo. 

«Siamo qui nel palazzo dell'amministrazione della regione di Kharkiv ed è qui che abbiamo cominciato a organizzare e dirigere la difesa», dice, prima di cominciare la breve intervista che ci concede.

Può darci dettagli sulla controffensiva gestita dalla sua unità, la Kraken?

«La controffensiva è in atto su tutto il fronte della regione di Kharkiv e una delle zone di attacco, quella nord orientale, è gestita dalla nostra unità. L'ultima operazione è stata la liberazione di Ruska Lozova. Noi ci occupiamo delle attività di intelligence, conosciamo le posizioni dei russi, sappiamo da quanti soldati sono composti i loro battaglioni, sappiamo dove sono. Il primo passo è colpirli con l'artiglieria, e poi subentrare con la fanteria. Così agiamo su due fianchi, per circondarli e pulire il territorio. A volte non è facile, le posizioni russe sono ben organizzate e da tempo, usare l'artiglieria è più facile, ma la vera prova è la fanteria. Gli uomini a terra».

Avete ricevuto le armi che il Presidente Zelenskyy ha chiesto all'Occidente?

«Le armi donate dall'Occidente sono su tutto il fronte di Kharkiv. La maggior parte è già in Donbass. Anche noi abbiamo ricevuto nuove armi ma sono state per lo più spostate verso Izyum. Le armi sono importanti, ma rafforziamo la richiesta di chiudere i cieli. E avere più lancia missili. Ne abbiamo, ne abbiamo ricevuti. Riteniamo non siano abbastanza. Ci serve più artiglieria, abbiamo bisogno di Grad e Uragan».

Esiste una via diplomatica alla fine di questo conflitto, o pensa che l'Ucraina possa affrontare questa guerra solo sul piano militare?

«Il passato ci ha dimostrato che la controparte è inaffidabile. Abbiamo esperienza di accordi precedenti che dimostrano che le negoziazioni con la Russia non funzionano. Se pure ci accordassimo su qualcosa, in un paio di mesi le parole sarebbero vane.

Quindi dobbiamo prevalere sul regime di Putin, questa è la nostra posizione». 

Quali sono le condizioni per cui la sua unità considererebbe vinta la guerra?

«L'Ucraina deve avere indietro tutti i suoi territori, tutto il Donbass, e la Crimea. È fuori discussione cedere un centimetro di terra che ci appartiene. Dobbiamo, e sottolineo, dobbiamo riprendere tutto. Ovviamente esiste un tempo per la negoziazione e uno per la guerra. Ora dobbiamo dimostrare la nostra forza sul campo e poi sederci al tavolo delle trattative. La vittoria arriverà quando sconfiggeremo il regime di Putin. C'è una terza opzione: distruggere il regime dall'interno. Sgretolare la Russia dal suo interno».

Non la spaventa l'orizzonte di un conflitto lungo o congelato? Lo dico per la popolazione civile.

«La gente sta dimostrando di voler combattere e ce lo ha dimostrato anche prima che l'invasione iniziasse. Quando sei mesi fa i russi hanno portato le loro truppe sui confini ucraini, noi abbiamo cominciato a insegnare ai civili come usare le armi. Io e altri veterani come me abbiamo formato altre persone e gli abbiamo trasferito la nostra esperienza. Così, il 24 febbraio, abbiamo mobilitato mille persone in tre ore». 

Il suo partito, National Corps, sostiene la rottura dei legami diplomatici ed economici con la Russia, si oppone all'ingresso dell'Ucraina nell'Unione Europea ed è contrario a promuovere legami più stretti con la Nato, sono ancora queste le vostre posizioni?

«Le rispondo così, credo che se vinceremo questa guerra dimostreremo di aver sconfitto il regime russo e non ci sarà quindi più nessun pericolo militare per l'Ucraina».

Quindi non avete bisogno dell'ingresso nella Nato?

«Quindi dobbiamo sconfiggere il regime russo e la minaccia militare che rappresenta. Se lo sconfiggiamo non dovremo difenderci più». 

E invece della Nato propone la formazione di un superstato, sbaglio?

«Una nuova unione che cominci a organizzarsi, penso all'Estonia, alla Lituania, alla Lettonia e guardo alla Gran Bretagna». 

Finisse domani la guerra, come vede il suo futuro politico e il futuro del paese? «Supereremo questa grande prova. E certo, una volta vinta, useremo questa opportunità per costruire un paese forte».

"Accordo Mosca-Kiev a marzo. Ma dopo Bucha è saltato tutto". Gian Micalessin il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'ex deputato filorusso doveva essere il dopo-Zelensky: "Ero a Kiev il 24 febbraio. A un passo dal cessate il fuoco".

«Se volete chiedermi come finirà la guerra avete sbagliato posto. Dovete chiederlo a Zelensky. Lui poteva sia impedirne l'inizio, sia fermarla. Ma non gli hanno permesso di fare né l'una, né l'altra cosa. Perché l'Ucraina è una nazione a sovranità limitata». Oleg Tsaryov ti guarda e sorride sornione mentre apre il cancello dell'antica dimora costruita sul crinale di una collina di Yalta. Un tempo era una casa di pietra costruita tra vigne e frutteti. Ora la piscina e il prato perfettamente rasato l'hanno trasformata nel buen retiro di questo ex deputato ucraino costretto all'esilio per le sue posizioni filo-russe. Un ex-deputato che il 24 febbraio scorso non ha esitato a seguire l'avanzata russa verso Kiev assieme ad un gruppo di fedelissimi in armi. Lui non lo nega.«Ho passato un mese intorno alla capitale. Ho visto la guerra e non la auguro a nessuno. Ma ho anche capito che la guerra poteva essere fermata».

Secondo l'intelligence Usa i russi erano pronti a nominarla presidente.

«Se lo dicono loro...».

Smentisce?

«Ho fatto politica per vent'anni e avrei preferito tornare a Kiev in altro modo, ma non ci hanno lasciato altre possibilità. E Putin non ha avuto alternative».

Cosa vuol dire?

«Nel 2014 dopo il colpo di stato voluto da Washington e la fuga di Viktor Janukovych mi ero candidato presidente, ma prima hanno tentato di linciarmi e poi m'hanno espulso dal Parlamento. A Kiev non sarei sopravvissuto. Così ho scelto l'esilio, ho sostenuto la nascita delle repubbliche di Lugansk e Donetsk e ho accettato la carica di presidente del Parlamento di Novorossya».

Per Kiev il progetto Novorossiya è il prologo di questa guerra.

«Mi sono dimesso nel 2015 quando Putin ha deciso che la soluzione del problema ucraino passava attraverso gli accordi di Minsk firmati dal presidente Poroshenko e accettati da Zelensky. Se Zelensky li avesse attuati non ci sarebbe la guerra, ma un'Ucraina neutrale con statuto federale e l'autonomia di Donetsk e Luhansk».

La sua spedizione a Kiev con i russi è finita male. Pensavate di vincere in tre giorni, invece...

«Preferisco non parlarne ma a sud e all'est non è andata così. Non a caso il governo Zelensky ha scelto i negoziati ed ha posto le sue richieste. La Russia si è ritirata dal nord dell'Ucraina perchè era pronta ad accettarle».

Vuol dire che a fine marzo si era ad un passo dal cessate il fuoco?

«Kiev chiedeva alla Russia di ritirarsi dagli oblast settentrionali di Kiev, Sumy e Chernihiv e da tutto il sud, tranne che dal Donbass e dalla Crimea. In cambio il governo Zelensky avrebbe accettato uno status neutrale, rinunciato alla presenza di armi nucleari sul proprio territorio e riconosciuto sia l'annessione della Crimea che delle repubbliche del Donbass».

Che prove ha?

«L'accordo era già stato annunciato dal capo negoziatore russo Vladimir Medinskij con la benedizione di Putin. Mosca aveva accettato le proposte dell'Ucraina ed era pronta a rispettarle».

E perché sarebbe saltato tutto?

«Perché l'Ucraina non ha più alcuna sovranità nazionale. Viene usata e sacrificata da Washington e Londra nel nome della guerra alla Russia e quindi non può trattare la pace».

Come fa a dirlo?

«Pensi alle date. Il ritiro russo dal nord si è concluso il 31 marzo, tre giorni dopo è montato il caso di Bucha. I servizi segreti inglesi sono i veri registi delle mosse di Kiev e sono stati bravissimi, anche in quel caso, a costringere Zelensky a rimangiarsi le intese».

Ha le prove per dimostrarlo?

«Le prove stanno Kiev».

Così è troppo facile.

«Fra i politici di Kiev ho ancora tantissimi amici e conoscenti e so che oggi nessuno di loro può decidere i propri destini. Le decisioni vengono prese altrove con il solo scopo di fare la guerra alla Russia. Questo non basterà a sconfiggerla, ma di certo costerà tantissime altre vite russe ed ucraine. E questo per me è un vero dolore».

Stoltenberg: «La Nato non accetterà mai l’annessione illegale della Crimea». Il segretario generale della Nato interviene sull'offerta di pace di Zelensky. Il Dubbio il 7 maggio 2022.

L’Alleanza del Nord Atlantico presume che la guerra della Russia contro l’Ucraina non finirà rapidamente, ma l’Ucraina vincerà e la Nato le darà una mano. A sostenerlo il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, in un’intervista al quotidiano tedesco Welt.

Secondo Stoltenberg, la Nato  è determinata ad aiutare l’Ucraina «anche se ci vorranno mesi o anni». Allo stesso tempo, vuole «fare di tutto» affinché il conflitto non si allarghi. Nei prossimi giorni, secondo Stoltenberg, «possiamo aspettarci e dobbiamo prepararci per l’offensiva russa e una brutalità ancora maggiore, difficoltà ancora maggiori e una distruzione ancora maggiore di infrastrutture critiche e aree residenziali». L’attuale offensiva russa nell’Ucraina orientale, secondo il numero uno della Nato, non avrebbe ancora preso slancio, poiché le truppe ucraine si stanno difendendo.

«Vediamo un netto contrasto tra le forze russe e ucraine: le truppe ucraine sono coraggiose e sanno per cosa stanno combattendo. Le truppe russe soffrono per la scarsa leadership, il morale basso e molti non sanno per cosa stanno combattendo», ha affermato il segretario generale, il cui scopo principale è evitare che la guerra si allarghi oltre il confine ucraino e ridurre al minimo il rischio attraverso la deterrenza e la difesa collettiva.

Secondo il suo leader, la Nato «non è consapevolmente una parte in guerra». Allo stesso tempo, l’Alleanza sta aumentando le truppe e l’equipaggiamento sul suo fianco orientale per proteggere i suoi membri. A suo avviso, la Germania gioca un ruolo di primo piano.

Commentando le minacce nucleari di Mosca, Stoltenberg ha dichiarato: «Sentiamo la minacciosa retorica nucleare della leadership russa. Questo è irresponsabile e sconsiderato. La guerra nucleare non può essere vinta e non dovrebbe mai essere combattuta, anche in Russia». Stoltenberg ha sottolineato che dall’inizio della guerra la Nato non ha notato alcun cambiamento nella strategia nucleare russa. Pertanto, non ci sono indicazioni di un più alto livello di prontezza dell’arsenale nucleare russo.

Stoltenberg ha sottolineato che «l’Ucraina deve vincere questa guerra perché sta difendendo il suo paese. I membri della Nato non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea. Ci siamo sempre opposti al controllo russo su parti del Donbass nell’Ucraina orientale». Per quanto riguarda gli accordi di pace, la decisione deve essere presa dalla stessa Ucraina, ha concluso il leader dell’Alleanza. 

Italia Today. Dalla Nato a Macron, il metaverso dell’informazione in cui i virgolettati inventati di oggi rafforzano le balle di ieri. Francesco Cundari su l'Inkiesta l'11 maggio 2022.

Come in tanta pessima cronaca giudiziaria, non è mai l’esattezza della contestazione, ma il cumulo e la gravità delle accuse, a convincere il lettore.

Si tratti di giornalista professionista, opinionista occasionale o semplice twittatore a tempo perso, la vita del commentatore di cose politiche, in Italia, non è mai stata così dura. Ieri mattina non si era ancora spenta l’eco di tutte le voci che da due giorni ripetevano la bufala della generosa offerta di Zelensky sulla Crimea brutalmente stoppata da Stoltenberg – vicenda in cui non uno dei personaggi coinvolti aveva effettivamente detto quanto gli veniva attribuito in Italia – che il copione si ripeteva pari pari con le dichiarazioni di Macron al Parlamento europeo.

E così, senza soluzione di continuità, passavamo dai titoli sulla «Nato contro Zelensky» e addirittura su Stoltenberg che «zittisce Kiev» (per non parlare del surreale «Nato contro Zelensky: “La Crimea è nostra”», dove sembrava quasi che la penisola fosse stata annessa agli Stati Uniti), a un’analoga sfilza di titoli fantapolitici sul presidente francese, dal secco «Macron: “Non si ottiene la pace umiliando Mosca”» al più estremo «Macron stoppa “l’atlantista ad oltranza” Draghi e avverte Biden: “Non possiamo umiliare Putin”». Affermazioni mai pronunciate dal presidente francese che imprimevano poi, come sempre accade in questi casi, un ulteriore giro alla giostra delle reazioni, per forza di cosa altrettanto infondate, con Salvini a lodare Macron per le sue «parole sagge» e con i sostenitori di Giuseppe Conte a inorgoglirsi su twitter perché il loro beniamino «lo dice da un mese».

Qui c’è il testo integrale dell’intervento di Emmanuel Macron davanti al Parlamento europeo. Per i più pigri, ecco il passaggio incriminato: «Spetta all’Ucraina definire le condizioni per i negoziati con la Russia. Il nostro dovere è di stare al suo fianco per ottenere un cessate il fuoco e poi costruire la pace. Allora saremo lì per ricostruire l’Ucraina come europei, sempre. Perché, infine, quando la pace tornerà sul suolo europeo, dovremo costruire nuovi equilibri di sicurezza e non dovremo mai cedere alla tentazione dell’umiliazione o allo spirito di vendetta, perché hanno già, in passato, devastato i sentieri della pace» (Per i più sospettosi, qui c’è anche il video).

Come si vede, Macron non ha detto da nessuna parte che per ottenere la pace bisogna evitare di umiliare la Russia; ha detto che, una volta ottenuta la pace, bisognerà evitare di cedere alla tentazione delle vendette e delle umiliazioni, che è discorso ben diverso.

La prima versione, però, si adattava benissimo alla delirante narrazione del giorno prima, perché sembrava proprio una risposta alle affermazioni di Stoltenberg. In altre parole, un’affermazione che Macron non aveva fatto rispondeva a una dichiarazione che Stoltenberg non aveva pronunciato, che a sua volta rispondeva a un’offerta che Zelensky non aveva mai avanzato. Come vogliamo chiamare tutto questo: metaverso? Ma quello che conta è che ciascuna di queste fanta-risposte confermava la fanta-dichiarazione precedente, rafforzando il quadro d’insieme, proprio come accade in tanta pessima cronaca giudiziaria, in cui non è mai l’esattezza della contestazione, ma il cumulo e la gravità delle accuse, a confermare nel lettore la tesi del pubblico ministero (che non per niente è spesso la principale fonte del cronista).

In questo caso la tesi di fondo era evidentemente quella che da settimane sentiamo ripetere, più o meno esplicitamente, da politici, giornalisti e opinionisti dei più diversi orientamenti: i veri responsabili della guerra non sarebbero i russi, ma gli americani. È la tesi che i più raffinati definiscono della «guerra per procura», secondo cui gli ucraini avrebbero sostanzialmente il ruolo delle marionette nelle mani della Nato. Teoria smentita dal fatto che, come tutti sanno, gli americani erano i primi a non credere alla resistenza ucraina, nella convinzione che i russi avrebbero li avrebbero sbaragliati in un attimo, e proprio per questo Biden aveva offerto a Zelensky un aiuto per scappare. È stato Zelensky a cambiare le carte sul tavolo della politica internazionale, rispondendo che voleva munizioni, non un passaggio. Sono stati gli ucraini, con una resistenza su cui all’inizio nessuno aveva scommesso un centesimo, a cambiare la situazione sul campo e a far ricredere gli stessi americani.

Eppure la storia secondo cui sarebbe tutto un piano degli Stati Uniti e una manovra della Nato, in cui al massimo Putin avrebbe avuto la colpa di cadere (povero caro, è tanto ingenuo), c’è poco da fare, sui mezzi di comunicazione italiani sembra essere più forte di ogni smentita. Come dimostra tutta l’incredibile concatenazione di fregnacce che ci hanno travolto in questi giorni.

Ricapitolando, venerdì 6 maggio, intervistato dalla Chatham House, Zelensky dice che «la condizione minima» per negoziare, banalmente, è il ritorno alla situazione precedente l’invasione del 24 febbraio: «I russi devono rientrare lungo le linee di contatto e ritirare le loro truppe. Solo in quel caso ritorneremo a discutere di pace normalmente». Dunque, siccome l’annessione della Crimea è avvenuta diversi anni prima dello scorso 24 febbraio, in Italia – e soltanto in Italia – si comincia a discutere della presunta offerta della Crimea da parte di Zelensky, offerta che non per caso nessun giornale del mondo, fuori dall’Italia, ha mai menzionato.

Per la stessa ragione nessun giornale del mondo, al di fuori dell’Italia, ha ripreso la notizia dello stop che alla non-offerta sarebbe arrivato da Jens Stoltenberg, nella sua intervista al giornale tedesco Welt, dove il segretario generale della Nato si limitava a ripetere per l’ennesima volta che «i membri della Nato non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea», aggiungendo peraltro: «In ultima analisi la decisione su come disegnare la pace spetta al governo e al popolo sovrano dell’Ucraina. Questo non lo possiamo decidere noi». Dunque, anche qui, esattamente il contrario di quanto gli veniva attribuito in Italia.

Eppure, per come funzionano le cose in Italia, c’è poco da fare: ormai la slavina è partita. Non a caso, da settimane non c’è più una dichiarazione di Conte o di Salvini che non contenga una qualche allusione a quelli che in occidente non vorrebbero la pace, fino al grottesco rovesciamento dei ruoli operato ieri dal leader leghista, secondo il quale «da più dichiarazioni si intuisce che entrambe le parti in guerra vogliano farla finita» (nel momento in cui una delle due parti continua a bombardare l’altra, si badi) e il problema sarebbe «qualcuno dall’altra parte del mondo» che «vuole consumare su campi altrui propri obiettivi geopolitici». Che è esattamente quello che sta facendo la Russia in Italia, semmai, grazie a un piccolo numero di agenti, a un discreto numero di collaboratori più o meno occasionali e a un gigantesco esercito di cialtroni.

Perché la fake news sulla Crimea poteva nascere solo nei giornali italiani. «Non permetteremo mai ai russi di annettersi la Crimea!», è la frase del segretario della Nato riportata dai media. Ma Stoltenberg non l'ha mai pronunciata. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 10 maggio 2022.

A scorrere le prime pagine dei giornali italiani dello scorso fine settimana pareva di stare sull’orlo della terza guerra mondiale: il presidente ucraino Zelensky aveva concesso una inattesa apertura sull’annessione della Crimea alla Russia ma il segretario della Nato Stoltenberg lo aveva zittito, esclamando: «Non permetteremo mai ai russi di annettersi la Crimea!».

Kiev o non Kiev è l’alleanza atlantica che decide quel che Putin può prendersi o no, confermando l’idea che il povero Zelensky non sia altro che un tragico pupazzo nelle mani di Washington. È allora giù titoli cubitali, analisi, commenti in un crescendo ansiogeno di stupore e paura. Il “punto di contatto” tra l’armata russa e le forze occidentali sembrava ormai prossimo, dal conflitto regionale-internazionale si stava passando alla guerra globale, allo scontro militare tra potenze atomiche. Quel sottile diaframma che separava i due blocchi che aveva dato adito all’odiosa definizione di “guerra per procura” si stava improvvisamente rompendo. Cosa ne dicono i media degli altri Pesi, come reagiscono alle incaute parole del segretario Nato?

Con grande sorpresa, aprendo le pagine online dei vari New York Times, The Guardian, Bbc, Le Monde, Faz, El Pais non si trova alcuna traccia delle dirompenti dichiarazioni. Nulla di nulla. Così siamo andati a controllare la fonte, e cioè l’intervista rilasciata al tedesco Die Welt. Manco a dirlo, Stoltenberg non aveva mai pronunciato quella frase, al contrario sosteneva che «il governo e il popolo ucraino decideranno in maniera sovrana una possibile soluzione di pace: non possiamo farlo noi». Ancora più surreale il fatto che Zelensky non avesse mai citato la Crimea: il botta e risposta che ci ha fatto correre un brivido lungo la schiena semplicemente non c’era mai stato.

Questa fake news ha circolato esclusivamente sulla rete italiana, il che dovrebbe far riflettere sullo stato della nostra informazione. Non crediamo affatto alla teoria dei giornalisti prezzolati dal Cremlino o alle paranoiche sortite del Copasir che ricordano il minculpop, non crediamo nemmeno che il nostro paese sia il ventre molle del putinismo anche se in Europa vanta l’opinione pubblica indubbiamente più scettica sulle ragioni degli ucraini. La bufala su Stoltenberg e Zelensky è stata la notizia di apertura di giornali “atlantisti” come La Repubblica e La Stampa, e di quotidiani molto più ostili agli alleati come Il Fatto Quotidiano.

L’ideologia non c’entra nulla. C’entra la disonestà intellettuale e professionale, la sciatteria, i titoli “drogati” che quasi mai corrispondono al contenuto dell’articolo, la deriva di testate un tempo autorevoli che, per sopravvivere, scimmiottano le tecniche di comunicazione e di marketing del web, schiave degli algoritmi con l’unico scopo di incrementare le visualizzazioni. Fino all’ultimo click anche a costo di rimuovere la realtà.

Biputinismo perfetto. La catastrofe civile e morale del dibattito pubblico italiano sull’Ucraina. Christian Rocca su l'Inkiesta il 9 maggio 2022.

In attesa che oggi i talk show organizzino una maratona in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca per commentare la sfilata militare del Cremlino, ecco un piccolo campionario di enormità ispirate dalla macchina di propaganda russa e realizzate dai suoi volenterosi complici nostrani. 

Ogni tanto su Twitter si leggono piccole grandi verità: Antonio Polito ha scritto che gli amici di Putin a Cinquestelle (sintesi mia) sono contrari all’inceneritore a Roma ma favorevoli a incenerire Mariupol, mentre l’analista svedese residente a Kiev, Anders Östlund, ha segnalato che i combattenti di Azov, spesso accusati (dalla propaganda putiniana) di essere estremisti di destra, a Mariupol sacrificano la propria vita per difendere la democrazia mentre i sedicenti intellettuali pacifisti scrivono e intervengono senza sosta e sempre a tutto vantaggio del fascismo russo. 

Ma le cose più esemplari della tragedia culturale che stiamo vivendo, e della fuga dalla realtà degli intellettuali contemporanei, si continuano a leggere sui mezzi di comunicazione tradizionali. Lasciamo stare, per decenza, i talk show lasettisti e retequattristi dei quali mi stupirebbe se oggi non organizzassero maratone in diretta da Mosca per commentare col solito birignao da retroscena romano la gloriosa parata militare di Putin per celebrare la vittoria nella grande guerra patriottica, antipasto dell’annessione di tutta l’Ucraina. 

Restiamo sulla carta stampata, quindi, cominciando dal libro sulla guerra in Europa scritto dall’intellettuale comunista Luciano Canfora insieme con il rappresentante dell’alt right italiana Francesco Borgonovo della Verità, pubblicato da una casa editrice neo, ex, post fascista che rilancia testi militari di Mao e negazionismi nazi in piena armonia rossobruna, nel paese che più di altri ha letto Limonov di Emmanuel Carrere scambiandolo per un’agiografia dello stravagante personaggio e non per la biografica tragedia del totalitarismo europeo mai sopito in Russia. 

Poi c’è Carlo De Benedetti, ex patron della Repubblica finalmente liberata da Maurizio Molinari dall’antioccidentalismo salottiero degli anni debenedettiani, che testuale dice al Corriere – oltre a una serie di banalità antiamericane che avrebbe potuto pubblicare Limes di Lucio Caracciolo – che la resistenza ucraina di fronte all’aggressione fascista di Putin «alla fine è un danno per il mondo».

Insomma i russi uccidono gli ucraini e prendono per fame le città assediate allo scopo di attuare un altro Holodomor nel XXI secolo, ma gli ucraini si mostrano incomprensibilmente irrispettosi degli interessi superiori del mondo e di De Benedetti, al punto da avere la sfacciataggine di difendersi e addirittura di chiedere aiuto all’America e ai paesi europei della Nato, a questo punto corresponsabili della guerra più di chi l’ha cominciata peraltro mentre gli utili idioti di Putin spiegavano che mai e poi mai la Russia avrebbe aggredito l’Ucraina e che si trattava solo di propaganda bellicosa dell’America di Joe Biden.

Così come l’incredibile storia, di cui scrive più ampiamente Carmelo Palma, delle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelenski e del segretario della Nato Jens Stoltenberg sulla Crimea manipolate solo dai media italiani per poter ribadire, al netto della cronica sciatteria, la barzelletta della guerra americana per procura, al solito liquidando il popolo ucraino sotto le bombe da due mesi e mezzo come se fosse una pedina irrilevante, un very fungibile token, sacrificabile e privo di una sua propria dignità o diritto di sopravvivenza. 

A dare un minimo di speranza per la ricostruzione di un dibattito pubblico degno di questo nome c’è invece l’intervista di Repubblica all’ex vice presidente di Gazprombank Igor Volobuev, il quale ha svelato come funziona da anni la grande macchina di propaganda russa sull’Ucraina, avendo contribuito a crearla (la sintesi è: tutte le notizie ufficiali russe sono bugie). Chissà se qualcuno capirà. Intanto Volobuev è fuggito da Mosca e ora sta a Kiev, ma la fabbrica di fake news del Cremlino è sempre attiva e adesso può contare sui volenterosi complici che animano il biputinismo perfetto italiano.

Nave russa colpita nel Mar Nero, cosa c’è di vero è cosa no. Angela Nocioni su Il Riformista il 7 Maggio 2022. 

Kiev fa capire che rinuncerebbe a riprendersi la Crimea, annessa dalla Russia nel 2014. Sarebbe disposta ad accettare un accordo di pace di compromesso con la Russia se le forze di Mosca si ritirassero «sulle posizioni del 23 febbraio». Lo ha detto il presidente Zelensky, intervenendo in video alla Chatham House, centro studi britannico con sede a Londra. «Da parte nostra non tutti i ponti diplomatici sono stati bruciati» ma ha ribadito di non vedere alcuna intenzione della Russia nel cercare un accordo per la pace. Ha detto: “Sono stato eletto presidente dell’Ucraina e non di una mini-Ucraina”.

Alla domanda se fosse d’accordo con i leader occidentali che chiedevano la sconfitta di Vladimir Putin, ha risposto: «Non mi interessa dove finiscono i leader, ma quello che conta per me è la vittoria dell’Ucraina. La vittoria è per me non perdere 11 milioni di persone: sono 5 milioni quelli che hanno lasciato l’Ucraina». Il deputato ucraino Goncharenko ha scritto in un messaggio Twitter che sarebbe stata colpita la più importante nave della flotta russa nel Mar Nero, al largo dell’isola dei Serpenti. La Cnn non ritorna per ora sulla rivelazione che aveva dato ieri notte sul ruolo fondamentale dell’intelligence americana nell’individuare la posizione della nave russa Moscva affondata nel Mar nero.

«Non abbiamo fornito nessuna informazione specifica all’Ucraina per colpire l’incrociatore russo Moskva» aveva reagito il portavoce del Pentagono, John Kirby alla diffusione della notizia. «Non siamo stati coinvolti nella decisione di Kiev di colpire la nave da guerra né nelle operazioni che hanno portato all’attacco», ha sottolineato, precisando che gli Stati Uniti non erano stati informati dall’Ucraina «sulle sue intenzioni di colpire l’incrociatore» di Mosca. La Polonia potrebbe rappresentare una minaccia per l’integrità territoriale dell’Ucraina. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, riporta la Tass. «Il fatto che negli ultimi mesi ci sia stata una retorica molto ostile dalla Polonia – ha smesso da tempo di essere amichevole, ma è diventata ostile negli ultimi mesi – e il fatto che una minaccia per l’integrità territoriale dell’Ucraina possa provenire dalla Polonia – sono fatti ovvi», ha affermato Peskov parlando con i giornalisti.

Le sanzioni europee sono «una bomba atomica che vogliono sganciare sull’economia ungherese». Sono le parole del primo ministro ungherese Viktor Orban, contrario all’embargo sul petrolio russo, pronunciate dal premier alla stazione radiofonica Kossuth, secondo quanto riporta l’agenzia russa Tass. «Ogni Paese ha il diritto sovrano di determinare la propria bilancia energetica», ha puntualizzato Orban, evidenziando che le sanzioni già imposte dall’Ue sono più dannose per l’economia europea che per quella russa. Il New York Times riferisce che l’esercito ucraino sta cercando di respingere le forze russe dalle città di Kharkiv e Izium. Un convoglio per l’evacuazione è stato inviato di nuovo all’acciaieria assediata a Mariupol. Angela Nocioni

«Ho ancora negli occhi la resistenza disarmata di alcuni ucraini. È quella la strada…» Intervista a Toni Capuozzo: «L’internazionalizzazione di questo conflitto è una realtà. Di fatto la Nato si trova in guerra con la Russia». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 29 aprile 2022.

Dopo la strage di Bucha, sono stati tanti i dubbi – con annesse polemiche – sollevati sugli autori dell’uccisione di centinaia di cittadini ucraini. Fare il giornalista significa indagare fino in fondo e non avere mai la verità in tasca. Toni Capuozzo, inviato di guerra che ha seguito numerosi conflitti armati in giro per il mondo negli ultimi trent’anni, si è posto alcune domande. «Le mie domande – dice al Dubbio – le ho rinvenute pure sui media stranieri, come il Guardian che non è un organo filorusso».

La guerra in Ucraina sta dando degli insegnamenti rispetto ad alcuni errori commessi e da non commettere nel futuro prossimo?

Il primo insegnamento riguarda il fatto che in una guerra ci si infila quasi senza accorgersene e poi ad un certo punto ci si rende conto che è troppo tardi per tornare indietro. Sono passati due mesi dall’inizio di questo conflitto con l’invasione russa e sembra passato moltissimo tempo da quando si è acceso il dibattito sulla no fly zone. Oggi ci sono moltissimi in grado di confermare che, con o senza la no fly zone, l’internazionalizzazione di questo conflitto è una realtà. Di fatto la Nato si trova in guerra con la Russia, seppur per interposta persona. La fornitura delle armi e le stesse dichiarazioni politiche sull’importanza di vincere e di sconfiggere Putin ci dicono che siamo davanti ad un conflitto mondiale per ora virtuale.

Paghiamo l’assenza di leader autorevoli?

Manca un negoziato vero, non c’è una figura al mondo, a parte l’autorità morale del Papa, che dica: “sedetevi, parlatevi, deponete le armi”. Washington parla il linguaggio della guerra, il vertice Nato è stato un consiglio di guerra. L’unica voce a crederci, con un linguaggio di moderazione, è la Cina. Questa cosa la dice lunga. Ci siamo inoltrati, passo dopo passo, dichiarazione dopo dichiarazione, scelta dopo scelta, in un conflitto in cui è lecito domandarsi dove andremo e come ci coinvolgerà ulteriormente. L’Italia è un Paese che invia armi, paga e pagherà le sanzioni almeno quanto il sanzionato. Nelle guerre è facile entrare, ma poi è molto difficile trovare una via d’uscita.

La strage di Bucha è uno dei simboli dei primi due mesi di guerra. Sono stati sollevati dei dubbi in merito alla veridicità, alle date e agli autori della carneficina. Le polemiche che ne sono derivate potevano essere evitate?

Ci sono dei punti di domanda su Bucha e c’è da augurarsi che gli investigatori facciano un buon lavoro. Il Guardian, che non è un organo filorusso, evidenzia che su molti dei corpi sono state trovate tracce di proiettili di artiglieria con cui gli ucraini, legittimamente, bombardavano Bucha occupata dai russi. È difficile pensare che tutti quei morti siano stati uccisi a seguito di torture, a sangue freddo o per una specie di vendetta da parte degli invasori contro chi resisteva. Le domande che io ho posto non sui cadaveri ritrovati nelle fosse comuni, ma su quelli ritrovati per strada sono ancora senza risposta. Ho chiesto molte volte come mai alcune vittime avessero i bracciali bianchi dei collaborazionisti o avessero vicino del cibo distribuito dai russi. Ho chiesto che cosa avesse fatto quella squadra speciale della polizia, guidata da un fascista, che è andata a Bucha, come scritto dai giornali ucraini, per fare opera di pulizia e la caccia ai collaborazionisti e ai sabotatori. Gli autori di queste azioni sono stati trovati? Sono stati arrestati? Non sappiamo niente. Dobbiamo sperare che le inchieste facciano chiarezza. La guerra ha questo di tremendo. Nessuno è completamente con i guanti bianchi, immacolati. Ero presente durante i bombardamenti della Nato su Belgrado nel 1999. Non mi ricordo che ci sia stato un processo contro chi ha bombardato la televisione di Milosevic, che non era una caserma. Non mi ricordo che ci sia stato un processo contro chi ha bombardato l’ambasciata cinese. Non mi ricordo che ci sia stato un processo contro chi ha bombardato un convoglio di profughi in Kosovo, scambiandolo per una colonna militare serba.

Il mondo è sempre più diviso, ma non solo per i preoccupanti blocchi contrapposti creatisi come settant’anni fa. Anche la politica e l’opinione pubblica sono spaccate di fronte alle atrocità dell’Ucraina. Cosa ne pensa?

Abbiamo vissuto dei conflitti, penso a quello dei Balcani, che erano più vicini a casa nostra ma non coinvolgevano grandi potenze. Avevano il sapore di guerre minori. Abbiamo pagato anche con vite di nostri connazionali. Penso all’Afghanistan, dove sono morti 53 militari italiani nell’arco di vent’anni in una missione di pace fallita, all’Iraq, a Nassiriya. Erano guerre viste lontane da noi, vissute solo in televisione, che non ci toccavano. Diverso il discorso per la guerra in Ucraina, che ti tocca nelle antiche corde della paura, perché vedi un Paese invaso, vedi in ogni momento le abitazioni civili distrutte e i profughi. È una guerra che ci tocca anche nel portafoglio per le ripercussioni sulla nostra economia. In più, c’è la questione del coinvolgimento dell’Italia. Il nostro Paese si è schierato, stiamo mandando armi. Fino a che punto saremo una parte spettatrice e basta? Inoltre, nella nostra opinione pubblica, c’è sempre la tendenza a schierarsi, a parteggiare. Molti parlano senza avere contezza di cosa sia una guerra, tanto poi a combatterla ci vanno sempre gli altri. L’Italia è piena di arditi che dalle loro tastiere sostengono non le ragioni della pace, ma quelle della vittoria.

La resa dell’Ucraina, senza l’arrivo di armi, avrebbe rappresentato la negazione del diritto internazionale?

Sicuramente. Io credo, però, che occorra essere realisti. Non viviamo nell’epoca dei monumenti e delle lapidi riguardanti il Risorgimento italiano. Siamo nel 2022. Dovremmo chiederci cosa è possibile fare pragmaticamente. A me pare che la resistenza disarmata in alcune località dell’Ucraina, penso a Kherson, dove le persone hanno manifestato a mani nude contro i carri armati russi, sia emblematica. Penso che nel 2022 difficilmente un Paese, nonostante l’invasione, possa essere governato con la forza. Il socialismo reale e il mondo sovietico sono crollati sotto la spinta dei popoli, che vedevano nell’altra parte dell’Europa la libertà. Il muro di Berlino non è caduto sotto i colpi dei carri armati.

La Russia chiede il disarmo globale. Sulla «Gazzetta» del 19 aprile 1922: Mussolini spinge per la libertà di stampa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

Sul «Corriere delle Puglie» del 19 aprile 1922 in primo piano c’è la partecipazione della giovanissima Repubblica Federativa Socialista Sovietica di Russia alla Conferenza di Genova, l’incontro internazionale per pianificare la ricostruzione dell'Europa centrale ed orientale dopo gli orrori della Grande guerra. Il capo della delegazione Čičerin ha annunciato l’intenzione del suo Paese di convivere pacificamente con gli stati con diverso ordinamento sociale e ha presentato un ampio programma pacifista di disarmo globale. L’obiettivo principale è, naturalmente, da parte del Paese nato dalla rivoluzione bolscevica, quello di riprendere gli scambi commerciali con l’Europa.

Sulla questione si è espresso anche Trotsky, commissario del popolo per la difesa nazionale: la Russia, egli ha affermato, desidera la pace ed è pronta a disarmare a condizione che lo facciano anche le potenze che l’hanno assalita. All’offerta sovietica si è fermamente opposta la Francia, convinta di esser di fronte ad un mero atto propagandistico. «Il rifiuto della Francia vuol semplicemente dire che gli stati capitalisti desiderano conservare un esercito potente per opprimere e sopprimere i deboli e gli inermi» è il cuore del messaggio di Trotsky riportato dal «Corriere».

Mussolini per la… libertà di stampa!

Nelle ultime pagine appare un articolo di Benito Mussolini, pubblicato il giorno prima sul giornale da lui diretto, «Il Popolo d’Italia». Il leader fascista si scaglia contro la decisione della Federazione della Stampa di esser disposta a ripristinare in pieno la libertà di stampa solo dopo «una profonda revisione dei sistemi di lotta politica e di una concezione più serena dei diritti di ogni corrente di idee»: in sostanza, essa non deve diventare un alibi per calunniare e diffamare gli avversari. Per Mussolini tutto questo è inconcepibile: non c’è confronto tra l’atteggiamento del suo giornale e quello dell’«Avanti!», il quotidiano socialista, che si accanisce da tempo ormai contro i fascisti, i quali invece, si sarebbero impegnati a smorzare i toni. Il futuro duce fa riferimento a quel patto di pacificazione sottoscritto, nell’agosto precedente, al culmine di una escalation estrema di violenze tra le due forze in campo, rivelatosi però del tutto inefficace. Per la libertà di stampa, dunque, si batte quello stesso Mussolini che poco più di un anno dopo, nel luglio 1923, ormai a capo del governo, metterà sotto controllo il mondo del giornalismo, arrivando infine ad imbavagliare del tutto la libera informazione e la diffusione del libero pensiero.

Dagospia il 25 aprile 2022. Estratto di “La Seconda guerra mondiale”, di Winston Churchill, pubblicato dal “Corriere della Sera” il 19 novembre 1953

La sera del 10 febbraio a Yalta si svolse nella mia residenza l’ultimo pranzo di cerimonia della conferenza. Molte ore prima che Stalin arrivasse, comparvero a villa Vorontzov numerosi soldati russi. Essi chiusero le porte che si trovavano sui due lati minori della sala da pranzo e si misero di fazione in vari punti. Fu compiuta una accuratissima perquisizione; i russi frugarono sotto i tavoli e negli angoli più strani. 

I miei collaboratori furono fatti uscire dalla villa e indotti a ritirarsi nei loro alloggiamenti privati. Quando tutto fu trovato in ordine giunse il Maresciallo, di ottimo umore, seguito poco dopo dal Presidente Roosevelt.

Al pranzo svoltosi alla villa Yusupov Stalin aveva brindato alla salute del re in una forma che, pur volendo essere amichevole e rispettosa, non mi era per niente andata a genio. Infatti il Maresciallo aveva detto che egli era sempre stato contrario a tutti i re, che egli era dalla parte del popolo e non già dalla parte di alcun re, ma in questa guerra egli aveva imparato a onorare e stimare il popolo britannico, che amava e rispettava il suo re, e perciò egli proponeva un brindisi alla salute del re d’Inghilterra. 

Io non ero rimasto per nulla soddisfatto di quel brindisi e perciò dissi a Molotov che gli scrupoli di Stalin avrebbero potuto essere evitati in futuro brindando alla salute dei «tre Capi di Stato». E poichè cosi fu convenuto, quella stessa sera misi in «Vi e stato un tempo in cui il Maresciallo non era cosi gentile verso di noi; ed io ricordo di aver fatto qualche duro rimarco sul suo conto, ma i comuni pericoli e la reciproca lealtà hanno spazzato tutti questi malintesi; il fuoco della guerra ha bruciato tutte le incomprensioni del passato.

«Noi sentiamo che abbiamo un amico del quale ci possiamo fidare e io spero che egli continui a nutrire gli stessi sentimenti nei nostri confronti. Io prego che egli possa vivere tanto a lungo da poter vedere la sua amata Russia non soltanto vittoriosa in guerra ma anche felice in pace». 

A quel pranzo, compresi gli interpreti, eravamo non più di una dozzina di persone e, una volta esaurita la parte protocollare, si intavolarono amichevoli discussioni a piccoli gruppi di due o tre. 

Io avevo detto fra l’altro che, dopo la sconfitta di Hitler, si sarebbero svolte in Inghilterra le elezioni generali. Stalin riteneva che un mio successo fosse garantito «poichè – egli disse – il popolo vuole avere un capo e quale miglior capo potrebbe scegliere di colui che ha vinto la guerra?». 

Gli spiegai che in Inghilterra vi erano due partiti e che, io, ero semplicemente un membro di uno di essi. «E molto meglio avere un partito unico», osservo Stalin con tono di profonda convinzione. 

Stalin racconto poi un episodio personale per illustrare quello che lui chiamava «l’insensato spirito di disciplina della Germania del Kaiser». Da giovane, una volta, Stalin si era recato a Lipsia con circa duecento comunisti tedeschi per partecipare a una conferenza internazionale che si svolgeva in quella città. Il treno era arrivato puntualmente in stazione ma mancava l’usciere che doveva raccogliere i biglietti. 

Cosi i duecento comunisti germanici attesero docilmente per due ore prima di poter uscire dalla stazione; e giunsero troppo tardi al convegno per partecipare al quale avevano fatto un lunghissimo viaggio.

La serata trascorse in maniera piacevole. Ma in un’altra occasione, sempre durante la nostra permanenza a Yalta, le cose non erano andate tanto lisce. Durante una colazione offerta da Roosevelt, questi rivelo che spesso lui e io, nei nostri rapporti privati, indicavamo Stalin con l’appellativo di «zio Giuseppe». Io avevo suggerito a Roosevelt di rivelare quel particolare a Stalin in privato, ma il Presidente invece lo disse in tono scherzoso in presenza di tutti. 

Ci fu un momento di imbarazzo penoso. Stalin si offese: «Quando potrò lasciare questa tavola?» domando in tono adirato. Fu Byrnes a salvare la situazione con una frase felice. «Dopo tutto – disse – voi non vi fate scrupolo di usare il termine zio Sam per indicare l’America, e allora cosa c’è di male nel dire zio Giuseppe?». Allora il Maresciallo si placo e più tardi Molotov mi assi- curo che Stalin aveva perfettamente compreso lo scherzo. 

Egli sapeva già che molta gente all’estero lo chiamava zio Giuseppe e si era reso conto che il soprannome gli era stato affibbiato in senso amichevole e affettuoso.

Il giorno successivo chiuse il periodo della nostra permanenza in Crimea. Come sempre accade in simili conferenze, molte gravi questioni rimasero insolute. Il Presidente era ansioso di rientrare in patria e di fare una sosta in Egitto durante il viaggio per discutere le questioni del Medio Oriente. A mezzogiorno dell’11 febbraio Stalin e io facemmo una colazione con Roosevelt a palazzo Livadia, in quella che era stata un tempo la sala da biliardo dello zar. Durante il pranzo, firmammo i documenti conclusivi e i comunicati ufficiali. Tutto ora dipendeva dallo spirito con cui quei documenti sarebbero stati messi in atto. 

Quello stesso pomeriggio partii in automobile con mia figlia Sarah verso Sebastopoli, dove era ancorato il transatlantico Franconia, che era servito come base logistica principale della nostra delegazione. Io desideravo visitare il campo di battaglia di Balaclava e perciò chiesi al generale Peake di prepararsi a farci da cicerone e a illustrarci tutti i particolari della famosa azione svoltasi durante la guerra di Crimea.

Il pomeriggio del 13 febbraio mi recai nella zona; mi accompagnava l’ammiraglio russo che comandava la flotta del Mar Nero e che mi era stato assegnato come scorta personale dal Governo di Mosca. Noi eravamo un poco timidi e usavamo molto tatto nei riguardi del nostro ospite. Ma non avremmo dovuto preoccuparci tanto. A un certo momento, il generale Peake ci indico la posizione sulla quale si era schierata la Brigata Leggera; l’ammiraglio russo intervenne indicando quasi lo stesso punto ed esclamo: «I carri armati tedeschi piombarono su di noi da quella posizione».

Poco dopo, Peake ci stava illustrando lo schieramento dei russi e indicava le colline sulle quali era piazzata la loro fanteria quando intervenne nuovamente l’ammiraglio sovietico e con evidente orgoglio esclamo: «In quel punto una batteria russa combatte fino a che l’ultimo servente fu ucciso». A questo punto ritenni giusto spiegare al nostro ospite che noi stavamo studiando un’altra guerra: «una guerra di dinastie e non di popoli». Il nostro amico ammiraglio non diede cenno di aver compreso ma si mostro completamente soddisfatto. E cosi tutto si svolse nel migliore dei modi. 

Nelle prime ore del 14 febbraio partimmo in automobile verso l’aeroporto di Saki e di qui in volo per Atene dove fui accolto da una grande dimostrazione popolare. 

La mattina del giorno 15 partii in aereo per Alessandria d’Egitto; qui presi quartiere a bordo dell’incrociatore Aurora. Le conversazioni tra il Presidente Roosevelt e Ibn Saud. Faruk e Haile Selassie si erano svolte nei giorni precedenti a bordo dell’incrociatore americano Quincy, che aveva calato le ancore nel Lago Amaro. Poco dopo il mio arrivo il Quincy entro nel porto di Alessandria e verso mezzogiorno io salivo a bordo. Erano con me i miei figli Sarah e Randolph, e Roosevelt aveva accanto sua figlia Anna (allora sposata Boettiger); ci riunimmo tutti nella cabina del Presidente per una cena amichevole, alla quale presero parte anche Hopkins e Winant. 

Il Presidente appariva tranquillo e fragile; io ebbi la sensazione che egli si sentisse già un poco distaccato dalle cose di questo mondo. Non lo dovevo vedere mai più. Ci salutammo affettuosamente e nel pomeriggio la nave di Roosevelt levava le ancore per tornare in America.

Esattamente a mezzogiorno del 27 febbraio io chiedevo alla Camera dei Comuni di approvare i risultati della conferenza di Yalta. In generale i deputati appoggiavano completamente l’atteggiamento da noi assunto; ma era anche fortemente sentito l’obbligo morale che noi avevamo verso la Polonia che tanto aveva sofferto ad opera dei tedeschi e per la quale avevamo preso le armi. Un gruppo di circa trenta deputati sentiva tanto profondamente la questione che parlo apertamente contro la mozione da me proposta. 

E molto facile, dopo la sconfitta della Germania, criticare coloro che fecero del loro meglio per rincuorare i russi, aiutare il loro sforzo bellico e mantenersi in armonioso contatto con il nostro grande alleato. Cosa sarebbe accaduto se ci fossimo messi in urto con la Russia quando i tedeschi disponevano ancora di tre o quattrocento divisioni sui vari fronti? Le nostre speranze dovevano ben presto essere deluse; eppure a quel tempo non v’era altro atteggiamento da prendere.

Stalin seppe che per noi era «zio Giuseppe». Minacciò di lasciare Yalta, poi capì lo scherzo. Wiston Churchill su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.

In un articolo pubblicato il 19 novembre 1953, Churchill scriveva: «Ricordo che a un pranzo nei giorni della Conferenza fu Roosevelt a rivelarglielo. Io gli avevo suggerito di farglielo sapere in privato ma lui preferì dirlo davanti a tutti in tono giocoso». 

Cena a Palazzo Livadia per la Conferenza di Yalta (1945): in primo piano a sinistra il Segretario di Stato Usa Edward R. Stettinius, a destra il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov.Dopo di lui, da destra, i tre leader: nell’ordine Winston Churchill (Gb), Franklin Delano Roosevelt (Usa) e Iosif Stalin (Urss)

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. E il giornale ha ospitato nella sua storia gli interventi di capi di stato e statisti, come questo articolo di Winston Churchill che vi proponiamo dal numero di «7» uscito il 15 aprile. Buona lettura

19 novembre 1953

La sera del 10 febbraio a Yalta si svolse nella mia residenza l’ultimo pranzo di cerimonia della conferenza. Molte ore prima che Stalin arrivasse, comparvero a villa Vorontzov numerosi soldati russi. Essi chiusero le porte che si trovavano sui due lati minori della sala da pranzo e si misero di fazione in vari punti. Fu compiuta una accuratissima perquisizione; i russi frugarono sotto i tavoli e negli angoli più strani. I miei collaboratori furono fatti uscire dalla villa e indotti a ritirarsi nei loro alloggiamenti privati. Quando tutto fu trovato in ordine giunse il Maresciallo, di ottimo umore, seguito poco dopo dal Presidente Roosevelt. Al pranzo svoltosi alla villa Yusupov Stalin aveva brindato alla salute del re in una forma che, pur volendo essere amichevole e rispettosa, non mi era per niente andata a genio. Infatti il Maresciallo aveva detto che egli era sempre stato contrario a tutti i re, che egli era dalla parte del popolo e non già dalla parte di alcun re, ma in questa guerra egli aveva imparato a onorare e stimare il popolo britannico, che amava e rispettava il suo re, e perciò egli proponeva un brindisi alla salute del re d’Inghilterra. Io non ero rimasto per nulla soddisfatto di quel brindisi e perciò dissi a Molotov che gli scrupoli di Stalin avrebbero potuto essere evitati in futuro brindando alla salute dei «tre Capi di Stato». E poiché così fu convenuto, quella stessa sera misi in pratica la nuova norma d’etichetta proponendo il seguente brindisi: «Brindo alla salute di sua maestà il re, del Presidente degli Stati Uniti e del Presidente dell’Unione Sovietica Kalinin, i tre Capi di Stato».

Roosevelt, che appariva molto stanco, così rispose: «Il brindisi del Primo ministro fa risorgere un ricordo. Nel 1933, mia moglie si recò a visitare una scuola del nostro Paese. Sulla parete di un’aula vide una carta geografica dove spiccava un grande spazio in bianco. Domandò allora cosa significasse quello strano fatto; le fu risposto che si trattava di un Paese che non era lecito nominare; cioè l’Unione Sovietica. Questo piccolo incidente fu uno dei motivi che mi indussero a scrivere al Presidente Kalinin per chiedergli di mandare a Washington un suo rappresentante per discutere la possibilità di stabilire relazioni diplomatiche tra i nostri due Paesi. Questa è la storia del riconoscimento dell’Unione Sovietica da parte nostra».

Mi alzai allora io per brindare alla salute di Stalin: «Già varie volte ho fatto questo brindisi; ma in questa occasione lo faccio con maggior calore, non già perché il Maresciallo abbia conquistato maggiori trionfi ma perché le grandi vittorie e la gloria dell’Armata rossa lo hanno reso più gentile di quanto egli non fosse nei periodi difficili che abbiamo passati. Io sento che, quali che siano le divergenze su alcuni argomenti, egli ha un buon amico nella Gran Bretagna....». «Vi è stato un tempo in cui il Maresciallo non era così gentile verso di noi; ed io ricordo di aver fatto qualche duro rimarco sul suo conto, ma i comuni pericoli e la reciproca lealtà hanno spazzato tutti questi malintesi; il fuoco della guerra ha bruciato tutte le incomprensioni del passato. «Noi sentiamo che abbiamo un amico del quale ci possiamo fidare e io spero che egli continui a nutrire gli stessi sentimenti nei nostri confronti. Io prego che egli possa vivere tanto a lungo da poter vedere la sua amata Russia non soltanto vittoriosa in guerra ma anche felice in pace».

Il capo migliore è quello che ha vinto una guerra

A quel pranzo, compresi gli interpreti, eravamo non più di una dozzina di persone e, una volta esaurita la parte protocollare, si intavolarono amichevoli discussioni a piccoli gruppi di due o tre. Io avevo detto fra l’altro che, dopo la sconfitta di Hitler, si sarebbero svolte in Inghilterra le elezioni generali. Stalin riteneva che un mio successo fosse garantito «poiché - egli disse - il popolo vuole avere un capo e quale miglior capo potrebbe scegliere di colui che ha vinto la guerra?». Gli spiegai che in Inghilterra vi erano due partiti e che, io, ero semplicemente un membro di uno di essi. «È molto meglio avere un partito unico», osservò Stalin con tono di profonda convinzione. Stalin raccontò poi un episodio personale per illustrare quello che lui chiamava «l’insensato spirito di disciplina della Germania del Kaiser». Da giovane, una volta, Stalin si era recato a Lipsia con circa duecento comunisti tedeschi per partecipare a una conferenza internazionale che si svolgeva in quella città. Il treno era arrivato puntualmente in stazione ma mancava l’usciere che doveva raccogliere i biglietti. Così i duecento comunisti germanici attesero docilmente per due ore prima di poter uscire dalla stazione; e giunsero troppo tardi al convegno per partecipare al quale avevano fatto un lunghissimo viaggio. La serata trascorse in maniera piacevole. Ma in un’altra occasione, sempre durante la nostra permanenza a Yalta, le cose non erano andate tanto lisce.

Una confidenza pericolosa

Durante una colazione offerta da Roosevelt, questi rivelò che spesso lui e io, nei nostri rapporti privati, indicavamo Stalin con l’appellativo di «zio Giuseppe». Io avevo suggerito a Roosevelt di rivelare quel particolare a Stalin in privato, ma il Presidente invece lo disse in tono scherzoso in presenza di tutti. Ci fu un momento di imbarazzo penoso. Stalin si offese: «Quando potrò lasciare questa tavola?» domandò in tono adirato. Fu Byrnes a salvare la situazione con una frase felice. «Dopo tutto - disse - voi non vi fate scrupolo di usare il termine zio Sam per indicare l’America, e allora cosa c’è di male nel dire zio Giuseppe?». Allora il Maresciallo si placò e più tardi Molotov mi assicurò che Stalin aveva perfettamente compreso lo scherzo. Egli sapeva già che molta gente all’estero lo chiamava zio Giuseppe e si era reso conto che il soprannome gli era stato affibbiato in senso amichevole e affettuoso. Il giorno successivo chiuse il periodo della nostra permanenza in Crimea. Come sempre accade in simili conferenze, molte gravi questioni rimasero insolute. Il Presidente era ansioso di rientrare in patria e di fare una sosta in Egitto durante il viaggio per discutere le questioni del Medio Oriente. A mezzogiorno dell’ll febbraio Stalin e io facemmo una colazione con Roosevelt a palazzo Livadia, in quella che era stata un tempo la sala da biliardo dello zar. Durante il pranzo, firmammo i documenti conclusivi e i comunicati ufficiali. Tutto ora dipendeva dallo spirito con cui quei documenti sarebbero stati messi in atto.

Visita sul campo di battaglia

Quello stesso pomeriggio partii in automobile con mia figlia Sarah verso Sebastopoli, dove era ancorato il transatlantico Franconia, che era servito come base logistica principale della nostra delegazione. Io desideravo visitare il campo di battaglia di Balaclava e perciò chiesi al generale Peake di prepararsi a farci da cicerone e a illustrarci tutti i particolari della famosa azione svoltasi durante la guerra di Crimea. Il pomeriggio del 13 febbraio mi recai nella zona; mi accompagnava l’ammiraglio russo che comandava la flotta del Mar Nero e che mi era stato assegnato come scorta personale dal Governo di Mosca. Noi eravamo un poco timidi e usavamo molto tatto nei riguardi del nostro ospite. Ma non avremmo dovuto preoccuparci tanto. A un certo momento, il generale Peake ci indicò la posizione sulla quale si era schierata la Brigata Leggera; l’ammiraglio russo intervenne indicando quasi lo stesso punto ed esclamò: «I carri armati tedeschi piombarono su di noi da quella posizione». Poco dopo, Peake ci stava illustrando lo schieramento dei russi e indicava le colline sulle quali era piazzata la loro fanteria quando intervenne nuovamente l’ammiraglio sovietico e con evidente orgoglio esclamò: «In quel punto una batteria russa combattè fino a che l’ultimo servente fu ucciso». A questo punto ritenni giusto spiegare al nostro ospite che noi stavamo studiando un’altra guerra: «una guerra di dinastie e non di popoli». Il nostro amico ammiraglio non diede cenno di aver compreso ma si mostrò completamente soddisfatto. E cosi tutto si svolse nel migliore dei modi.

Ad Atene e in Egitto, sempre con i figli

Nelle prime ore del 14 febbraio partimmo in automobile verso l’aeroporto di Saki e di qui in volo per Atene dove fui accolto da una grande dimostrazione popolare. La mattina del giorno 15 partii in aereo per Alessandria d’Egitto; qui presi quartiere a bordo dell’incrociatore Aurora. Le conversazioni tra il Presidente Roosevelt e Ibn Saud. Faruk e Hailé Selassié si erano svolte nei giorni precedenti a bordo dell’incrociatore americano Quincy, che aveva calato le ancore nel Lago Amaro. Poco dopo il mio arrivo il Quincy entrò nel porto di Alessandria e verso mezzogiorno io salivo a bordo. Erano con me i miei figli Sarah e Randolph, e Roosevelt aveva accanto sua figlia Anna (allora sposata Boettiger); ci riunimmo tutti nella cabina del Presidente per una cena amichevole, alla quale presero parte anche Hopkins e Winant. Il Presidente appariva tranquillo e fragile; io ebbi la sensazione che egli si sentisse già un poco distaccato dalle cose di questo mondo. Non lo dovevo vedere mai più. Ci salutammo affettuosamente e nel pomeriggio la nave di Roosevelt levava le ancore per tornare in America.

Scelta obbligata la vicinanza con la Russia

Esattamente a mezzogiorno del 27 febbraio io chiedevo alla Camera dei Comuni di approvare i risultati della conferenza di Yalta. In generale i deputati appoggiavano completamente l’atteggiamento da noi assunto; ma era anche fortemente sentito l’obbligo morale che noi avevamo verso la Polonia che tanto aveva sofferto ad opera dei tedeschi e per la quale avevamo preso le armi. Un gruppo di circa trenta deputati sentiva tanto profondamente la questione che parlò apertamente contro la mozione da me proposta. È molto facile, dopo la sconfitta della Germania, criticare coloro che fecero del loro meglio per rincuorare i russi, aiutare il loro sforzo bellico e mantenersi in armonioso contatto con il nostro grande alleato. Cosa sarebbe accaduto se ci fossimo messi in urto con la Russia quando i tedeschi disponevano ancora di tre o quattrocento divisioni sui vari fronti? Le nostre speranze dovevano ben presto essere deluse; eppure a quel tempo non v’era altro atteggiamento da prendere.

LA BIOGRAFIA DELL’AUTORE - WINSTON CHURCHILL 

Winston Churchill fu primo ministro britannico conservatore nella seconda guerra mondiale (1940-1945) e ancora tra il 1951 e il 1955. nacque a Woodstock nel 1874 e morì 90enne a Londra nel 1965. Di famiglia aristocratica, sposò la nobildonna Clementine Hozier nel 1908. Con lei ebbe 5 figli. L’opera monumentale La seconda guerra mondiale (1948-1953) che fu pubblicata anche a puntate sul Corriere in esclusiva per l’Italia e da cui è tratto questo articolo, gli valse il premio Nobel per la Letteratura nel 1953.

La storia del processo ai nazisti. Come è nato il processo di Norimberga, voluto da Stalin contro Churchill e Roosvelt. David Romoli su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

A differenza di quel che si potrebbe credere in base alla visione dei processi di Norimberga offerta soprattutto dal cinema, la strada che portò a quei processi e in particolare al primo, che vide alla sbarra i principali gerarchi superstiti del Terzo Reich dal 20 novembre 1945 al primo ottobre 1946, fu lunga, contrastata, segnata dal rapporto di forze e dalle diverse esigenze dei Paesi in guerra contro l’Asse. E fu molto più decisivo di quanto non sia apparso in seguito il ruolo dell’Unione sovietica.

A parlare per la prima volta di una punizione legale per i nazisti e i loro alleati erano stati nel gennaio 1942 i rappresentanti di nove Paesi invasi dalle forze dell’Asse, riuniti a Londra. L’idea di un tribunale internazionale non aveva convinto nemmeno un po’ Usa e Uk, anche perché l’esperienza si era dimostrata fallimentare e controproducente dopo la prima guerra mondiale.

In giugno, a Washington, il premier inglese Churchill e il presidente Roosevelt avevano concordato sull’opportunità di dar vita a una commissione d’inchiesta sui crimini di guerra, priva però di poteri sanzionatori. Nella visione dei due leader si trattava di una commissione con scopi essenzialmente propagandistici. L’ipotesi di allestire un vero processo era ancora del tutto esclusa. La situazione nell’Unione sovietica era opposta. Stalin e il suo ministro degli Esteri Molotov volevano assolutamente che i leader della Germania nazista fossero portati alla sbarra, anche e forse soprattutto perché, per quanto la situazione dell’Urss fosse ancora difficilissima e la guerra tutt’altro che vinta, già miravano a riparazioni tali da permettere la ricostruzione di un Paese devastato e distrutto dalla “guerra assoluta” di Hitler. Quello che avevano in mente non era un processo che implicasse equilibrio tra accusa e difesa, esibizione di prove o dubbi sul verdetto. Il modello erano i grandi processi staliniani del 1937 e infatti Stalin incaricò proprio Andrej Vyshinsky, il grande inquisitore di quei processi, di preparare quelli del dopoguerra.

Vyshinsky, a sua volta, coinvolse Aron Trainin, il giurista sovietico che più di ogni altro aveva dato forma legale ai processi di Mosca. Fu Trainin, nei tre anni successivi, a definire l’impianto legale che sarebbe poi stato adoperato a Norimberga, smantellando la giustificazione adoperata più spesso, quella di aver “obbedito agli ordini” e soprattutto aggiungendo all’accusa di “crimini contro l’umanità” quella sino a quel momento inesistente di “crimini contro la pace”. Il fatto stesso di aver deciso di muovere guerra con scopi di razzia o genocidio diventava così delitto in sé. Nell’estate del ‘42 le prove dei massacri sul fronte orientale erano però tali e tante da imporre a Usa e Uk di prendere una posizione più decisa. Roosevelt promise in agosto che i responsabili sarebbero stati processati nei Paesi nei quali si erano macchiati dei crimini. Churchill, sentendosi scavalcato, rilanciò l’8 settembre con l’annuncio pubblico della costituzione di una commissione speciale d’inchiesta sulle atrocità commesse dai tedeschi. Stavolta furono i sovietici a prendere malissimo l’annuncio, del quale non erano stati avvertiti preventivamente. Dopo settimane di schermaglie e gelo, bollarono la proposta come “troppo timida” e diedero vita a una propria Commissione straordinaria di Stato incaricata di raccogliere prove sui crimini tedeschi.

La distanza tra il progetto di Stalin e quello del Regno Unito era abissale e rispecchiava la opposta cultura giuridica dei due Paesi. L’Urss mirava a processi-spettacolo in cui la regia fosse decisa a priori sin nei particolari e nei quali dunque non ci fosse nulla da temere. Gli inglesi erano invece consapevoli dell’obbligo, una volta scelta la strada del tribunale internazionale, di rispettare le regole del rituale e non vedevano per quale ragione si dovesse correre i rischi inevitabili un processo reale. Suggerivano di risolvere la faccenda sbrigativamente, con un decreto che condannasse all’impiccagione i gerarchi del Terzo Reich a partire da Hitler. L’eventuale processo per crimini contro l’umanità presentava una difficoltà in più. L’accusa poteva essere rivolta anche contro i sovietici. Nel 1940 l’Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni, erede della Gpu e predecessore del Kgb) aveva massacrato 22mila esponenti dell’élite polacca alle Fosse di Katyn. Nell’aprile 1943 la Germania diede notizia del massacro. Stalin risolse il problema a modo suo: attribuì l’eccidio ai nazisti e gli alleati finsero di credergli. Anche per stornare l’attenzione da Katyn, nel luglio 1943 i sovietici organizzarono il primo processo pubblico contro 11 persone, tutte russe o ucraine, accusate di aver collaborato con gli Einsetzgruppen nell’uccisione di 7mila civili, per lo più ebrei.

In dicembre, subito dopo la conferenza di Teheran fra “i tre grandi” i sovietici allestirono a Kharkov il primo processo in assoluto per crimini di guerra che vedesse militari tedeschi come imputati per lo sterminio di 14mila vittime, per la maggior parte ebree. Gli imputati, tre tedeschi della Gestapo e un collaborazionista ucraino, furono condannati e impiccati dopo un dibattimento nel quale fu per la prima volta smontata la tesi difensiva dell’aver obbedito a ordini superiori. Quando si svolse il processo di Kharkov, al quale Stalin diede massima pubblicità, si era già svolta tra ottobre e novembre la terza conferenza di Mosca, nella quale i ministri degli Esteri dei tre Paesi, il russo Molotov, l’inglese Eden e l’americano Hull concordarono per la prima volta ufficialmente l’intenzione di punire tutti i responsabili dei massacri nazisti, senza specificare però se passando o meno per processi formali. L’interrogativo non fu evaso neppure nella successiva conferenza di Teheran, dal 28 novembre al primo dicembre ‘43, nella quale Stalin illustrò tuttavia il progetto di eliminare tra i 50mila e i 100mila ufficiali tedeschi. Churchill e Roosevelt pensarono, a torto, che stesse scherzando.

Quando i tre leader si incontrarono di nuovo a Yalta, dal 4 all’11 febbraio 1945, la decisione sul come punire i capi della Germania nazista e i responsabili delle stragi non era ancora stata presa. Gli inglesi insistevano sulla condanna a morte per decreto ma nel corso del 1944 lo staff della Casa Bianca si era spostato sempre più vicino alle posizioni sovietiche. I consiglieri di Roosevelt ritenevano che la condanna a morte senza processo avrebbe potuto fare dei nazisti dei martiri e suggerivano una dinamica molto simile a quella poi effettivamente adottata: un primo processo contro i principali gerarchi e poi processi contro gli imputati di rango minore che avrebbero potuto svolgersi o nei Paesi colpiti oppure, di nuovo, di fronte a corti internazionali. Mentre la fine della guerra si avvicinava, il nodo non era ancora stato sciolto. Gli inglesi erano fermi sull’idea di un processo a porte chiuse alla fine del quale le condanne avrebbero dovuto essere emanate per decreto e non tramite formale sentenza. I sovietici reclamavano il processo pubblico secondo il rito spettacolare del 1937 a Mosca.

In aprile Harry Truman, diventato presidente dopo la morte di Roosevelt, ruppe gli indugi, bocciò la proposta inglese, in realtà condivisa da molti anche a Washington, perché “antidemocratica”, assicurò ai sovietici che anche con un processo formale e “garantista” i gerarchi sarebbero stati puniti. Il 2 maggio 1945, proprio mentre i sovietici issavano la bandiera sovietica sul Reichstag a Berlino, Truman, senza avvertire inglesi e sovietici, annunciò l’istituzione di un tribunale militare internazionale che avrebbe giudicato i responsabili del terrore nazista.

David Romoli

Mirella Serri per “La Stampa” il 29 aprile 2022.

Che baruffa, a febbraio del 1960, nel salone dell'ambasciata italiana a Mosca surriscaldato dal clima di aspra contesa e di male parole. Nell'ambiente affollato di corrispondenti stranieri e di alti papaveri sovietici con il medagliere sul petto, appena entrato Nikita Chruscëv tracannò una flûte di bollicine e ringhiò: «Chi è che non vuole la pace?».

Poi attaccò l'Italia e il regime capitalista dove «è più intelligente chi ha più dollari. Nel regime socialista è più intelligente chi ha più intelligenza». Il capo dello Stato sovietico aggredì così Giovanni Gronchi, il primo presidente italiano in visita ufficiale in terra comunista. 

Dato l'insuccesso, almeno apparente, di quel viaggio, Gronchi al rientro in Italia fu criticato per le sue «aperture» all'Urss. Era così? In un documento riservato del Presidium del Pcus, ritrovato negli archivi, i sovietici affermavano il contrario: Gronchi si era comportato in modo «leale» e la missione aveva avuto «un significato positivo per il miglioramento dei rapporti sovietico-italiani».

Non erano parole al vento: la visita di Gronchi favorì l'accordo dell'Eni di Enrico Mattei con l'Urss per la fornitura di petrolio. Anni dopo venne ratificato il contratto per la vendita all'Italia di gas sovietico e si avviò con la Russia la partnership che dura ancora oggi e per noi vitale e di cui si discute nelle sanzioni da infliggere a Vladimir Putin. 

A ripercorrere le tappe del periglioso incontro-scontro, avviato fin dalla conclusione della seconda guerra mondiale, con un compagno di strada assai poco affidabile come l'Orso russo è il libro ricco di documenti inediti (provenienti da archivi inglesi, francesi e italiani) di Antonio Varsori Dalla rinascita al declino. Storia internazionale dell'Italia repubblicana (Il Mulino).

Ci spiega il docente dell'Università di Padova che gli incontri, prima con l'Urss e poi con la Federazione russa, furono spesso costellati di dichiarazioni pubbliche, le quali raccontavano solo parte della verità, e di trattati commerciali segreti.

Questi ultimi in epoca postbellica erano stimati dai politici italiani non solo un tassello importante degli affari ma anche un percorso privilegiato per stringere intese politiche con un partner non sempre addomesticabile. 

Così l'appuntamento conflittuale tra Gronchi e l'irascibile Chruscëv fu un connubio che includeva impegni riservati poiché il partenariato economico avveniva nel clou della guerra fredda, in momenti drammatici dell'escalation delle ostilità tra Est e Ovest. Si profilava la costruzione del muro di Berlino per impedire il passaggio tra le due Germanie. Ma il governo italiano - con la Dc in maggioranza relativa -, pur in momenti poco appropriati ai discorsi di pace, si prodigava in favore della «distensione» tra i due blocchi.

Uscita sconfitta dalla guerra, l'Italia aveva bisogno di rompere l'isolamento, di rilanciarsi sulla scena internazionale e gli esponenti governativi individuarono nella costruzione di relazioni con l'Urss lo spazio per un'autonoma affermazione della Penisola. 

Nell'estate del '61, mentre si aggravava la crisi di Berlino, il presidente del Consiglio Amintore Fanfani, in nome della pace mondiale, si recò in Urss per svolgere un'opera di mediazione tra Washington e Mosca. Il rendez-vous, sollecitato dalle stesse autorità russe, venne però ufficialmente considerato un fallimento dagli americani e dagli italiani. Non era vero.

L'incontro - come risulta dalle carte riapparse dai fondi archivistici - stimolò nei sovietici il desiderio «di mantenere aperto un canale di dialogo bilaterale con l'Italia». Il risultato?

«La concessione di prestiti all'Urss da parte italiana, nonché accordi fra l'Eni e il Cremlino e, soprattutto, l'intesa raggiunta con la Fiat per la costruzione di uno stabilimento che avrebbe prodotto su grande scala auto per il mercato sovietico». I politici italiani erano impegnati in una doppia avventura: erano padri fondatori dell'europeismo e convinti atlantisti. Ma la battaglia per la «coesistenza pacifica» secondo loro prendeva forma anche nei patti per la costruzione di Togliattigrad. Gli scambi commerciali erano considerati anche un passaporto per successive alleanze politiche.

Sostenitore dei legami con l'Urss fu pure Giulio Andreotti. A lui si rivolse Gorbaëv per trovare ausilio in uno dei suoi momenti più bui: «Caro Giulio, vorrei contare innanzitutto sulla sua comprensione... poiché con la sua maestria politica può fare molto per impedire il dilagare della tendenza negativa nei rapporti tra l'Occidente e l'Unione Sovietica». Nel '90 l'Italia sostenne l'Urss con ingenti finanziamenti, circa 7 mila miliardi di lire in cinque anni.

Una scelta generosa che suscitò perplessità per la precaria economia sovietica. Nel nuovo secolo fu poi Silvio Berlusconi a raccogliere il testimone dei rapporti con la Russia di Putin: cercò di rilanciare la politica estera italiana attraverso la collaborazione con il mondo dell'Est e lo fece a modo suo, imboccando il percorso della "diplomazia personale", nello storico incontro con Putin del maggio 2002 a Pratica di Mare. Berlusconi, all'epoca a capo del governo, in seguito ha di frequente ripetuto che quello storico abbraccio pose fine alla guerra fredda. Complice la tolleranza dell'Occidente e la volontà irriducibile di fare affari si avviava la guerra calda, nel 2008 Putin invadeva la Georgia e nel 2014 proseguiva con l'annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass.

Oggi l'invasione dell'Ucraina dimostra che la paziente e decennale tessitura del matrimonio con la Russia, si è dimostrato fallimentare. Il connubio è durato a lungo ma Putin lo ha spezzato con feroce determinazione. Ora proprio l'economia ci vincola, siamo legati ai contratti energetici ed è andata in frantumi l'amicizia. La Russia ex Urss docet. Occhio alla Cina. Gli scambi commerciali non necessariamente sono le sentinelle della pace.

No alla via del negoziato. L’Italia ripudia la guerra, anzi no: a decidere sono gli Usa. Alberto Cisterna su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Incedere per ignes. Camminare sui carboni ardenti e, anche, tra macerie fumanti. È evidente che la guerra in Ucraina sta mandando in frantumi visioni del mondo, convinzioni religiose, culture politiche, anfratti delle coscienze. E sta creando irriducibili distanze, polemiche roventi, con l’inevitabile tentazione del tacere. La maggioranza della popolazione italiana – si legge nei sondaggi velocemente divulgati e immediatamente cestinati – è contraria all’invio delle armi all’Ucraina, non vuole essere coinvolta nel conflitto, non ritiene del tutto convincente la posizione dell’Occidente.

Dei destini di questa maggioranza muta si è impadronita un ceto sacerdotale che da quasi due mesi ha spalancato le porte del tempio di Giano e ha deciso che, certo, la Repubblica ripudia la guerra (articolo 11 Costituzione), ma solo a fasi alterne e a seconda delle convenienze in campo. Illustri costituzionalisti (Ainis, Azzariti e altri) lo hanno spiegato ampiamente: il fatto che la Costituzione disciplini lo stato di guerra non vuol dire che i conflitti armati siano consentiti nella risoluzione delle controversie internazionali, ma solo che l’Italia tollera la guerra di difesa. È un ripudio che però uno stuolo di sciamani con l’elmetto non condivide e che ritiene, come detto, di poter declinare come crede, scegliendo le guerre da sponsorizzare. In Afghanistan prima sì e poi no; in Iraq prima sì e poi; in Serbia prima sì e poi no; in Libia prima sì e poi no; in Siria o in Yemen chi se ne frega. Insomma a seconda di come gli interessi si organizzano e si mobilitano, una buona ragione per sostenere la guerra la si trova sempre. Le basi di al Qaeda, le armi chimiche, le fosse comuni, le torture.

Questa volta circolano almeno un paio di giustificazioni per spiegare il nostro progressivo coinvolgimento nelle ostilità in Ucraina. La prima è abbastanza cinica, ma ha una certa presa utilitaristica e non è esente da una feroce razionalità. Occorre punire e fermare la Russia, altrimenti ci ritroviamo i cosacchi ad abbeverare i cavalli nelle fontane di San Pietro. È propaganda un po’ rétro, ma ha una buona efficacia. Dopo l’Ucraina, toccherebbe alla Polonia, poi alle repubbliche baltiche, poi alla Finlandia, si dice. Insomma la teoria dell’effetto domino è abbastanza nota e la litania viene declamata in coro dalle vestali. Certo bisognerebbe spiegare perché l’invincibile Armata russa non sia riuscita a espugnare la fragile Ucraina e come si possa pensare che abbia i mezzi per arrivare anche solo ai confini della Polonia. Ma questo è un esercizio retorico che pretenderebbe un minimo di buona fede e una dose di sincerità. Merce rara sotto gli elmetti.

Poi esiste una seconda giustificazione più bohémien, emozionale e coinvolgente: quella secondo cui gli ucraini combattono per la libertà e per la democrazia che sono i valori fondanti dell’Occidente per cui meritano di essere armati e sostenuti. Che il popolo ucraino stia lottando per la libertà e per l’indipendenza è indiscutibile; come è chiaro che gli stati che oggi lo sostengono con carichi di armi avrebbero dovuto piuttosto impedire l’invasione e la guerra con sanzioni preventive e trattando su marginali concessioni territoriali diventate oggi impossibili. Anche il presidente Draghi avrebbe dovuto subito porre agli italiani l’alternativa tra la pace e il condizionatore, non dopo settimane di un bagno di sangue con migliaia di vittime innocenti. Però. Però un merito il premier lo ha avuto con il suo schietto eloquio perché ha reso radicale la contrapposizione. Forse avrebbe potuto esprimerla in termini poco poco più articolati domandando se l’Italia preferisce la pace “dopo” la guerra oppure il fresco dei propri condizionatori. Perché è questa la vera alternativa sottesa al discorso.

Se accettare un periodo, più o meno lungo, di guerra fredda o tiepida con la Russia, rifornendo di armi l’Ucraina, oppure se sfilarsi dalla contesa lasciando accesi termosifoni e condizionatori a nostro piacimento. La via del negoziato, della mediazione, del compromesso non è presa neppure in considerazione. Non esiste e basta nel lessico della trincea. La pace in quella traiettoria significa restare fedeli all’Alleanza atlantica a tutti i costi e fino in fondo anche a rischiare una gigantesca recessione economica e un collasso finanziario che stritolerebbero le imprese e la gente. Il tutto, sia chiaro senza neppure la garanzia che – prima di qualche anno – i condizionatori si possano riaccendere. Quindi, secondo i più, stiamo difendendo i valori occidentali e la democrazia. Che strano. In un paese in cui la partecipazione al voto coinvolge circa la metà della popolazione; in cui i partiti patiscono una crisi irreversibile; in cui tanta economia privata galleggia su un mare di privilegi, rendite e favori di regime; in cui lo Stato compra a miliardi di euro concessioni su beni che sono suoi, ma poi non riesce a spostare un ombrellone da una spiaggia; in cui nugoli di corporazioni gravano la collettività con rendite parassitarie enormi; in cui la giustizia è travolta da critiche e sospetti; in cui non si riesce a far nulla di meglio che chiamare alla guida della nazione un ottimo banchiere mai eletto; in cui milioni di giovani diventano vecchi restando precari; in cui l’evasione fiscale è una scelta collettiva. Bene in questo Areopago ateniese, esempio di virtuosa democrazia, è normale che il cuore delle vestali in tuta mimetica pulsi in favore della libertà e della democrazia. Come potrebbe essere diversamente verrebbe da chiedersi.

In questa rappresentazione idealizzata, in questa retorica della libertà e della democrazia c’è un evidente inganno o una terribile mistificazione. Tra quelli che solidarizzano, tra quelli che inneggiano all’invio delle armi e poi guardano in tv ogni giorno il massacro di centinaia di ucraini inermi sotto le bombe assassine di Putin, si annida un nemico insidioso per la Repubblica. È il nemico che vuole mantenere la lucrosa e opulenta “pace” dei pochi a dispetto dei “condizionatori” dei molti; quello che declina la libertà come esercizio delle proprie prerogative e garanzia dei propri privilegi; quello che non si cura di rimuovere le diseguaglianze e le ingiustizie; quello che ama sventolare le bandiere della propaganda libertaria senza guardare in faccia il deterioramento delle condizioni di vita che rendono ogni libertà “una scatola vuota” tante volte, un orpello per placare la sofferenza dei più. Era infuocato il dibattito, prima della guerra, sulla crisi dei sistemi democratici e della rappresentanza parlamentare; forze politiche importanti si ergevano a espressione del malessere diffuso e della necessità di riempire nuovamente di contenuti e di svuotare di retorica la Repubblica. Ora i chierici con l’elmetto hanno trovato il modo di rivitalizzare parole spesso prive di senso per tanta parte dell’Occidente. Una profonda secolarizzazione religiosa e civile sta prosciugando le democrazie trasformandole agli occhi di miliardi di persone in un odioso Eden consumistico.

Si sa, la guerra aiuta e il nemico serve a esaltare valori smarriti, a nascondere le crepe delle società preoccupate di mantenere il proprio benessere sotto l’ombrello democratico. Tra la pace armata e i condizionatori, gli italiani non devono fare alcuna scelta. Avrebbero avuto, invece, il diritto di vivere in un paese che non si fosse svenduto agli oligarchi del gas; che non acquistasse ora il gas da altri regimi illiberali andando in giro per il mondo con il cappello in mano; che avesse visto realizzato un equo benessere per non essere terrorizzato da minacce in gran parte esistenti quanto l’antrace di Saddam Hussein. Una volta erano le dittature a tentare di salvarsi con la guerra (come l’Argentina con le Falkland) oggi tocca alle democrazie rese fragili e molli dal consumismo onnivoro. Alberto Cisterna

Tra Europa e Urss ripresa dei contatti. E a Taranto l’arrivo del «Giulio Cesare». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.

Riallacciare i rapporti con la Russia come priorità per l’Europa: è quello che emerge dalla prima pagina del «Corriere delle Puglie» del 14 aprile 1922. Nell’ambito dei lavori della Conferenza di Genova, lo storico incontro di carattere politico-economico per la ricostruzione dopo la Grande guerra, si è arrivati a discutere uno dei punti culminanti: il memorandum per la ripresa dei contatti istituzionali con la Russia, interrotti in seguito alla Rivoluzione d’ottobre.

Si tratta di un passaggio indispensabile per una completa ripartenza dell’Europa, si legge sul «Corriere». I Paesi occidentali, ad ogni modo, pretendono dal «babilonico regime soviettista» alcune precise garanzie, che costituiscano un minimo di assicurazioni «contro la tirannia bolscevica ed un minimo di ritorno alla civiltà». Da lì a pochi mesi, nel dicembre 1922, dalla Repubblica socialista federativa sovietica russa si costituirà l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS), una nuova entità sovranazionale, che ingloberà anche Ucraina, Bielorussia e la Federazione transcaucasica.

Taranto grande porto europeo

Grande attesa nel bacino del Real Arsenale di Taranto per l’arrivo del transatlantico «Giulio Cesare». Si tratta di una nave eccezionale, che nell’aprile 1922 si prepara a salpare per il suo primo viaggio Genova-Buenos Aires.

Il suo passaggio nelle acque ioniche, si legge sul «Corriere», costituisce di per sé un vero avvenimento: si tratta di uno dei più grandi vapori in navigazione, «la cui struttura, all’altezza dei ponti, supera il livello del Corso due Mari e raggiunge quello dei caseggiati».

Iniziata nel 1913, la realizzazione del transatlantico necessita ancora di specifici lavori, tra cui la pulitura della carena, che si intende portare a termine proprio nel porto pugliese: «Pare che nessun altro bacino di carenaggio possa ospitare in Italia vapori di sì grande tonnellaggio e che quindi le unità mercantili di tale portata siano costrette a servirsi del Bacino maggiore del R. Arsenale di Taranto, che è il più vasto e capace di quelli esistenti in Italia».

Costruito nel 1916 e successivamente intitolato a Edgardo Ferrati, il bacino di Taranto è ancora oggi tra i più grandi d'Europa: lo spettacolo magnifico che offrirà il passaggio di questo «colosso del mare» nella città sarà solo il primo di una lunga serie.

Da Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

La Finlandia è un Paese felice, lo dicono tutte le statistiche del mondo. Per la verità un po' tutti ci chiediamo come sia possibile visti i suoi bui inverni che durano buona parte dell'anno e le temperature medie polari. Si trova pure al confine con la Russia che di questi tempi non è esattamente la migliore delle posizioni geografiche possibili. 

Eppure proprio per questo motivo e proprio per il fatto che c'è la discreta possibilità che il Paese entri nella Nato non c'è giorno che i giornali di tutto il mondo, nostrani compresi, non colgano la ghiotta occasione di darci almeno un motivo di invidia per quel Paese freddo e lontano: una bella foto di Sanna Marin, premier finlandese, millennial (36 anni), socialdemocratica (che a loro non guasta) e soprattutto gnocca stellare, slanciata ed elegante. Non ce ne vogliate se usiamo la parola "gnocca", è vero si tratta di sessismo, ma in questo caso i sessisti non siamo solo noi ma anche tutti quelli che ogni giorno appunto pubblicano con gioia la sua foto con la scusa della Nato e delle bombe atomiche russe. 

La bomba atomica nel qual caso semmai è lei che ben sapendolo è la regina delle photo opportunity di ogni vertice. Lo sappiamo, anche quello che abbiamo appena scritto potrebbe finire nel novero sessista, ma una passeggiata nel parco della Merkel infagottata nei suoi tailleur pantalone viola insieme a un incerto deambulante Juncker avrebbe avuto tutt' altro effetto. Certo, photo opportunity anche quella, ma ve lo assicuriamo, in qualsiasi giornale del mondo la prima farebbe la gioia di ogni prima pagina, la seconda sarebbe cestinata. 

Ma non sempre ovviamente nei feuilleton riguardanti la Marin si è parlato di Nato. Si è parlato anche di lei, del fatto che è a capo del governo che tutti invidiano, composto perlopiù da donne (come nel resto del nord Europa peraltro) del fatto che è la più giovane premier del mondo o quasi, togliendo il virtuale record alla neozelandese Jacinda Ardern. Ma soprattutto che proviene da una famiglia arcobaleno, ciliegina sulla torta progressista.

Gnocca e anche tanto, elegante, di sinistra, millennials, prova vivente che essere cresciuti in una famiglia LGTBQIA+ è perfino un vantaggio. E adesso, nel momento che conta, pronta anche al passo decisivo, che non è il matrimonio (con un calciatore, Markus Raikkonen) ma l'adesione alla Nato. Cosa peraltro per la quale fino a qualche tempo fa più di un commentatore progressista nostrano avrebbe storto il naso, mentre adesso per "Santa" Marin sono solo applausi, genuflessioni e occhi dolci. 

Chi conosce i russi (come i finlandesi) sa perfettamente da che parte stare. Riccardo Mazzoni su Il Tempo il 16 aprile 2022.

Quando la storia irrompe nelle nostre vite mettendoci di fronte alla sua cruda realtà, c'è sempre un moto di sorpresa nelle opinioni pubbliche occidentali cresciute nel trinomio pace-democrazia-libertà.

La guerra in Ucraina, la più terribilmente vicina, ha riaperto tutte le faglie ideologiche che avevano caratterizzato la seconda metà del Novecento, facendo riemergere la schiuma politica dei nostalgici del comunismo che come parassiti hanno vissuto al riparo dell'Occidente per picconarlo. L'Italia in particolare è stata succube per decenni - e in parte purtroppo lo resta dell'egemonia culturale comunista che, alimentata dalle sapienti casematte della disinformazione, ha permeato anche molti libri di storia (basti pensare alla lunga cancellazione delle foibe dalla memoria collettiva), per cui non è sorprendente che oggi la quasi totalità degli italiani non disponga degli strumenti per comprendere appieno cosa stia davvero accadendo nell'Est d'Europa, al di là della dicotomia aggressore-aggredito. La decisione della Finlandia di chiedere l'adesione alla Nato dopo un'epoca interminabile di neutralismo, ad esempio, sta suscitando uno stupore del tutto ingiustificato per chi ha solo una minima nozione dei suoi tormentati rapporti con la Russia.

La guerra d'Inverno del '39-'40, scatenata da Stalin per acquisire alcuni territori considerati strategici dal punto di vista militare in funzione antitedesca, fu un tentativo espansionistico che ha molte similitudini con l'invasione dell'Ucraina. Anche allora, infatti, era stato siglato un patto di non aggressione sovietico-finlandese molto simile al Memorandum di Budapest del '94 con cui la Russia si impegnava a rispettare l'integrità territoriale dell'Ucraina, ed entrambi i trattati sono stati poi totalmente disattesi da Mosca. E lo Stalin che disse: «Noi non possiamo cambiare la geografia, né lo potete voi. Siccome Leningrado non può essere trasportata via, la frontiera deve essere spostata più lontano», ricorda la sprezzante postura di Putin nel voler ridisegnare i confini d'Europa. Ma anche l'andamento delle due guerre ricalca lo stesso scenario. Kruscev scrisse nelle sue memorie: «Tutto ciò che avevamo da fare era alzare appena un po' la nostra voce e i finlandesi avrebbero obbedito... Nessuno di noi pensava che ci sarebbe stata la guerra... Di certo non avevamo alcun diritto legale... ma il nostro desiderio di proteggere noi stessi era una sufficiente giustificazione ai nostri occhi».

I finlandesi dimostrarono uno spirito patriottico che inflisse a Stalin perite dolorose costringendolo a siglare dopo pochi mesi un accordo di pace che ridimensionò di molto le aspirazioni territoriali della Russia, e lo stupore rivelato da Kruscev per quella inattesa debacle non è forse lo stesso che aleggia ora nelle stanze del Cremlino di fronte all'eroica resistenza del popolo ucraino? Un popolo che non può dimenticare le atroci sofferenze subite sotto il dominio sovietico e culminate nell'Holomodor, l'atroce carestia imposta da Stalin nel '32 che sterminò milioni di persone. È sempre la storia con le sue memorie, le sue tragedie e le sue macerie che indirizza il sentimento profondo delle nazioni, e non ci deve dunque stupire che oggi siano proprio i popoli più vicini all'Orso russo, e che ne hanno sperimentato il tallone spietato, a volersi mettere al riparo, e a difendere i valori occidentali molto più di noi, della nostra incauta atarassia e della nostra ignoranza della storia. 

Svizzera verso la Nato, "non possiamo più difenderci da soli": la decisione cambia la storia, il peggio sta per arrivare? Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

La guerra in Ucraina fa paura ai Paesi neutrali. Tanto che dopo il ripensamento di Finlandia e Svezia ora anche la Svizzera comincia ad avere voglia di entrare nella Nato. Sebbene proprio l'allargamento della Nato a Est sia stato uno dei motivi che ha scatenato la furia di Vladimir Putin, dopo l'invasione dell'Ucraina chi è sempre stato non schierato ora desidera una protezione diversa. 

Stando a un sondaggio realizzato su 20 mila persone il giorno di Pasqua dal domenicale SonntagsZeitung riportato da La Repubblica, infatti, la popolazione svizzera, "nella misura del 56 per cento, è favorevole a una collaborazione più stretta con la Nato". Addirittura, il "33 per cento del campione preso in esame dal domenicale è d'accordo ad aderire tout court all'alleanza atlantica". 

Un dato che fino a poco tempo fa sarebbe stato davvero impensabile. Tra i più neo-atlantisti elvetici c'è il presidente del Partito Liberale, Thierry Burkart, partito del quale fanno parte sia il ministro degli Esteri e attuale presidente della Confederazione, Ignazio Cassis, che la ministra di Giustizia e Polizia, Karin Keller-Sutter. "La Svizzera - la tesi di Burkart - non può difendersi da sola contro missili internazionali. Serve quindi una revisione della politica di sicurezza e un allineamento più stretto con la Nato". 

E seppure non sarà imminente l'adesione della Svizzera alla Nato, il comandante in capo dell'esercito svizzero, Thomas Süssli, sottolinea che "se entrassimo in guerra la neutralità cadrebbe e la Svizzera si troverebbe a collaborare con i paesi vicini", tutti membri della Nato, peraltro. Insomma, "il conto alla rovescia per l'adesione è iniziato, visto che di fatto, contrariamente al passato, questa volta Berna ha scelto senza indugi un campo". 

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 30 aprile 2022.

Se l'obiettivo di Vladimir Putin era spezzare l'accerchiamento militare della Russia da parte della Nato, è già fallito. Ciò che sta avvenendo è l'esatto contrario: Finlandia e Svezia, sino a poche settimane fa determinate a restare fuori dall'Alleanza atlantica, stanno accelerando le pratiche per l'adesione, che le metterebbe sotto l'ombrello della clausola di difesa collettiva prevista dall'articolo 5 del Patto. I due Stati hanno eserciti e armamenti di alto livello e una posizione geografica cruciale, e il loro ingresso cambierebbe drasticamente gli equilibri tra Mosca e il blocco occidentale.

Tutto questo si deve a proprio a Putin: sono state le immagini di Mariupol distrutta e le notizie delle stragi di civili e degli stupri compiuti dai soldati di Mosca che hanno ribaltato le convinzioni degli elettori dei due Paesi. Secondo un sondaggio pubblicato ieri in Finlandia, il 65% della popolazione è a favore dell'entrata nell'Alleanza: cinque anni fa, solo il 19% era su questa posizione. Situazione simile in Svezia, dove le ultime rilevazioni segnalano un 51% di favorevoli e un 24% di contrari.

Aftonbladet, quotidiano dei sindacati degli operai svedesi, sinora su posizioni neutraliste, si è chiesto «come la Svezia e la Finlandia possano garantire la nostra sicurezza rimanendo fuori della Nato, quando la Russia è pronta ad iniziare una guerra su vasta scala contro un Paese vicino».

I politici si adeguano. 

Ieri i ministri degli Esteri di Finlandia e Svezia si sono incontrati ad Helsinki per discutere dell'ingresso dei due Paesi - magari simultaneo - nell'Alleanza. Tutto dovrebbe essere definito prima del vertice Nato che si terrà a Madrid il 29 giugno. Sulla bilancia c'è anche la minaccia del Cremlino, da dove hanno promesso «gravi conseguenze politico-militari» se i due Paesi compieranno un simile passo.

A Washington, di certo, nessuno si opporrà. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ieri ha assicurato che le porte della Nato sono aperte all'ingresso di svedesi e finlandesi: «Se questo è ciò che vorranno, noi lo sosterremo con forza». 

Già sono uscite le prime analisi su come cambierebbero i rapporti di forza tra la Nato e la Russia. La rivista Foreign Affairs non ha dubbi: «Se la Finlandia e la Svezia aderiranno all'Alleanza, come sembrano pronte a fare, porteranno nuove e sostanziali capacità militari, tra cui avanzate capacità aeree e sottomarine, che altereranno l'architettura di sicurezza dell'Europa settentrionale e contribuiranno a scoraggiare ulteriori aggressioni russe».

I due Paesi, infatti, spendono molto perla difesa: la Finlandia già soddisfa il requisito del 2% del Pil chiesto dalla Nato e la Svezia intende raggiungerlo entro il 2028. «La Finlandia», prosegue Foreign Affairs, «mantiene un esercito con riserve molto consistenti, e la Svezia ha forti forze aeree e navali, in particolare sottomarine». 

Nel Comitato atlantico norvegese spiegano che «l'adesione della Finlandia e della Svezia alla Nato cambierà la situazione geopolitica. Rafforzerà la deterrenza e la difesa aggiungendo all'Alleanza Paesi democratici, ricchi e relativamente forti dal punto di vista militare in una regione strategicamente vitale». Tra un paio d'anni, secondo i calcoli fatti a Oslo, «l'aviazione collettiva degli Stati nordici consisterà in 150 aerei da combattimento F-35 e in 72 caccia operativi svedesi Jas Gripen», tra i più avanzati. 

«Se aggiungiamo la Gran Bretagna, la Germania e i Paesi Bassi, l'Europa settentrionale avrà quasi 250-300 caccia F-35, oltre ai Jas svedesi». L'Alleanza atlantica otterrebbe così il controllo di quell'area del pianeta su cielo, terra e mare, rendendo possibile anche una difesa molto più efficace di Estonia, Lettonia e Lituania, le tre repubbliche baltiche che erano parte dell'Urss e temono di essere le prossime vittime di Putin.  

Il mar Baltico, nonostante la presenza della Russia, si trasformerebbe di fatto un lago della Nato e le basi dei sottomarini lanciamissili russi diventerebbero vulnerabili, probabilmente indifendibili. C'è un'incognita terribile, ovviamente, e riguarda la reazione di Putin e dei generali di Mosca: cosa farebbero nel momento in cui l'accerchiamento della Russia, il loro incubo dal giorno in cui è crollata l'Urss, diventasse realtà?

Johnson sigla il patto: Londra garantirà protezione a Svezia e Finlandia. Il Dubbio l'11 maggio 2022.

Il primo ministro britannico Boris Johnson in missione nei due paesi verso l'adesione alla Nato. Mosca: «Osserviamo con attenzione».

Se l’obiettivo del Cremlino in Ucraina era scongiurare l’allargamento della frontiera della Nato ai suoi confini, per ora limitata ai Paesi baltici, l’effetto ottenuto sembra essere stato opposto.

Dopo l’avvio, lo scorso 24 febbraio, della cosiddetta «operazione militare speciale», la tradizione di neutralità di Svezia e Finlandia è diventata all’improvviso obsoleta. Stoccolma, in un primo momento, aveva escluso la possibilità di aderire all’Alleanza Atlantica. La premier Magdalena Andersson, nel giorno dell’invasione, aveva ribadito l’opportunità di preservare la «stabilità» della «storica politica di sicurezza svedese, contando forse su un conflitto limitato nel tempo e nello spazio. La collega di Helsinki, Sanna Marin, più preoccupata data la vastità della frontiera terrestre condivisa con la Russia, aveva invece aperto subito a un ingresso della sua nazione nella Nato. Marin avrebbe rotto un primo tabù appena quattro giorni dopo, inviando a Kiev armi e munizioni. Il 27 febbraio anche Andersson avrebbe annunciato la decisione «eccezionale» di spedire 5 mila lanciarazzi anticarro all’Ucraina, la prima fornitura di armi a un Paese straniero dal 1939, quando la Svezia mandò aiuti militari alla Finlandia per aiutarla a reagire all’aggressione sovietica.

Oltre due mesi dopo, con il conflitto tra Mosca e Kiev trasformatosi in una guerra di logoramento, entrambi i Paesi nordici sono a un passo da un’adesione che potrebbe essere richiesta dai due governi in maniera congiunta a metà maggio, come confermato lo scorso 26 aprile dal ministro degli Esteri finlandese, Pekka Haavisto, all’indomani di un incontro bilaterale con l’omologa svedese, Ann Linde. L’obiettivo condiviso da entrambi i Paesi è accelerare, senza attendere il vertice Nato che si terrà a fine giugno a Madrid. Più lunga sarà l’attesa, più tempo Svezia e Finlandia saranno esposte a rappresaglie russe, in particolare attacchi informatici.

La portavoce del ministro degli Esteri russo, Maria Zakharova, chiarì subito che l’adesione delle due nazioni alla Nato avrebbe avuto «gravi conseguenze militari e politiche che richiederebbero al nostro Paese di adottare misure reciproche». Più esplicito il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, che lo scorso 14 aprile aveva avvertito che, nell’eventualità di un ingresso di Stoccolma e Helsinki nell’Alleanza Atlantica, sarebbero state schierate testate nucleari russe nel Mar Baltico, dove Mosca controlla l’exclave di Kaliningrad, strappata alla Germania nazista dopo la Seconda Guerra Mondiale.

I moniti giunti da Mosca hanno portato Marin ad auspicare un’approvazione «il più veloce possibile» della richiesta di adesione finlandese. «Se Finlandia e Svezia fossero candidate, la questione chiave è avere il processo di ratifica più breve possibile», aveva affermato lo scorso 4 maggio Marin, spiegando che sono in corso negoziati con Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia per ottenere garanzie di protezione durante la fase di adesione, che può durare diversi mesi.Il giorno successivo Linde avrebbe incontrato a Washington il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, per poi dirsi «molto sicura» sulle garanzie ottenute dagli Stati Uniti. «La Russia può stare sicura che, se dirigerà qualsiasi genere di attività negative contro la Svezia, come ha minacciato, non sarà qualcosa che gli Stati Uniti lasceranno accadere senza rispondere», spiegò Linde senza fornire ulteriori dettagli. I giorni chiave sono imminenti. Domani Sauli Niinisto, presidente finlandese, annuncerà la posizione del Paese sull’adesione alla Nato. Pochi giorni dopo inizierà il dibattito in Parlamento. La decisione di Stoccolma sarà invece preceduta da un vertice del partito socialdemocratico al potere, la cui riunione è prevista nel fine settimana.

E ora la questione, con la visita del primo ministro britannico Boris Johnson in Svezia a Finlandia, è oggetto di «un’attenta analisi» da parte della Russia, come ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov. «Osserviamo con molta attenzione tutto ciò che è connesso ad azioni in grado di modificare in un modo o nell’altro la configurazione dell’Alleanza vicino ai nostri confini», ha spiegato Peskov. «Siamo fermi e inequivocabili nel nostro sostegno sia alla Svezia che alla Finlandia e la firma di queste dichiarazioni di sicurezza è un simbolo dell’eterna assicurazione tra le nostre nazioni», ha affermato invece dalla Svezia Johnson, che incontrerà i leader dei governi di Stoccolma ed Helsinki nella sua missione di 24 ore, e ha già garantito che  il Regno Unito sosterrà Svezia e Finlandia se verranno attaccate.

La Svezia e la Finlandia nella Nato e la distensione del Caucaso. Piccole Note il 12 maggio 2022 su Il Giornale. 

A sin Magdalena Andersson premier svedese, a ds Sanna Marin premier finlandese.

L’adesione della Finlandia e della Svezia nella Nato non rappresenta una minaccia esistenziale per la Russia. Così il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, raggelando i costruttori di guerra che speravano di aprire un nuovo fronte.

Particolarmente interessata ad allargare la guerra è la la Gran Bretagna, che ha siglato un accordo di difesa con i due Paesi nordici, ponendoli sotto l’immediata protezione di Londra.

Tradotto, se la Russia dovesse attaccare quei Paesi prima della loro adesione formale alla Nato, la Gran Bretagna invierebbe una pattuglia di soldati in loco facendo scattare l’articolo 5 che vincola i Paesi membri alla mutua difesa. Per fortuna, questo nuovo fronte non è destinato ad aprirsi, almeno non nell’immediato.

Il fronte vero, quello ucraino, invece, resta sempre nella sua precarietà, dove la guerra vera scorre in parallelo con quella meno insanguinata ma più pericolosa, che si gioca all’interno del fronte occidentale, diviso tra quanti tentano di costruire ponti per giungere alla sospirata pace e quanti li distruggono.

Macron è il leader occidentale che più si sta esponendo per il negoziato, scegliendo ultimamente (e con intelligenza) di giocare di sponda con Xi Jinping, contattato due giorni fa a tale scopo.

Anche in Germania il fronte del negoziato è forte, sia in ambito politico che industriale, perché sa bene che il prolungamento e l’eventuale ampliamento del conflitto rischia di incenerire l’Unione europea a livello economico, finanziario e geopolitico.

Ma Berlino ha margini di manovra più ridotti, perché il gigante economico non è riuscito, nonostante gli sforzi e le illusioni (non solo tedesche), a uscire dalla sua condizione di nano geopolitico.

Simbolica, in tal senso, l’afonia della Merkel, che sta assistendo impotente alla demolizione di quanto ha edificato in decenni. E dire che per anni è stata definita la donna più potente del pianeta (sul punto avevamo avanzato le nostre riserve, suscitando qualche reazione).

Berlino può solo piangere se stessa, avendo violentato l’Unione europea dei padri fondatori per farne una Grande Germania sotto mentite spoglie, distruggendone potenzialità e prospettive globali.

Inoltre, a fare ulteriore pressione sull’apparato economico-finanziario teutonico, spina dorsale della resistenza ai neocon, la pubblicazione recentissima di un volume che espone in dettaglio come le fortune industriali tedesche affondino le loro radici nel nazismo.

Nel pubblicarne una recensione, il New York Times titolava: “Sono gli eredi delle fortune naziste e non si stanno scusando”. Un segnale di peso: se Berlino non si fosse piegata, gli archivi anglosassoni erano pronti a vomitare su di essa quanto finora hanno celato all’opinione pubblica mondiale.

Così, a farsi portavoce di quella parte di Europa che non vuole morire per l’ambizione Washington di tornare dominus incontrastato del mondo è stato scelto il meno ricattabile presidente francese, che sta tentando di fare asse con Pechino, anch’essa interessata a porre fine al conflitto.

Oltre alla Cina, ha sponde anche in quella parte di America non consegnata alle follie dei neoconservatori. Anzitutto Trump, che si è espresso per la necessità di un negoziato tra ucraini e russi (The Hill) e che ha preso in mano il partito repubblicano (come dimostra il fatto che dei 59 candidati che hanno vinto le primarie repubblicane, 58 hanno avuto il suo endorsement).

Ma anche altri ambiti di oltreatlantico meno estroversi e più navigati, il cui dissenso per la piega che ha preso l’aiuto della Nato all’Ucraina (non più difesa, ma guerra infinita per abbattere la Russia) inizia ad affiorare, anche se timidamente, sui media mainstream.

Abbiamo riportato vari articoli che vanno in questa direzione, ultimo quello di Tom Stevenson. Oggi, invece, quello di David Ignatius, penna celebre del Washington Post, che annuncia come Russia e Stati Uniti stiamo collaborando per la distensione tra Armenia e Azerbaigian, ancora divise dopo la guerra del 2020, quando le truppe di Baku attaccarono la regione contesa del Nogorno-Karabakh.

“In un momento nel quale il mondo è concentrato sull’intenso conflitto ucraino – scrive Ignatius -, i problemi diplomatici del Caucaso possono apparire folkloristici. Ma favorire la risoluzione di questi conflitti irriducibili non è solo una cosa positiva in sé; ma offre anche un potenziale punto di convergenza per gli interessi dell’America e della Russia, una convergenza che potrebbe aprire utili vie di dialogo” tra le due potenze.

Nel descrivere nel dettaglio i passi che si stanno compiendo per raggiungere l’accordo caucasico, Ignatius spiega che l’America si è proposta come co-sponsor formale del negoziato insieme a Russia e Francia, rinnovando la formula di Minsk-2, l’accordo che pose fine alla guerra del Donbass.

Mosca ha rifiutato tale formula, prosegue Ignatius (peraltro non molto feconda, come dimostra il conflitto attuale) e però l’Unione Europea “si è unita alla Russia come co-sponsor dei colloqui, ospitando il mese scorso un incontro tra Pashinyan [presidente dell’Armenia] e Aliyev [presidente dell’Azerbaigian] a Bruxelles. Ciò fornisce una gamba occidentale di supporto alla normalizzazione”.

Quindi, dopo aver spiegato il favore americano al processo di pace e l’importante ruolo che sta svolgendo la Turchia, conclude così: “L’Armenia ha un problema che gli ucraini potrebbero dover affrontare in futuro. Dopo aver sofferto così tanto in battaglia, come può una nazione fare pace con i paesi che hanno causato così tanto dolore e sofferenza? È un problema secolare, soprattutto per una nazione come l’Armenia che ha subito un genocidio. Beati gli operatori di pace, anche se non sono molto popolari in questo momento in una Yerevan ancora in lutto”. E in tutto il mondo, si può legittimamente aggiungere.

Peraltro, a tale proposito si può osservare come i rapporti tra gli Stati Uniti e tanti Paesi da essi aggrediti si siano fatti, col tempo, meno conflittuali. Non scendiamo in dettagli, dal momento che dal Vietnam in poi l’elenco sarebbe infinito. 

Ps. Sul Corriere della Sera l’allarme di John Kerry sui pericoli che una guerra infinita pone al clima. Anche quello scelto dal fedelissimo di Obama è un modo per favorire l’uscita da questa crisi.

Nato, la Turchia «non vede con favore l’ingresso di Finlandia e Svezia». Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022.

Le parole del presidente turco Recep Tayyip Erdogan sono nette anche se Ankara non ha espresso una posizione ufficiale in merito: «I Paesi scandinavi,, sono la casa d’accoglienza di numerose organizzazioni terroristiche». 

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha gelato oggi gli alleati della Nato dichiarando «di non vedere con favore l'ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia»: «I Paesi scandinavi sono come una guest house per numerose organizzazioni terroristiche» ha spiegato al Daily Sabah . Il riferimento è ai militanti curdi del Pkk, in Turchia, e dell’Ypg, in Siria che sono stati sempre ben accolti a Stoccolma insieme ai seguaci di Fethullah Gulen, il predicatore accusato del fallito colpo di Stato del 2016.

Il governo turco non ha preso comunque ancora una posizione formale in merito e, d’altra parte, Helsinki e Stoccolma non hanno formalizzato la loro domanda anche se, nella giornata di giovedì, il presidente e la premier finlandesi, Sauli Niisto e Sanna Marin, avevano espresso la volontà che il loro Paese possa aderire «senza indugi». 

Mentre Ankara ha sempre avuto un buon rapporto con la Finlandia, in passato c’erano state forti frizioni con la Svezia per il suo appoggio ai curdi siriani dell’Ypg, che peraltro sono sempre stati supportati dagli Stati Uniti. «Ci sono tantissimi curdi in Svezia e anche molti parlamentari di origine curda — ha chiarito un funzionario svedese —. Temevamo un contraccolpo su questo». 

Una posizione contraria della Turchia impedirebbe l'ingresso dei due Paesi, visto che serve l’unanimità dei suoi 30 membri. Non è certo una situazione facile per Finlandia e Svezia la cui volontà di adesione all'Alleanza atlantica — dopo decenni di neutralità — ha già scatenato l'ira del Cremlino, che ha minacciato di mettere in atto reazioni politiche e militari nel caso di un effettivo ingresso di Helsinki e Stoccolma. 

Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ieri ha confermato che queste conseguenze sono «certe» e che la loro gravità dipenderà da quanto le basi Nato in Finlandia saranno vicine alla frontiera russa. Da domani inoltre il fornitore Rao Nordic Oy, di proprietà al 100% della società russa InterRao, sospenderà le consegne di elettricità alla Finlandia a causa di bollette non pagate.

Nel 1939 la Finlandia fu invasa dall’allora Unione sovietica, e solo una decisa resistenza riuscì a evitarle l’occupazione - ma non l’amputazione del 10 per cento del territorio.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Da quando è diventata membro della Nato, 70 anni fa, Ankara ha sempre approvato ogni allargamento ma oggi, per esempio, Erdogan ha detto di essersi pentito di avere accettato l’ingresso della Grecia che oggi utilizza la sua presenza nell'Alleanza contro Ankara: «Oggi non vogliamo ripetere lo stesso errore» ha spiegato. 

I giochi, però, sembrano ancora aperti. Lo dimostra la reazione cauta del ministro degli Esteri finlandese Pekka Olavi Haavisto: «Facciamo un passo alla volta, dobbiamo avere pazienza» ha dichiarato. I governi dei due Paesi hanno manifestato l’intenzione di discutere della questione con Ankara domani a Berlino, in occasione della riunione informale dei ministri degli Esteri della Nato. E anche la segretaria aggiunta per gli Affari europei al Dipartimento di Stato americano, Karen Donfried, ha fatto sapere di «star lavorando per chiarire la posizione turca». Ieri il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha parlato per poco più di mezz’ora della questione con la prima ministra svedese Magdalena Andersson e il presidente finlandese Sauli Niinisto.

Un’ipotesi è che Erdogan chieda a Svezia e Finlandia di prendere una posizione chiara contro chi appoggia i separatisti curdi del Pkk in Turchia e quelli dell’Ypg in Siria in cambio del via libera all’adesione.

Il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, aveva detto che un'eventuale domanda di adesione da parte di Svezia e Finlandia sarebbe accolta dalla Nato «a braccia aperte», e diversi funzionari dell'Alleanza avevano detto che la procedura di accesso potrebbe essere portata a termine in «un paio di settimane». L'ingresso effettivo non potrebbe comunque arrivare prima di un periodo di almeno 6 mesi, poiché ogni Paese membro deve ratificare il protocollo d'ingresso. 

Di fronte alla «zona grigia» dove comunque Finlandia e Svezia si sarebbero trovate — o si troveranno — tra il momento della richiesta d'adesione alla Nato e il loro effettivo ingresso, il premier britannico Boris Johnson aveva firmato con i due Paesi, due giorni fa, due accordi per offrire loro garanzie di sicurezza da parte di un Paese nucleare, come appunto la Gran Bretagna. 

Un rapporto pubblicato dal governo svedese su quello che potrebbe accadere dopo la formalizzazione della loro domanda di accesso all'Alleanza atlantica prevede che Mosca potrebbe reagire con attacchi «ibridi» — da quelli cibernetici alle violazioni dello spazio aereo o marittimo svedese . Secondo il report, sarebbero possibili anche «segnali strategici» con armi nucleari. 

La ministra degli Esteri della Svezia, Ann Linde, ha detto ai parlamentari che «un attacco armato alla Svezia da parte della Russia non può essere escluso. 

Come scritto da Gianluca Mercuri qui, «nel 1948 la Finlandia firmò un Trattato di amicizia con l’Urss, impegnandosi a non consentire mai operazioni militari antisovietiche attraverso il suo territorio. Helsinki è entrata nel 1995 nell’Unione europea, insieme alla Svezia, e fa parte della moneta unica. È anche uno dei 10 membri della Joint Expeditionary Force, un’alleanza a guida britannica che comprende 10 Paesi (i tre scandinavi, Danimarca, Islanda, Olanda e i tre baltici) ed è una sorta di sotto-alleanza della Nato. Ai finlandesi andava bene così fino a due mesi e mezzo fa, quando i favorevoli all’ingresso nella Nato erano tra il 20 e il 25%. Ora sono il 76%». 

La Finlandia porterebbe con sé in dote «uno degli eserciti migliori d’Europa, con qualcosa come 280 mila soldati e 900 mila riservisti, su una popolazione di 5 milioni e mezzo di abitanti, e credenziali perfette per la Nato, con il parametro del 2% del Pil da destinare alle spese militari già raggiunto, quando molti membri (come l’Italia) ne restano lontani nonostante sia stato stabilito nel 2014. Al confine tra Nato e a Russia si aggiungerebbero 1.340 chilometri. 

Quanto alle conseguenze politiche, i due fronti polemici di queste settimane hanno posizioni che ricalcano quelle sull’Ucraina: gli osservatori preoccupati dalle mosse occidentali temono che si stia ripetendo l’errore dell’espansione della Nato a Est, che se non minaccia la Russia comunque la fa sentire minacciata. Ora ancora di più. Gli osservatori entusiasti delle mosse occidentali, che non ritengono affatto un errore l’espansione della Nato a Est, sottolineano al contrario che la Finlandia ha il diritto di fare quel che le pare, proprio come l’Ucraina».

Nel conflitto in Ucraina la Turchia, pur condannando nettamente l’invasione russa e fornendo i droni all’esercito ucraino, si è posta in un ruolo dialogante con la Russia, per esempio non aderendo alla sanzioni decise dall’Occidente e cercando di favorire la strada di un negoziato.

Il Sultano dice “Niet”. Perché Erdoğan si oppone all’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 17 Maggio 2022.

A orientare la posizione della Turchia ci sono motivazioni economiche e geopolitiche, legate ai cambiamenti imposti dalla guerra e dalla crisi internazionale che ha fatto schizzare l’inflazione. L’occidente però ha poche carte per forzare la mano di Ankara.

Un colpo di scena così, soltanto lui poteva regalarlo. «Non abbiamo impressioni positive sul loro ingresso: Svezia e Finlandia sono un rifugio sicuro per i curdi del Pkk e dello Ypg», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan in conferenza stampa a Istanbul lo scorso venerdì.

Una posizione dura, quasi sorprendente anche per lo stesso presidente, che in passato si era espresso favorevolmente all’allargamento dell’Alleanza Atlantica (infatti poco dopo è arrivata una parziale marcia indietro di Ibrahim Kalin, il suo principale consigliere di politica estera).

«Il motivo è chiaro: Erdoğan spera di poter mantenere fin quando potrà un ruolo super partes, che gli garantisca una posizione da interlocutore credibile sia per Mosca che per l’Occidente, da cui spera di poter ricavare il massimo possibile. Lo deve all’economia interna e alla sua credibilità politica, a un anno dalle elezioni generali che vedono un’opposizione crescente da parte soprattutto dei più giovani», sottolinea a Linkiesta Alessia Chiriatti, responsabile del programma formazione e ricercatrice per l’area Mediterraneo e Medio Oriente per l’Istituto Affari Internazionali.

Perché la Turchia dice no e cosa vuole in cambio

Per entrare nella Nato serve il parere unanime di tutti e 30 i Paesi attualmente membri: per questo sia Stoccolma che Helsinki non possono prescindere dal sì di Erdoğan. Tutti i Paesi, Italia compresa, si aspettano che prima o poi da Ankara arrivi il via libera ma sono consapevoli che sarà necessario scendere a patti.

«La Turchia è un Paese importantissimo per l’Alleanza Atlantica: entrata nel 1952 come bastione meridionale in grado di contenere l’espansionismo sovietico, il suo ruolo è poi cambiato nel corso degli anni. A ridisegnare la sua posizione è stato certamente il rapporto con il presidente russo Vladimir Putin, che ha in parte reso più freddi i rapporti con l’Occidente e gli Stati Uniti», sostiene Chiriatti.

L’espulsione di Ankara dal programma di acquisto degli aerei F35 nel 2019, avvenuta in seguito all’acquisto turco dei missili russi S-400, ne è la controprova, anche se ormai quei tempi sembrano essere passati, come dimostrano i tentativi di Erdoğan di ottenere gli F16 dagli Stati Uniti, nonostante siano meno evoluti degli F35.

La guerra in Ucraina è per questo una grande occasione per il nuovo sultano turco, che ha riacquisito una centralità e un peso politico per l’Occidente di non poco conto. «La questione interna della presenza dei curdi in Svezia sembra quasi una sorta di scusa utile a frenare, almeno per il momento, il processo di adesione e non sembra essere una ragione valida per mantenere il veto turco a lungo. All’Occidente potrebbe bastare vendere alcuni F16 o estradare alcuni esponenti del Pkk o dello Ypg ad Ankara per ottenere il sì di Erdoğan», spiega Chiriatti.

Oltre alle ragioni geopolitiche ci sono però anche motivazioni economiche che portano il nuovo sultano turco a cercare di vendere il suo sì al più alto prezzo possibile. L’inflazione della Lira turca al 61% su base annua (dati aprile 2022) rischia di far crollare una delle economie che fino a pochi anni fa era tra le più in forma del Continente.

La crisi finanziaria, legata all’inflazione della moneta nazionale, ha portato a una crescita del tasso di disoccupazione (che a marzo 2022 ha raggiunto l’11,5% e tra i giovani supera quota 21%) e a una riduzione del potere d’acquisto.

La pandemia e la guerra non hanno certamente aiutato, visto che gli Stretti dei Dardanelli hanno dovuto fare una selezione delle navi di passaggio e impedire il transito di quelle russe.

«Considerando il ruolo centrale a livello di esportazioni di Mosca, rompere con Putin non conviene a Erdoğan, almeno per il momento. Alle porte c’è il grande appuntamento elettorale del 2023: se il presidente si dovesse presentare alle urne con un’economia disastrata e isolato a livello internazionale rischierebbe di perdere credibilità agli occhi degli elettori. Un rischio che penso non voglia proprio assumere», sottolinea Chiaratti.

Un ulteriore stallo economico per un Paese che ha già dovuto stoppare gli investimenti sia dei suoi numerosi partner dall’estero, soprattutto da Giappone e Russia, sia quelli del governo in tema di infrastrutture, soprattutto abitative, sarebbe una pietra tombale anche per le sue ambizioni politiche.

Perché i Paesi occidentali non possono forzare la mano

Nonostante la situazione difficile dell’economia di Ankara, gli Stati Uniti e, soprattutto, l’Unione europea non possono tirare però più di tanto la giacchetta a Erdoğan, a cui devono la gestione dei migranti nell’area mediorientale sin dal 2015 (un servizio reso alla modica cifra di 6 miliardi di euro).

«Non dobbiamo dimenticare poi che la Turchia è il secondo Stato della Nato per presenza militare e ha finora rispettato le richieste dell’Alleanza atlantica, aiutando l’Ucraina e condannando l’aggressione russa. Per questo pare probabile che alla fine si trovi un accordo: una nuova freddezza tra Europa e Turchia non converrebbe a nessuno e la presenza della Svezia darebbe alla Nato una spinta ulteriore in termini militari e logistici senza per questo pregiudicare il ruolo di mediatore della Turchia. Alla fine, conviene a tutti, considerando che la guerra in Ucraina sembra destinata a durare a lungo», sostiene Chiriatti.

Un discorso diverso vale invece per gli Stati Uniti, freddi sia con Donald Trump, che ha preferito stringere rapporti con le petromonarchie mediorientali invece che rinsaldare lo storico legame con Ankara, sia ora con Joe Biden alla presidenza.

Il rapporto tra le parti sembra essersi irrigidito: l’incontro del prossimo 18 maggio tra il segretario di Stato Anthony Blinken e il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu a Washington dirà qualcosa di come stanno le relazioni bilaterali.

Quel che è certo è che finora gli Stati Uniti non sembrano aver ripreso con la Turchia quel rapporto mutato bruscamente nel 2016, quando ci fu il fallito golpe ai danni di Erdoğan e Washington non estradò Fetullah Gülen, il predicatore che vive in Pennsylvania e che è considerato la mente del tentato colpo di Stato.

«Subito dopo, infatti, Washington ha preferito agevolare i rapporti con i vicini più difficili di Ankara come la Grecia, citata non a caso dal presidente turco come esempio da non seguire nel processo di adesione alla Nato. Dopo un iniziale riavvicinamento nel 2020, con il cambio di presidenza, la guerra ha nuovamente rimescolato le carte, allontanando Washington ed Ankara», sottolinea Chiriatti.

E adesso verrà il difficile per Erdoğan: giocare la sua partita e mantenersi arbitro tra i contendenti. Un’impresa che rischia di non riuscirgli.

"La politica della porta aperta". Come si entra nella Nato: le richieste di Svezia e Finlandia e “l’allargamento di Putin”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Maggio 2022. 

“Il nono allargamento della Nato sarà ricordato come l’allargamento di Vladimir Putin“; ha scritto sul Financial Times l’ex premier finlandese Alexander Stubb. Ovvero come il risultato dell’invasione lanciata lo scorso 24 febbraio dalla Russia ai danni dell’Ucraina. Non era infatti argomento di dibatto all’inizio dell’anno l’adesione all’Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia che dopo l’inizio della guerra hanno deciso di rinunciare alla loro neutralità di richiedere formalmente di diventare Paesi membri. Diventerebbero il 31esimo e il 32esimo.

La mossa di Putin rischia insomma di compattare un’Alleanza che ormai era considerata anti-storica e anchilosata negli ultimi anni – il Presidente francese Emmanuel Macron l’aveva definita in stato di “morte cerebrale”. I prossimi passi verso l’adesione dei due Paesi scandinavi saranno molto rapidi, come dichiarato da più parti. La procedura tuttavia è di solito molto lunga e attraversa anni di richieste, dialoghi, verifiche e discussioni. Se si prevedono tempi più brevi per Svezia e Finlandia è perché i Paesi da anni hanno strettissimi rapporti con la NATO e requisiti in linea.

Che cos’è la NATO

La Nato è un’alleanza militare tra nazioni occidentali istituita nell’aprile del 1949 da dodici Paesi nel contesto della Guerra Fredda per garantire difesa ai Paesi membri da eventuali attacchi da parte del blocco sovietico. I Paesi vicini a Mosca si allearono invece nel corrispettivo sovietico dell’Alleanza: il Patto di Varsavia. Con la fine dell’URSS la NATO ha perso quella funzione e ha assunto i caratteri della forza armata. Dopo la caduta dell’Unione l’Alleanza si è sempre più allargata a Paesi dell’Est Europa.

L’articolo 5 del suo statuto – che garantisce l’appoggio militare a un Paese membro attaccato – è stato applicato per la prima volta dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti. I Paesi NATO invasero così l’Afghanistan. L’organismo ha sede a Bruxelles, in Belgio. Le due figure principali sono il segretario generale e il comandante, eletti a turno tra i vari Paesi membri.

Il processo di adesione

A dettare le condizioni per l’entrata è innanzitutto l’articolo 10 del Trattato del Nord Atlantico, quello definito della “politica della porta aperta” che recita così: ” I membri possono invitare previo consenso unanime qualsiasi altro Stato europeo in condizione di soddisfare i principi di questo trattato e di contribuire alla sicurezza dell’area nord-atlantica ad aderire a questo trattato. Qualsiasi Stato così invitato può diventare un membro dell’organizzazione depositando il proprio atto di adesione al Governo degli Stati Uniti d’America. Il Governo degli Stati Uniti d’America informerà ciascun membro del deposito di tale atto di adesione”.

Due i criteri basici richiesti: lo stato che aderisce deve essere europeo e deve essere accettato da tutti i membri già presenti, che al momento sono 30. Tutti i membri hanno quindi diritto di veto. La Turchia, che sta minacciando di bloccare l’ingresso di Finlandia e Svezia, in passato ha sbarrato le porte a Cipro a causa delle dispute con la Grecia per il territorio conteso sull’isola.

La richiesta formale deve essere precedentemente approvata in parlamento. La procedura è divisa sostanzialmente in tre parti. Dopo la richiesta di adesione e considerate le condizioni richieste, si instaura il dialogo intensificato (Intensified Dialogue) introdotto per la prima volta a Vilnius nel 2005. Attualmente in questa fase ci sono Georgia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia e Ucraina. Superata questa fase si attiva il Piano d’Azione (Map: Membership Action Plan): il meccanismo introdotto nel 1999 prevede che ogni stato debba presentare relazioni in merito ai progressi su cinque misure ben definite. Le seguenti: la disponibilità a risolvere controversie territoriali internazionali; etniche o esterne con mezzi pacifici; la capacità di contribuire alla difesa e alle missioni Nato; la disponibilità di risorse sufficienti da destinare alle forze armate; la capacità di preservare informazioni sensibili e le salvaguardie che le garantiscono; la compatibilità tra la legislazione interna e quella dell’Alleanza.

Al Map forniscono un feedback i membri della Nato. Si suggeriscono aggiustamenti tecnici e politici e si propongono incontri annuali. Il Map prevede anche l’elaborazione di obiettivi concordati insieme. Accettati i requisiti la Nato può inviare al Paese richiedente l’invito ad avviare i colloqui di adesione: è il passaggio che segna formalmente il processo di accesso alla NATO tramite una risoluzione votata all’unanimità da tutti i membri dell’Alleanza. Il processo finale prevede cinque fasi fino alla firma dei protocolli di adesione e all’accettazione e alla ratifica da parte dei vari governi degli Stati membri.

Passaggio fondamentale sono quindi gli “accession talks” che hanno l’obiettivo di ottenere una conferma formale del Paese candidato della sua volontà e capacità di rispettare gli obblighi e gli impegni politici, militari e legali previsti dall’adesione. L’accordo è depositato alla sede del Dipartimento di Stato americano a Washington DC. I processi non sono così celeri: la Macedonia – ultimo Paese a entrare nell’Alleanza – ha partecipato al Map nel 1999 ed è diventata membro soltanto nel 2020. Per la Finlandia si parla però di pochi mesi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Sanna Marin in Italia: le ragioni della premier finlandese per entrare nella Nato. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 19 Maggio 2022. 

E così la giovane premier finlandese, dopo aver incassato un (quasi) plebiscito dinanzi al suo parlamento, è approdata sulle sponde del biondo Tevere per assicurarsi da Draghi l’appoggio dell’Italia all’ingresso della Finlandia nella Nato. In questa che sembra una prima tappa di un vasto tour europeo nel quale la Marin propaganderà le ragioni etiche e non solo politiche che la hanno indotta a far abbandonare la tradizionale neutralità del suo paese nello scacchiere militare europeo, la premier più millennium dell’intera Europa sa che non basta conquistare i “sì” ma bisogna anche mettere mano al cronometro.

“Il neutralismo figlio della seconda guerra mondiale è finito. Vi prego di fare il possibile per accelerare, nel vostro Parlamento, la ratifica del nostro protocollo di adesione alla Nato”, avrebbe detto a Letta e Conte, in un pranzo celebrato ieri presso la ambasciata finlandese dopo l’incontro con Draghi. Probabilmente i suoi consiglieri diplomatici le avranno ben chiarito che in Italia, specie quando si parla di politica, i tempi diventano una clessidra a elastico e si pongono borderline al confine tra le vicende bibliche e la fantascienza di Asimov.

Non s’è capito però se nella scelta dei commensali ha giocato la sensazione di una presunta affinità ideologica o la consapevolezza che nel panorama politico italiano non vi è nulla di più fragile del movimento 5Stelle, da tempo alle prese con le sue lacerazioni interne spalmate della salsa della politica del vuoto, e nulla di altrettanto problematico del Partito Democratico teso a mascherare, con una serie infinita di dibattiti su strategie e programmi, il suo vero problema del momento che è quello di trovare il modo migliore per affrontare le imminenti elezioni con il 30% di parlamentari in meno senza rischiare di frantumare il partito in mille rivoli.

“La nostra storica neutralità si è infranta contro la violenza e la pericolosità di Putin”, avrebbe detto la Marin ma nonostante la forza di queste parole sembra difficile che sia riuscita a far comprendere ai suoi due commensali le ragioni etiche e ideologiche che hanno portato il suo paese a fare questa scelta che cambia in maniera profonda la sua storia.

La solennità che avvolge le coscienze del riformismo socialdemocratico (specie quello scandinavo)  quando si parla di vite umane, di libertà e di solidarietà è difficile da trasmettere a chi di riformismo non sa nulla o sa poco più di nulla. Forse la leader finlandese si sarebbe sentita più a casa a sua con altri interlocutori, più socialisti di quelli che ha ospitato a pranzo, ma in politica, ahimè, si sa che contano più i numeri che la cultura, la storia e le tradizioni politiche di un partito.

Certo prima o poi l’Italia dovrà fare i conti con la assenza di un vero movimento socialista che incarni i valori riformisti (quelli veri, quelli sorti a cavallo tra l’800 e il ‘900) della socialdemocrazia europea, mancanza che l’ha tenuta ferma nelle dinamiche del progresso sociale per circa 30 anni. Ma questa è un’altra storia e ne parleremo un’altra volta.

Una cosa ci sarebbe invece piaciuto sapere. Ma la “conteletta” servita a pranzo era quella panata e fritta o quelle al sugo da guarnire con la polenta? 

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 20 maggio 2022.

La fiammata di italico entusiasmo per Sanna Marin ha un retrotono ormonale che - ai fini reputazionali - sarà bene dissimulare concentrandosi piuttosto sull'opportunità che l'interesse verso questo strano esemplare suscita.

Marin (che era premier della Finlandia anche prima di chiedere l'ingresso nella Nato, va detto: forse i fan non l'avevano notata, d'altra parte desideriamo solo ciò che vediamo - come spiega Hannibal the cannibal) è una giovane donna di 37 anni alla guida di un Paese, fatto questo già di per sé paragonabile da noi alla femmina barbuta: qui le donne di 37 anni le usiamo al massimo come candidate di bandiera da usare per mostrare che le abbiamo messe in rosa, poi scompaiono e cominciano a giocare i maschi, come è normale.

Ma la Finlandia è un Paese semplice, sento dire: non è mica l'Italia, non ha la nostra storia la nostra complessità. Lì ci sono solo betulle e laghetti, saune, al massimo hanno esportato nel mondo - ma è già per palati fini - Sibelius e Alvar Aalto. Più di recente romanzi sull'allegro suicidio. Mah. 

Comunque non di questo che volevo parlare, ma del fatto che Marin oltre ad avere un solido curriculum accademico e politico (non è una che democraticamente porta in dote la sua incompetenza, come da noi fa moda) ha una biografia interessante. 

È cresciuta con due madri (la sua biologica, la nuova compagna di lei) e ha per questo provato, dice, "un senso di invisibilità" perché "delle famiglie arcobaleno non si parlava".

Pensate, neppure in Finlandia. 

Ora io non so se questo possa aiutare la causa del ddl Zan, omotransfobia e tutto i comparti di tabù che ci portiamo appresso ma la metto qui: ne approfitterei, nella festa degli ormoni, per fare campagna.  

Svezia e Finlandia nella Nato, la Turchia ritira il veto: c'è l'accordo. Il Tempo il 28 giugno 2022

Recep Tayyip Erdogan ritira il veto per l'ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia. "Il vertice Nato parte bene". L'entusiasmo di Palazzo Chigi è lo stesso che si respira nella Fiera di Madrid dove la notizia dell'accordo tra Turchia, Svezia e Finlandia arriva inaspettata, proprio mentre i leader erano alla cena di gala al Palazzo Reale. Fino a poche ore prima il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, si era detto fiducioso ma non si sentiva di fare promesse. In mattinata Erdogan chiedeva ancora "fatti e non parole vuote".

Dopo un lungo incontro a margine del summit tra il presidente turco Erdogan, il presidente finlandese Sauli Niinisto, la premier svedese Magdalena Andersson e il segretario generale della Nato, il governo di Ankara ha deciso di togliere il suo veto e i due paesi del Nord potranno ora entrare nella Nato. I tre Paesi hanno firmato un memorandum d'intesa con cui si impegnano a sostenersi a vicenda contro le reciproche minacce alla sicurezza. "Quando diventeremo alleati della Nato, questo impegno sarà ulteriormente rafforzato", ha sottolineato il presidente della Finlandia Niinisto. Soddisfatto il segretario generale che ha fatto da mediatore nelle lunghe trattative e sposato le preoccupazioni di Ankara. "Nessun altro alleato ha sofferto attacchi più brutali che la Turchia, compresi quelli del Pkk", ha rimarcato Stoltenberg. Erdogan aveva critico l'approccio lassista di Svezia e Finlandia nei confronti di gruppi che Ankara considera minacce alla sicurezza nazionale, incluso il Partito dei lavoratori del Kurdistan, o Pkk, e la sua estensione siriana (Ypg).

La Turchia ha chiesto alla Finlandia e alla Svezia di estradare le persone ricercate e di revocare le restrizioni sulle armi imposte dopo l'incursione militare della Turchia nel 2019 nel nord-est della Siria. Ora i tre paesi "hanno concordato di rafforzare la collaborazione sull'anti-terrorismo". Svezia e Finlandia "prenderanno misure sulla legislazione nazionale" ed esamineranno le richieste di estradizione "secondo la Convenzione europea sull'estradizione".

Alla vigilia del vertice, i leader hanno anche finalizzato il testo del nuovo Concetto Strategico, il manifesto che segnerà la strada della Nato per il prossimo decennio. Sarà un vertice "cruciale" che definirà un nuovo piano "in un mondo più pericoloso e imprevedibile", aveva anticipato Stoltenberg. L'appuntamento arriva in un contesto globale radicalmente cambiato dall'aggressione russa sul suolo europeo. Basti pensare che l'ultimo Strategic Concept, approvato al Summit di Lisbona nel novembre 2010, definiva ancora la cooperazione Nato-Russia "di importanza strategica" che "contribuisce a creare un comune spazio di pace, stabilità e sicurezza".

Oggi Mosca sarà definita come la minaccia diretta principale, per questo verrò concordato "un cambiamento fondamentale della nostra deterrenza e difesa con forze più pronte, con più difesa in avanti, con attrezzature più pre-posizionate", ha affermato Stoltenberg. In realtà, la guerra in Ucraina è riuscita a vitalizzare un'Alleanza che era andata sbiadendosi negli ultimi anni. E che ora si propone come attore di difesa e sicurezza dell'ordine internazionali ben oltre i confini Nord-Atlantici, soprattutto nell'Indo-Pacifico, che sarà una delle zone più determinanti nell'assetto geopolitico futuro.

Non a caso sono stati inviati al summit partner importanti di quella regione: il Giappone, la Corea, l'Australia e la Nuova Zelanda. Ancora una volta saranno gli Stati Uniti ad imprimere il segno sui lavori. Il presidente americano, Joe Biden, avrà una serie di incontri con i partner del Pacifico sulla questione della Corea del Nord, e anche con il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan.

Le condizioni vergognose che la Nato ha accettato per avere l’ok della Turchia a Svezia e Finlandia. Estradizione dei prigionieri e repressione degli attivisti curdi, ripresa della vendita di armi, supporto alle operazioni in Kurdistan. Ecco il prezzo che paghiamo a Erdogan per togliere il veto all’allargamento dell’alleanza atlantica. Rita Rapisardi su L'Espresso il 29 giugno 2022.  

I tre ministri degli Affari Esteri hanno firmato - prima quello turco, poi quello finlandese, infine quello svedese - il memorandum trilaterale, con data 28 giugno, che mette fine al veto della Turchia all’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia, a sfondo della guerra in Ucraina. L’accordo in dieci punti più che un’intesa tra pari, è un appoggio incondizionato alle richieste del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

I valori comuni, a cui si fa riferimento più volte nel testo, sono in realtà le condizioni che Erdogan - unico tra i membri Nato ad essersi opposto all’entrata nell’Alleanza Atlantica - ha imposto come necessarie per proseguire la trattativa: l’abbandono del sostegno, in ogni sua forma, del popolo curdo e la fine dell’embargo sulle armi. Quest’ultimo imposto nel 2019 da Svezia e Finlandia in risposta all’offensiva proprio contro i curdi in Siria del Nord.

Finlandia e Svezia dovranno quindi appoggiare la Turchia nella sua battaglia contro il terrorismo “in tutte le forme che costituiscono minaccia diretta alla sicurezza nazionale”. Una formula che compare nel documento, ma che non è nuova in Turchia, usata per giustificare la persecuzione di chiunque non vada a genio a Erdogan e che negli anni è stata utilizzata per incarcerare attivisti, avvocati, giornalisti e chiunque si ritenesse un pericolo per la stabilità del paese.

Da oggi i nemici della Turchia saranno i nemici di Svezia e Finlandia: in testa ci sono le Ypg, l’unità di protezione Popolare (e le Ypj, anche se le non si nomina, sono le unità femminili) e il suo ramo politico PYD, il Partito dell'Unione Democratica. I curdi sono da sempre considerati una minaccia dalla Turchia, per la loro presenza anche nella Mezzaluna, il cosiddetto Kurdistan turco: impensieriscono il presidente che teme un giorno la formazione di un nuovo stato che comprenda anche i territori turchi. 

Si tratta di coloro che hanno combattuto l’Isis - che a Raqqa aveva stabilito la capitale del Califfato - e che sono riusciti a costituire negli anni un esperimento di democrazia confederale unico nel suo genere. Con un prezzo di vite altissimo, i curdi hanno fermato l’autostrada del terrore verso l'Europa, attraverso la Turchia, di cui i terroristi si sono serviti per entrare nel continente indisturbati e che, in direzione opposta ha permesso a migliaia di foreign fighters di unirsi alle fila dell’Is. Infine nell’universo curdo rientra anche il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ritenuto organizzazione terroristica non solo in Turchia, ma anche dagli Stati Uniti e Unione Europea, oggi un partito più ideologico che di guerriglieri.

Sul fronte interno turco c’è invece Feto, il movimento islamico con a capo Fethullah Gulen, accusato da Ankara di essere la regia dietro al tentativo di colpo di Stato nel 2016, da cui sono partite le purghe che hanno cambiato il volto del paese: Erdogan ha cambiato l’apparato istituzionale, ma anche accademico turco, estromettendo chiunque fosse ritenuto vicino a Gulen, e posizionando suoi fedelissimi. Molti degli esiliati hanno trovato rifugio proprio nei due paesi baltici che ora stanno voltando loro le spalle, così come i perseguitati dall’Isis e i profughi della guerra in Siria. 

In concreto la Turchia ora chiede l’estradizione di chiunque ritenga un terrorista. Svezia e Finlandia, definite da Ergodan “pensioni per curdi”, ospitano migliaia di rifugiati curdi, in gran parte iraniani e iracheni arrivati ormai quarant’anni fa (in Finlandia 30mila e in Svezia 250mila). Il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha già detto che saranno nuovamente inviate le richieste di estradizione per trentatré membri del partito curdo armato Pkk e per altri affiliati alla rete Feto presenti nei due paesi, presentate nelle settimane scorse.

Nel Parlamento svedese siedono sei deputati curdi, una di questi, Amineh Kakabaveh ha dichiarato: «Questo è un tradimento del governo svedese, dei Paesi della Nato e di Stoltenberg che ingannano un intero gruppo che ha liberato sé stesso e il mondo intero da Daesh. Soprattutto quando si tratta della lotta delle donne, che la Svezia afferma di sostenere». La deputata ha lavorato per un accordo con il governo a sostegno delle Ypg e del PYD, ora andato in fumo: «Si abbandona quanto conquistato, a causa di un dittatore e ci si allea con un altro dittatore», dice riferendosi a Erdogan e Putin. Ora Kakabaveh vuole chiedere la sfiducia al governo di Magdalena Andersson.

I fronti militari di Erdogan

Erdogan non è un leader democratico, da quando è a capo della Turchia si è macchiato di un’infinità di crimini, dentro e fuori dal suo paese. Crimini che continuano ancora oggi: proprio negli ultimi mesi infatti il presidente ha iniziato una dura offensiva nei territori del Kurdistan iracheno dove vivono anche gli yazidi, già sterminati dall’Isis, con un’azione militare violentissima. Anche qui con il tempo si è instaurata una forma di esperimento che imita il confederalismo democratico del Rojava.

Ma Erdogan non vuole certo fermarsi all’Iraq: ora punta quelli del Kurdistan siriano e ai territori del Rojava. L’obiettivo è quello di annullare qualsiasi minaccia e ripristinare la sicurezza lungo il confine con la Siria, cancellando la fragile democrazia confederale che, annientata la minaccia dell’Isis è stata abbandonata prima dagli Stati Uniti (che li avevano supportati militarmente) e poi dall’Europa, anzi a dover gestire le migliaia di prigionieri dello Stato Islamico e i foreign fighters europei.

In queste ore intanto trentaquattro partiti e gruppi politici nel nord e nell'est della Siria hanno rilasciato una dichiarazione congiunta sulle minacce dello Stato turco contro la regione: «La Turchia ha commesso orribili crimini di guerra contro civili innocenti. Continua a svolgere attività di pulizia etnica, sfollamenti forzati e cambiamento demografico nei confronti dei residenti autoctoni. Lo stato turco continua a perseguire una politica di genocidio». Tutto questo non fa che vanificare i risultati e l’avanzamento di organizzazioni terroristiche anche in Europa.

Il presidente nel suo intreccio di alleanze si dimostra ancora una volta capace di giocare più partite contemporaneamente, tenendo tutti in scacco: non bisogna dimenticare l’accordo sui migranti con l’Unione Europea da sei miliardi di euro firmato nel 2016, grazie al quale circa sette milioni di profughi sono trattenuti in territorio turco.

Il popolo curdo, sacrificato all’altare degli interessi di Europa e Stati Uniti, non compare però nelle dichiarazioni di queste ore: «Con l'ingresso di Stoccolma ed Helsinki nell'Alleanza saremo tutti più sicuri», ha dichiarato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che ha seguito tutta la trattativa. Dello stesso slancio è il presidente Usa Joe Biden. «Oggi lanciamo un messaggio: la Nato è forte e unita».

L'inchino dell'Alleanza alle condizioni dettate dal sultano. Erdogan pigliatutto, aiuta la Russia col grano ucraino e dice si a Svezia e Finlandia nella Nato. Redazione su Il Riformista il 29 Giugno 2022.

Dai negoziati a inizio guerra con Putin e Zelensky, all’appoggio logistico alla navi russe cariche di grano saccheggiato in Ucraina fino alla revoca del veto sull’ingresso di Svezia e Finlandia, accusate fino a poche ore fa di ospitare terroristi, nella Nato. Recep Tayyip Erdogan è sicuramente uno dei protagonisti di questa folle guerra che va avanti da oltre quattro mesi.

Il presidente della Turchia continua a lavorare su più fronti e dopo settimane di veti e accuse, acconsente all’entrata dei due Paesi Scandinavi nell’Alleanza Atlantica, il cui invito avverrà nelle prossime ore, nel corso del vertice in programma a Madrid. La fumata bianca arriva alla fine di un vertice a quattro durato quasi tre ore tra segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, il presidente turco, il presidente finlandese, Sauli Niinisto, e la premier svedese Magdalena Andersson.

“La Turchia ha ottenuto ciò che voleva”, in primis “risultati significativi nella lotta contro le organizzazioni terroristiche“. Il documento, firmato dai ministri degli Esteri delle tre nazioni, vede Svezia e Finlandia impegnarsi a consegnare alla Turchia i militanti curdi ricercati, a smettere di sostenere L’Ypg e il Pyd, braccio militare e braccio politico dei curdi siriani, e revocare l’embargo alle esportazioni di armi in Turchia che era stato imposto nel 2019 proprio in risposta al blitz turco nel Nord della Siria.

Un risultato importante quello ottenuto dal leader turco che, allo stesso tempo, continua a mantenere ottimi rapporti diplomatici con la Russia di Vladimir Putin. A dimostrarlo – secondo una recente inchiesta del media britannico BBC – sarebbe l’appoggio logistico che Ankara offrirebbe a Mosca nei lunghi viaggi delle navi cariche di grano rubato in Ucraina. Seguendo il Gps piazzato sui camion carichi di grano, il segnale arriva, a partire dallo scorso aprile, fino alle coste turche.

“Sono lieto di annunciare – ha esordito Stoltenberg – che ora abbiamo un accordo con la Turchia che apre la strada all’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato”; i tre paesi “hanno firmato un memorandum che affronta le preoccupazioni di Ankara sulla esportazione di armi (che Svezia e Finlandia finora vietavano verso la Turchia, ndr) e la lotta al terrorismo”. “Nessun alleato – ha affermato – ha subito attacchi terroristici più brutali della Turchia, incluso dal gruppo terroristico Pkk” il Partito dei lavoratori curdi, che è nella lista Ue delle organizzazioni terroristiche.

“I governi di Turchia, Finlandia e Svezia – ha continuato Stoltenberg – hanno deciso di rafforzare la loro cooperazione in materia di lotta al terrorismo. In quanto alleati della Nato, Finlandia e Svezia si impegnano a sostenere pienamente la Turchia contro le minacce alla sua sicurezza nazionale. Ciò include l’ulteriore modifica della loro legislazione nazionale, la repressione delle attività del Pkk e la stipula di un accordo con la Turchia sull’estradizione”.

Nella Nato – ha rilevato – abbiamo sempre dimostrato che, qualunque siano le nostre differenze, possiamo sempre sederci, trovare un terreno comune e risolvere qualsiasi problema”. Stoltenberg ha poi sottolineato che “la politica della porta aperta della Nato è stata un successo storico. Accogliere la Finlandia e la Svezia nell’Alleanza le renderà più sicure, renderà la Nato più forte e l’area euro-atlantica più sicura. Questo è fondamentale – ha concluso – mentre affrontiamo la più grande crisi di sicurezza degli ultimi decenni”.

Marco Bresolin per “la Stampa” il 30 luglio 2022.

Sull'elenco stilato dal ministero della Giustizia ci sono già 33 nomi: 17 esponenti del Pkk curdo e 16 del movimento di Fethullah Gulen (che la Turchia chiama Feto, accusandolo di essere un'organizzazione terroristica responsabile del fallito golpe del 2016). 

Ankara è tornata a chiedere la loro estradizione alla Finlandia (che ne ospita 12) e alla Svezia (per i restanti 21), forte dell'accordo siglato martedì a Madrid per consentire l'ingresso dei due Paesi nella Nato. Si tratta di una delle tante contropartite imposte dal presidente Recep Tayyip Erdogan ai colleghi scandinavi per togliere il veto sulla loro adesione all'Alleanza Atlantica.

Al centro congressi Ifema di Madrid, dove i leader si sono riuniti per un vertice certamente storico, ieri la soddisfazione per l'allargamento della Nato era palpabile, mentre il ministero degli Esteri russo ha definito la mossa come «destabilizzante». Ma diversi capi di Stato e di governo hanno faticato non poco a celare l'imbarazzo per i termini di un'intesa che suscita parecchi interrogativi.

Del resto era successo così anche nel 2016 in occasione dell'intesa sui migranti siglata dall'Unione europea con Erdogan, un «dittatore» di cui «si ha bisogno», come lo aveva definito l'anno scorso Mario Draghi. E proprio il premier italiano, durante una pausa del summit, ha avuto una reazione d'istinto molto significativa: interpellato sulle concessioni fatte al «dittatore Erdogan», sulle prime si è voltato e se n'è andato. Dopo aver fatto pochi passi, il premier è però tornato indietro e ha risposto così: «Siccome è un punto molto importante, è bene che questa domanda la facciate alla Svezia e alla Finlandia».

Magdalena Andersson, la premier svedese artefice dell'accordo, non ha dubbi: era la cosa giusta da fare. Ma a Stoccolma la attende un clima piuttosto acceso per le concessioni a Erdogan e per un accordo siglato «sulla pelle dei curdi». Oltre a favorire le estradizioni, lei e il presidente finlandese Sauli Niinisto si sono impegnati a perseguire i membri del Pkk, ma anche a non sostenere la formazione curda siriana Ypg e al tempo stesso a togliere l'embargo sulle armi ad Ankara.

«Ora dovremo armare Erdogan per sostenere la sua guerra di aggressione contro la Siria?» ha chiesto provocatoriamente Nooshi Dadgostar, leader della sinistra, secondo la quale «è pericoloso mettere la politica estera svedese nelle mani di Erdogan». 

Anche la co-leader dei Verdi, Marta Stenevi, si è detta «molto preoccupata» per la rimozione dell'embargo sulle armi alla Turchia, ma l'intervento più significativo è stato quello di Amineh Kakabaveh. 

La deputata indipendente, di origini curdo-iraniane, tre settimane fa si è rivelata decisiva per salvare il governo: grazie alla sua astensione è stata bocciata per un solo voto la mozione di sfiducia che avrebbe fatto cadere l'esecutivo. Ora però è determinata a dare battaglia su questo fronte.

Ha chiesto alla ministra degli Esteri Ann Linde di andare in Parlamento per spiegare i termini dell'accordo e ha minacciato una nuova mozione di sfiducia: «Questo è un giorno nero per la politica estera svedese. Stiamo svendendo i diritti fondamentali di cittadini che hanno ottenuto l'asilo». 

Ma la premier ha assicurato che le estradizioni «dipenderanno dalle informazioni che avremo dalla Turchia» e che in ogni caso Stoccolma «seguirà il diritto internazionale e la Convenzione europea sulle estradizioni». Magdalena Andersson non teme ripercussioni per il governo, anche perché a settembre sono già previste le elezioni. 

Più contenute le reazioni in Finlandia, dove prevale l'entusiasmo per il via libera all'ingresso nella Nato. L'esito dell'accordo è stato salutato dalla stampa filo-governativa turca come una vittoria di Erdogan «che ha ottenuto ciò che voleva». Il presidente si è ritagliato un ruolo da protagonista a Madrid, dove ieri sera ha avuto un bilaterale con Joe Biden per discutere la consegna di 40 caccia F-16: l'americano lo ha ringraziato per l'impegno ad aprire i corridoi del grano ucraino e per l'intesa con Svezia e Finlandia. 

L'opposizione turca, invece, parla di un accordo «inconsistente» e senza sviluppi concreti. Effettivamente da parte dei due Paesi, per ora, c'è solo un impegno politico, ma il protocollo di adesione deve essere ratificato dai parlamenti di tutti gli Stati membri. Nei prossimi mesi la Turchia continuerà ad avere il coltello dalla parte del manico. 

Tutte le richieste di Erdogan alla Nato. Francesca Salvatore su Inside Over l'1 luglio 2022.

Il memorandum di Madrid segna un nuovo corso nelle relazioni tra i Paesi occidentali e la Turchia all’interno dell’Alleanza Atlantica: è stato, infatti, finalmente trovato l’accordo sulla domanda di adesione alla NATO di Helsinki e Stoccolma, a cui viene ora rimosso il veto di Ankara. Un passo avanti per l’Alleanza, ma soprattutto una grande conquista per Recep Erdogan: si tratta di un acquisto di credito politico in patria, alle prese con una situazione esplosiva, ma soprattutto di un rilancio internazionale, tentando di uscire dalle sabbie mobili in cui si era cacciato. Il leader turco, infatti, si è presentato al vertice con un carnet personale in tumulto: tensioni con la Grecia, minaccia di una nuova offensiva nel nord della Siria, relazioni travagliate con la Russia, quanto basta per considerarlo ancora alleato, sì, ma forse non più un amico fidato dell’Occidente.

Le origini del veto

Ma facciamo un passo indietro, ovvero alle origini del veto turco all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO. Erdogan aveva criticato l’approccio permissivo di Svezia e Finlandia nei confronti di gruppi che Ankara considera minacce alla propria sicurezza nazionale, incluso il PKK e la sua branca siriana (YPG). Turchia, Svezia e Finlandia classificano il PKK come organizzazione terroristica, ma Erdogan ha accusato i due stati nordici di ospitare e sostenerne i combattenti, cosa che i Paesi scandinavi negano. La Svezia, in particolare, sostiene e invia aiuti ad altri gruppi curdi in Siria che il governo turco non distingue dal PKK. D’altra parte, quest’ultimo è già considerato una organizzazione terrorista secondo la lista dell’UE. Non è invece nella lista l’YPG e i suoi membri, che invece la Turchia considera terroristi e combatte.

La Turchia ha chiesto alla Finlandia e alla Svezia di estradare le persone ricercate e di revocare le restrizioni sulle armi imposte dopo l’incursione militare della Turchia nel 2019 nel nord-est della Siria. Ora i tre Paesi “hanno concordato di rafforzare la collaborazione sull’anti-terrorismo”. Svezia e Finlandia “prenderanno misure sulla legislazione nazionale” ed esamineranno le richieste di estradizione “secondo la Convenzione europea sull’estradizione”. L’accordo prevede che i paesi nordici revochino l’embargo sulle armi che avevano precedentemente imposto alla Turchia (come, d’altra parte, anche la Germania), un segno positivo secondo Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, che bolla negativamente questo tipo di restrizioni fra alleati.

Le richieste di Erdogan

Andando nel dettaglio, al punto 4 del memorandum si legge che Finlandia e Svezia, come futuri membri, non dovranno offrire supporto all’YPG e al suo ramo politico, il PYD, il Partito dell’Unione Democratica. Ma viene incluso nell’accordo anche il Feto, il movimento islamico con a capo Fethullah Gulen, accusato da Ankara di essere la regia dietro il colpo di Stato nel 2016, da cui sono partite le purghe che hanno stravolto la nazione: molti degli esiliati hanno trovato rifugio proprio nei due paesi, così come molti perseguitati dall’Isis e i profughi della guerra in Siria.

Il punto 4 dell’accordo, inoltre, sa di vero capestro: i due Paesi si impegnerebbero a condannare tutte le organizzazioni che perpetuano attacchi contro la Turchia ed esprimono la loro solidarietà alla Turchia e alle famiglie delle vittime. Un principio nobile, in linea teorica, se non fosse che sotto l’etichetta di terrorista Erdogan sia in grado di far passare chiunque. Il punto 5 prevede sostanzialmente lo stesso impegno circa il PKK, mentre il punto 6, invece, fa preciso riferimento ai mutamenti legislativi interni che possono in qualche modo rafforzare le pretese turche. La Finlandia, infatti, ha approvato un nuovo codice penale che allarga il reato di terrorismo, mentre la Svezia si appresta a vedere in vigore una nuova legge antiterrorismo a partire dal 1° luglio. Al punto 8 del memorandum, una serie di norme accessorie che impegnano le tre nazioni a cooperare in materia di intelligence, estradizione, lotta al terrorismo e alla disinformazione, oltre al divieto assoluto di finanziamento a gruppi e organizzazioni che incitano alla violenza contro lo stato turco.

Un accordo sulla pelle dei curdi?

La Turchia, pilastro orientale del Trattato, si è attenuta, dunque, alla sua lista completa di richieste “legittime”, come le ha definite lo stesso Stoltenberg, dopo i colloqui a Bruxelles del 20 giugno tra Ibrahim Kalin, consigliere del presidente turco, e i rappresentanti di Svezia e Finlandia.

Da qui il dubbio legittimo se, ancora una volta, un grande accordo internazionale, che questa volta segna un appeasement nella NATO, non venga fatto sulla pelle dei curdi. Come riporta Rainews, a un giornalista che chiedeva che significa l’accordo per giornalisti curdi ed esponenti dell’opposizione turca rifugiatisi in Svezia e Finlandia, Stoltenberg ha risposto: “Leggerete molto presto che cosa prevede riguardo all’estradizione il testo del memorandum, sarà pubblicato sul sito della Nato. Finlandia e Svezia sono pronti a lavorare con Turchia sulla estradizione degli individui sospetti, ma questo – ha precisato – deve avvenire secondo la convenzione europea sull’estradizione e nel rispetto dello stato di diritto nei due paesi interessati”. Questo vuol dire che “quando ci saranno accuse provate riguardo ad attività criminali e terroristiche, la Svezia e la Finlandia faranno quello che è previsto dalla loro legge”.

E dunque, la consueta strategia diplomatica di Erdogan ha funzionato anche questa volta: non concedere nulla fino all’ultimo momento per poi portare a casa quei due/tre obiettivi fondamentali per Ankara pur se minoritari per il resto della NATO. Erdogan è giunto al vertice con diversi desideri. Vuole che gli stati europei nomino le YPG, la spina dorsale della forza statale antislamica guidata dagli Stati Uniti in Siria, come un gruppo terroristico. Ha anche chiesto alla Svezia di impedire la raccolta di fondi per il PKK. La Turchia è stata anche desiderosa di convincere la Svezia a revocare un divieto informale di esportazione riservato ad Ankara per convincere la NATO a concentrarsi maggiormente sulla sicurezza lungo il suo fianco meridionale e per ottenere F-16 dagli Stati Uniti che erano promesso dopo che l’amministrazione Trump ha cacciato l’alleato dal programma F-35 per l’acquisto del sistema di difesa aerea russo.

Un assegno in bianco per Erdogan? In Svezia non sarà semplice

Che il memorandum sia un assegno in bianco firmato in favore di Erdogan? Non è detto. Solo l’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO potrà effettivamente svelare la portata di questi impegni. I due Paesi si inquadrano in un consesso di Stati che si impegna attivamente nel rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario e che non potrebbero mai contravvenire alle regole imposte dal sistema UE. Tuttavia, noblesse oblige, e il rinforzo baltico dell’Alleanza potrebbe richiedere più di qualche sentenza pilatesca.

Per Svezia e Finlandia, definite da Ergodan “pensioni per curdi”, non sarà affatto semplice fare pressione sulle comunità curde, poichè ospitano migliaia di rifugiati, in gran parte iraniani e iracheni arrivati ormai quarant’anni fa (in Finlandia 30mila e in Svezia 250mila); proprio per questo, un’eventuale caccia alle streghe in Scandinavia non sarà di certo egevole, soprattutto in Svezia. Qui i curdi non hanno avuto facile, soprattutto negli anni ’80, in seguito all’omicidio del primo ministro Olaf Palme avvenuto nel 1986 e che diede vita ad una infinità di piste divergenti. All’epoca dei fatti, numerosi esponenti politici del mondo curdo vennero sospettati essere mandanti ed esecutori materiali dell’assassinio.

Dei 7-8 mila cittadini curdi che ottennero asilo politico in Svezia in quegli anni, solo qualche decina venne considerata dalla stessa Saepo, la polizia per la sicurezza dello stato svedese, come affiliati al PKK e quindi, per una legge del 1984, considerati terroristi. L’allora capo della polizia della regione di Stoccolma, Hans Holmer scatenò una tale caccia alle streghe da scatenare il risentimento dei curdi di Svezia, che si sentirono tutti chiamati in causa. Nel 1987, fra i motivi che fecero sospettare del PKK ci sarebbe stato il diniego da parte del governo svedese nel 1984 di concedere asilo politico ad Abdullah Ocalan, che dal quartier generale a Damasco avrebbe voluto trasferirsi in Svezia dove era già stata accolta invece sua moglie. I curdi a loro volta, accusarono la polizia svedese di essere invece in collegamento con la polizia segreta turca e di agire su suggerimenti di quest’ ultima con lo scopo di fare dei curdi un capro espiatorio.

La comunità curda in Svezia, protagonista di un esodo massiccio a partire dal 1975, ha una consistente peso culturale e politico. In parlamento siedono ben sei parlamentari di origine curda come Amineh Kakabaveh, Gulan Avci, Lawen Redar, Sara Gille o Kadir Kasirga. Proprio Kakabaveh ha dichiarato: «Questo è un tradimento del governo svedese, dei Paesi della Nato e di Stoltenberg che ingannano un intero gruppo che ha liberato sé stesso e il mondo intero da Daesh. Soprattutto quando si tratta della lotta delle donne, che la Svezia afferma di sostenere». La deputata ha lavorato per un accordo con il governo a sostegno delle YPG e del PYD, ora andato in pezzi: «Si abbandona quanto conquistato, a causa di un dittatore e ci si allea con un altro dittatore», ha diciarato riferendosi a Erdogan e Putin. Ora Kakabaveh vuole chiedere la sfiducia al governo di Magdalena Andersson. Che nella NATO che verrà non sarà facile tenere tutti nello stesso recinto è già di per sé evidente.

Cosa ha avuto Erdogan in cambio del ritiro del veto su Svezia e Finlandia nella Nato. Claudia Fusani su Il Riformista il 30 Giugno 2022 

Mille e trecento chilometri di confine Nato in più, a est, quelli di Finlandia e Svezia da ieri ufficialmente nell’Alleanza atlantica. Erdogan che da “problema” diventa soluzione in cambio di un pacchetto tra cui la consegna di caccia F16 direttamente dal Pentagono. La Russia che guadagna tecnicamente lo status di “nemico” in un documento ufficiale della Nato. Spostamenti di uomini e truppe verso i confini est. Con la possibilità che diventino basi militari Nato. E dire che in Italia, solo dieci giorni fa, il problema era se mettere la parola “armi” in una risoluzione di maggioranza.

Come cambia la prospettiva quando si alzano gli occhi dal proprio ombelico e si cerca di avere una visione d’insieme. L’Italia non poteva e non voleva restare fuori o ai margini di questa pagina di storia che è stata scritta nelle ultime 24 ore a Madrid in occasione del Vertice straordinario della Nato. “Atlantismo ed europeismo sono i nostri pilastri in politica estera” furono le prime parola pronunciate da Draghi nel suo discorso di insediamento alle Camere. Era febbraio 2020. E nessuno, allora, pensava che quelle parole sarebbero state così determinanti nel proseguo della legislatura. L’attacco e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha cambiato totalmente la prospettiva geopolitica. Se qualcuno poteva avere dei dubbi, da ieri li può mettere nel cassetto. E per molto tempo anche.

Per capire com’è cambiato il mondo in questi quattro mesi, basta segnarsi alcuni passaggi della conferenza stampa del segretario Nato Jens Stoltenberg. Uno in particolare: “Abbiamo deciso di rinforzare le nostre capacità di difesa e i nostri equipaggiamenti per difendere alcuni specifici alleati attraverso il preassegnamento di truppe in specifici territori. È la prima volta dalla Guerra fredda che abbiamo questo tipo di piani”. Nei documenti finali si parla di un nuovo “concetto strategico” dell’Alleanza. “Stiamo affrontando – scrivono i Capi di Stato e di governo nella dichiarazione finale dei 30 + 2 paesi affiliati – un momento critico per la nostra sicurezza, la pace e la stabilità internazionali. La Nato – precisano all’inizio della Dichiarazione – è un’Alleanza difensiva e non rappresenta una minaccia per nessun paese”. È il fondamento della “nostra difesa collettiva e il luogo per le consultazioni e le decisioni in materia di sicurezza tra gli alleati”. Premessa fondamentale visto che nella parte restante del documento si parla di un’escalation di posture e mezzi in campo come non si sono mai visti dalla fine della Guerra fredda.

Dopo aver sottolineato l’impegno a rispettare il patto secondo cui un membro Nato attaccato militarmente dall’esterno “sarà coerentemente difeso e assistito dagli altri membri dell’Alleanza (come recita l’articolo 5 del Trattato), si spiega perché il contesto della sicurezza “è radicalmente cambiato” e perché questo vertice “segna una pietra miliare nel rafforzamento della nostra alleanza”. Massima fermezza nella condanna della guerra di aggressione della Russia che “minaccia gravemente la sicurezza e la stabilità internazionali”. Non solo: la Russia “ha anche aggravato intenzionalmente una crisi alimentare ed energetica, colpendo miliardi di persone in tutto il mondo, anche attraverso le sue azioni militari”. La strada da seguire è quella di sempre: Mosca deve “immediatamente fermare questa guerra e ritirarsi dall’Ucraina”. La “Bielorussia deve porre fine alla sua complicità in questa guerra”. L’Ucraina sarà “sostenuta con ogni mezzo per garantire la sua indipendenza, sovranità ed integrità all’interno dei confini riconosciuti”.

Dietro i documenti ufficiali e i loro proclami ci sono poi gli accordi bilaterali e gli accordi concreti. Chi dà cosa e a chi. E sono quelli che più di tutti cambiano “il concetto strategico” dell’Alleanza. Le Forze di intervento rapido lungo il confine est della Nato che adesso cresce di 1300 km, passeranno da 40 mila a trecentomila. Mario Draghi, che – casomai ce ne fosse bisogno – continua a far crescere la sua credibilità e affidabilità nella comunità internazionale – parla di ottomila soldati italiani che, se necessario, “sono pronti a spostarsi lungo i confini baltici”. Al momento ce ne sono duemila e saranno mandati in Romania e Ungheria dove l’Italia ha appena assunto il comando Nato. Oltre a questo, gli Stati Uniti hanno comunicato che andranno a rafforzare la loro presenza militare in Europa. In Italia ci saranno 70 militari in più per allestire un nuovo sistema di difesa antiaerea per rafforzare il fianco est dell’Alleanza. Top secret gli accordi raggiunti con Erdogan per convincerlo a dare l’ok all’adesione di Finlandia e Svezia. Si parla di una consegna diretta di caccia F16 decisa direttamente da Biden nel colloquio con il sultano turco. A giorni poi il governo italiano si prepara a firmare il quarto decreto armi: nell’elenco ci sarebbero cannoni FH70 da 155 millimetri e i “vecchi” cannoni M109.

Ovvio con tutti questi dettagli pensare ad una escalation. “Dobbiamo stare pronti – ha replicato Draghi – ma ad oggi non c’è un rischio escalation”. È certamente un momento “importante” perché “l’Alleanza si allarga e la presenza dell’Europa aumenta toccando quasi una corrispondenza tra Ue e Nato. Tutto questo lascia pensare che potranno essere superate anche molte resistenze sulla costruzione di una vera difesa europea”. Mentre Draghi trattava questi argomenti a Madrid, dall’Italia rimbalzava l’eco di retroscena in cui lo stesso Draghi avrebbe parlato con Grillo chiedendo al comico la testa di Conte. Ci vuole veramente tanta fantasia e altrettanta irresponsabilità nel minare il terreno con queste bufale. Così Draghi ha trovato il tempo di telefonare a Conte. E ha voluto dirlo ai giornalisti a Madrid: “Con Conte ci siamo parlati poco fa, abbiamo cominciato a chiarirci, ci risentiamo domani per vederci al più presto”. Il governo non rischia. Parola di premier.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Svezia e Finlandia nella Nato. Il dubbio estradizioni. Francesco De Palo il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Manca solo la ratifica per i due Paesi, ma resta il caso Turchia. "Non esiste una lista di curdi".

Nasce il club dei 32: Svezia e Finlandia nella Nato, ma la strada non è in discesa. La storica pagina atlantica è stata siglata ieri dagli ambasciatori degli Stati membri e dei rappresentanti permanenti che hanno firmato i protocolli di adesione, dopo la caduta del veto turco contro l'espansione nordica dell'alleanza. La mossa, di fatto, apre la via a quello che dovrebbe essere un lungo processo di ratifica, che deve essere unanime tra i 30 membri dell'alleanza, ma non è scevra da altri inciampi che potrebbero presentarsi dinanzi a questo disegno favorito dalla guerra.

Intanto con 32 nazioni attorno al tavolo, «saremo ancora più forti», ha affermato il segretario generale dell'alleanza Jens Stoltenberg definendo la decisione «un momento davvero storico per la Finlandia, per la Svezia e per la NATO, le nostre persone saranno ancora più al sicuro mentre affrontiamo la più grande crisi di sicurezza degli ultimi decenni». Ottimista il ministro degli Esteri finlandese Pekka Haavisto: «Non vedo l'ora di un rapido processo di ratifica». In sostanza da oggi in poi Helsinki e Stoccolma possono prendere parte ai vertici della NATO ma fino al momento della ratifica restano escluse dalla clausola prevista dall'articolo 5 (un attacco a un alleato è un attacco contro tutti). Sulla stessa linea il ministro degli esteri svedese, Ann Linde, che ha parlato di una «giornata storica», osservando che «come futuro membro dell'Alleanza, la Svezia contribuirà alla sicurezza di tutti gli alleati».

Tutto bene allora? Non proprio. Resta intatto lo scoglio legato al Pkk, visto che il memorandum firmato tra Turchia, Finlandia e Svezia condiziona l'adesione dei due paesi alla NATO alla lotta contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan, visto come fumo negli occhi da Recep Tayyip Erdogan, al pari del predicatore Fetullah Gulen. Ankara ha chiesto la revoca dell'embargo sulle armi imposto alla Turchia nel 2019 e la consegna di alcuni esponenti che vivono su suolo svedese. Sul punto si registra l'iniziativa di una parlamentare svedese indipendente che ha denunciato il ministro degli Esteri Ann Linde. Si tratta di Amineh Kakabaveh, nata nel Kurdistan iraniano, che si è rivolta alla Commissione costituzionale. Per questa ragione il presidente turco ha detto pubblicamente che la Svezia ha promesso di consegnare alla Turchia 73 persone, solo dopo «prenderemo la nostra decisione», ha affermato il leader turco. I due paesi hanno accettato di affrontare le «richieste di espulsione o estradizione in sospeso della Turchia in modo rapido e completo», stabilendo inoltre quadri legali bilaterali necessari per facilitare la cooperazione in materia di sicurezza.

Da Ankara però arrivano nuovi strali: se Svezia e Finlandia non rispetteranno il recente memorandum firmato con la Turchia, la Turchia non le accetterà nell'alleanza della NATO, ha detto polemicamente il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuolu: «Se questi paesi non mantengono la parola data, faremo i nostri passi di conseguenza».

Linde specifica «che non esiste una lista da rispettare» mentre Stoltenberg prova a metterci una toppa quando sottolinea che il documento, nelle intenzioni, «speriamo faciliti i negoziati e le richieste della Turchia di estradizioni di sospetti terroristi», visto che la Turchia è l'alleato che ha subito di più gli attacchi terroristici, aggiungendo che anche altri membri della NATO hanno subito attacchi simili. Ma ciò che faranno ciascuno degli alleati, precisa forse rivolto a Erdogan, «si baserà sulla propria legislazione e sullo stato di diritto nei loro paesi, è così che funzionano le democrazie e gli alleati della NATO».

Ankara svela la lista nera dei curdi in Svezia e Finlandia. Il Dubbio il 5 luglio 2022.  

Ratificato l'ingresso nella Nato, ma Erdogan si riserva l'ultima parola: il veto è legato al nodo delle estradizioni che Ankara pretende da Stoccolma ed Helsinki

La Turchia di Recep Tayyip Erdogan si riserva l’ultima parola sull’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia anche se è stata ratificata dall’alleanza. La rimozione definitiva del veto all’ingresso dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza è legata al nodo delle estradizioni che Ankara pretende da Stoccolma ed Helsinki.

Si tratta di una lista di nomi accusati di attività terroristiche di vario tipo, principalmente legate al separatismo curdo e al Pkk, organizzazione con cui Ankara è in guerra dal 1984, considerata terroristica da Usa e Ue. In base a quanto dichiarato dal ministro della Giustizia turco, Bekir Bozdag, Ankara dalla Svezia attende 11 nomi accusati di avere legami con i curdi del Pkk, più altri 10 accusati di aver partecipato al tentativo di golpe del 2016. Dodici sono invece le persone la cui richiesta di estradizione è stata inoltrata ad Helsinki, 5 terroristi separatisti e 5 golpisti, più altri due accusati di altri reati. «I dossier relativi a queste persone sono stati inviati, ma se sarà il caso scriveremo nuovamente per ricordare che siamo in attesa di una risposta. Non è necessario inviare una nuova richiesta, è necessario mantengano la parola data », ha detto Bozdag, che ha poi specificto che si tratta in tutto di 2 presunti terroristi e altre 7 persone accusate di reati di altra natura. Delle richieste di Erdogan per togliere il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO proprio l’estradizione pretesa dalla Turchia ha rappresentato sin dall’inizio il nodo più spinoso.

A complicare il quadro il fatto che la Svezia ha concesso la cittadinanza a diversi elementi i cui nomi allo stesso tempo figurano nella lista rossa della Turchia. Si tratta di Halef Tak, Ismet Kayhan, Aysen Ayhan (che ha cambiato nome in Marja Furhoff), Ragip Zarakolu e Mehmet Sirac, accusati di aver organizzato e aver avuto un ruolo attivo in attentati del Pkk. Ragip Zarakolu ha al momento 73 anni, un ulteriore fattore che complica l’estradizione. Sono cittadini svedesi anche Neriman e Mustafa Candan e Hamza Yalcin, nomi associati al terrorismo di matrice brigatista che in Turchia ha fatto proseliti negli anni 80 e 90, realizzando poi attacchi di lieve entità fino al 2015. Musa Dogan, il cui nome è inserito nella lista e cui sono rivolte le medesime accuse, non ha ricevuto la cittadinanza svedese.

Genesi di una fake news: la Svezia e la Finlandia non hanno mai venduto i curdi al tiranno Erdogan. Il memorandum rafforza il sultano ma parla chiaro nessuna estradizione fuori dal diritto europeo. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«Per voi italiani la Russia è lontana, e il Mediterraneo non è un lago russo – si sfoga Karl, barista –. Per noi svedesi, e ancora di più per i finlandesi, la Russia è molto vicina». Questo, più o meno, il sentimento di quel 58 di svedesi che a maggio si è espresso favorevolmente all’adesione alla NATO. Dice Kenneth G. Forslund, presidente del Comitato sugli affari esteri del Riksdag (il parlamento svedese), e membro dei Socialdemokraterna (socialdemocratici): «La politica di non- allineamento è stata una parte importante delle politiche del nostro partito, e ha servito bene la Svezia per oltre duecento anni. Ma i tempi sono cambiati. Nella nuova realtà emersa dopo la brutale e illegale invasione russa dell’Ucraina, la Svezia ha bisogno di formali garanzie di sicurezza, che derivano dall’essere membri della NATO. Per la sicurezza della Svezia e del suo popolo, la NATO è l’opzione migliore e più fattibile» [Per Svezia e Finlandia la NATO è la sola garanzia contro l’imperialismo russo, di Gabriele Catania, su Valigia blu].

È da questo sentimento che è nata la richiesta di Svezia e Finlandia di aderire alla NATO. Quella richiesta – per l’approvazione della quale è necessaria l’unanimità dei membri – contro la quale si è schierato Erdogan, imputando a svedesi e finlandesi di dare ospitalità e protezione ai “terroristi curdi”. È solo dopo il “Memorandum di intesa” firmato a Madrid, il 28 giugno, da Mevlut Cavusoglu, Pekka Haavisto? e Ann Linde?, rispettivamente ministri degli Esteri turco, finlandese e svedese, che Erdogan ha concesso il suo via libera.

È stato un ricatto politico – non c’è un’altra definizione possibile. Erdogan ha profittato della situazione per mettere il coltello alla gola di svedesi e finlandesi. Che hanno rimangiato in parte la loro decennale posizione di critica e accusa nei confronti dell’autocrate turco di condurre una guerra spietata non solo contro i curdi ma contro ogni opposizione interna. Anche perché nei due paesi scandinavi, c’è una consistente comunità curda (circa centomila in Svezia e diecimila in Finlandia) che riesce, come in Germania, a fare sentire la loro pressione. «Io penso sia stata una resa dello Stato svedese di fronte a un paese nemico della libertà quanto la Russia di Putin» – dice A., figlio di curdi, e dipendente di un ente pubblico svedese.

L’intesa tra la Svezia, la Finlandia e la Turchia ha fatto infuriare Amineh Kakabaveh parlamentare indipendente che ha definito “inaccettabile” il negoziato con il regime turco, definendolo fascista e “una dittatura”. E proprio a inizio giugno Kakabaveh aveva anche salvato una seconda volta il governo di minoranza di Magdalena Andersson che, a sua volta, aveva confermato la cooperazione con il PYD, il Partito dell’Unione Democratica attivo nella Federazione del Nord della Siria, inserito ora nel Memorandum come “terrorista”. L’allarme maggiore – perché immediato – è scattato a proposito della possibilità che Svezia e Finlandia avessero firmato un protocollo che li impegnava a avviare pratiche di estradizione e consegnare immediatamente a Erdogan una lunga lista di nomi che l’autocrate turco considera “terroristi” e che hanno trovato lì rifugio.

Questa “notizia” è girata per giorni sui social – soprattutto in quell’area che considera responsabile di questa guerra la NATO e che quindi giudica l’adesione di Svezia e Finlandia una “escalation” contro Putin, una minaccia ai russi. Più o meno, il “copione ucraino” ( l’allargamento a est della NATO è l’origine della risposta russa). Ora, non c’è scritto da nessuna parte del Memorandum questa cosa e il paragrafo 8 vincola ogni decisione sull’estradizione a che sia presa «in conformità con la Convenzione europea sull’estradizione». Per Martti Koskenniemi, professore emerito di Diritto Internazionale presso l’Università di Helsinki, e tra le menti legali più note d’Europa, il Memorandum «incarna una formula diplomatica di compromesso che in realtà vincola i due paesi semplicemente ad avere più colloqui. Ritengo impensabile che questo possa condurre a qualche cambiamento legislativo significativo in Finlandia». Eppure, qui è scattato subito quello strano meccanismo mentale per cui i ricattati (Svezia e Finlandia) sono i colpevoli, e il ricattatore (Erdogan) passa sotto silenzio. Di nuovo, il “copione ucraino”. Non fa bene alla causa curda, oltre che alla verità, dire cose inventate.

Dice Michael Walzer – professore emerito a Princeton, filosofo della? politica, da sempre impegnato nella sinistra americana – in un bel colloquio con Wlodeck Goldkorn su l’Espresso del 10 luglio: «Cosa ha ottenuto la Turchia per aver “permesso” a Svezia e Finlandia di entrare nell’Alleanza atlantica non è del tutto chiaro, ma sembra un accordo a spese dei curdi, traditi di nuovo». Intanto, il 7 luglio 2022, l’amministrazione autonoma ha dichiarato lo stato generale di emergenza per tutte le regioni del nord est della Siria. I bombardamenti turchi si sono intensificati. Il 19 luglio di dieci anni fa, è iniziata la rivoluzione del Rojava. Per quella data, si chiede una mobilitazione internazionale.

Questa Nato non è un albergo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.

Eminenti sociologi televisionari ci hanno spiegato che Putin è uno statista e la Nato una cattiva compagnia. Eppure, da quando lo statista ha invaso l’Ucraina per non essere accerchiato dalla Nato, si ritrova circondato da sempre più nazioni che desiderano entrarvi. Come mai Finlandia e Svezia, dopo una lunga tradizione di neutralità, vogliono mettersi sotto l’ombrello dell’Occidente proprio adesso? Per paura di Putin. Ed è la stessa ragione per cui a molti italiani non spiacerebbe, al contrario, uscire dalla Nato. Preferiscono non irritare quel russo prepotente che si trova dalla parte sbagliata della Storia, ma dal lato giusto del gasdotto. E qui la faccenda si complica. La Nato è una strana casa, dove i genitori sono più giovani dei figli: gli americani vestono i panni dei genitori, protettivi e ingombranti, e gli europei quella dei figli, ribelli per vocazione e succubi per necessità (e comodità). Mentre chi si aggira spaventato sul pianerottolo vorrebbe entrare, chi sta dentro si lamenta, ma non schioda. Un po’ perché ai genitori fa comodo tenere i figli sotto controllo, e un po’ perché ai figli costerebbe fatica e denaro andare a vivere per conto loro. Dove c’è la paura, lì c’è la soluzione, diceva Jung. Chissà che la paura di Putin non spinga l’Europa a mettere su casa propria. Solo così comincerà ad apprezzare di più anche quella di famiglia. Che, pur essendo piena di spifferi, a differenza delle case russe e cinesi non ha sbarre alle finestre.

L’anno più lungo dell’Europa. Andrea Muratore su Inside Over il 7 novembre 2019.  

La giornata del 9 novembre segna l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, avvenuta nel 1989, di cui ricorre quest’anno il trentennale. La caduta del Muro fu uno degli eventi cruciali del decisivo 1989 che segnò l’inizio della fine della Guerra fredda, di cui la barriera eretta dalle autorità socialiste della Germania Est era divenuta il massimo simbolo.

La caduta del Muro aprì la strada alla dissoluzione del sistema di potere costruito dall’Unione sovietica di Stalin nell’Est Europa nel secondo dopoguerra. Accelerò, senza esserne né il punto di inizio né quello conclusivo, un processo già in atto, che culminò tra il 1990 e il 1991 con la riunificazione tedesca, la transizione dell’Est Europa a un sistema di democrazia pluralista e economia di mercato (accompagnato molto spesso da gravi squilibri) e, infine, con il collasso della stessa Unione sovietica. La fine di un sistema senescente come quello del comunismo a guida sovietica riguardò tutta l’Europa orientale, secondo un effetto domino che travolse regimi politici caratterizzati da alterne fortune nel secondo dopoguerra, evaporati come neve al sole mentre esplodevano le contraddizioni che ne avevano causato la sclerosi.

La stagnazione economica, la persistente influenza dei debiti contratti con le istituzioni finanziarie occidentali, la ripresa di movimenti a lungo repressi e facenti riferimento a orizzonti ideali diversi da quello comunista (Solidarnosc in Polonia), il collasso degli apparati securitari su cui si reggevano le burocrazie comuniste (come in Romania) o una convergenza di questi fattori travolsero, nel decisivo 1989, l’Europa sovietica. Tramontata formalmente due anni dopo, quando l’alleanza militare e strategica del Patto di Varsavia si sciolse ufficialmente. Ma scossa alle fondamenta nell’anno della caduta del Muro, in cui l’Europa vide la rimozione della sua faglia geopolitica e materiale più vistosa. E in cui, per un contrappasso storico, iniziò il processo di marginalizzazione del Vecchio Continente, che dal bipolarismo aveva tratto un’appendice di rilevanza strategica dopo il suicidio delle guerre mondiali, negli ordini mondiali dei decenni a venire.

Tutto parte dalla Polonia

La frammentazione dell’Europa sovietica iniziò dalla Polonia. Paese più importante, assieme alla Germania Est, dell’architettura di Mosca nell’Europa orientale. Interessata, a cavallo tra il 1988 e il 1989, da un’ondata di scioperi operai contro il regime guidato dal generale Wojciech Jaruzelski, salito al potere a inizio decennio per prevenire un’invasione sovietica dopo lo scoppio della protesta del sindacato cattolico Solidarnosc. Lech Walesa, leader di Solidarnosc, forte dell’appoggio del primo pontefice polacco della storia, Giovanni Paolo II, del rafforzamento della Chiesa cattolica polacca come elemento d’influenza nella società, di finanziamenti internazionali consistenti (tra cui quelli del Psi di Bettino Craxi) e della base operaia esaltata dalla propaganda comunista riuscì gradualmente a togliere il terreno dai piedi del regime.

L’ondata di scioperi condusse alla convocazione delle prime vere elezioni della Polonia post-bellica nel giugno del 1989. La strategia di Walesa arrivò a compimento mesi prima che la caduta del Muro fosse anche solo lontanamente ipotizzabile: in un sistema ancora particolarmente ingessato, con un gran numero di seggi bloccati per il partito comunista egemone, Solidarnosc ottenne il 35%, segnando che il mutato vento della storia stava soffiando in direzione opposta al governo nazionale. Con realismo, Jaruzelski accettò il risultato, assegnando a Solidarnosc la guida di una coalizione di governo non comunista guidato dall’attivista del sindacato Tadeusz Mazowiecki. L’elezione di Walesa alla presidenza, l’anno dopo, avrebbe completato la transizione.

L’Ungheria abbatte il suo muro

I movimenti che animavano la Polonia si riverberarono ben presto sulla vicina Ungheria, in cui si erano già manifestate spinte autonome. Il futuro dell’Ungheria si aprì con la valorizzazione di un passato ben impresso nella memoria dei magiari: il perdono postumo comminato dalle autorità a Imre Nagy e agli altri eroi della rivolta antisovietica del 1956. Nel mese di giugno 1989 a Budapest, nella centralissima Piazza degli Eroi, Nagy fu solennemente commemorato in un evento che portò, tra le altre cose, alla notorietà un giovane politico liberale da poco rientrato nel Paese dopo la fine di una borsa di studio finanziata da George Soros: Viktor Orban.

Poco prima l’esecutivo guidato da Miklos Nemeth aveva aperto a una serie di importanti concessioni: stop al monopartitismo, libere elezioni coi partiti democratici coinvolti e, nel mese di maggio, via libera alla rimozione della barriera elettrificata da quasi 250 chilometri che demarcava il confine con l’Austria. Dopo il primo, intenso semestre la transizione che portò alla trasformazione dell’Ungheria in una repubblica democratica tra il 1990 e il 1991 fu graduale e senza particolari scossoni.

Salta il tappo della Ddr

La mossa del governo ungherese aveva coinvolto direttamente la Germania Est, guidata dall’ultimo segretario-padrone della Sed il partito socialista unificato, Erich Honeker. Nell’estate 1989 decine di migliaia di tedeschi dell’Est iniziarono a viaggiare verso l’Ungheria per approfittare dei varchi aperti all’emigrazione. La marea montante delle manifestazioni portarono il regime a considerare più che plausibile l’ipotesi di schierare l’esercito per reprimere le proteste e le richieste di maggiore apertura e trasparenza nel Paese. 

La crescita delle tensioni interne al Paese portò il governo della Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) a sperare nel sostegno dell’esercito sovietico stazionante nel Paese in risposta alla sempre più dura e forte contestazione. A nulla valsero i decreti di chiusura dei confini, l’irrigidimento del Politburo della Sed, le minacce di una repressione simile a quella cinese di Piazza Tienanmen: quando nell’ottobre 1989 Mikhail Gorbacev venne in visita per celebrare il quarantesimo anniversario della Ddr, comunicò a Berlino Est che Mosca non aveva la forza politica di supportare il mantenimento dello status quo nel suo “impero” e spronò apertamente una politica di riforme.

Le parole di Gorbacev furono forse l’evento più significativo del 1989. Il Segretario del Pcus demoliva così in pochi giorni l’architettura politico-militare che aveva trattenuto nell’orbita sovietica i Paesi del Patto di Varsavia. Il destino politico di Honeker era segnato: il 18 ottobre 1989 fu destituito dal Politburo e sostituito dal suo vice Egon Krenz, che guidò la politica di riforme atta a conseguire l’emigrazione a Ovest dei suoi concittadini. La Ddr riaprì i confini e quando il 9 novembre i portavoce del governo socialista annunciarono il via libera all’emigrazione diretta tra Berlino Est e Berlino Ovest, migliaia di cittadini della capitale divisa si assieparono sul Muro eretto nel 1961, iniziando a demolirlo fisicamente per raggiungere l’Occidente. Il resto è storia. Una storia che parla della riunificazione più simbolica che reale della Germania, in cui tra Est e Ovest continua a persistere un divario economico e sociale non indifferente. Caduto il Muro fisico, trent’anni dopo, la sfida dell’integrazione tra le due Germanie deve ancora essere vinta.

Cecoslovacchia e Bulgaria, transizioni rapide e morbide

Praga e Sofia furono fortemente condizionate da quanto avvenuto in Germania Est. L’effetto domino travolgente della dissoluzione dei regimi comunisti esteuropei coinvolse la Cecoslovacchia nella seconda metà del 1989. Il Forum Civico dello scrittore e dissidente Vaclav Havel intensificò la pressione per la liberazione dei prigionieri politici, la fine della repressione e della censura, e il 17 novembre 1989 una manifestazione nella capitale per la Giornata internazionale degli studenti si espanse a macchia d’olio in un vero e proprio moto di rivolta contro il regime. Rivolta oceanica, permanente e incredibilmente disciplinata: le manifestazioni di massa che coinvolsero 800.000 persone e delegittimarono il regime comunista furono definite “rivoluzione di velluto”.

In meno di un mese, il comunismo cecoslovacco evaporò, in parallelo a quanto fatto dalla Sed negli stessi giorni tra fine novembre e inizio dicembre il regime rinunciò al ruolo-guida del Partito sancito dalla Costituzione e fu avviata in maniera istantanea la transizione. Havel divenne Presidente, il Forum Civico vinse il voto popolare del 1990 e, nel 1993, la repubblica si scisse, dando origine alle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia.

La Cecoslovacchia era centro industriale e produttivo di grande importanza. La Bulgaria il piantone del Patto di Varsavia, forse l’unico vero Stato fantoccio privo di reale sovranità nel blocco sovietico. La tenuta del suo regime era vincolata all’esistenza del bipolarismo e della Guerra Fredda, e quando l’evento simbolicamente più significativo, la caduta del Muro, ebbe luogo, facendo capire a Sofia l’importanza del proclama neutralista dei sovietici, il vassallo veterostalinista Todor Zhivkov fu destituito in meno di 24 ore. La rapidità d’azione del Partito Comunista Bulgaro gli consentirono di sopravvivere alla fine della Guerra Fredda. Cambiata la pelle e rinnegato il marxismo-leninismo, la formazione assunse il nome di Partito Socialista Bulgaro e convocò, vincendole, le elezioni del 1990.

Il Natale di sangue rumeno

Anomalo nel contesto del 1989 fu il caso della transizione rumena. Il Paese più autonomo da Mosca, governato da Nicolae Ceaucescu, aveva pagato il suo avventurismo diplomatico e geopolitico e il suo avvicinamento eccessivamente incauto al blocco occidentale con la trappola del debito. La Romania di Ceaucescu aveva dovuto ricorrere a misure di austerità durissime per ripagare i debiti contratti con le istituzioni internazionali. L’austerità e il razionamento di cibo, gas e altri beni di prima necessità furono, secondo molti analisti, funzionali a contenere dal 1981 in avanti la proliferazione del dissenso al di fuori di alcuni scioperi industriali e minerari.

La Romania di Ceaucescu era uno Stato di polizia vigilato strettamente dalla famigerata Securitate, talmente solerte nel compiere il suo lavoro di repressione da prevenire la nascita di ogni possibile forma di dissenso. Mentre la Romania di Ceaucescu diventava il Paese più povero del blocco sovietico e i suoi tassi di mortalità infantile toccavano livelli da Terzo Mondo, il dittatore e la moglie Elena destarono scalpore per lo stile di vita lussuoso e la progressiva estraniazione dal resto del Paese. Il più emblematico esempio della paranoica volontà di autocelebrazione di Ceaucescu è il gigantesco, grigio e freddo Palazzo del Parlamento di Bucarest, cattedrale costruita nel deserto della Romania devastata dalla povertà.

Ceaucescu non capì la necessità di compromessi o cambi di direzione. Quando le proteste di piazza iniziarono a moltiplicarsi anche in Romania, la dittatura reagì con brutalità. Centinaia di morti soffocarono le proteste che si estesero dalla Transilvania alla capitale Bucarest a partire dal 17 dicembre. Troppo per molti dei soldati e degli ufficiali delle forze armate, che iniziarono ben presto a ammutinarsi e a rivolgersi ai ranghi del regime desiderosi di svicolare da un confronto che rischiava di causare una devastante guerra civile. Data la struttura del potere rumeno, l’unica alternativa realisticamente possibile a Ceaucescu era una congiura interna al regime. Una resa dei conti interna. Così fu. Il 21 dicembre Ceaucescu infiammò a Bucarest una folla di 100mila persone; poche ore dopo, il ministro della Difesa Vasile Minea fu trovato morto in circostanze sospette. Suicida dopo esser stato destituito per ammutinamento, sostenne il regime. Ucciso per aver disobbedito, sostenne il neocostituito Fronte di Salvezza Nazionale (Fsn), formato da diversi membri di secondo piano dell’apparato e guidato da Ion Iliescu.

A decidere l’esito della rivolta fu il sostituto Victor Stanculescu. Terrorizzato dall’idea di dover scegliere tra due plotoni di esecuzione (quello dei rivoltosi o quello del regime), Stanculescu guidò palesemente la rivolta delle forze armate. Sfruttando la situazione di caos per usarle contro il dittatore, assediato tra il 22 e il 23 dicembre dai manifestanti assiepati attorno ai palazzi di potere di Bucarest. Il tentativo di fuga in elicottero di Nicolae e Elena Ceaucescu fallì: tra il 24 e il 25 dicembre 1989 il Fsn guidò un processo-lampo contro il dittatore e la moglie che si concluse con la loro fucilazione. Il Natale di sangue rumeno concluse una decade durissima per il Paese, nella quale tra le 600 e le 1.000 persone persero la loro vita. Il golpe interno all’apparato di potere rumeno chiuse nella maniera più atipica l’anno della caduta del Muro. Il decisivo 1989: un anno al cui termine l’Europa si scoprì meno divisa ma, al tempo stesso, meno centrale nel mondo. Finito il bipolarismo, le vecchie faglie interne al continente avrebbero continuato a palesarsi. Lungi dal far finire la storia europea, la caduta del Muro l’ha rimessa in cammino.

Lo strano rapporto tra Urss e Russia: come il passato è tornato presente. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 29 giugno 2022.  

Tristezza per l’insoddisfazione del presente. Nostalgia di un passato ritenuto migliore. Angoscia per il futuro. Frastuono nella mente provocato dal continuo rimuginio. Esiste un termine nella lingua russa, un classico lost in translation, per definire questo insieme di sentimenti, emozioni e sensazioni: тоска. тоска, una parola, mille significati.

Il fatto che in italiano e in altri idiomi non esistano corrispettivi di тоска è indicativo dell’unicità che connota il notoriamente tormentato e afflitto animo russo (русская душа), il cui vivere in stato di struggente afflizione è tutt’altro che uno stereotipo. Spiegando attraverso i libri questa condizione psicologica che riguarda i russi, oggi e ieri rebus avvolto in un enigma per gli europei, Fëdor Dostoevskij fece la sua fortuna.

Scrivere e parlare della тоска, di quel sentimento nostalgico che impedisce di vivere serenamente il presente e condiziona la percezione di quello che è il proprio posto nel mondo, è fondamentale ai fini della comprensione e dell’interpretazione dell’incognita Russia. Perché trattasi di uno stato d’animo comune sia alle masse sia ai decisori, in quanto proprio dell’homo russicus, in parte legato a quel senso di identità troncata che mai ha reso i russi né completamente europei né pienamente asiatici. E perché movente che ha sempre guidato, e sempre guiderà, le ambizioni di grandezza del Cremlino.

La Russia vive e opera in un orizzonte spaziotemporale, dove il passato è l’ombra del presente, che l’Europa potrà cominciare a capire soltanto quando si disfarà della propria mantella post-storica. Fino a quel momento, causa la naturale e inevitabile inintelligibilità tra attori storici e attori post-storici, la Russia continuerà a guardare la sorellastra Europa con тоска e l’Europa continuerà a considerare la Russia un rebus avvolto in un mistero dentro ad un enigma.

Quanto il passato in Russia sia incredibilmente attuale, e inverosimilmente tangibile, lo si può comprendere soltanto visitandola. Da Mosca a Omsk, e da Murmansk a Vladivostok, negli edifici brutalisti risaltano gli stemmi della defunta Unione Sovietica, nelle chiese si prega la Trinità e si baciano le icone di santi guerrieri e martiri del lontano e vicino passato, da Aleksandr Nevskij ai Romanov, e i panorami urbani sono dominati da monumenti ciclopici e cremlini. Impossibile non provare la тоска se si è russi. Impossibile non sentire una qualche forma di nostalgia per un’epoca mai vissuta anche se russi non lo si è.

In Russia, dove il passato è presente, su tutto ciò che è accaduto ieri non è ancora calato il tramonto. E se la тоска spinge anziani e più giovani a idolatrare fantasmi del passato, come Stalin, sui decisori politici dell’epoca postsovietica ha avuto un altro effetto: li ha persuasi che avrebbero dovuto riappropriarsi di tutto ciò che fu perduto tra il 1989 e il 1991. Non si può risalire alle origini e alle ragioni di Vladimir Putin, eletto dallo stato più profondo per porre fine al nuovo periodo dei torbidi, prescindendo dalla descrizione del ventre che lo partorì.

URSS, ieri, oggi, sempre

In principio fu Sergej Karaganov, teorico della militarizzazione delle comunità russofone nell’estero vicino russo, a trasformare il senso di nostalgia per la perduta grandezza sovietica in qualcosa di diverso: un indirizzo politico. Poi venne Evgenij Primakov, che, dopo la pioggia acida del 1999 – dal bombardamento di Belgrado all’incidente di Pristina –, teorizzò la transizione multipolare. E infine, al termine di nove anni di guerra civile, terrorismo, criminalità e recessione, dai meandri dello stato più profondo giunse Putin.

Voglia di rivalsa. Desiderio di un secondo round. Sogno di una vittoria che sia in grado di cancellare le sconfitte del passato. E l’Unione Sovietica come bussola, perché il più ambizioso esperimento sociopolitico del Novecento fallì, sì, ma a causa della miopia e del lassismo della classe dirigente e dopo, comunque, aver coronato la più fervida e antica fantasia degli eredi di Rurik e Vladimir: fare di Mosca la nuova Roma, sebbene non in senso cristiano, e cioè caput mundi – il centro del mondo.

I russi non rimpiangono l’Unione Sovietica perché latentemente marxisti: nessuno sarà mai in grado di persuaderli che una kommunalka è meglio di una dacia, e neanche di costringerli ad abiurare i loro legami ancestrali con Cirillo e Metodio. Dell’Unione Sovietica, quel passato che non passa – per dirla alla Limes –, essi rimpiangono i trionfi scientifici – come i successi nella corsa allo spazio –, il prestigio e l’influenza nelle relazioni internazionali – come il ruolo determinante nel processo di decolonizzazione. Capire questo equivale a compiere il primo passo verso la comprensione di Putin e di chiunque altro lo succederà.

Le “guerre” del Patto di Varsavia. Paolo Mauri su Inside Over il 30 giugno 2022.  

Il Patto di Varsavia, formato tra gli Stati socialisti dell’Europa orientale nel 1955, era il contrappeso nominale dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato) nel continente europeo.

A differenza dell’Alleanza, fondata nel 1949, il Patto di Varsavia non aveva una struttura organizzativa indipendente, ma funzionava come parte del Ministero della Difesa sovietico. In effetti, negli oltre trent’anni dalla sua fondazione, il Patto è servito come uno dei principali meccanismi dell’Unione Sovietica per mantenere i suoi alleati dell’Europa orientale sotto il suo controllo politico e militare. L’Urss ha utilizzato il Patto di Varsavia per erigere una facciata di decisioni e azioni collettive attorno alla realtà del suo dominio politico e dell’intervento militare negli affari interni dei suoi alleati, allo stesso tempo lo ha anche utilizzato per sviluppare eserciti socialisti nell’est europeo (e non solo) e sfruttarli per la sua strategia militare.

Il Patto non aveva un comando multilaterale o una struttura decisionale indipendente dall’esercito sovietico, al contrario del suo diretto avversario, la Nato, che risponde a un organismo decisionale collettivo. Dall’inizio degli anni ’60, l’Urss ha utilizzato il Patto di Varsavia per preparare le forze non sovietiche a prendere parte alle operazioni dell’esercito sovietico nel teatro di guerra europeo nella forma di Joint Armed Forces, ma comunque strettamente al comando di Mosca. In tempo di guerra, il comandante in capo e il capo di Stato maggiore del Patto avrebbero trasferito le proprie forze mobilitate e schierate al controllo operativo delle forze di terra sovietiche.

I Paesi dell’Europa orientale hanno svolto ruoli specifici nella strategia sovietica contro la Nato determinati sulla base delle loro particolari capacità militari. La Polonia, ad esempio, aveva la più grande e migliore forza aerea tra tutti i membri del Patto di Varsavia che l’Unione Sovietica avrebbe potuto impiegare in un conflitto in Europa. All’interno di questo organismo i rapporti di forza non erano gli stessi: Mosca, infatti, avrebbe affidato agli eserciti meno capaci, come quelli di Ungheria, Cecoslovacchia e Bulgaria, compiti sostanzialmente difensivi al contrario di altri, come quelli di Polonia e Ddr (Repubblica Democratica Tedesca), che avrebbero coadiuvato l’Armata Rossa nella sua penetrazione nel cuore del continente europeo. In generale, tutti i Paesi dell’Europa orientale erano responsabili della sicurezza del proprio territorio, delle retrovie sovietiche e delle linee di comunicazione.

Il Patto nacque come meccanismo collettivo di autodifesa caratterizzato da non interferenza reciproca, tuttavia, tale assetto interno era chiaramente in contrasto con le esigenze dell’Urss di controllare i suoi satelliti europei. Pertanto, per aggirare questa falla, i sovietici si limitarono a ridefinire l’aggressione esterna in modo da includere qualsiasi rivolta antisovietica e anticomunista spontanea in uno Stato alleato. Postulando quindi come impossibili le rivolte interne spontanee, l’Unione Sovietica dichiarò che tali focolai erano il risultato di provocazioni imperialiste e quindi costituivano un’aggressione esterna. Questa particolare caratteristica ci porta direttamente all’unico intervento armato del Patto di Varsavia: la repressione della Primavera di Praga.

L’invasione della Cecoslovacchia

Tra il 20 e il 21 agosto 1968, l’Unione Sovietica insieme a forze di Bulgaria, Ungheria, e Polonia (la Repubblica Democratica Tedesca si limitò a dare supporto logistico), invase la Repubblica Socialista Cecoslovacca per fermare le riforme di liberalizzazione politica di Alexander Dubcek.

Un giovane con la bandiera cecoslovacca in mano corre davanti a un carro armato sovietico in fiamme, incendiato dai praghesi nel centro di Praga il 21 agosto 1968, quando l’invasione guidata dai sovietici e dagli eserciti del Patto di Varsavia stroncò le riforme della cosiddetta Primavera di Praga nell’ex Cecoslovacchia 

Alle 23 del 20 agosto, la Settima divisione paracadutisti dell’Armata Rossa, equipaggiata con cannoni semoventi leggeri tipo Asu-57, arrivò in volo all’aeroporto Ruzyne di Praga. Era cominciata l’operazione “Danubio”. Poco prima, con un volo speciale da Mosca, più di 100 agenti in borghese avevano rapidamente messo in sicurezza l’aeroporto, insieme a quello di Brno, e preparato la strada per l’imminente ponte aereo, in cui gli aerei da trasporto An-12 scaricarono le truppe aviotrasportate di occupazione, come nella migliore tradizione sovietica: lo stesso modus operandi si è ripetuto in Afghanistan poco più di dieci anni dopo, e, in piccolo, nel primo giorno di conflitto in Ucraina, quando i paracadutisti e le forze speciali russe hanno cercato di mettere in sicurezza l’aeroporto di Gostomel, non lontano da Kiev, per poter far affluire gli Il-76 col grosso delle truppe, ma questa è un’altra storia.

In quella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 le prime unità di terra della 20esima Armata corazzata sovietica giunsero a Praga da nord. I primi carri armati T-55 arrivarono in via Vinohradska intorno alle 8:00 del 21 e trovarono le prime barricate: la popolazione locale, informata dalla radio fedele a Dubcek, si oppose alla repressione di Mosca e delle forze del Patto di Varsavia. I carri armati avevano simboli di identificazione diversi, romboidali e quadrati, dipinti vicino ai codici di unità sulle torrette. Qualcosa che si è rivisto anche nel recente conflitto in Ucraina.

Abitanti di Praga ritratti in una foto del 21 agosto 1968, mentre circondano un carro armato sovietico in Piazza San Venceslao a Praga durante gli scontri tra i manifestanti e le truppe e i carri armati del Patto di Varsavia, che avevano invaso la Cecoslovacchia per schiacciare la ritrovata libertà e ristabilire un regime totalitario 

La maggior parte delle forze d’invasione proveniva dall’Unione Sovietica e il secondo contingente più numeroso era quello dei polacchi, presenti con 28mila soldati della Seconda Armata del distretto militare della Slesia comandati dal generale Florian Siwicki, seguiti dagli ungheresi, le cui truppe vennero ritirate entro il 31 ottobre: complessivamente le forze non sovietiche ammontavano a circa 80mila uomini.

In totale per l’operazione Danubio furono mobilitati 480mila uomini (pari a 27 Divisioni), 6300 carri armati, 800 velivoli e 2mila pezzi di artiglieria. La Repubblica Ceca avrebbe potuto far intervenire il suo esercito composto da 200mila uomini (600mila mobilitabili in 2-3 giorni), più di 250 velivoli e un numero di carri e veicoli corazzati compreso tra 2500 e i 3mila (stimati), ma Dubcek ordinò di non opporre nessuna resistenza. Spontaneamente, però, rivolte scoppiarono a Praga e in altre città cecoslovacche che portarono alla morte di 108 civili (oltre 500 i feriti), e di 96 soldati sovietici, insieme a 10 polacchi, 4 ungheresi e 2 bulgari.

L’operazione, dal punto di vista tattico, fu un pieno successo proprio perché l’esercito cecoslovacco non intervenne direttamente ma si limitò, sporadicamente, a sostenere i civili: Dubcek fu arrestato e portato a Mosca già la mattina del 21 agosto insieme a molti dei suoi colleghi, per poi fare ritorno a Praga il 27 a fronte della situazione progressivamente sempre più instabile onde evitare ulteriori spargimenti di sangue; le forze del Patto di Varsavia invasero rapidamente il Paese e presero il controllo delle principali città e aeroporti. “Danubio” è stata un’operazione ben pianificata ed eseguita, e con poco spargimento di sangue la Cecoslovacchia era stata “messa in sicurezza”.

L’epilogo lo conosciamo: nonostante la presenza di truppe sovietiche e l’instaurazione di un regime dalla linea dura a Praga, i semi della rovina dell’impero sovietico erano stati gettati. Si era formato un gruppo di leader che avrebbero portato avanti lo spirito di indipendenza per vent’anni, sino alle “Rivoluzioni di Velluto” che sancirono la fine della Cortina di Ferro e portarono con sé la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.

Il Patto di Varsavia come proxy dell’Urss

Con l’Europa orientale in una fase relativamente quiescente, l’Unione Sovietica iniziò a costruire un sistema di alleanze informali nel Terzo Mondo negli anni ’70. In questa impresa Mosca sfruttò i suoi alleati del Patto di Varsavia come delegati per “rafforzare il ruolo del socialismo negli affari mondiali”, cioè per sostenere gli interessi sovietici in Medio Oriente e in Africa.

Dalla fine degli anni ’70, i paesi del Patto sono stati attivi principalmente in Angola, Congo, Etiopia, Libia, Mozambico, Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (Yemen del Sud) e Siria. L’Unione Sovietica ha impiegato i suoi alleati del Patto di Varsavia come veri e propri proxy principalmente perché le loro attività avrebbero ridotto al minimo la necessità di un coinvolgimento sovietico diretto, e ovviato a possibili critiche internazionali alle azioni di Mosca nel Terzo Mondo, secondo il ben noto principio della “negazione plausibile”.

Così in quel decennio, i Paesi del Patto di Varsavia si adoperarono nel firmare trattati di amicizia, cooperazione e assistenza reciproca con la maggior parte degli alleati dell’Urss nel Terzo Mondo. Ispirati dalla “divisione socialista del lavoro”, si specializzarono nella fornitura di determinati aspetti dell’assistenza militare o economica, con la prima al centro dell’agenda di politica estera: negli anni ’70 e ’80, Bulgaria, Cecoslovacchia e Germania dell’Est sono stati i principali delegati dell’Urss per i trasferimenti di armi al Terzo Mondo.

Il procedimento ricorda quello statunitense: si fornivano attrezzature, pezzi di ricambio e personale per l’addestramento (i “consiglieri militari” che molto probabilmente parteciparono attivamente ai combattimenti) e oggi sappiamo che in questo modo l’Unione Sovietica ha potuto fornire armi alla Repubblica Democratica del Vietnam (Vietnam del Nord) all’inizio degli anni ’70, alle forze filosovietiche nella guerra civile angolana del 1975 e in Nicaragua negli anni ’80.

Mosca, in particolare, faceva affidamento sui consiglieri della Germania Orientale per istituire milizie armate, forze di polizia paramilitari e organizzazioni di sicurezza interna e di intelligence per alleati selezionati del Terzo Mondo. I sovietici consideravano questo compito particolarmente importante perché un apparato di sicurezza efficiente sarebbe stato essenziale per sopprimere le forze di opposizione e mantenere un regime amico al potere. Si ritiene che Ungheria e Polonia abbiano deciso di concentrarsi solo sul sostegno economico/commerciale forse perché più preoccupate dall’ambito europeo.

Il presidente Iliescu (Romania), il vicepresidente dell’Unione Sovietica Yannayev, i presidenti Havel (Cecoslovacchia), Walesa (Polonia), Zhelev (Bulgaria) e Antall (Ungheria) ritratti a Praga tra altre personalita’ il primo luglio 1991 in occasione della firma dello scioglimento del Patto di Varsavia 

Il Patto di Varsavia fu sciolto ufficialmente il primo luglio del 1991, ma al tempo delle rivoluzioni in Europa orientale (1989) aveva già cessato di svolgere le sue funzioni di controllo dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica: Mosca non aveva più la forza politica di poter reprimere l’onda lunga della Primavera di Praga, diffusasi nel suo estero vicino europeo.

Che cos’era il Patto di Varsavia, il rivale della Nato. Andrea Muratore su Inside Over l'1 luglio 2022.  

Il 14 maggio 1955 ritrovandosi nella capitale polacca i leader di sette Paesi socialisti dell’Europa orientale formarono, sei anni dopo la nascita della Nato, un’alleanza militare siglando quello che ufficialmente era il Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza ma che per tutti, nei trentasei anni successivi, sarebbe stato il Patto di Varsavia. 

Il contesto in cui nacque il Patto di Varsavia

Nel corso della Guerra Fredda, dal 1955 al 1991 l’Unione Sovietica avrebbe compattato attorno al Patto di Varsavia la sua sfera d’influenza. E così come la nascita della Repubblica Democratica Tedesca fu, nel 1949, una reazione alla costituzione della Repubblica Federale Tedesca nella Germania occidentale occupata dagli Alleati nel 1945, anche la nascita del Patto di Varsavia avvenne in opposizione a una mossa del campo euroatlantico. Quando, infatti, a inizio 1955 la Germania Ovest si unì al Patto Atlantico l’Urss decise di rinunciare definitivamente al suo progetto di una Germania unita e neutrale, ritenuto non più percorribile.

Sia ben chiaro: le truppe sovietiche da un decennio, in quel tempo, presidiavano con forza i Paesi del blocco socialista occupati sul finire del secondo conflitto mondiale e ne limitavano i margini d’autonomia politica sulla scia dei desiderata prospettati da Mosca. Ma per tenere aperto uno spiraglio a una risoluzione delle controversie con l’Occidente mai l’Urss aveva voluto cavalcare la retorica di una cristallizzazione dello stato di cose venutosi a creare dopo la caduta del nazismo.

Nel 1952, un anno prima della morte, Josif Stalin aveva offerto con la celebre “Nota di Marzo” un margine di dialogo per la riunificazione tedesca. Secondo lo storico statunitense John Lewis Gaddis, i Paesi occidentali erano inclini ad esplorare l’offerta dell’Urss ma non avrebbero assecondato Mosca sulla neutralità. E quando il cancelliere tedesco Konrad Adenauer ottenne il via libera all’ingresso nella Nato proposto dalla sua Unione Cristiano-Democratica (Cdu) la leadership post-staliniana ruppe gli indugi.

Per farlo, potè a suo modo contare sul genuino supporto delle élite di Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia che, indipendentemente dalla loro natura filosovietica, avevano ben impresso nella mente il ricordo degli effetti del militarismo tedesco. Il 14 maggio 1955 l’Unione Sovietica, l’Albania, la Bulgaria, l’Ungheria, la Germania Est, la Polonia, la Romania e la Cecoslovacchia firmarono a Varsavia il trattato, rivendicando la sua coerenza con lo Statuto delle Nazioni Unite e, soprattutto, con gli obiettivi della pace in Europa.

L’ingresso di Bonn nella Nato e la possibilità della nascità della Comunità Europea della Difesa complementare alla Nato fu indicata esplicitamente dai firmatari come causa scatenante per la nascita del Patto, come scritto esplicitamente nel preambolo:

“Tenendo conto della situazione creatasi in Europa in seguito alla ratifica degli accordi di Parigi, che prevedono la costituzione di un nuovo organismo militare sotto la forma di Unione dell’Europa Occidentale, che comportano la partecipazione della Germania occidentale rimilitarizzata e la sua integrazione nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, ciò che aumenta i rischi di una nuova guerra e crea una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati pacifici”.

Formalmente la Germania Est entrò nel Patto come firmatario ma da Paese sino ad allora disarmato. L’anno successivo i sovietici le concessero il riarmo e la costituzione della Nationale Volksarmee. L’Albania, invece, uscì nel 1961 dal Patto (formalmente nel 1968) dopo i dissidi tra la sua leadership filo-cinese e Mosca.

La struttura del Patto

Il Patto di Varsavia aveva formalmente durata ventennale. Fu rinnovato una volta sola, nel 1976, anno in cui iniziò una svolta che lo portò a ampliare la sua struttura dalla supervisione delle attività militari dell’Est Europa al coordinamento tra i servizi di intelligence dei Paesi membri. Il 1 luglio 1991, dieci mesi dopo la riunificazione tedesca e cinque mesi prima dello scioglimento dell’Urss, cessò di esistere per scelta dei membri contraenti.

Come si strutturava il Patto? Formalmente le sue mansioni erano conformi alla Carta dell’Onu e prevedevano un patto di difesa e sicurezza collettiva da attivare in caso di attacco alle nazioni che ne facevano parte, un coordinamento securitario da attivare per esercitazioni congiunte e operazioni in cooperazione, una continua consultazione politica. Il comando operativo rimase a Mosca nonostante un tentativo tra il 1972 e il 1973 di costruire un sistema di gestione delle operazioni a Leopoli, in Ucraina, molto vicino ai confini estremi occidentali dell’alleanza, abortito per il timore di un’escalation con l’Occidente.

Due erano le istituzioni chiave, ricalcate sulla segreteria e il comando militare della Nato: sul primo fronte, il Comitato di Controllo Politico doveva indire consultazioni periodiche tra le parti; sul secondo, il Comando Congiunto delle Forze Armate fungere da “stato maggiore” supremo in caso di operazioni trasversali.

Contrariamente alla Nato, che ha sempre visto il comando militare affidato a uno statunitense e quello politico garantito a un europeo, il Patto di Varsavia vide le due cariche apicali, quello di Comandante Supremo e quello di Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Congiunte, saldamente in mano sovietica per tutti i trentasei anni della sua esistenza. Il primo comandate supremo fu Ivan Konev, veterano della campagna contro la Germania nazista. 

Come funzionava il Patto

Formalmente puramente difensivo, il Patto servì in realtà all’Urss per affermare una precisa linea d’azione: evitare la deviazione dal socialismo verso forme politiche simil-occidentali di formazioni politiche interne ai regimi costituiti da Mosca nei Paesi satelliti.

Nel 1956, quando Imre Nagy guidò la rivoluzione ungherese, furono formalmente le forze sovietiche in solitaria a reprimere le istanze dei “ragazzi di Buda”. Ma con l’ottobre di sangue ungherese si sancì il presupposto secondo cui il Patto poteva identificare nel deviazionismo dei suoi Paesi membri una forma di minaccia collettiva.

Era questa la dottrina della “sovranità limitata” che rappresentò l’estremizzazione del concetto di bipolarismo e indicava, di fatto, che l’Urss aveva potere di decisore di ultima istanza sulla rotta politica dei Paesi affiliati al Patto. Nel 1968, in Cecoslovacchia, si ebbe l’unica operazione militare multinazionale del Patto di Varsavia in applicazione sostanziale di tale principio, in reazione alle istanze libertarie della Primavera di Praga.

Di fatto, essendo il Patto di Varsavia un’alleanza fondata sulla concentrazione di forze terrestri, i piani per eventuali guerre verso l’Ovest furono più un’emanazione di quelli sovietici che una reale elaborazione originale come quelli della Nato, che prevedevano una serie di linee di difesa per tenere il fronte in attesa di eventuali rinforzi americani. E come scritto da Global Security, tutti i progetti di eventuali avanzate terrestri delle forze filo-sovietiche non avrebbero potuto prescindere dalle offensive nucleari di Mosca: “i leader militari sovietici si aspettavano ragionevolmente che gli Stati Uniti ei loro alleati avrebbero iniziato a utilizzare attivamente armi nucleari all’inizio del conflitto. Pertanto, nei piani di guerra studiati a Mosca si “prevedeva di combinare il libero uso delle armi nucleari con la formidabile potenza militare del Patto di Varsavia. Oltre alla distruzione delle principali città e paesi, i piani militari dell’Unione Sovietica prevedevano l’uso di armi nucleari tattiche contro gli obiettivi militari della Nato Pertanto, secondo uno scenario contenuto in un documento congiunto sovietico-ungherese, il Patto di Varsavia doveva scaricare 7,5 megatoni di armi nucleari su obiettivi occidentali nei primi giorni della guerra”.

In sostanza, il Patto di Varsavia fu uno strumento della politica sovietica per cristallizzare la centralità di Mosca nel contesto esteuropeo e per mostrare proiezione all’estero più che un’alleanza con obiettivi strategici di lungo termine. Per questo, quando a fine Anni Ottanta Mikhail Gorbaciov coniò la “dottrina Sinatra”, indicando che ogni nazione dell’Est poteva comportarsi alla sua maniera (My Way, celebre canzone di Sinatra, ispirò il leader della perestrojka) il Patto di Varsavia divenne sovrabbondante e non giocò alcun ruolo, dopo la caduta del Muro di Berlino, nel mantenere attivo il sistema socialista.

Nel 1990, con il Patto di Varsavia ancora in vigore, i governi di tre  Paesi appena usciti dal socialismo reale, Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria parteciparono alla guerra del Golfo al fianco della coalizione Usa con l’Operazione Desert Shield e Desert Storm, che formalmente vide dunque, di fatto, Paesi Nato e del moribondo Patto combattere fianco a fianco. E fu l’unica formale occasione di azione autonoma dei Paesi di un’alleanza che, nei fatti, non esisteva più. Il primo giorno di luglio del 1991 il Patto si sciolse senza clamore, con un tonfo silenzioso. E presto avrebbe seguito alla sua fine il collasso formale della superpotenza comunista, scioltasi nella giornata di Natale del 1991.

La fine del "patto". STORIA E CADUTA DELLA "NATO SOVIETICA".

Autori: Paolo Mauri, Andrea Muratore, Emanuel Pietrobon, Lorenzo Vita su Inside Over l'1 luglio 2022.  

Il Patto di Varsavia ha segnato la storia del Novecento definendo l’ascesa e il declino dell’Unione Sovietica. La sua disgregazione è stato uno sei simboli tangibili della fine dell’impero di Mosca, culminato solo più avanti con l’intera disgregazione dell’Urss e del sistema socialista. Fine che ha provocato non solo la conclusione di una lunga stagione di contrapposizione tra blocchi in Europa, ma anche l’inizio di una serie di reazioni a catena che hanno portato i vecchi Stati satellite del Cremlino a scegliere la via dell’Occidente, in particolare della Nato.

Patto di Varsavia

La fine del Patto di Varsavia, avvenuta in quel fatidico 1° luglio 1991, venne vissuta dai contemporanei con sentimenti contrastanti. Per alcuni la fine di un incubo. Per altri la fine di un sogno. Per altri ancora la riscossa di un’Europa che appariva libera dal giogo sovietico. Per altri, infine, l’inizio di un mondo unipolare in cui gli Stati Uniti, usciti vincitori dalla Guerra Fredda, avrebbero regnato sul “mondo libero” dopo decenni di contrapposizione strategica e ideologica. 

La guerra in Ucraina, con la “cortina di ferro” che sembra essere calata nuovamente sull’Europa, ha resuscitato antichi spettri che apparivano rimossi proprio da quel luglio 1991. L’idea di un impero russo, non più sovietico, che cercava ancora la formazione di un’area di influenza alternativa alla Nato e al di là dei propri confini nazionali è apparsa come un inquietante indizio di una storia che sembra destinata a ripetersi. Un trauma che i Paesi facenti parte del Patto di Varsavia non hanno mai del tutto metabolizzato, al punto che oggi, anche grazie al sostegno degli Stati Uniti, appaiono come i principali fautori dell’intransigenza atlantica rispetto a qualsiasi richiesta proveniente da Mosca. Reazione naturale, che poggia le sue radici non solo su una storica contrapposizione con l’impero zarista ma anche con la paura di essere di nuovo considerati parte di un blocco facente capo al Cremlino. 

In effetti, alcune mosse di Vladimir Putin ricordano quello che fu l’impero sovietico. Se non altro per l’idea, perorata dal governo russo, di tentare la ricostruzione di un’area di influenza in grado di fornire quelle “garanzie di sicurezza” richieste da Sergei Lavrov e da altri ministri e ritenute essenziali dai vertici moscoviti. Garanzie di sicurezza che ricalcavano tuttavia una situazione molto più simile a quella precedente al Patto rispetto alla realtà attuale. 

Una forma di ritorno al passato che, per le condizioni venutesi a creare negli ultimi anni, risultava pressoché impossibile da ripristinare. Uno scontro strategico che non ha più quel substrato ideologico che aveva la contrapposizione tra Urss e Usa ai tempi della Guerra Fredda e che conferma invece quanto la formazione di quegli Stati-satellite fosse un’esigenza molto più strategiche che politica o culturale. 

Oggi non sembrano esserci le condizioni per tornare a un passato in cui Mosca era capitale di un impero con proiezione europea. L’assorbimento degli ex aderenti a Varsavia nella Nato e nell’Unione europea è la dimostrazione che la Russia difficilmente potrà tornare ad avere un ombrello protettivo sull’Europa orientale come lo aveva alla fine della Guerra Fredda.

In ogni caso, l’impianto strategico di quell’accordo è ancora oggi vivo nella memoria dei Paesi sottostanti l’Urss ma anche nella capitale russa, dove gli eredi della scuola

sovietica sono consapevoli che la presenza di un’area-cuscinetto tra la Federazione e la Nato sia l’esigenza prioritaria del Cremlino.

Autori: Paolo Mauri, Andrea Muratore, Emanuel Pietrobon, Lorenzo Vita

Otto e mezzo, Marco Travaglio senza pietà smaschera Usa e Europa sulla guerra. Beppe Severgnini sbotta.

Il Tempo il 13 aprile 2022.

Sciabolate di Marco Travaglio contro gli Usa e l’Europa: “In questa guerra ci sono gli invasi, gli invasori e gli invasati. Gli Usa stanno sabotando la pace per sporchi interessi. A che titolo ci dobbiamo tagliare le pa**e per loro?”. Beppe Severgnini lo accusa di odio verso l’America e Lilli Gruber li bacchetta.

Il direttore de "Il Fatto Quotidiano", ospite di "Otto e Mezzo", il talk politico di LA7, mercoledì 13 aprile, randella la Casa Bianca per la gestione del conflitto in Ucraina: “Sul fronte orientale non si vede niente di buono, qualche barlume si apre sul fronte occidentale dove la parte più avveduta e libera, cioè Macron e Scholz, non i camerieri di Biden e Johnson, hanno detto che non si può seguire in tutto e per tutto le richieste di Biden e Zelensky”.

La critica si fa feroce: “Gli americani fanno i loro sporchi interessi, diversi da quelli europei. La Casa Bianca supporta l’escalation verbale per dare il via all’escalation militare, non possono accettare che la guerra duri poco e stanno sabotando in ogni modo una trattativa. Biden parla di genocidio per buttare giù Putin e processarlo”. Elogi solo per Macron e Scholz che si sono dissociati dalle parole del presidente americano e “hanno iniziato a spegnere un po’ di teste calde”, prima della conclusione a effetto: “In questa guerra ci sono gli invasi, gli invasori e gli invasati”.

 Immediata la replica del giornalista Beppe Severgnini: “Non posso e non voglio credere che gli americani lavorino a un prolungamento della guerra. Dirlo è grave. Biden può essere meno enfatico, ma è nostro alleato. Vogliono allungare il conflitto per venderci un po’ di gas in più? Ma che dici?! Perché non parlare degli sporchi interessi dei russi? Se poi vogliamo tirare fuori tutte le volte il manuale del piccolo complottista… non sta né in cielo né in terra dire che non vogliono la pace”. 

Le prime tensioni in Europa però sono evidenti e Travaglio attacca con maggior decisione: “A che titolo gli americani decidono da chi dobbiamo comprare il gas? A che titolo ci intimano di tagliarci le pa**e per fare un dispetto alla moglie? E’ una guerra tra russi e americani, gli europei stanno in mezzo esattamente come gli ucraini che ci mettono soldati e morti. Ciascuno fa i suoi sporchi interessi: per il gas, per far vincere le elezioni a Biden, per far dimenticare l’ignominiosa fuga dall’Afghanistan dell’agosto scorso e perché quando gli ricapita una guerra civile dentro l’Europa? Una piaga purulenta che prosciugherà le risorse europee messe da parte con il Recovery?”. 

Per il direttore, gli USA vogliono approfittare dell’occasione per dividere il mercato russo da quello europeo e trarne vantaggi economici. E l’ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato sarebbe una tragedia annunciata: “Due paesi neutrali come Svezia e Finlandia che fanno parte della Nato, secondo voi pregiudica la sicurezza o la migliora? E’ un altro cerino nel pagliaio”.

Severgnini fa ripartire la querelle: “Se la Finlandia esiste è perché ha resisto 100 giorni nel 1939 dall’invasione russa. Marco, un concentrato d’odio così per l’America non lo sentivo da tanto tempo. Non sai cosa dici!”, “Non farmi la predica. Io dico quello che voglio! Non hai nessuna autorità per dirmi cosa posso o non posso dire!” è la risposta di un offeso Travaglio. Ma prima che la situazione degeneri, Lilli Gruber lo zittisce: “Ognuno esprime le sue opinioni senza attacchi personali! Ed è un dato di fatto che Putin è riuscito nel miracolo di rafforzare e allargare l’alleanza atlantica”.

Dagospia il 12 aprile 2022. Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera di Marco Carnelos, ex ambasciatore in Iraq ed ex inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, presidente della MC Geopolicy

Caro Dago, 

nell’accogliere nuovamente la tua sollecitazione, condivido con te alcune riflessioni sollevate dalle implicazioni determinate immane tragedia cui stiamo assistendo con la guerra in Ucraina. 

Mi soffermo su quelle concernenti il futuro dell’Europa, per la riflessione sistemica e globale che avevi chiesto a suo tempo credo occorrerà attendere prudentemente ancora qualche tempo.

La Prima guerra mondiale ha senza dubbio segnato l'inizio del declino politico e militare dell'Europa. Dopo quattro secoli di dominazione globale di quest’ultima, il conflitto fratricida finì con l’aprire la strada all'ascesa degli Stati Uniti e dal, 1917 in poi, al cosiddetto secolo americano mentre tre imperi europei ne fecero le spese: quello asburgico, quello germanico e quello russo. 

Con la Seconda guerra mondiale, l'Europa ha completato la sua auto-emarginazione come attore globale. L'esito del conflitto ha infatti sancito l'egemonia globale degli Stati Uniti, il bipolarismo con l'Unione Sovietica e, infine, la progressiva liquidazione dei residui imperi europei, quello britannico e quello francese.

In retrospettiva, e in un’ottica prettamente europea, i due conflitti mondiali non sono stati altro che due veri e propri suicidi compiuti dal vecchio continente che si è incredibilmente auto-condannato all’irrilevanza. 

I futuri annali della storia ricorderanno probabilmente il 24 febbraio 2022, come un ulteriore spartiacque storico, ma, soprattutto, come l'anno del terzo suicidio compiuto dall’Europa dopo il notevole terreno che aveva recuperato con la creazione dell’Unione Europea.

Se la posizione assunta da quest’ultima dinanzi al drammatico conflitto in corso in Ucraina appare a prima vista comprensibile, a medio e lungo termine è invece inspiegabile e, temo, possa rivelarsi altamente controproducente. Bruxelles ha rinunciato a qualsiasi tentativo di svolgere un ruolo diplomatico nella prevenzione del conflitto e, finora, nella promozione di una soluzione negoziata.

Al contrario, il Capo della diplomazia UE Josep Borrel arriva ad affermare che “questa guerra verrà vinta sul campo di battaglia”. Non posso fare a meno di domandarmi, con una certa inquietudine, quale sia l’effettiva estensione del campo di battaglia immaginato da Borrel. 

Come europeo, ed europeista, trovo a dir poco deprimente che i timidi tentativi diplomatici per comporre una crisi che molto probabilmente impatterà sulla futura architettura di sicurezza del vecchio continente siano stati incredibilmente assunti da attori esterni all’Unione, come Israele e Turchia.

Nutro il profondo timore che l'UE si stia dirigendo sonnambula verso un abisso. Nelle ultime settimane i suoi leader sono stati solo in grado di ripetere meccanicamente uno slogan certamente veritiero ma al fondo banale, ovvero "c'è un aggressore e un aggredito" e di adottare, in una sorta di effetto valanga, sanzioni in larga parte dettate dagli Stati Uniti e, colmo dell’ironia dopo la Brexit, dalla Gran Bretagna! 

Temo altresì che l’effetto netto di queste scelte, lungi, ahimè, dall’alterare la situazione sul terreno e negli assetti politici in Russia, finirà per penalizzare severamente l’economia europea (e italiana) e la capacità competitiva delle sue imprese sui mercati globali.

La tanto decantata Autonomia Strategica dell’Unione sembra ormai svuotata di ogni significato; in termini politici l’UE si è trasformata in un'istituzione completamente ancillare alla NATO. Dubito che questa fosse l’intenzione originaria di chi aveva promosso tale “autonomia”. 

Dopo la fine della Guerra Fredda, e lo scioglimento del Patto di Varsavia, per tre decenni l'Alleanza Atlantica è stata alla ricerca di una nuova finalità che ne continuasse a giustificare l’esistenza. Da poli piuttosto opposti, Donald Trump ne aveva decretato l’obsolescenza e Emmanuel Macron, addirittura, la morte cerebrale!

Lo scorso febbraio, per gentile concessione di Vladimir Putin, l’Alleanza è stata finalmente ricondotta alle sue finalità originarie. Se la situazione in corso non fosse tragica, si potrebbe fare dell’ironia asserendo che il leader russo si merita un busto commemorativo da collocare all’interno della grande sala del Consiglio Atlantico a Bruxelles. 

Naturalmente, la circostanza che l’espansione verso est dell’Alleanza negli ultimi 25 anni sia stata probabilmente il principale catalizzatore nel precipitare l'aggressione russa all'Ucraina continua ad essere fastidiosamente rimossa o negata con veemenza. Reazioni queste che, a mio umile avviso, celano cecità congenita o aperta malafede. 

A scanso di equivoci, la spietata invasione russa non ha giustificazioni! Sia nei rapporti umani, che in quelli tra gli Stati, ricorrere alla violenza è sempre sbagliato, punto! Questa guerra sanguinosa e distruttiva e i crimini e le atrocità commesse dalle sue truppe resteranno una macchia indelebile sulla storia russa per decenni, e origineranno odio e risentimenti nelle generazioni a venire. 

Allo stesso tempo, non vi può essere alcuna giustificazione nemmeno per la posizione passiva, pavida e attendista che l'Unione Europea ha mantenuto sin dal 2014, mentre era ampiamente noto che l’irrisolta questione Ucraina era una bomba a orologeria. 

Non c'è bisogno di essere un esperto di relazioni internazionali per comprendere che la sanguinosa guerra a bassa intensità combattuta nel Donbass negli ultimi otto anni e praticamente ignorata dai media occidentali, nonché il fallimento sistematico nell'attuazione degli accordi di Minsk, prima o poi, avrebbero fatto deflagrare la situazione, specie se è solo un quarto di secolo che la Russia ammonisce – inascoltata - sull’espansione a est della NATO.

Solo il presidente francese Emmanuel Macron ha lavorato incessantemente negli ultimi cinque anni per provare a rilanciare il dialogo con la Russia. Ora è impegnato in una serrata campagna elettorale per la sua riconferma contro Marine Le Pen che, ironicamente, ha sempre sostenuto legami più forti con Mosca. 

I quattro anni della Presidenza di Donald Trump sono forse stati l'ultima e migliore opportunità che l'UE ha avuto per abbozzare una possibile soluzione della crisi ucraina attraverso la neutralità del paese nei confronti della NATO in cambio del suo ingresso nell'Unione Europea. A quel tempo, il presidente americano era disinteressato alla politica europea e molto meno ossessionato dalla Russia rispetto al suo successore, ma Bruxelles non ci ha nemmeno provato.

Quando poi all’inizio del 2021 si è insediata l'Amministrazione Biden, con residui clintoniani a dir poco russofobi come Victoria Nuland (per intenderci quella del Fuck Europe! del 2014) di nuovo in una posizione ancora più forte in seno al Dipartimento di Stato, ogni possibilità di un dialogo proficuo con la Russia è venuta meno. 

Nonostante le brutali forzature russe come l'annessione della Crimea e l'autoproclamazione secessionista delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk, sarebbe una semplificazione, a dir poco, riassumere gli sviluppi degli ultimi otto anni nel dossier ucraino come semplice prepotenza di Mosca.

Gli eventi accaduti a Kiev nell'inverno 2013/14 sono molto più complessi ed articolati rispetto alla narrativa prevalente che ha sempre enfatizzato l’eroica resistenza ucraina alle pressioni russe. Lo stesso dicasi per la guerra a bassa intensità nel Donbass. L’auspicio è che una seria ricerca storica un giorno faccia luce su questa pagina importante della storia europea, soprattutto alla luce delle drammatiche conseguenze che ha innescato. Ma a quel punto non importerà più nulla a nessuno. 

Il minimo che mi sento di poter dire, quindi, assumendomene la responsabilità, è che sulle cause profonde che hanno scatenato questa tragedia nessuno, tra i protagonisti politici, è innocente.

Non ci dovrebbe essere alcun dubbio che l'Ucraina, come - teoricamente - qualsiasi altro Stato sovrano, abbia il diritto di decidere la propria politica estera, comprese le sue alleanze internazionali. È possibile interrogarsi se anche la Russia, come Stato sovrano, possa avere il diritto di vedere riconosciute le sue preoccupazioni di sicurezza? 

Naturalmente, le democrazie occidentali possono legittimamente sostenere che le preoccupazioni russe siano un mero pretesto o che non possano essere promosse attraverso il ricorso alla guerra. Si tratta di una posizione ineccepibile. Tuttavia, perlomeno negli ultimi tre decenni, le democrazie occidentali hanno accettato, e spesso sostenuto materialmente, gli Stati Uniti che hanno scatenato guerre lunghe e sanguinose a migliaia di chilometri di distanza dai propri confini rivendicando minacce alla propria sicurezza nazionale.

Se una tale posizione è stata accolta e sostenuta con tanta disinvoltura è davvero così assurdo e inaccettabile che anche la Russia possa rivendicare un simile diritto? Soprattutto se, nel suo caso, sta agendo appena oltre i suoi confini? E secondo quale logica avanzare un simile dubbio espone automaticamente alla calunnia di essere un "fantoccio di Putin"? 

Quanti si sottraggono pretestuosamente dall’offrire una risposta a simili quesiti invocando il cosiddetto “benaltrismo”, finiscono ancora una volta con il giustificare, purtroppo, il doppio standard dell’Occidente nella politica internazionale; senza rendersi nemmeno conto, forse, che il perseverare con tale arrogante posizione finisce con il danneggiare ulteriormente e globalmente la reputazione delle stesse democrazie occidentali.

Indipendentemente da qualche blanda deplorazione della Russia da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dalla sua sospensione dal Consiglio dei Diritti Umani, il segnale principale su cui le democrazie occidentali dovrebbero riflettere è la palese indisponibilità del resto del mondo ad aderire alle sanzioni contro Mosca. A mio modesto avviso questo è l'indicatore inequivocabile di un malessere profondo che andrebbe esaminato e non ignorato, come pare. 

Il clima politico e mediatico in Europa è diventato tossico. Qualsiasi tentativo di spiegare le radici storiche e la complessità del conflitto ucraino è oggi impossibile, questo anche a causa degli efferati massacri di cui si stanno macchiando le truppe russe, occorre riconoscerlo. 

Quello che vorrei tuttavia provare a veicolare, è che se le nazioni occidentali perseverano nell'accettare che le regole dell'ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti negli ultimi 70 anni sono valide per tutti tranne che per questi ultimi, non dovrebbe poi sorprendere se un numero crescente di nazioni – a prescindere dalla democraticità dei loro ordinamenti politici – possano invocare un ordine mondiale diverso e, magari, più equo. 

Tornando al futuro dell'Europa, temo che il suo ruolo ancillare alla NATO non sia nemmeno il problema principale.

In pochi giorni, i suoi leader hanno adottato decisioni alle quali avevano resistito per anni. Le spese militari verranno portate al 2% del PIL, come richiesto dagli Stati Uniti e dalla NATO (ovvero gli Stati Uniti) e il complesso militare-industriale statunitense si accaparrerà una quota sostanziale delle commesse che verranno generate da questo massiccio aumento di spesa. 

È appena il caso di evidenziare che questa spesa aggiuntiva si produrrà mentre il debito dei paesi europei è già a livelli senza precedenti a causa delle enormi risorse mobilitate negli ultimi due anni per affrontare la pandemia e i suoi drammatici effetti economici. Inoltre, tale aumento coinciderà con un'altra situazione critica.

Sia la Federal Reserve statunitense (FED) che la Banca Centrale Europea (BCE) stanno contraendo i loro budget ponendo lentamente fine alle cruciali politiche del cosiddetto “quantitative easing”. Parallelamente, FED e BCE, sono anche costrette ad adeguare i tassi di interesse verso l'alto per limitare un aumento senza precedenti dell'inflazione. Entrambe le misure complicheranno ulteriormente la ripresa economica post-pandemia, che a sua volta è già gravata da uno shock da offerta globale e dall'incredibile impennata del prezzo delle materie prime che verrà ulteriormente esacerbata dalla guerra in corso in Ucraina.

Governare le economie occidentali con così tanti fattori avversi sarà un serio rompicapo, un difficile atto di equilibrio tra lotta all'inflazione senza innescare una recessione; in altre parole, quello che gli economisti chiamano un "atterraggio morbido" dell’economia. Mi auguro solo che questo atterraggio non si trasformi in uno schianto. 

Si tratta di un dilemma che, mi permetto di osservare, prescinde da ciò che accadrà a Vladimir Putin.

Volendo rendere ancora più difficile una situazione già precaria, l'UE sta anche diversificando le sue forniture energetiche dalla Russia, soprattutto il gas. Non sarà facile, né rapido, né tantomeno economico. L’alternativa, il gas naturale liquefatto (GNL) prodotto da Stati Uniti e Qatar viene consegnato via nave e necessita di grandi e costosi impianti di ri-gassificazione che in Europa scarseggiano e che generano resistenze locali ovunque vengano posizionati; infine, non è né abbondante né economico come il gas naturale russo. L'UE diversificherà quindi il suo fabbisogno energetico sostenendo costi molto più elevati e lo farà in una congiuntura economica già molto avversa.

Infine, il combinato disposto di inflazione, aumento dei tassi di interesse e aumento dei prezzi delle materie prime, energia inclusa, nuocerà gravemente anche alla competitività delle imprese europee (in particolare italiane), danneggiando le loro quote di mercato e, di conseguenza, i loro rendimenti. 

Un ulteriore risultato netto, non gradevole, di questa situazione potrebbe essere la contrazione del loro valore azionario che le esporrebbe anche ad acquisizioni ostili da parte dei molteplici e rapaci hedge funds che popolano il panorama finanziario internazionale.

Spero sinceramente di sbagliarmi, ma temo un autunno caldo e non solo a causa del riscaldamento globale. Le leadership europee potrebbero davvero ritrovarsi con le loro pubbliche opinioni che, esasperate, si riverseranno nelle strade, metaforicamente, con i forconi. 

Caro Dago, 

forse è il caso che io mi fermi qui, dopotutto anche io, come si dice, tengo famiglia…e dato il clima che serpeggia da queste parti è meglio stare attenti, l’eventuale redazione di liste di proscrizione non mi stupirebbe, e non mi riferisco certo a quelle di Johnny (pardon!) Gianni Riotta.

Ti lascio con un’ultima amara constatazione: qualora l'UE avesse mai concepito, nel proprio interesse primario ovviamente, di voler svolgere un intelligente ruolo equilibratore nel promuovere un ordine mondiale più equo e multilaterale nel contesto della competizione globale che sta sempre più coinvolgendo Stati Uniti, Cina, Russia, India e altre economie emergenti, appare ormai chiaro come tale ambizione sia stata completamente accantonata. 

Il suo terzo suicidio in poco più di un secolo è compiuto.

Così Putin (e non Zelensky) rifiutò di trattare e incontrare il presidente americano Joe Biden. La fantasiosa ricostruzione del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio che cita a sproposito una grande inchiesta del Wall Street Journal. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 12 aprile 2022.

Stravolgere la documentata e coinvolgente inchiesta del Wall Street Journal sulle origini dell’attuale aggressione russa nei confronti dell’Ucraina, non è corretto. Il Fatto Quotidiano, riferendosi all’articolo, la scorsa settimana ha spacciato per scoop un presunto diniego del presidente ucraino Zelensky all’intesa offerta dal cancelliere tedesco Olaf Scholz. Andiamo direttamente sul punto. Non ha detto «no, non firmo l’intesa che riguarda la rinuncia all’adesione della Nato» (questo in sostanza si fa percepire ai lettori), ma ha affermato una cosa ben diversa: ovvero che non si sarebbe potuti essere certi che il signor Putin avesse dato supporto (cioè avesse aderito) ad un tale accordo («couldn’t be trusted to uphold such an agreement ») e ha sottolineato il fatto che la maggior parte degli ucraini voleva aderire alla Nato.

In sostanza, il senso è questo: visto i precedenti, Zelensky non si fida della vera disponibilità di Putin a trattare, evidenziando che prima bisogna essere sicuri delle sue intenzioni visto che deve fare i conti anche con il volere dei suoi cittadini, desiderosi di entrare nell’alleanza atlantica. L’inchiesta svela che la sua risposta ha lasciato i funzionari tedeschi preoccupati («worried ») del fatto che le possibilità di pace stessero svanendo. Ribadiamolo: non «consapevoli» come è stato erroneamente tradotto, ma «preoccupati». Il Wall Street Journal, ed è questo lo scoop, prosegue raccontando un episodio che conferma la perplessità che ha avuto Zelensky. Parliamo di appena qualche giorno prima dell’invasione. Visti i dubbi espressi dal presidente Ucraino sulla inaffidabilità di Putin, il presidente Macron ha tenuto una videochiamata con il presidente USA. «Penso che l’ultima persona che potrebbe ancora fare qualcosa sei tu, Joe. Sei pronto per incontrare Putin?», ha detto a Biden. Quest’ultimo ha acconsentito chiedendo di trasmettere il messaggio a Putin.

Il Wall Street Journal riferisce che la notte del 20 febbraio, Macron si è sentito al telefono con Putin per negoziare la formulazione di un comunicato stampa che avrebbe annunciato il piano per un vertice Usa- Russia. Ma il giorno successivo, Putin ha richiamato Macron per dire che non se ne faceva più nulla. Ha affermato di aver deciso di riconoscere l’indipendenza delle enclavi separatiste del Donbass. Ha detto che i nazisti avevano preso il potere a Kiev, mentre la Nato – a detta sua – stava pianificando di schierare missili nucleari in ucraina. «Non ci vedremo per un po’, ma apprezzo molto la franchezza delle nostre discussioni», ha detto Putin a Macron. Così conclude l’articolo del WSJ a firma di Michael R. Gordon, Bojan Pancevski, Noemie Bisserbe e Marcus Walker. Questa è solo la parte finale dell’articolo. In realtà si concentra soprattutto nel criticare l’Occidente per la sua passività, nonostante fossero chiare fin dall’inizio le intenzioni di Putin. Infatti, il titolo dell’articolo originale non è come quello che ha messo Il Fatto Quotidiano. Parliamo di una inchiesta apparsa nell’edizione cartacea del 2 aprile 2022 dal titolo: «Putin ha preso di mira l’Ucraina per anni. Perché l’Occidente non lo ha fermato?».

L’ inchiesta osserva che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, vari Paesi – satelliti di Mosca – si unirono alla NATO e all’Unione Europa, vedendo l’appartenenza a entrambe le istituzioni come la migliore garanzia della loro sovranità. Putin ha pensato agli interessi della sicurezza russa in modo più ampio, collegando la conservazione dell’influenza di Mosca nei paesi adiacenti con i suoi obiettivi di rilanciare il potere globale della Russia e saldare, in patria, il suo governo autoritario. Inizialmente Putin si è dimostrato disponibile nei confronti dell’occidente, ha allacciato numerosi scambi commerciali, ottenendo così il silenzio assenso da parte dei Paesi europei quando ha scatenato diverse guerre. L’inchiesta del Wsj denuncia come la ex cancelliera tedesca Merkel, nonostante le uscite pubbliche di Putin sempre più aggressive verso l’occidente, ha aumentato la dipendenza dal petrolio e dal gas russo.

Ma Putin si è radicalizzato sempre di più. L’anno della svolta è il 2011 quando decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro la mancanza di democrazia. Putin cominciò a far divulgare la notizia che le proteste fossero pilotate e sponsorizzate dagli Stati Uniti, da Soros e da altre “entità” per rovesciarlo. La verità, come sottolinea l’articolo del WSJ, è che c’era il rischio di una “rivoluzione arancione” come accadde in Ucraina nel 2004. Temeva la contaminazione, per questo Putin ha lanciato anatemi contro l’occidente corrotto e depravato. Le proteste simultanee della Primavera Araba avevano ulteriormente accresciuto la paura di Putin. La sua grande ansia era che l’Ucraina potesse avere successo economico e politico e che i russi alla fine si sarebbero chiesti: «Perché i nostri fratelli stanno andando così bene, mentre la nostra situazione rimane grave?». La rivolta del 2014 in Ucraina dove il popolo ha chiesto di sposare il modello democratico fondato sullo Stato di Diritto (la richiesta di aderire all’Ue, questo significava), è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’inchiesta svela che Putin si sentì con la Merkel, lanciandole una filippica contro la decadenza delle democrazie, il cui decadimento dei valori, ha detto, è stato causato dalla diffusione della “cultura gay”.

L’inchiesta svela che Putin, nel 2014, inviò un funzionario dei servizi segreti per dire all’allora presidente ucraino Yanukovich di schierare l’esercito per schiacciare i manifestanti. Invece, come sappiamo, preferì fuggire da Kiev in elicottero. Poi Putin ha deciso di invadere la Crimea e alimentare con armi e denaro i separatisti filorussi del Donbass, provocando una guerra “a bassa intensità” che – durante gli ultimi otto anni – ha causato circa 14000 morti tra civili, esercito ucraino e quello filorusso. Il resto è storia recente.

La resistenza dileggiata. L’insopportabile maldicenza della «guerra per procura». Francesco Cundari su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Accreditare la teoria della «proxy war», che fa tanto fino ripetere tra gente che vuole darsi un tono, significa cancellare gli ucraini dal quadro e irridere il loro sacrificio, descrivendoli come pupazzi di qualcun altro. 

Da tempo sui giornali e in televisione si sente usare, a proposito del conflitto russo-ucraino, un’espressione apparentemente neutra: «Guerra per procura». C’è persino chi non resiste a sfoggiarla nella versione inglese di «proxy war». Il succo però è lo stesso, ed è l’idea che la vera guerra non si stia combattendo tra russi e ucraini, ma tra russi e americani.

Dietro il classico atteggiamento di quelli che la sanno lunga, che non se la bevono, che non credono mica alle versioni ufficiali e all’«informazione mainstream», c’è anche, come sempre, un grano di verità, perché è evidente che nel conflitto hanno un ruolo anche gli Stati Uniti, anche l’Europa, anche i paesi Nato impegnati, come l’Italia stessa, nel sostenere gli ucraini (e meno male).

Resta il fatto che i primi a non aspettarsi una simile resistenza erano proprio gli americani, i quali all’indomani dell’invasione, com’è noto, avevano subito offerto a Zelensky la possibilità di fuggire, convinti che i russi sarebbero arrivati a Kiev in un baleno.

Per inciso, era quello che pensavano anche i tanti sottili politologi e geopolitologi che fino al giorno prima escludevano categoricamente un’invasione russa, e dal giorno dopo escludevano altrettanto categoricamente che l’Ucraina avrebbe potuto resistere a lungo. E oggi, invece di spiegarci perché non avessero capito niente di come questa guerra è cominciata, né di come è continuata, insistono a spiegarci come andrà a finire. Ripetendo con parole appena più forbite l’argomento secondo cui l’Ucraina non sarebbe nient’altro che una marionetta nelle mani degli americani, senza alcuna volontà, responsabilità e nemmeno personalità propria. Del resto, a giudizio dei russi, ma evidentemente non solo loro, è una nazione che non esiste. E ciò che non esiste non può avere una personalità.

Eppure è stato Zelensky a lasciare di sasso gli americani che gli offrivano una via di fuga replicando con la celebre battuta: «Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio». Tanto dovrebbe bastare per dimostrare che la versione della propaganda russa sulla resistenza ucraina come semplice copertura e invenzione degli Stati Uniti è, per l’appunto, propaganda (ma chi l’avrebbe mai detto).

Ieri però uno dei più autorevoli sostenitori della teoria secondo cui quella in corso sarebbe una «guerra per procura», il direttore di Limes Lucio Caracciolo, ha compiuto un passo in più. Nel suo articolo sulla Stampa ha scritto infatti che «la dinamica strategica di questa guerra non troppo indiretta tra Washington e Mosca spinge alla rottura fra Europa e Russia», che già è piuttosto netta come impostazione, dopodiché ha aggiunto testualmente: «Sia che in Ucraina prevalgano nel tempo gli americani via ucraini (possibile) o i russi (improbabile), come anche in caso di provvisorio stallo codificato in nuova partizione del paese, la separazione fra Nato e Federazione Russa volge al divorzio senza appello».

Avete letto bene: sia che in Ucraina prevalgano nel tempo «gli americani via ucraini». Mi sembra un’espressione meritevole di qualche riflessione, e non certo per ragioni di galateo, sensibilità o men che meno di osservanza del politicamente corretto.

Il fatto è che «via ucraini» è l’espressione linguisticamente più esplicita di un processo di “cosificazione” di un intero popolo e della sua resistenza, ridotti appunto a cosa, strumento, semplice mezzo, forse anche mezzo di trasporto. Come sono arrivati gli americani fino lì? Semplice: via ucraini. Non «via Ucraina», ma «via ucraini», dove sono le persone stesse, cioè gli uomini e le donne che stanno combattendo e morendo per difendere se stessi e le proprie famiglie, a diventare una specie di tappeto, una guida, un macabro tapis roulant per i soliti americani.

Non è una questione di forma. È una questione di sostanza, e la sostanza è la stessa che sta dietro alla più elegante espressione della «guerra per procura», che fa tanto fino ripetere tra gente che vuole darsi un tono di chi sa come va il mondo. Ma che significa, nei fatti, cancellare del tutto gli ucraini dal quadro. Significa calunniare la loro resistenza e irridere il loro sacrificio, descrivendoli come pupazzi di qualcun altro. Significa spogliarli di ogni dignità e di ogni personalità autonoma, dopo che sono stati già spogliati di tutto il resto. Significa togliere agli ucraini l’ultima cosa che è loro rimasta: la volontà di resistere, insieme con il coraggio, la dignità e la forza morale di farlo a ogni costo, pur in condizioni disperate, pur dinanzi a un avversario tanto più forte, anche quando tutti, amici compresi, americani compresi, europei compresi, li davano ormai per spacciati.

Potranno mai perdonarci?

Da liberoquotidiano.it l'11 aprile 2022.

Di negoziati non si parla più. Ospite di Tagadà su La7, il generale Leonardo Tricarico svela che qualcosa di grave sta accadendo in Ucraina. "Non ho sentito la parola 'negoziati' né da Stoltenberg, né da Biden, né da Blinken, né da Johnson". Per lui "le trattative sono iniziate in maniera improbabile con quei negoziati auto-gestiti e con quei personaggi che non c'entravano nulla, poi sono proseguiti in tentativi un po' più seri". 

Eppure secondo Tricarico, intervenuto nella puntata di lunedì 11 aprile ai microfoni di Alessio Orsingher, nessuno ha mai avviato negoziati veri e seri. "Nemmeno - prosegue - i paesi che ho citato prima. Negli interventi pubblici di Biden e gli altri, nessuno ha mai citato parole come 'negoziato', 'cessate il fuoco', 'stop alle armi'. Insomma, Joe Biden non vuole la pace e se non la vuole lui non la vogliono gli altri".

E ancora: "Da Biden c'è una cinghia di trasmissione diretta, senza nessun riduttore verso la Nato. Stoltenberg è una cassa di risonanza di Biden e gli inglesi sono addirittura più aggressivi, quindi questa è la situazione". Non solo, perché per l'esperto un altro errore è stato il fatto che "a questi tentativi, bisognava affiancare provvedimenti di deterrenza seri e non ridicoli, ossia tante forze aeree e mostrare la di essere pronti a usarle". Alla domanda su cosa vuole davvero Biden, Tridico non ci va per il sottile: "Vuole vedere Putin nella polvere".

JOE BIDEN 1999. HO SUGGERITO IO LE BOMBE SU BELGRADO. MARIO AVENA il 17 marzo 2022 su La Voce delle Voci.

Giorni fa vi abbiamo proposto un video del 1997 in cui l’attuale capo della Casa Bianca sosteneva con vigore che la NATO non doveva ‘allargarsi’ ad Est per non irritare la Russia.

Stavolta ecco un Biden edizione ’99, sempre in uno ‘storico’ video che lo immortala come ‘suggeritore’ dei terribili bombardamenti che hanno devastato Belgrado e la Jugoslavia, eseguiti dalle forze NATO con la partecipazione più che attiva dell’Italia all’epoca guidata da Massimo D’Alema.

Quei bombardamenti a tappeto, devastanti, che massacrarono vite e distrussero case, ospedali, scuole, durarono per quasi tre mesi, dal 24 marzo al 10 giugno 1999.

Biden gonfiò il petto nel pronunciare quelle parole: “Sono stato io a suggerire di bombardare Belgrado. Sono stato io a suggerire di inviare piloti statunitensi e far saltare tutti i ponti sul Danubio”. Congratulations.

Non risulta che il Tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità abbia mai messo sotto accusa Biden, oppure l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, per quei massacri scientifici e poco chirurgici di cittadini inermi.

Venne messo sotto inchiesta, invece, il ‘bombardato’, Slobodan Milosevic. Così come oggi quello stesso Tribunale taroccato cerca di mettere sotto accusa Vladimir Putin.

E’ di poche ore fa la conferenza stampa di ‘Sleepy’ Biden, che alla   domanda di una giornalista, se Putin fosse un criminale di guerra, non ha risposto. Poi ha chiesto, “mi ripete la domanda?”, e solo dopo ha detto: “E’ un criminale di guerra”. Così come mesi fa aveva definito Putin “un killer”.

E’ di ieri, invece, l’altra tragi-comica conferenza stampa, stavolta del guitto Volodymyr Zelensky travestito da Profeta & Salvatore della Patria.

Dopo aver ammesso che l’ingresso dell’Ucraina nella NATO è una follia, ha chiesto altre armi a iosa e invocato la ‘no-flay zone’: un chiaro invito alla guerra mondiale.

In un farneticante crescendo, il pericoloso guitto ucraino ha evocato l’11 settembre, poi perfino Martin Luther King ed il suo ‘I have a dream’.

La sempre più rincoglionita Europa (ma ci è o ci fa?) lo sta ancora a sentire; e si genuflette davanti al Vate…

Di seguito, ecco il video di Biden ’99, attraverso il servizio dell’ottimo sito di contro-informazione ‘l’Antidiplomatico’. 

In questo video del 1999 vediamo il presidente statunitense Joe Biden ammettere di aver ispirato un crimine di guerra: ossia i bombardamenti USA/NATO su Belgrado. Una campagna indiscriminata di bombardamenti a tappeto durata dal 24 marzo al 10 giugno 1999.

Nel video vediamo un tronfio Biden rivendicare il ‘suggerimento’ di bombardare la Serbia e la distruzione delle infrastrutture civili di Belgrado. Quindi la morte di civili innocenti, crimini di guerra.

«Sono stato io a suggerire di bombardare Belgrado. Sono stato io a suggerire di inviare piloti statunitensi e far saltare tutti i ponti sul Danubio», scandisce incredibilmente Biden.

L’aggressione militare della Nato alla Jusoslavia di Slobodan Milosevic venne denominata Allied Force, e vedeva coalizzate 13 nazioni, tra cui l’Italia di Massimo D’Alema, contro la Jugoslavia. Il 24 marzo alle due del mattino ci furono i primi bombardamenti, che durarono sino al 10 giugno successivo. Come si ricorderà, furono bombardati non solo obiettivi militari, peraltro scarsamente danneggiati, ma soprattutto strutture e infrastrutture civili, come ponti, case, stazioni, edifici pubblici. In molti di questi episodi vennero coinvolti civili, autobus, treni, autovetture, per un totale di circa 2500 morti, tra cui molti bambini, e centinaia di feriti, oltre ai danni materiali, incalcolabili. Fu anche bombardata volontariamente la stazione tv di Belgrado con tutti i lavoratori all’interno.

Antonio Socci per Libero Quotidiano il 10 aprile 2022.

Davanti all'atroce spettacolo quotidiano di morti e distruzioni, tutti - a cominciare dal presidente ucraino Zelensky - dovremmo chiederci: era evitabile questa catastrofe? L'interesse supremo dell'Ucraina era quello di scongiurare in tutti i modi una guerra sul suo territorio con una superpotenza nucleare come la Russia. Il fatto che il regime di Putin sia regredito a un brutale dispotismo aggressivo doveva indurre Zelensky a considerare l'invasione come il male peggiore. Doveva far di tutto per evitarla, avendo una grande inferiorità militare.

Nel Vangelo c'è un insegnamento di grande realismo per chi governa: «quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Seno, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace» (Lc 14, 31-32). 

Zelensky poteva evitare così questa tragedia al suo Paese? Forse sì. Sappiamo infatti, dal Wall Street journal, che il 19 febbraio scorso (quando già le truppe russe erano ammassate ai confini), il cancelliere tedesco Scholz ha proposto a Zelensky la possibilità di una de-escalation: la condizione era «rinunciare all'adesione alla Nato» e «dichiarare la neutralità come parte di un più ampio accordo europeo di sicurezza tra l'Occidente e la Russia». In pratica un'Ucraina neutrale come l'Austria. 

L'accordo proposto da Scholz «sarebbe stato siglato da Putin e Biden che insieme avrebbero garantito la sicurezza dell'Ucraina». Ebbene, Zelensky ha risposto no.

Pur avendo ai confini l'esercito russo. 

GLI ERRORI Dopo che è iniziata l'invasione, col suo corteo di morte, il presidente ucraino ha dichiarato (il 15 marzo) che era tramontata l'adesione alla Nato e (il 27 marzo) che si poteva ragionare sulla neutralità e pure sul Donbass. Ma ormai era tardi.

Probabilmente quando la trattativa vera inizierà l'Ucraina dovrà concedere molto più di quanto sarebbe bastato il 19 febbraio. E sarà un Paese devastato, con migliaia di morti. Mi pare un fallimento immane. La vittoria era scongiurare la guerra. Oltretutto Zelensky era stato eletto per cercare un accordo con la Russia. Questo volevano gli ucraini. 

Per esempio, la guerriglia in Donbass da anni provocava tanti morti. Perché Zelensky non ha pacificato quella regione imitando ciò che l'Italia ha fatto con l'Alto Adige?

Eppure sapeva che da lì poteva partire l'incendio.

Il presidente ucraino deve chiedersi se le sue scelte sono state buone per il suo Paese o disastrose. Secondo Jean Paul Sartre «si è sempre responsabili di quello che non si è saputo evitare». Ieri Moni Ovadia, intervistato da La Stampa, ha detto: «Zelensky non ha reso un buon servizio agli ucraini. Se hai vicino a te un colosso ringhioso, non fargli i dispetti. 

A meno che lui sia asservito agli Usa, cosa di cui sono convinto». Oggi Biden punta sulla prosecuzione del conflitto per abbattere Putin. Come ha detto l'ex ambasciatore Usa Chas Freeman, gli Stati Uniti «hanno scelto di combattere fino all'ultimo ucraino». Non credo che gli ucraini possano gioirne. Ma anche nell'establishment Usa importanti personalità si oppongono a questa strategia di Biden che rischia di creare un asse fra Russia, Cina e India.

È disastrosa anche per gli Usa. Nel frattempo il conflitto devasta l'economia degli stati europei e può diventare una guerra mondiale con il rischio dell'apocalisse atomica. Da Washington ora si illude Zelensky col miraggio di una vittoria. Ma Sun Tzu, grande stratega militare, diceva: "nell'operazione militare vittoriosa, prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia. Nell'operazione militare destinata alla sconfitta, prima si dà battaglia e poi si cerca la vittoria". Tentare l'azzardo di una vittoria pressoché impossibile rischia di far annientare l'Ucraina e di portarci tutti nel baratro. Zelensky in queste settimane ha mostrato un coraggio fisico eroico, gli va riconosciuto. Ma forse oggi deve trovare il coraggio di sottrarre se stesso alle pressioni e sottrarre il suo popolo alla guerra delle due grandi potenze.

Controcorrente, Toni Capuozzo e il dubbio su Zelensky: "Ha fatto fuori il suo negoziatore". Libero Quotidiano il 10 aprile 2022.

"A Vladimir Putin converrebbe sedersi al tavolo delle trattative". Toni Capuozzo, in collegamento con Veronica Gentili a Controcorrente su Rete 4, analizza la caotica situazione in Ucraina. Come suggerito dall'ex generale Marco Bertolini, anche lui ospite del talk, in questo momento dal punto di vista strategico la Russia è a pochi passi dal concretizzare il suo obiettivo minimo, con l'assedio di Mariupol ormai agli sgoccioli e di fatto tutta la fascia del Mar d'Azov sotto il proprio controllo militare. Buone condizioni per negoziare con Volodymyr Zelensky. Anche perché più di questo, al momento, è difficile ipotizzare. 

"Putin ha stabilito il corridoio via terra sul Mar d'Azov ma ha incontrato notevoli difficoltà sul resto dell'Ucraina", sottolinea Capuozzo che poi si concentra su un altro punto, quello dell'osservatorio occidentale che rischia spesso di travisare quanto sta accadendo e non comprendere appieno quello che potrebbe succedere nelle prossime settimane. 

"Noi siamo anche molto vittime di un modo di guardare ostile a Putin, com'è ovvio che sia. Putin fulmina con lo sguardo il capo dei suoi servizi segreti e noi tutti ad analizzare... Zelensky ha fatto fuori uno dei suoi negoziatori e noi niente".  E soprattutto in delicatissime questioni di guerra con trattative di pace ancora in ballo, suggerisce Capuozzo, questa miopia ideologica può fare danni devastanti.

Realtà, retorica, balle e buffonate mixate nell'orrore di questa guerra. CARLO JEAN su Il Quotidiano del Sud Il Corriere della Sera il 9 Aprile 2022.

SULLA guerra in Ucraina e sul modo con cui farla cessare se ne sentono di tutti i colori. Rispetto alle analisi strategiche pacate e informate, dominano le emozioni, i preconcetti ideologici e la mancanza di conoscenza dei fatti. Molte analisi sono fatte in perfetta buona fede. Altre certamente no.  Molte affermazioni sul come Putin abbia deciso l’aggressione sono chiaramente finalizzate dai loro autori, se non a giustificarlo, almeno a mantenere un’equidistanza fra aggressore e aggredito. Molte proposte su come fare finire il conflitto o, almeno, giungere a una tregua temporanea dimostrano una completa ignoranza dei meccanismi propri delle guerre e delle condizioni che permettono una pace di compromesso, tramite negoziati fra le due parti che si combattono, anziché con l’annientamento del vinto.  

DUE TIPI DI PACE

La pace viene acriticamente contrapposta alla guerra, mentre tutta la storia insegna che in ogni conflitto si contrappongono sempre due tipi di pace differenti: nel caso ucraino, quella di Putin contro quella di Zelensky. Nessuno fa la guerra per la guerra, ma per la pace che sempre la segue. Quest’ultima riflette il risultato delle operazioni militari e le valutazioni benefici/costi fatte dai due avversari nel decidere se conviene loro continuare a combattere e arrendersi o iniziare trattative di pace. Non per nulla Clausewitz dice che l’attività umana più simile alla guerra è il commercio, Un affare viene concluso solo quando fra venditore e compratore viene trovato un punto d’incontro sul prezzo del prodotto.

Come dimostrato dai gesuiti padre O’Brian della Georgetown University (The Practice of Just and Limited War) e Joblin (L’Eglise et la guerre) della Gregoriana – le cui idee sono riprese sia nella lettera di Giovanni Paolo all’Assemblea Generale dell’Onu del giugno 1982 sulla liceità morale della dissuasione nucleare, sia nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1985 – la teoria della “guerra giusta” presenta strette analogie con quella clausewitziana della guerra limitata. Oggi tale dottrina agostiniano-tomistica tradizionale non sembra godere in Vaticano di grande consenso. Domina la tesi che la guerra possa essere espunta dalla storia e che, comunque, la guerra non possa essere mai giusta. Non è stato precisato, se non in termini retorici, come sostituire la teoria tradizionale. Nulla di nuovo in verità.

La maledizione della guerra è nella storia antica come la guerra. Il suo inconveniente è che lascia le cose come stanno, con l’aggiunta del rischio che la guerra da limitata diventi “santa”, benedetta da Dio e dai suoi rappresentanti in terra, come ha fatto il Patriarca Kirill nell’aggressione di Putin in Ucraina.

CONDIZIONI PER TRATTARE  

Come, un po’ maliziosamente ha detto padre Niebuhr, consigliere spirituale di Morganthau, il grande politologo realista, la pretesa di eliminare la guerra dalla realtà sarebbe analoga a quella di abolire il peccato originale. È un’affermazione condivisibile anche da molti non-credenti che di storia si interessano. Beninteso, tutti auspicano la fine del sanguinoso e devastante conflitto in Ucraina. Ma non serve a nulla l’appello alla trattativa quando non ne esistono le condizioni.

A parer mio solo un’approfondita analisi strategica può aiutare a prevedere quando esse si creeranno e non saranno semplici mosse propagandistiche, cioè battaglie nella guerra delle informazioni, che accompagna ogni conflitto. Essa è sempre più diffusa ed efficace con i nuovi media, che sono a copertura globale, che diffondono notizie e immagini in tempo reale e che tendono a drammatizzare situazioni già di per stesse drammatiche, anche per motivi di audience. Lo si è visto nel caso dei massacri di Bucha. L’indignazione che hanno suscitato è stata amplificata da quell’ottimo comunicatore che è Zelensky.

A parer mio, ha esagerato mostrando di voler stravincere sul piano comunicativo, chiedendo di sottoporre Putin e i diretti responsabili del massacro a una nuova “Norimberga” oltre che alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra.

SHOW E BUFFONATE

La mia quadriennale esperienza in Bosnia-Erzegovina per l’attuazione degli accordi di Dayton mi ha insegnato che l’intervento della Corte può determinare grossi guai, rendendo più difficile, se non addirittura bloccando, in nome della Giustizia, il processo di pace. Dopo laboriose trattative durate quasi due anni, ero giunto con le “parti” a un accordo per avere in Bosnia reparti multietnici, anziché separati fra serbi, musulmani e croati, pronti a combattersi l’un l’altro. Il mio allora capo, che era il ministro degli Esteri austriaco, volle fare uno show, facendo firmare l’accordo a Vienna con i ministri della Difesa e i capi di stato maggiore delle tre etnie.  I serbo-bosniaci, che per la paura di essere arrestati non lasciavano mai il loro territorio, avevano voluto che l’invito fosse firmato addirittura dal presidente della Repubblica austriaca, pensando di essere tutelati da “sorprese”. Qualche servizio d’intelligence (verosimilmente anglofono) aveva passato l’informazione alla Corte dell’Aja. Il generale Talic, capo di stato maggiore della repubblica Serba fu arrestato nel mio ufficio, dove stavamo concordando  i dettagli della cerimonia di firma dell’accordo. Risultato: fallimento dell’unificazione delle unità e qualche attentato e manifestazione di protesta, che interruppero per qualche tempo gli accordi di pace e per anni l’unificazione delle forze armate.  

Nel caso di Putin, si venderebbe la pelle dell’orso prima di catturarlo e si rafforzerebbe la sua indisponibilità a ogni compromesso (ammesso, ma non concesso che ce l’abbia.). Tra le disinformazioni più ricorrenti  sono quelle che gli aiuti militari americani ed europei all’Ucraina siano la causa del conflitto o, almeno, della sua continuazione, e quelle che Putin sia stato provocato dalla Nato e dagli Usa e costretto ad attaccare per salvaguardare interessi vitali della sicurezza russa. Tratterò la questione in un altro articolo, data l’opportunità di un’analisi approfondita, vista la rilevanza che ha nel dibattito pubblico in Italia.

Tra quelle che a parer mio sono “buffonate” mi limito a due. La prima è l’ignobile battuta di un noto personaggio televisivo secondo cui quella di Mariupol sarebbe una fiction. La seconda riguarda il Vaticano. La possibilità di “mediazione” del Santo Padre è ipotizzabile solo dopo una buona bottiglia di grappa. La sua visita a Kiev, molte volte annunciata, ma che sarebbe tuttora allo studio, sta divenendo una barzelletta, eccetto per gli esperti dell’infowar di Zelensky. Per fortuna, non andrebbe più con il Patriarca Kirill (quello che ha benedetto l’aggressione russa e che vorrebbe liberare l’Ucraina dal “peccaminoso obbrobrio” dei gay). Avremmo dovuto mandare la, “Folgore” a proteggerlo dalle sassate.

Non vedo proprio cosa andrebbe a fare, se non prestarsi a un po’ di propaganda per Zelensky, che già gli ha fatto lo scherzo di mandargli una bandiera ucraina da Bucha, con lo stemma delle forze armate di Kiev. Tutt’al più potrebbe tentare una difficile mediazione fra le due autorità ortodosse ucraine: il Patriarca Filarete (della Chiesa autocefala, legata a Costantinopoli) e il Metropolita Onofrio, fedele al Patriarcato di Mosca.

IL PUNTO DI SVOLTA

Le condizioni per una concreta trattativa di pace si creeranno solo se gli ucraini riusciranno a battere o, almeno a respingere la seconda fase dell’aggressione russa a Est e a Sud del loro Paese. Invece, se dovessero aver successo i russi, ritengo improbabile che gli ucraini si arrenderebbero o accetterebbero mutilazioni territoriali. Inizierà invece una terza fase del conflitto. Consisterà in una feroce guerra di guerriglia che durerà anni, fino alla “rieducazione” completa del popolo ucraino, che secondo la Tv di Mosca potrebbe durare anche 25 anni.

Tutte le guerre sono brutali, in Ucraina è peggio perché in diretta. CARLO JEAN su Il Quotidiano del Sud Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.

Tutte le guerre sono brutali. Quella in Ucraina lo è particolarmente. Questo è certo. Concorrono alla percezione della sua brutalità da parte dell’opinione pubblica la quantità e qualità dei mezzi d’informazione. Non sono solo a copertura globale, ma forniscono immagini dirette e in tempo reale, non mediate come una volta dai corrispondenti di guerra, delle distruzioni, brutalità e violenze anche nei confronti della popolazione. Beninteso, i media tendono spesso a drammatizzarle, selezionando e mettendole in sequenza, per valorizzare la loro azione e per aumentare l’interesse di telespettatori e lettori, quindi l’audience. Le opinioni pubbliche si polarizzano, come nelle partite di calcio. La “guerra delle informazioni” ha maggiore importanza del passato per il consenso politico. Nel caso dell’Ucraina, si assiste ovunque alla contrapposizione di due visioni differenti.

Molti parteggiano per l’Ucraina, Altri, non potendo, per decenza, sostenere apertamente Putin, cercano, di solito pensosamente, di mantenersi equidistanti, sforzandosi di fare dei “distinguo” sulle vere cause del conflitto, su chi ci guadagni, su chi voglia far fallire, per motivi più o meno oscuri, ma inconfessabili o inconfessati, i negoziati di pace. Si nascondono dietro il Papa, i bambini morti, la paura del nucleare, le responsabilità e cattiverie dell’Occidente, e così via. Sono pieni di livore verso chi no applaude alle loro magiche soluzioni, in particolare verso Zelensky che non li ascolta e che continua a combattere e a non cedere parti del territorio ucraino. Le loro critiche a Putin sono molto più sfumate.

Non mancano, poi, coloro che vorrebbero che l’UE svolgesse un ruolo di mediazione indipendente dagli USA. Essi danno per scontato quanto scontato non è. Che cioè esista nell’UE un’unità politica e che essa possa essere considerata da Putin un interlocutore credibile. Invece, il “padrone del Cremlino” la disprezza. Lo dimostra il fatto che mai si è rivolto all’UE. Lo ha fatto con i singoli Stati, sebbene l’Unione sia stata tutt’altro che irrilevante per le sanzioni alla Russia e per le promesse all’Ucraina di accoglierla fra i suoi membri. Ha comunque i soldi. Putin bada soprattutto alle armi nucleari. Sorride certamente quando i fautori dell’autonomia strategica dell’UE, si guardano bene dal parlare di dotare l’Unione di un deterrente nucleare, senza il quale non può esserci autonomia, eccetto per interventi come nel Sahel.

Gli USA sono stati accusati di voler proseguire la guerra per logorare Putin, e con la Russia anche la Cina, e potere così concentrare le loro forze nell’Indo-Pacifico. In particolare, a Biden è stato rimproverato di non esercitare pressioni su Zelensky per convincerlo ad ammorbidire ulteriormente le sue posizioni nei riguardi delle pretese territoriali di Mosca (cessione dell’intero Donbas e della Crimea) e di far continuare la guerra “per procura” in Ucraina nella speranza di ottenere qualche vantaggio nelle elezioni di mid-term. Al Senato l’hanno accusato di aver fatto scoppiare la guerra per l’eccessiva cautela ed arrendevolezza dimostrata nei confronti di Mosca. Questo spiega i suoi toni “fuori dalle righe” usati a Varsavia. L’UE è stata accusata di aver preso parte, rinunciando al ruolo di mediatrice, e di essere troppo asservita a Washington sia nella cessione di armi all’Ucraina, sia soprattutto nelle sanzioni. Il loro costo ricade sugli europei, mentre gli USA addirittura ci guadagnerebbero, sia con la vendita del loro shale gas (il cui export all’Europa passerebbe in tre anni da 20 a 50 mld di mc), sia di armamenti con tecnologie non disponibili in Europa, sia infine con l’unione dei loro alleati europei con quelli asiatici nel contrasto alla Cina.

Per gli “equidistanti”, Putin avrebbe deciso l’“operazione militare speciale” contro l’Ucraina per gli allargamenti ad Est della NATO, per la provocazione delle “enormi” esercitazioni anche sul suolo ucraino e per una lunga serie di “cattiverie”, quali il bombardamento della Serbia e – questa mi è nuova! – per il contrasto al Venezuela senza tener conto degli interessi russi. Insomma, l’aggressione all’Ucraina sarebbe stata resa necessaria per preservare la sicurezza russa, mortalmente minacciata se missili NATO fossero schierati a 600 km da Mosca. A parer mio, lo stesso Putin non è convinto da tale minaccia che resta ipotetica, dato che l’Ucraina non entrerà nella NATO. In ogni caso, la minaccia già esiste con il centinaio di cruise nucleari a bordo di navi USA nel Baltico, nel Mar Bianco e, in caso di necessità, anche nel Mar Nero. Fra Russia e USA continuerà a valere ancora per decenni la dissuasione reciproca basata sulla MAD. Lo confermano i primi risultati dei negoziati di Ginevra sull’aggiornamento del New START. Le nuove tecnologie – dai proiettili iperveloci, ai sistemi antimissile, alle armi cibernetiche e spaziali – non modificheranno la sostanza di tale equilibrio strategico. Nessuno sarà mai sicuro del completo successo di un first strike.

Per quanto riguarda la pace in Ucraina, gli USA perseguono la pace come l’Europa. Ma pace non significa “pace di Putin”, come vorrebbero i fautori dell’equidistanza. Sarà pace se l’Ucraina sarà sicura di non essere nuovamente aggredita. Deve, quindi, respingere l’offensiva negli Oblast di Donetsk e di Cherson. Tutte le proposte sui territori che dovrebbe cedere alla Russia sono ridicole (è un eufemismo!). Fanno i conti senza l’oste, cioè senza gli ucraini, che sono stati aggrediti e che vogliono difendersi.

Anche l’uso di armi nucleari tattiche non li farà arrendersi. L’uso di quelle di maggiore potenza (di qualche centinaia di KT) è da escludersi per il fallout radioattivo sulla Russia. Per quelle di minore potenza e maggiore specializzazione (cioè con minimizzazione degli effetti radioattivi permanenti e massimizzazione dei raggi gamma e dei fasci neutronici, che risultano disponibili alla Russia), dovrebbe comportare l’impiego da qualche decina a un centinaio di bombe. Solo l’uso dimostrativo di una mini-bomba nucleare a scoppio alto, con finalità d’incutere terrore, mi sembra ipotizzabile. Gli ucraini non si lasceranno impressionare e continueranno a combattere. La rottura del taboo nucleare avrebbe un effetto boomerang sulla Russia. Anche la Cina l’abbandonerebbe. Ritengo che Putin lo sappia. Perciò il ricorso al nucleare mi sembra improbabile. La guerra continuerà ad essere convenzionale. Il problema di Putin non è l’Ucraina nella NATO. Militarmente sa di essere in una botte di ferro. Nessuno lo attaccherà. Ha sorriso certamente quando la CIA nel 2016 (basandosi certamente su agenti piazzati all’interno dello Stato Maggiore russo) ha avvertito gli USA che un attacco massiccio all’Ucraina era in corso di pianificazione e sarebbe avvenuto entro cinque anni. Allora, controvoglia e dopo molte esitazioni, Trump si decise a inviare in Ucraina i 47 milioni di $ di Javelin controcarro, pretendendo però che fossero stoccati a Leopoli sotto controllo USA e non impiegati nei combattimenti contro i secessionisti del Donbas, appoggiati da Mosca, che Trump voleva sua alleata contro Pechino (come propose poi Macron nel 2019).

Anche Biden non credeva nella capacità di resistenza ucraina. A fine febbraio propose a Zelensky di abbandonare Kiev e di farlo scortare da rangers USA, spostando il governo a Leopoli o all’estero, da dove dirigere la guerriglia. L’inaspettata resistenza ucraina l’ha poi convinto del contrario. Ha intensificato l’invio di armi e le sanzioni ed è giunto ad ipotizzare un cambiamento di regime a Mosca e recuperare le forze americane e anche europee per il contrasto alla Cina. Se nel Donbas e nell’Oblast di Cherson i russi saranno respinti, si determineranno le condizioni se non di pace duratura, almeno di cessate il fuoco e di “congelamento” del conflitto, ammesso ma non concesso che gli ucraini non vogliano la vendetta. Poche sono le possibilità di condizionarli anche da parte USA.

Se invece i russi prevarranno distruggendo le migliori unità ucraine, dilagheranno in tutto il paese. Inizierà allora una terza fase del conflitto: quella di una lunga e sanguinosa guerra di guerriglia, con i russi che procederanno in quella che chiamano “de-nazificazione” e “rieducazione” del popolo ucraino. I bombardamenti delle città, per far scappare la borghesia, le torture e le uccisioni di civili sono funzionali a tale “rieducazione”. Si tratta di una strategia deliberata, non di atti individuali di violenza. Terrorizzando la popolazione, Putin cerca di renderla più docile, incapace di rivolte, Non si tratta di violenze estemporanee, ma di una strategia pianificata. I più ingenui commentatori nostrani, spesso travestiti da “colombe della pace” non sembrano ancora rendersene conto.

Lorenzo Lamperti per "La Stampa" il 9 aprile 2022.

«Il Cremlino è caduto nella trappola tesa da Stati Uniti e Nato, il cui scopo è far cadere il governo di Putin». Lo sostiene il China Daily, uno dei media statali di Pechino che passa in rassegna stralci di opinioni di alcuni analisti internazionali che si sposano con la prospettiva del Partito comunista sulla guerra in Ucraina. Si cita Zbigniew Brzezinski, ex consigliere di Jimmy Carter, secondo il quale il controllo dell'Eurasia sarebbe vitale per "l'egemonia" americana nel sistema globale.

Inedito il passaggio sull'errore di calcolo di Mosca, che nella visione cinese si è fatta trascinare in un conflitto causato dalla «benzina sul fuoco» gettata dagli Usa che vogliono ottenere un governo russo «amico e subordinato». Il tutto in «una strategia di lunga data» volta al regime change, «con l'Ucraina come perno». 

Proprio le parole sul "cambio di regime" di Joe Biden hanno fatto suonare l'allarme per Xi Jinping. Pechino utilizza Kiev per alimentare la retorica antiamericana nell'Asia-Pacifico, dove teme che Washington possa riuscire a creare una sorta di Nato asiatica in una strategia di accerchiamento con al centro Taiwan.

L'ipotesi di una visita di Nancy Pelosi, infine posticipata per la positività al Covid della speaker della Camera Usa, ha portato la Cina ad avvertire di possibili «reazioni ferme ed energiche» e di «conseguenze» delle quali «gli Stati Uniti saranno ritenuti responsabili». 

Negli scorsi giorni, Washington ha approvato una nuova partita di vendita di armi a Taipei. Ieri, invece, quattro aerei militari cinesi hanno operato un'incursione nello spazio di difesa taiwanese. Si tratta della settima incursione negli ultimi otto giorni. 

Bucha, Volodymyr Zelensky all'angolo: "Se scende a compromessi con Putin...", guerra infinita. Libero Quotidiano il 10 aprile 2022.

"Dopo la strage di Bucha e di decine di paesi la società ucraina è in collera, perché abbiamo visto il vero volto dei soldati russi, saccheggiatori e assassini. Si respira uno spirito combattivo molto forte, e se anche Volodymyr Zelensky dovesse scendere a compromessi la società ucraina non è pronta ad accoglierli, vuole combattere". Ad affermarlo, in un'intervista con l'AdnKronos, è il noto filosofo ucraino Volodymyr Yermolenko, giornalista e direttore di UkraineWorld e contributor di numerose testate straniere tra cui Economist, Newsweek e Al Jazeera. 

Sui controversi fatti di Bucha, Yermolenko è netto: "A Bucha sono entrati i giornalisti internazionali, e sono stati loro a diffondere le immagini. Certo che la propaganda russa dice che è una messinscena, e ci si potrebbe credere se non fosse che ora si stanno diffondendo anche le immagini video, come le tombe nei giardini, e altre cose che rendono l'idea di cosa sono capaci. Abbiamo tantissime testimonianze di persone che sono riuscite a lasciare il paese e hanno raccontato di come i soldati russi li minacciassero, e abbiamo anche immagini satellitari".

Per il filosofo "occorre precisare che questa è solo Bucha, ma ci sono decine di paesi che hanno la stessa situazione. Come possiamo immaginare che sia stato sempre l'esercito ucraino a fare queste morti? Mi sembra assurdo. La società ucraina porta sulle spalle un grande peso e non accetterà altre terre occupate". Yermolenko, nato a Brovary, sposato e con tre figli, si è dovuto spostare verso ovest per ripararsi dai bombardamenti ma "vado e vengo da Kiev, dove aiuto fisicamente e materialmente con gli aiuti umanitari, e con mia moglie siamo molto attivi sul fronte dell'informazione", spiega.

Le relazioni pericolose. Guerra in Ucraina, ecco cosa vogliono davvero gli americani. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Che cosa pensa e fa l’America in questo momento? Bisogna distinguere: quale America? Politica o della gente comune? Quella politica è molto più impegnata nella nomina di un giudice costituzionale che nella guerra in Ucraina: una guerra che mostra e ricorda nelle news quanto siano malvagi gli europei, russi e non russi. Ma poi c’è l’America dei competenti, del Dipartimento di Stato e dei servizi segreti militari, che stanno prendendo in queste ore e di corsa tutte le misure politiche e militari necessarie per difendere non l’Ucraina, ma il patrio suolo degli Stati Uniti d’America che vedono alla mercé della più grave minaccia distruttiva di tutti i tempi. Quale minaccia? Le armi che Putin ha e loro no e che Putin non soltanto non ha mai nascosto ma anzi ha fieramente esibito sulla Piazza Rossa, e di cui ha parlato apertamente in televisione e poi schierato e usato in Ucraina con carica tradizionale, ma usando senza alcuna ragione tecnica i vettori che possono colpire ogni luogo della Terra.

È stato il momento del panico a Washington: la pace mondiale si era retta solo sull’equilibrio bilanciato del terrore e la certezza che non ci potesse essere un vincitore. E ora – invece – compare un nuovo aggeggio che nessuno può fermare e che corre a una velocità mai vista, dotato di guide tecnologiche infallibili perché queste armi possono raggiungere New York senza dover salire in orbita esponendosi all’intercettazione. E vanno dritte a bersaglio. Così, è cambiato tutto. L’America dei servizi segreti militari, più che quella della Cia, della Dia, della National Security è in preda all’angoscia e tutti i sottomarini atomici hanno ricevuto nuove rotte per andare ad accucciarsi nei fondali più reconditi del Pianeta ed essere pronti, se la situazione precipitasse, a lanciare missili strategici, quelli dell’ultima fase letale del duello senza vincitori né vinti. Il nervosismo sta ora contaminando la Casa Bianca, che deve scegliere quale linea adottare: se quella che porti a un guerra lunga e impantanata – l’ipotesi “Vietnam in Europa” del segretario generale della Nato – o una guerra che imponga a Putin la trattativa. In che modo? Fornendo all’Ucraina armi tali da provocare la disfatta definitiva del corpo di spedizione russo.

Ma questa linea si scontra con un fattore imponderabile: la possibilità che Putin, sentendosi mancare la terra sotto ai piedi, decida l’uso di armi atomiche tattiche, che sono più distruttive di quella di Hiroshima. A quel punto la Nato dovrebbe genericamente “fare qualcosa”, ma si sa che nella Nato ci sono molte teste calde che vorrebbero andare direttamente allo scontro finale, una volta e per tutte, e sconfiggere la Russia. Questo no. Può essere ciò che vuole Washington perché gli americani adesso hanno bisogno di tempo per essere pronti e hanno le dita incrociate: Putin ovviamente sa bene tutto ciò e sta giocando al gatto col topo. Ma il più grave rischio per gli Usa è che nella Nato prevalgano idee belliciste come quelle della Polonia che espongano gli Stati Uniti a una distruzione in casa. È qui che Nato e Usa divergono. L’ideale per Washington, in questo momento, è tenere alto il livello di scontro – anche a parolacce e insulti personali, o con azioni spettacolari come colpire le borsette delle figlie di Putin- senza superare il punto di non ritorno e avere il tempo di sviluppare armi per neutralizzare i siluri ipersonici e minacciare il campo russo di pari distruzione. Soltanto così, dicono a Washington, sarebbe possibile mettere in salvo la pace e tornare così ai vecchi equilibri che erano stati raggiunti con i negoziati Salt1 e Salt2.

E in questo momento, anche se nessuna delle loro fonti ufficiali lo ammetterà mai, odieranno l’Europa e odieranno la Nato. Odiano l’Europa perché l’hanno sempre detestata: sarà pure la patria delle tante “Old Countries”, le vecchie patrie dei vecchi emigranti, ma per loro l’Europa in tempi di pace è soltanto la Francia. E, nell’immaginario americano, la Francia è soltanto Parigi ovvero la Tour Eiffel. Come i musulmani almeno una volta nella vita vanno a Parigi. Ma per loro l’Europa è anche il cimitero delle guerre mondiali, dei genocidi e delle oppressioni e non si spiegano perché gli europei con tutta la loro supponenza li odino. Non lo capiscono ma gli piace: pochi popoli come quello americano ama parlare male di sé stesso, accusarsi di imperialismo, razzismo, fascismo, cattivo gusto, elitismo e ogni abiezione. Ma adesso hanno paura.

Una paura sottile che si può rintracciare parlando con i militari: è la paura dello showdown con i russi, i quali oggi hanno quella che nell’indimenticato Dottor Stranamore di Kubrick, era “l’arma di fine di mondo”. E gli americani, no. Gli otto anni di sostanziale disarmo dell’amministrazione Obama hanno dato tempo e modo a Putin di andare oltre nella ricerca evolutiva della spada e dello scudo. Questa situazione provoca, rispetto alla guerra in Ucraina, degli effetti distorti che in Europa per non affaticarci troppo tendiamo a ridurre al solito conflitto tra falchi e colombe, con Biden descritto come fuori di testa mentre dà del macellaio a Putin, sicché noi pensiamo che con quei missili di parole roventi Biden abbia mandato in malora la speranza di trattative di pace. E che invece il buon Segretario di Stato Blinken che sarebbe più malleabile per natura, sarebbe favorevole a un compromesso. E certamente Blinken è davvero favorevole a una trattativa diplomatica ma non perché abbia osato correggere il Presidente che aveva dato del macellaio e poi del criminale di guerra a Putin, suggerendo che Biden avesse perso i nervi. Sono probabilmente deformazioni ottiche europee.

Considerazione pratica su questo stato delle cose: non è per caso che per la prima volta nella storia dell’umanità si siano goduti settant’anni di pace, insanguinata sì, ma non da centinaia di milioni di vittime. Non ci sono state più guerre mondiali da cento o duecento milioni di morti del secolo scorso ed è un fatto che la pace sia cominciata con l’apparire delle armi dell’apocalisse ed ora ha paura di morire per la presenza di armi altrettanto minacciose. L’equilibrio è saltato. Due guerre che, entrambe, si sono risolte con il riluttante intervento americano. Nel 1918 la carneficina europea e il mattatoio francese erano al loro massimo, e la Germania stava vincendo. Rompendo la tradizione di isolazionismo, gli americani addestrarono per un anno un corpo di spedizione in Kentucky, in una zona infestata da una febbre suina che covava negli allevamenti e che cominciò ad uccidere i soldati americani prima di partire. Poi il corpo di spedizione fu imbarcato già infetto al venti per cento e poi, sbarcato in Francia, contaminò tutte le truppe inglesi e francesi, poi tedesche e di ogni parte del mondo con quella che verrà chiamata febbre spagnola, anche se non era affatto spagnola. In un mese la fanteria americana sfondò le linee tedesche e vinse la guerra.

E di conseguenza il presidente americano Wilson si piazzò a Parigi per due anni per imporre regole tassative agli europei considerati dei selvaggi nazionalisti, colonialisti, imperialisti, e in più con un forte tasso di odio per i tedeschi tutti che fece scappare via scandalizzato il giovane economista Keynes: l’America era venuta a salvarci, ma portava i semi della successiva guerra, come fu. Gli americani sono produttori e venditori delle loro merci, anche intellettuali e per questo l’unico luogo del pianeta che li preoccupa è il Mare del Sud della Cina dove passa l’ottanta per cento del traffico mercantile mondiale. Quanto al resto, considerano l’Europa una sciagura che periodicamente chiede il sacrificio umano dei giovani americani e delle loro risorse economiche. Siamo probabilmente al terzo atto della stessa tragedia, sia americana che europea,

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Domenico Quirico per “la Stampa” l'8 aprile 2022.

Che cosa importa quello che abbiamo pensato e detto finora? Ci avevano chiesto soltanto la nostra pazienza, un po' di indignazione per l'aggressione e pietà per l'aggredito. Ci dicevano noi non siamo in guerra, noi non facciamo la guerra. Noi siamo la pace. Noi abbiamo dato volentieri tutto questo, pazienza e indignazione. E poi la guerra come si poteva prevedere fin dal primo giorno ha alzato le sue pretese. Improvvisamente ci siano accorti che le serviva ben altro. Ovvero che anche noi entrassimo in guerra. La guerra voleva anche noi.

Ha fatto in fretta la guerra. Appena un mese ed eccola qua. Dalle armi non letali e difensive siamo al triplice grido di guerra del ministro ucraino: armi armi armi! Non bastano mai. La Germania sta per diventare la terza o seconda potenza militare del mondo. Dal cordone sanitario siamo passati alla Nato versione planetaria con il Giappone, la Corea del sud, l'Australia, l'obbligo automatico (terribile aggettivo) di difendere un membro in pericolo si estende agli oceani.

Le portaerei si muovono. Nancy Pelosi speaker del congresso americano va a Taiwan perché i cinesi intendano. Accorrono in Ucraina volontari stranieri, a migliaia, (foreign fighters suona male), gente che non vuol perdersi il posto in prima fila per il massacro. Invece di arrestarli li intervistiamo reverenti, questi eroi in anticipo. Parliamo delle atrocità commesse dai "mongoli" in divisa russa, i secoli passano ma Tamerlano e Gengis Khan e le piramidi di teschi sono sempre evocativi La zeta di "za pobedu", per la vittoria, compare sui corazzati russi a Tell Amer in Siria. Ecco: loro sì che hanno capito tutto.

Da ora in avanti altro che Mariupol e Odessa, si combatte ovunque la carta strategica diventa mondiale. Inutile nascondere i simboli. In realtà ci eravamo messi fuori gioco. Potevamo desiderare la vittoria degli ucraini e la umiliazione dei russi, non tutti c'era perfino chi auspicava il contrario. 

Ma eravamo sotto sotto, facendo la faccia dura, convinti che un muro invisibile ci separasse dalla guerra ovunque fossimo. Eravamo così presi da un disgusto assoluto per questa guerra marcia che cercavamo di non pensarci: ci sono degli idioti che vogliono ancora combatterla una guerra, allora che si gustino tutte le conseguenze della loro follia anacronistica. Non avevamo paura. Ma non per coraggio per la una provvidenziale costruita anestesia. 

Ci hanno spogliato giorno dopo giorno, con metodo di ogni possibilità di tregua, cessate il fuoco, accordo momentaneo. Di pace, a questo punto, credo che nessuno abbia mai parlato se non per furbizia temporeggiatrice. Le trattative zoppicanti ambigue ritualistiche sono scivolate nel nulla. Sono morte e sepolte. Si benedicono ormai bandiere da una parte e dall'altra.

L'Onu è dichiarato morto di vergogna da uno dei belligeranti (ma questo lo sapevamo dall'inizio di questo disastro, non ci siamo mai illusi) e tutti tacciono tirando un sospiro di sollievo che qualcuno l'abbia detto, per non doversi più occupare di consigli di sicurezza, di veti e di altre cianfrusaglie. Adesso la guerra sta per insinuarsi nelle più immediate delle nostre attese, è il nostro avvenire. Risuona leggermente aggiornata, politicamente più corretta la sciagurata domanda retorica: volete burro o cannoni?

Come volete si possa rispondere ormai? Anche dall'altra parte faranno la domanda: burro o cannoni per fermare l'occidente che vi soffoca e assedia? Non pensate che abbiamo diritto anche noi al posto al sole, non solo l'avido occidente? Come pensate risponderanno? La guerra ci aveva soltanto fatto una grazia, un mese, un mesetto di allegra noncuranza, di discussioni un po' accademiche su come è nato tutto questo... ma è o non è peggio del covid? Conviene cedere?... la luce le tenebre. 

Dobbiamo purtroppo districarci da questa guerra che non ci faceva male, che pensavamo di poter bloccare prima che ci inghiottisse. Adesso incontreremo la guerra vera, dura come la roccia, la paura vera che non ti lascia mai solo con te stesso. Questa guerra corrode paziente le opere dell'uomo e poi di colpo tra quei relitti stabilisce un rapporto nuovo e malefico. Adesso si fa sul serio, "la operazione speciale" cambia volto, fase tre, si passa alle artiglierie, alla prima guerra mondiale. Fanno bene gli ucraini a cercare in tutta fretta di allontanare la popolazione dall'est del paese. Hanno capito. 

Perché ora la tattica sarà quella delle bombe a pioggia a raffica millimetro per millimetro e metà dell'Ucraina i russi la faranno diventare una necropoli. Sì. Come Mariupol. Ci siamo affannati a presentata lo scontro come una lotta, non per l'Ucraina e il suo territorio, ma tra il bene e il male, la libertà contro le tirannidi, la democrazia contro i camuffati autoritarismi. Non ci siamo accorti che era proprio quello che Putin voleva e invocava e preparava da tempo. Perché l'invocare una ridefinizione dei rapporti di forza nel mondo che cancellasse l'Ottantanove sovietico serviva a mischiare le carte: voi contro di noi, e il noi è la Russia la Cina contro l'occidente. È il mondo visto da Putin e noi glielo abbiamo offerto. 

La semplificazione della luce e delle tenebre è perfetta per le tirannidi perché la puoi rovesciare come vuoi a loro vantaggio, chi stabilisce che per tutti noi siamo la luce? Dovevano inchiodarlo semmai a ladro di territori, a invasore bulimico, a fuorilegge. Putin ha iniziato la guerra con la bugia che la Nato voleva accerchiare la Russia (e la Cina).

Adesso le carte del mondo che stamperanno a Mosca e a Pechino mostreranno la piantina della Nato versione universale: Ecco siamo assediati. Cosa vi dicevamo? Il nostro imperativo era mostrare che ci trovavamo di fronte a una guerra di aggressione brutale dell'Ucraina. Adesso che diventa una guerra mondiale il torto e la ragione in Ucraina non avrà più senso. Le bugie dell'aggressore diventano realtà, la vera causa della guerra verrà dimenticata. Si lotta per sopravvivere. L'odio trionfa. 

Stasera Italia, Barbara Palombelli zittisce Chicco Testa: “Gli Usa stanno allungando la guerra”. Il Tempo il 06 aprile 2022.

Chicco Testa, giornalista e imprenditore, è ospite nella puntata del 6 aprile di Stasera Italia, talk show serale di Rete4 condotto da Barbara Palombelli. Il conflitto va a vantaggio degli Stati Uniti? È il quesito a cui è chiamato a rispondere Testa: “È chiaro che in questo momento che gli Usa recuperano quella centralità che avevano un po’ smarrito negli anni passati. Pensiamo all’Afghanistan ad esempio. Tornano ad essere un alleato indispensabile, nonché quello che in qualche modo dà le carte. Adesso, onestamente, che tutto questo sia stato voluto dagli Usa…”. “No voluto no, ma che in questo momento allungare il conflitto porterebbe vantaggi… Stiamo vedendo che tutti i giorni l’Unione Europa sta rimandando le sanzioni, nessuno è d’accordo su nulla, l’effetto di questa guerra sta arrivando.” il duro intervento della Palombelli. “Ma questa è l’Unione Europea, gli americani dal primo giorno hanno chiesto le sanzioni” la controreplica di Testa.

WP: La Nato impone a Zelensky di proseguire la guerra fino alla vittoria. Piccole Note su Il Giornale il 6 aprile 2022.

La Nato commissaria Zelensky, che non potrà fare accordi con Putin per porre fine alla guerra. Questo, in sintesi, il contenuto di un articolo del Washington Post che ovviamente non spara sic et simpliciter questa notizia bomba, diluendola in un’argomentata nota che spiega come la Nato riconosce la piena indipendenza di Zelensky, che quindi è libero di negoziare con il nemico per porre fine alla guerra, ma ammonisce che non potrà fare concessioni territoriali né dare a Putin qualcosa che abbia “una parvenza di vittoria”.

Insomma, l’Ucraina è di fatto costretta dalla Nato a vincere questa guerra e ad addivenire a un accordo col nemico solo se tale intesa ne sancirà la sconfitta. Così sintetizza l’articolo: “Gli ucraini, di conseguenza, sono coinvolti in una lotta più ampia a nome dell’Europa, affermano i leader della NATO”…

Tale la follia, che di fatto rende questa guerra una guerra per procura della Nato contro la Russia, nella quale l’Ucraina e i suoi cittadini non sono considerati altro che uno strumento per tale contesa, nulla importando la macelleria delle vite ucraine che saranno immolate sull’altare di questa guerra santa contro l’asserito macellaio di Mosca…

Ovviamente, Putin non potrà mai accettare un accordo che in qualche modo non compensi le perdite subite a seguito dell’invasione dell’Ucraina, sia in termini economici che di vite dei cittadini russi. Ne sarebbe travolto e con lui la Russia, dal momento che una Nato vittoriosa avrebbe come ulteriore missione quella di evitare il ripetersi di questa criticità, che in termini brutali vuol dire smantellare sic et simpliciter la Russia.

A queste condizioni la pace o un qualsiasi accordo che ponga termine al conflitto diventa un miraggio lontano, se non impossibile, vanificato da quella che ormai è diventata una lotta esistenziale tra Oriente e Occidente, con tutto il corollario che i conflitti esistenziali comportano, anzitutto la demonizzazione del nemico, non più avversario geopolitico ma simbolo del Male (basta, a tal fine, amplificare o costruire narrative usando gli usuali orrori delle guerre).

A questo serve anche la campagna iniziata con il vero o asserito massacro di Bucha, che è solo l’incipit di una narrativa che andrà declinandosi in modalità sempre più orrorifiche, dal momento che per colpire l’opinione pubblica occorre il crescendo, altrimenti si rischia che essa si abitui e non partecipi più emotivamente alla guerra e non ne condivida le “ragioni”.

Su Bucha, oltre alle note scritte in precedenza (questa e questa), si può registrare un altro dato. Di ieri le immagini satellitari che confermerebbero quelle registrate dopo il ritiro russo.

Le riportava il New York Times che pubblicava dei filmati satellitari che mostrerebbero i corpi delle vittime delle rappresaglie russe disseminati per strada nelle stesse posizioni in cui sono stati rinvenuti dagli ucraini dopo il ritiro dell’invasore.

La documentazione del Nyt smonterebbe la difesa dei russi, i quali avevano dichiarato che le uccisioni dei civili, o la messinscena del massacro (o ambedue in combinato disposto), si erano consumate dopo il loro ritiro da Bucha (il report del Nyt lascia inevasa l’altra argomentazione difensiva dei russi, cioè la discrasia temporale tra il loro ritiro e la denuncia dei liberatori, giunta quattro giorni dopo il ritiro stesso nonostante l’orrore fosse così evidente – i morti per strada… ma è un particolare).

Le immagini satellitari pubblicate dal Nyt sono di marzo, dettaglia il media della Grande Mela, con datazioni certe, dal 9 marzo in poi. Tale datazione, però, cozza con un report di una fonte americana, l’Intitute for war, che sta seguendo la guerra ucraina, registrandone nel dettaglio l’evoluzione.

La pagina della “Valutazione della campagna offensiva della Russia” relativa all’11 marzo riportava: “Lo Stato maggiore ucraino ha riferito alla mezzanotte ora locale del 10 marzo che le forze russe hanno tentato di sfondare le difese ucraine ad Andriivka, Zhovtneve, Kopyliv, Motyzhyn, Buzova, Horenychi e Bucha (un sobborgo a nord, nord-ovest di Kiev) e, in seguito, alle 6:00, ora locale, dell’11 marzo ha dichiarato che le forze russe non sono riuscite a conquistare nessun territorio” (si rimandava al sito dello Stato Maggiore ucraino di quel giorno, cliccare qui).

Così torniamo al report del Nyt, nel quale si leggeva: “Le immagini mostrano oggetti scuri di dimensioni simili a un corpo umano che appaiono in Yablonska Street tra il 9 marzo e l’11 marzo”…  cioè prima dell’arrivo dei russi. Circostanze che interpellano (1).

Al di là dei veti della Nato a Zelensky e delle incongruenze, spiegabili o meno che siano, delle documentazioni su Bucha e su altro, è ovvio che questa controversia rende più difficile proseguire i negoziati, anche se Zelensky ha ribadito che intende farlo, in quanto unica via di uscita (BBC). E i negoziati, nonostante tutto, stanno proseguendo, come ha dichiarato il portavoce del Cremlino (Associated Press).

Il punto è se la Nato – e il partito della guerra così forte in America – lascerà o meno l’Ucraina libera di trattare sul proprio destino. L’articolo del Wp getta un’ombra oscura su tale possibilità.

Tagadà, Domenico Quirico annienta gli Usa: “Non vogliono la pace, ostacolano i negoziati”. L'Ucraina come pretesto. Il Tempo il 05 aprile 2022.

Durissime accuse agli Stati Uniti, tra i principali responsabili della lunga guerra tra l’Ucraina e la Russia. Ad attaccare la Casa Bianca è Domenico Quirico, caposervizio esteri de La Stampa, ospite della puntata del 5 aprile di Tagadà, programma di La7 condotto nell’occasione da Alessio Orsingher: “Joe Biden non vuole assolutamente trattare con Vladimir Putin, sta ostacolando ogni tentativo di negoziato in modo scientifico. Ogni volta che c’è un avvio di una problematica trattativa attraverso la Turchia gli americani compiono qualche gesto o dicono qualche cosa per impedire che il negoziato si rassodi. Gli Usa stanno facendo una guerra diversa da quella che fanno gli europei. Gli Stati Uniti - svela Quirico - vogliono la caduta di Putin, non gliene importa niente di cosa succederà in Ucraina, è detto in maniera molto brutale, ma le cose bisogna dirle. Di quello che succede in Ucraina a Washington importa meno di zero. Se non che è un buon posto per indebolire l’avversario”. 

“Lo scopo degli americani - continua ancora l’invettiva del giornalista de La Stampa - non è arrivare ad una sorta di coesistenza che salvi l’indipendenza dell’Ucraina e accontenti un po’ questo tiranno scatenato, il loro obiettivo è abbatterlo e sostituirlo alla guida della Russia. Gli europei fanno un’altra cosa e cercano di aiutare l’Ucraina per quello che è possibile, arrivando prima o poi ad un accordo che li sottragga a questo sanguinoso pasticcio senza troppe legnate e senza troppi danni. Sono due cose divaricate, non hanno alcun rapporto, gli americani - chiosa Quirico - hanno un altro obiettivo in testa, fanno un’altra cosa, vogliono far cadere questo signore che sta al Cremlino”.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 4 aprile 2022.

La distanza che separa nella guerra in Ucraina gli americani e gli europei si è allungata, come era prevedibile, di un'altra pericolosa tacca. A Washington con l'invio al governo di Kiev di armi più sofisticate e micidiali, armi d'attacco, per l'ennesima volta viene sabotato esplicitamente il fragilissimo negoziato (prospettiva che gli americani considerano una sconfitta) e si comincia a sognare addirittura un ribaltamento dell'esito della guerra: non più russi indeboliti, impaludati, ma russi in fuga, e ucraini che riconquistano non solo le zone invase un mese fa ma anche il Donbass e perché no? la Crimea.

Putin dunque umiliato, e, poiché i regimi non sopravvivono mai alle sconfitte, liquidato dalla Storia e dagli incubi del ventunesimo secolo. Dopo Saddam, Milosevic, Gheddafi, Bin Laden, i Califfi un'altra carta del corposo mazzo dei diavoli moderni scartata dal gioco.

Gli europei sono più consapevoli, per la prossimità alle malefiche conseguenze, della infernale potenza distruttiva che Putin può scatenare per vendetta o per riprendere il controllo delle operazioni.

Gli americani pensano alla vittoria, gli europei (non tutti) pensano alla pace che seguirà. Ora dovranno rapidamente prendere una decisione complicata: allinearsi ancora alla strategia di Washington o seguire una diversa strada. Insomma: occorre mettersi al centro dell'arena entrando, come dicono i toreri , "nella culla delle corna".

Bisognerà bene che un giorno con Putin, o i suoi eredi, si discuta, non foss' altro per i nostri affari. Si dovranno riprendere relazioni sopportabili e umane con questa parte di Europa. Una bella ferita aperta, netta, guarisce. Ma non la invelenite! 

La strategia telefonica di Macron, Scholz e ora anche di Draghi è l'abbozzo di questa svolta, qualcosa di più di una tentazione. È giusto trattare con il Diavolo? E se questo è necessario come farlo senza compromettersi e arrendersi al Male assoluto? È un dilemma aperto dal 29 settembre 1938, Monaco, faccia a faccia sciagurato tra democrazie pavide e aggressivi totalitarismi.

Ci può aiutare come bussola il celebre Lungo telegramma di George Kennan, vademecum della diplomazia dell'efficace "contenimento" della Unione sovietica staliniana. Seguiamo il suo schema. Se Putin è come Hitler allora bisogna evitare ogni trattativa e fare la guerra, non ci sono alternative; se è come l'Unione sovietica bisogna applicare l'arte della pazienza e del logoramento, prima o poi crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni interne; se è come la Cina bisogna attirarla, farla partecipare al nostro mondo perché cambi. Con Pechino gli americani l'hanno applicata a partire del 1970 ma ora vogliono cambiarla.

Nessuna formula infatti può essere eterna.

In questo mese terribile di aggressione russa si è andati molto avanti nel sovrapporre la maschera di Hitler alla faccia di Putin, non soltanto sui "murales" o sulle copertine dei settimanali. Si è deciso, anche nei discorsi di molti leader, che si intravede al Cremlino la reincarnazione dell'imbianchino viennese, che abbiamo a che fare con un totalitarismo e che l'aggressione criminale all'Ucraina non è una guerra di annessione o di intimidazione ma un tentativo di genocidio. 

Insomma in un Occidente che sempre vorrebbe vedere in lotta in modo manicheo le forze del Bene e del Male, forse per non interrogarsi sulle proprie debolezze, abbiamo già percorso, anche da questa parte dell'Atlantico, molto terreno per lasciarci alle spalle una logica politica e entrare nel regno del confronto con una natura definita diabolica.

Abbiamo nostalgia di una "buona guerra" come fu appunto la seconda guerra mondiale o come è stata la guerra fredda per molti americani che oggi prendono le decisioni su quella contro Putin. Ma dopo aver demonizzato l'avversario, si coltiva la certezza di ciò che è il nemico, ovvero il contrario speculare di quanto siamo noi, e si è sicuri di poter indovinare che cosa vuole e il modo in cui intende ottenerlo. E così si commettono errori pericolosi.

Perchè entra in azione anche la sindrome di Monaco. 

Da quel settembre 1928 in cui l'inglese Chamberlain armato di bombetta e ombrello e il capitolardo francese Daladier arrivarono in Germania per trattare e stringere la mano al diavolo Hitler ogni negoziato con gli autocrati è diventato sinonimo di umiliante e soprattutto inutile capitolazione. Il marchio dell'infamia.

Perché Hitler ne trasse soltanto la conferma che con quei vili personaggi disposti a sacrificare alleati e amici al proprio comodo si poteva continuare a praticare la tattica del bluff e della intimidazione. Ma questo non è un ultimo atto sempre scritto, entra in scena lo spessore degli uomini che interpretano il copione. 

Oggi le opinioni pubbliche occidentali chiedono ai governi di garantire la sicurezza assoluta, cacciare i diavoli della scena internazionale e farlo utilizzando metodi morali che non li rendano simili a coloro che devono essere puniti. Tutte insieme sono richieste spesso incompatibili. Talora bisogna allearsi con un diavolo per eliminarne un altro, o affrontare sacrifici economici troppo elevati da risultare insopportabili, oppure i mezzi che si ritenevano sufficienti, l'isolamento, le sanzioni, si rivelano polvere innocua.

Sullo scenario della politica mondiale la possibilità di risolvere tutto con un colpo solo è molto rara. Resta agli europei, di fronte a chiacchieroni e avventurieri, un'arma in cui sono maestri, la diplomazia. Anche se sembra abbiano esaurito ultimamente i loro talenti nei negoziati politici e burocratici interni e tra gli Stati della Unione. Attenzione: parlare con il diavolo di turno, al telefono o attorno a un tavolo, non è un obbligo morale anche se il risultato che ci si propone è fermare il massacro e ottenere un cessate il fuoco.

È una strategia, una possibilità. Ma è un errore pensare che sia una soluzione magica, da impiegare quando tutto il resto è fallito. Nelle relazioni internazionali non bisogna davvero mai dire mai ma neppure dire sempre. Come la ipotesi della guerra la diplomazia deve esser giudicata dalle conseguenze che determina, il suo verbo è il condizionale, procede per continue ipotesi: se tratto il nemico in questo modo che cosa ottengo? Alternare bastone e carota a cosa porta? 

Fornire certi tipi di armi che effetti ha sul nemico e sugli alleati? Ma la diplomazia consente di correggere le valutazioni sbagliate, di ricominciare da capo. Crea condizioni, possibilità, può influenzare l'autocrate più che una minaccia, dargli lo spazio per non ripetere le brutalità che ha già commesso. A un certo punto del negoziato arriva la domanda per le democrazie: quando il compromesso diventa cedimento? Quando fermare la guerra è rinuncia vergognosa a interessi vitali? Ma bisogna arrivare a quel punto.

Diego Fusaro distrugge il mito di Volodymyr Zelensky: manda al massacro l'Ucraina, suddito della Nato e degli Usa. Il Tempo il 03 aprile 2022.

Diego Fusaro a valanga contro il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky, a suo dire una pedina degli Usa e della Nato. Il filosofo è scatenato sul tema della guerra e su Twitter con una serie di messaggi ne ha per tutti, incurante degli insulti che gli sono piovuti addosso già negli scorsi giorni: “Il guitto Zelensky, prodotto in vitro a Washington, non sta lottando per la libertà e la sovranità del suo Paese, come ripetono i giornali aziendali. Sta mandando al massacro il proprio popolo per far passare l'Ucraina nel regno della piena sudditanza alla Nato e a Washington. Troppo tardi sarà quando si capirà che l'Ucraina è solo una pedina mossa già da tempo da Washington in vista della destabilizzazione della Russia (e magari anche del regime change), uno degli ultimi baluardi, con la Cina, di resistenza al nuovo ordine mondiale capitalistico. Piccola ermeneutica dell'immagine. Non state vedendo la guerra, ma quello che vi fanno vedere della guerra. Non la realtà reale, bensì la realtà mediata dalle immagini. Talvolta fedeli, talvolta parziali, non di rado distorte, sempre legate al punto di vista di chi le seleziona”.

Fusato nei suoi discorsi è furioso per come la stampa sta trattando chi pone dubbi sulla guerra: “I giornali aziendali, grancassa dell'atlantismo, ripetono il medesimo schema visto col Covid. Chi dissente rispetto a questa sporca guerra e alla narrazione egemonica made in USA è, per definitionem, un pazzo visionario e ‘terrapiattista’. I giornali aziendali ci spiegano che quei ‘galantuomini' del Battaglione Azov leggono assiduamente Kant, il filosofo dell'imperativo categorico e dell'umanità da trattare solo come fine e mai come mezzo. Non ce ne stupiamo, pure Eichmann, ricorda Arendt, si professava kantiano”.

Da ultimo la frecciata a Mario Draghi e al governo: “L'Italia dovrebbe ripudiare la guerra e mantenersi neutrale, come prevede la Costituzione e come peraltro vorrebbe la maggioranza degli italiani. E invece, da colonia di Washington, fa la guerra e le sanzioni, manda armi e soffia sul fuoco. ‘Il governo dei migliori’, dicono”.

Non è l'Arena, "Zelensky traditore, milioni di ucraini la pensano così". Vezzosi, accuse pesantissime. Libero Quotidiano il 04 aprile 2022.

"Milioni di ucraini vedono Volodymyr Zelensky come un traditore che ha abbandonato gli interessi del popolo ucraino". Maurizio Vezzosi, giornalista freelance italiano, si collega con Massimo Giletti a Non è l'arena su La7 e regala un punto di vista differente sulla guerra in Ucraina. "Non mi sembra opportuno rispondere a provocazioni di cattivo gusto - spiega riferendosi ad alcuni giovani ucraini intervenuti in trasmissione - mi interessa parlare della condizione dei civili a Mariupol, c'è un piglio molto aggressivo in queste settimane e nessuno  vuole trovare davvero una soluzione per salvare questa gente, che ha un sostegno minimo in termini umanitari".  

"Al di là dei filo-russi e dei filo-ucraini, come si vive a Mariupol?", domanda Giletti. "Ho migliaia di testimonianza, l'Ucraina non è Zelensky e ci sono migliaia e milioni di ucraini che sono insofferenti a questo corso politico e che vedono Zelensky come un traditore che ha abbandonato gli interessi del popolo ucraino, russofono o non russofono, e che sostanzialmente ha fatto sì che si verificasse questa situazione". 

"Il suo governo - replica poi a un ragazzo ucraino - ha rivendicato per 8 anni i territori del Donbass come territori ucraini. Quindi sono territori ucraini o territori russi? Perché se sono ucraini, vuol dire che per 8 anni ha bombardato territori ucraini. Negare le ragioni di una parte significa rendere impossibile qualsiasi tipo di compromesso". 

"O tutti eroi o...": quel post sibillino di Capuozzo sulla guerra. Francesco Curridori su Il Giornale il 3 aprile 2022.

"Le guerre sono così, per Putin e per noi, in modo simmetrico: sono sabbie mobili, inizi, e poi è sempre più difficile venirne fuori". Secondo Tony Capuozzo, dopo più di un mese, la fine del conflitto in Ucraina e tutt'altro che vicina. 

Il noto cronista di guerra ricorda la richiesta fatta all'Italia da parte del ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba di inviare altre armi perché "il peggio deve ancora venire". Ma non solo. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un’intervista rilasciata a Fox News, non ha lasciato spazio a compromessi, dichiarando:"Una vittoria della verità significa una vittoria per l’Ucraina e gli ucraini", ammettendo, però, di non saper rispondere alla "domanda dolorosa" sul "quando". Di certo, per Zelensky, c'è solo che: "Oltre alla vittoria, il popolo ucraino non accetterà nessun risultato" perché "la questione dell’integrità territoriale e della sovranità è fuori discussione". Ma, oltre alla determinazione del presidente ucraino, ci sono altri indizi che lasciano pensare che la guerra possa durare a lungo. Capuozzo nota come l'arrivo di carriarmati comprati dagli Stati Uniti sia il segnale che gli ucraini vogliono passare dalla difesa all'attacco. "Vuoi negare il diritto ucraino alle terre irredente da otto anni di guerra sporca e una quarantina di giorni di guerra nobile?", si chiede polemicamente il cronista che racconta di essere andato a visitare il santuario militare di Fagarè della Battaglia, a due passi dal Piave, vicino al quale si trova una casa con la famosa scritta: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!".

Questa scritta è stata conservata nel santuario, insieme a un’altra che il fascismo aveva fatta sua: "meglio un giorno da leone che cento da pecora". Capuozzo ricorda che i nazisti, nel 1944, distrussero una parte di quel sacrario, "quella in cui dei bassorilievi, piuttosto realistici descrivevano il sacco degli austroungarici: stupri, furti, distruzione dei raccolti " come in una sorta di "cancel culture anzitempo". Una distruzione inutile dato che "quei bassorilievi sono stati recuperati e sono ben visibili". Non molto lontano da lì, poi, si trova un'osteria, chiamata La Bersaglia, alle cui pareti vi è affissa "la prima pagina di un quotidiano che annuncia l’attacco di Pearl Harbour" e il conseguente ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. "Insomma, un giramento di testa, tra le guerre. Ma la cosa più straniante è stato guardare i lavori del metanodotto in costruzione, che ha comportato espropri e mugugni, e appare come una trincea nei campi verdi di primavera", scrive ancora Capuozzo sottolineando che quelle sono tutte terre di alpini. "Non è un caso se non c'è una sola canzone degli alpini che canti la gloria della guerra. Tutte a ricordare la bella e la mamma, il dovere da assolvere e un compagno andato avanti, il paese lasciato e la tradotta, il ponte di Perati e la bruttezza della guerra", aggiunge Capuozzo che chiosa: "Anche con una erre sola, la guerra, perché così faticava a chiamarla la gente dei campi. Ecco, quella scritta sul muro, con tutte le doppie al posto loro, ecco cosa mi è scappato di pensare, cento e quattro anni e trentanove giorni dopo".

Toni Capuozzo, "o tutti eroi...". Le parole di Zelensky scatenano il sospetto: a cosa ci condanna il premier ucraino. Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Trentanovesimo giorno di guerra. E il punto sul conflitto lo fa Toni Capuozzo, con il consueto e interessante post su Facebook, in cui analizza gli ultimi sviluppi del conflitto in Ucraina. E le parole di Capuozzo, oggi, domenica 3 aprile, sono particolarmente sibilline. "O tutti eroi...", apre il suo post con una frase lasciata in sospeso. 

Dunque riflette sulle parole di Kuleba, ministro degli Esteri ucraino intervistato da Repubblica, il quale afferma: "L’Italia mandi armi. Il peggio deve ancora venire". Parole preoccupanti, secondo Capuozzo. Così come al giornalista e inviato di guerra suscitano preoccupazione le parole di Volodymyr Zelensky, il premier ucraino che "legittimamente orgoglioso" non lascia spazio ai compromessi.  "Una vittoria della verità significa una vittoria per l’Ucraina e gli ucraini. La domanda è quando finirà. Questa è una domanda profonda. È una domanda dolorosa. Oltre alla vittoria, il popolo ucraino non accetterà nessun risultato", ha affermato Zelensky in un’intervista a Fox News. E Capuozzo scrive: "Alla domanda su che cosa sia disposto ad accettare al fine di garantire un accordo di pace, il presidente ucraino ha risposto: Non scambiamo il nostro territorio. La questione dell’integrità territoriale e della sovranità è fuori discussione". 

"Così, anche se possono esser dichiarazioni a uso della sua opinione pubblica, dura a lungo - riprende Capuozzo riferendosi al conflitto, la cui fine ora appare sempre più lontana -. Avevamo visto giusto sul passaggio dalla difesa all’attacco: ecco in arrivo i carrarmati comprati da Biden sul mercato dell’est.  Le guerre sono così, per Putin e per noi, in modo simmetrico: sono sabbie mobili, inizi, e poi è sempre più difficile venirne fuori. Vuoi negare il diritto ucraino alle terre irredente da otto anni di guerra sporca e una quarantina di giorni di guerra nobile?", conclude sempre sibillino Toni Capuozzo.  

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2022.  

Guida Zelensky. E Joe Biden lo segue a strappi, su un sentiero sempre più stretto. Venerdì il presidente ucraino ha rilasciato un'intervista a «Fox News», la tv conservatrice del gruppo Murdoch. L'affermazione più sorprendente e spiazzante: «L'Ucraina non accetterà alcun risultato della guerra che non sia la vittoria. La vittoria della verità». 

Le parole di Zelensky arrivano sull'onda dell'annuncio del governo ucraino: abbiamo liberato una gran parte della regione a nord di Kiev. Nello stesso gli ucraini denunciano: a Bucha, non lontano dalla capitale, sono stati trovati corpi di civili con le mani legate dietro la schiena. I russi avrebbero proceduto a esecuzioni di massa. Cittadini inermi, disarmati. Il sindaco della cittadina, Anatoly Fedorouk, ha detto che 280 persone sono state seppellite in una fossa comune. E ancora, altri orrori, sempre a Bucha: testimoni riferiscono di aver visto i soldati russi issare bambini ucraini sui blindati e sui camion.

«Scudi umani» per proteggere gli spostamenti. Il Procuratore generale sta raccogliendo un dossier con le prove di questi atti criminali. A Novy Bykiv, cento miglia a nord di Kiev, i russi avrebbero addirittura piazzato i bambini nei passeggini davanti ai carri armati. Altri casi del genere sono segnalati a Sumy, Chernihiv e Zaporizhzhia. 

L'elenco è lungo. A Trostyanets, nel Nordovest dell'Ucraina, sono stati scoperti cadaveri di persone torturate dai russi. Infine a Enerhodar, nella regione centrale, i militari russi hanno sparato contro manifestanti pacifici.

Probabilmente partendo da qui, nell'intervista a «Fox News» Zelensky ha contraddetto, se non smentito le aperture su cui il governo di Kiev ha impostato la trattativa con la mediazione del turco Recep Tayyip Erdogan. Ha cominciato così: «Non mercanteggiamo il nostro territorio. La questione dell'integrità territoriale e della sovranità è fuori discussione». 

Poi il tema, cruciale, delle alleanze militari: «Per noi è dura parlare della Nato perché la Nato non ci vuole. Ma penso che sia un errore. Se noi ci uniamo alla Nato, la Nato diventa più forte. Non siamo uno Stato debole, non stiamo chiedendo di diventare più forti a spese della Nato; noi possiamo essere un valore aggiunto, una locomotiva dell'Alleanza».

Ieri il Pentagono ha annunciato un'operazione «in coordinamento con gli alleati europei» per consegnare carri armati di fabbricazione sovietica alla resistenza ucraina. Inoltre gli americani sono pronti a inviare armi per altri 300 milioni di dollari, portando il valore totale degli aiuti a 2,3 miliardi di dollari. Ma per Zelensky non basta. «Non ci servono altri giubbotti anti proiettili o elmetti, dateci i missili, dateci i Jet; non ci volete dare gli F-18, gli F-19 o qualunque cosa abbiate? Allora consegnati gli aerei di fabbricazione sovietica. Metteteli nelle mie mani. Datemi qualcosa con cui difendere il mio Paese». La spinta di Zelensky sta costringendo l'Amministrazione americana a rivedere le proprie posizioni.

Finora Biden, per esempio, si è rifiutato di inviare «mezzi militari offensivi» all'Ucraina, come i caccia o l'artiglieria pesante. Per ora Biden resta in bilico, prendendo tempo anche sull'ipotesi di far parte del comitato dei garanti di un eventuale accordo tra Kiev e Mosca. Lo ha rivelato lo stesso Zelensky: «Gli Usa stanno considerando questa proposta». Forse Washington vuole capire meglio quale direzione stia prendendo la guerra. I segnali sono contraddittori. L'armata putiniana è in ritirata al Nord, ma starebbe mobilitando altre forze. Sarebbero pronte a entrare in azione alcune migliaia di soldati con base in Transnistria, la sedicente repubblica filo russa, strappata alla Moldavia. Obiettivo: Odessa. 

Andrea Marinelli,Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2022.  

Washington è pronta a fornire, in via indiretta, carri armati all'Ucraina. Questa mossa, rivelata dal New York Times , può permettere a Zelensky di rendere ancora più difficile la missione russa: l'aumento dello scudo può consentire a Kiev di replicare all'aggressione, ma anche ridurre il divario tra i contendenti e convincerli che sia meglio negoziare. Sono già in corso i contatti per favorire quello che viene definito «un trasferimento», in quanto non si tratta di componenti americane. 

A Kiev il supporto serve subito, non c'è troppo tempo per l'addestramento: la resistenza deve saper usare i mezzi che riceverà. Dunque - come spiega il New York Times e conferma la logica - gli Stati Uniti si rivolgeranno all'infinito mercato dell'Est Europa, dove possono trovare materiale compatibile con quello già in possesso degli ucraini.

Tra i «candidati» ci sono i carri armati T-72 di progettazione sovietica e Pt- 91 polacchi: Varsavia ne possiede centinaia e potrebbe partecipate allo sforzo. Tra l'altro ha appena ordinato i più moderni Abrams americani e dunque potrà rimpiazzarli in seguito. Nessuno però vuole sguarnire le proprie difese: gli slovacchi, per esempio, si sono impegnati a inviare i sistemi anti-aerei S-300, ma prima vogliono in cambio i Patriot (già promessi da olandesi e tedeschi). 

Sempre nella parte orientale del continente - Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia - possono essere individuati altri corazzati (ancora T72), ma anche cannoni e munizioni. Quarta mano Complicato, ma non raro, il «giro» che coinvolge una cinquantina di blindo Pvb-501. Di concezione sovietica, usati dalla Germania Est, acquisiti con la riunificazione dalla Germania Ovest e rimodernati, sono stati venduti alla Svezia che poi li ha esportati nella Repubblica Ceca.

Adesso saranno spediti a Kiev - come racconta The War Zone - con il placet di Berlino: sono di «quarta mano» ed è probabile che abbiano bisogno di una profonda revisione. Non è da escludere che alcuni siano usati come pezzi di ricambio per aggiustare quelli abbandonati dai russi: gli ucraini hanno messo in piedi da tempo officine per il «recupero» delle prede belliche (almeno 160 «pezzi» secondo stime ufficiose). 

L'Australia ha invece annunciato che metterà a disposizione dei blindo Bushmaster che dovrebbero essere di qualità superiore, mentre Londra spedirà mezzi analoghi e artiglieria semovente As-90 Braveheart. La discriminante, tuttavia, è sempre il reale stato di efficienza.

Le indiscrezioni sui carri armati - e vedremo se avranno conferme - sono state accompagnate dall'annuncio di un nuovo pacchetto da parte degli Stati Uniti in favore di Kiev. Interessante la lista: razzi per artiglieria a guida laser (permettono un tiro accurato); i ben noti droni kamikaze Switchblade utilizzabili da un solo soldato; droni da ricognizione Puma, necessari per garantire la sorveglianza e la ricerca di target; sistemi anti-droni per contrastare le incursioni avversarie; apparati radio criptati; mitragliatrici; munizioni; ricambi; materiale medico. 

Poi, anche se gli Stati Uniti lo lasciano sempre in fondo alla lista, c'è un elemento fondamentale legato al supporto dell'intelligence: le immagini satellitari.

Un aspetto su cui vegliare è la catena di approvvigionamento: le sorprese sono in agguato, il diavolo è nei dettagli. C'è chi può essere tentato di liberarsi di vecchi residuati o di piazzare «prodotti» non proprio a norma. In passato, poi, sono emerse vicende nebulose che hanno coinvolto ditte private poco affidabili, azioni sotto coperture e fornitori (bulgari, bielorussi). 

Nel 2015, ad esempio, un militare americano perse la vita mentre testava un missile contro-carro Konkurs in Bulgaria, parte di un lotto destinato ai ribelli siriani nell'ambito di un'operazione «segreta». Nel 2008 un'inchiesta ha smascherato un imprenditore della Florida di soli 22 anni che aveva vinto un contratto da 300 milioni di dollari per fornire proiettili all'esercito afghano: aveva sostenuto che fossero cartucce albanesi, invece erano cinesi. L'episodio è remoto, ma rivela un certo mondo sommerso. L'urgenza di sostenere la resistenza ucraina potrebbe indurre a prendere delle scorciatoie.

Parla l'ex ambasciatore in Iraq. “Nella guerra ucraina non ci sono anime candide. Speriamo nel miracolo di Erdogan”, intervista a Marco Carnelos. Angela Nocioni su Il Riformista il 2 Aprile 2022. 

Marco Carnelos, ex ambasciatore italiano in Iraq, è ex consigliere per la politica internazionale di Romano Prodi e di Silvio Berlusconi.

Crede possibile una ritirata russa dall’Ucraina prima della fine di aprile?

Non sono ottimista di natura e, purtroppo, non vedo una ritirata russa entro questo mese, a mio modesto avviso alla fine di questo mese i combattimenti saranno ancora in corso. Avremo ancora una situazione bellica in Ucraina, a macchia di leopardo.

Subito dopo l’apertura del tavolo di trattativa ad Istanbul gli Stati uniti si sono detti scettici sulla disponibilità russa. Crede alla disponibilità di Mosca al negoziato?

Lo scetticismo statunitense è piuttosto comprensibile e in larga parte scontato, credo che l’establishment politico di Washington ormai non nutra più alcuna fiducia nella possibilità di giungere ad intese durevoli con Mosca, in particolare con Vladimir Putin al potere; se poi sarà costretto suo malgrado è un altro discorso. Credo che il livello di fiducia tra le due capitali sia prossimo a giungere al livello più basso nella storia delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, fatta eccezione per la crisi dei missili di Cuba nel 1962 e per l’abbattimento del jet sudcoreano nel 1983. Larga parte del Partito Democratico americano non perdonerà mai Putin per la presunta interferenza di Mosca nel processo elettorale statunitense che – secondo la versione prevalente – nel 2016 avrebbe aperto a Donald Trump la porta della Casa Bianca. Mi auguro che tra qualche anno qualche storico serio possa pronunciarsi definitivamente su quella che ha assunto le sembianze di un’infinita soap opera. Personalmente mi rifiuto di credere che la grande democrazia statunitense possa rivelarsi così fragile da essere esposta fatalmente a manovre destabilizzanti a cura di qualche apparato dell’intelligence russa.

Una voce uscita dal negoziato di Istanbul ipotizzava una proposta ucraina per una trattativa su un tavolo a parte per Donbas e Crimea, da avviare dopo il cessate il fuoco “e con 15 anni di tempo”. Ci crede?

Non ho elementi per stabilire se sia vera. La ritengo tuttavia inverosimile e morta in partenza. Dal punto di vista di Mosca – e se lo riporto non significa che io lo condivida, ma dato il clima nel nostro Paese credo sia opportuno precisarlo – dopo aver atteso invano per otto anni l’applicazione degli Accordi di Minsk – tutela della lingua russa e autonomia per le regioni di Donetsk e Lugansk – del 2014, perché Putin dovrebbe ora accettare un periodo di addirittura 15 anni per definire l’assetto di due regioni che già controlla e della Crimea che già si è annesso? E in cambio di cosa? Durante le trattative ruotanti intorno ad un conflitto così intenso, nascono spesso illazioni di ogni tipo, spesso prive di fondamento, un chiacchiericcio in libertà.

Come valuta il ruolo che si è ritagliato Erdogan?

Chapeau! La Turchia è un membro della Nato che si è ritagliato una sua autonomia di giudizio e di manovra rispetto all’Alleanza e la sta mettendo a frutto, anche pro domo sua ovviamente. Speriamo che arrivi fino in fondo e produca il miracolo. Visto il clima che regna tra la Russia e la Nato, che la prima accetti la mediazione di un membro della seconda la dice lunga su che razza di periodo senza precedenti stiamo vivendo.

E la reazione italiana al ruolo di mediazione proposta da Erdogan?

L’Italia è un paese pragmatico, nonostante tutto, e se Erdogan con la sua mediazione trova una via di uscita che sollevi tutti da una situazione che ogni giorno si rivela più pericolosa tanto meglio. Non sarà certamente Roma – mi auguro – a mettersi di traverso.

Zelensky a suo avviso è ben consigliato?

Dal punto di vista della comunicazione con i media certamente si! Finora non ha sbagliato un colpo. Quanto alle scelte politico-militari avrei un giudizio più sfumato. Il popolo ucraino ha certamente dimostrato uno spirito di resistenza ammirevole, spero solo che alla fine ne sarà valsa alla pena alla luce delle immani sofferenze e distruzioni materiali alle quali la popolazione e il paese si sono finora esposti. Mia madre mi dice sempre chi ha più intelligenza e buon senso dovrebbe farne uso.

Che fine avrà fatto il programma elettorale della campagna di Zelensky nel quale prevedeva di cercare un’intesa con la Russia?

Me lo chiedo. Era stato eletto proprio su una piattaforma elettorale che mirava a comporre i dissidi con la Russia. Resto convinto che Zelensky fosse animato da buona fede nella ricerca di un compromesso, poi, temo, il quadro politico interno ed internazionale hanno reso questo suo intendimento irrealistico o difficilmente perseguibile; senza dimenticare, ovviamente le più che plausibili responsabilità russe prima dello scoppio del conflitto. Pur essendo vero che nella vicenda ucraina c’è un aggressore e un aggredito, non vi sono tuttavia anime candide. Quando gli storici seri faranno finalmente luce sul periodo dal 2004 al 2022 emergeranno molte sorprese e molti assunti oggi dati per scontati dovranno essere rivisti.

Crede possibile che Mosca accetti di ritirarsi se Kiev accetta di cedere Crimea e le repubbliche separatiste del Donbass, ma non tutto il Donbass, e soprattutto non Mariupol?

Onestamente non lo so. Putin, se non sbaglio, aveva indicato come obiettivi la de-nazificazione (qualunque cosa essa significhi) e la de-militarizzazione dell’Ucraina unitamente alla neutralità formale del Paese. Soltanto quando verrà siglata un’intesa vedremo se questi obiettivi saranno stati conseguiti. Fermo restando che appare più che plausibile che a Mosca nelle ultime settimane siano stati compiuti dei grossolani errori di calcolo.

Il ruolo dei ceceni? Il ruolo del battaglione Azov?

I Ceceni sono come i Ghurka utilizzati per secoli dalla Gran Bretagna nella sua avventura coloniale: il tipo di combattenti che non vorresti mai trovarti di fronte, sovente non fanno prigionieri. Quanto al battaglione Azov, sospendo il giudizio anche se alcuni indizi non mi sembrano rassicuranti.

I primi giorni dell’invasione russa il Nyt uscì con una bellissima cronaca sulla resistenza ucraina fatta anche da camerieri, ragionieri, avvocati. Tutti così bravi nell’utilizzo delle armi difensive ricevute dall’Occidente? All’Ucraina avremo mica fornito intelligence e personale formatissimo tuttora sul posto? Avrà un ruolo tutto ciò nel perseverare della resistenza? Sarà legittimo chiederselo?

Sono anni che l’Ucraina beneficia legittimamente di assistenza ed addestramento militari di alto livello da parte di diversi membri della Nato, e i risultati si vedono. Le truppe russe incontrano difficoltà. Non si dovrebbe mai sottovalutare la determinazione di un popolo a difendersi. Quello che mi auguro tuttavia è che il conflitto cessi quanto prima, sarebbe imperdonabile trascinare questo massacro fino all’ultimo ucraino a prescindere dalle pregresse professioni dei combattenti. Spero che nessuno abbia in mente di combattere fino all’ultimo ucraino. Angela Nocioni

La guerra fino all'ultimo ucraino, le pressioni su Biden e altro. Piccole note l'1 aprile 2022 su Il Giornale.

Nuova tornata di colloqui, stavolta online, tra russi e ucraini, che non produrranno effetti notevoli, ma qualcosa sì, come si nota dal nuovo corridoio umanitario aperto per evacuare i cittadini di Mariupol. La Turchia, intanto, ha annunciato che da qui a due settimane potrebbe ospitare un altro vertice tra i ministri degli Esteri dei due Paesi.

Si continua a negoziare, insomma, nonostante un certo potere d’Occidente faccia pressioni perché la guerra prosegua a oltranza allo scopo di far collassare la Russia, che oggi ha subito un attacco nel suo territorio, azione che potrebbe prospettare un’escalation.

Zelensky è etero-diretto?

Sul conflitto ucraino, un’interessante analisi di Marco Carnelos, ex ambasciatore italiano in Iraq, pubblicata su Dagospia.

“Che cosa è successo a Zelensky che era Stato eletto proprio con una programma elettorale mirante a trovare un’intesa con la Russia? È plausibile che ambienti nazionalisti radicali ucraini (neonazisti?) lo abbiamo frenato, ci sono state anche interviste di alcuni esponenti nazionalisti ucraini apertamente minacciose in passato verso le aperture di Zelensky a un negoziato che componesse la vicenda con la Russia evitando l’attuale carneficina”.

“Di questo se ne occuperanno gli storici. Oggi rileviamo che la posizione di Zelensky appare sempre più oltranzista sulla pelle dei propri cittadini. Se il punto di caduta di tutta la vicenda sarà  la neutralità dell’Ucraina, resta da capire se secondo il modello austriaco o quello finlandese (sono differenti il primo è sostanzialmente disarmato il secondo no) che senso ha prolungare l’agonia quando tutti sanno che la neutralità verso la NATO dovrà essere concessa e Crimea e Donbas sono perduti e probabilmente anche il sud del Paese (Mariupol)?”

“È Zelensky che ha subito una metamorfosi? È condizionato (minacciato?) da oltranzisti interni? Oppure è eterodiretto da Washington e Londra che hanno interesse […] che Mosca sanguini e si impantani il più possibile in Ucraina”.

“Ho la sensazione che qualcuno voglia combattere la Russia fino all’ultimo ucraino o, addirittura, fino all’ultimo europeo”.

Biden nel mirino

Intanto in America si registra un vero e proprio attacco concentrico a Biden. I media mainstream che al tempo bollarono come mero complottismo la storia del computer personale del figlio del presidente Hunter, ora fanno a gara per rilanciarla.

Il computer conterrebbe documentazione più che imbarazzante, secondo quanto riferiscono le indiscrezioni: da possibili immagini pedopornografiche a prove di corruttela.

Durante la campagna presidenziale a tirare fuori la storia erano stati i media anti-sistema. Il computer sarebbe stato dimenticato in un negozio a seguito di un intervento per ripararne i guasti, e consegnato all’Fbi dal titolare del negozio stesso perché fosse restituito al legittimo proprietario a lui ignoto.

Ma l’Fbi avrebbe fatto una verifica del suo contenuto, rinvenendo appunto materiale scottante. Ma quando la vicenda venne fuori i media mainstream la bollarono come bufala, mero complottismo e, ovviamente, disinformazione russa. Il New York Post, primo a rivelarla, fu addirittura bannato dai social, come usa fare la moderna censura.

Colpisce che ora tutti i media mainstream abbiano fatto un’inversione a U: il New York Times, il Washington Post, la Abc, la Cbs, la Cnn (per citarne solo alcuni) fanno a gara per rilanciarla. Non si tratta di una conversione sulla via di Damasco, semplicemente lo Stato profondo, al quale i media mainstream sono subordinati, ha messo nel mirino il presidente americano.

Ciò perché Biden non è prono ai falchi Usa che in questo momento hanno due richieste pressati: vorrebbero un maggiore ingaggio americano nella guerra ucraina, che il presidente sta frenando usando gli strettissimi margini di manovra a sua disposizione, e vorrebbero che Biden non ripristinasse l’accordo sul nucleare iraniano, che sembrava ormai chiuso e invece è ancora in stallo.

Non è pensabile che si voglia far cadere il presidente, non almeno prima delle elezioni di midterm, perché un simile disastro dei democratici consegnerebbe ai repubblicani guidati da Trump il Congresso degli Stati Uniti. Piuttosto sembra che si voglia condizionarlo per renderlo più malleabile alle richieste.

Se è vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, in politica spesso accade il contrario, con i figli dei politici messi nel mirino per sparare sui padri…

La scomparsa dell’allarme neo-nazista

A riguardo delle bizzarrie dell’informazione si segnala che prima della guerra ucraina i media mainstream americani grondavano di articoli contro i suprematisti bianchi e l’ultra-destra.

Ogni giorno si potevano leggere articoli come: “Biden e l’Occidente affrontano la minaccia dell’estremismo di estrema destra” (Washington Post); oppure questo: “I più alti dirigenti delle forze dell’ordine affermano che la più grande minaccia terroristica interna proviene dai suprematisti bianchi” (New York Times).

Ora la marea è in risacca e i servizi sul tema svaporati. Con tutti gli articoli-denuncia contro l’ultra-destra ucraina (che il mainstream considera indispensabile alla guerra per procura contro la Russia), gli allarmi sulla minaccia dall’estremismo di destra Usa sono a rischio autogol. Da qui il cambio di marcia. Tale il meccanismo rigoroso – cioè da regime – delle dinamiche narrative.

Così, mentre un tempo anche le mobilitazioni dei movimenti neonazisti europei facevano notizia, oggi che l’allarme è molto più realistico a causa del nuovo fermento prodotto dagli “eroi” ucraini (vedi articolo di Rita Katz sul Washington Post), non sono rilevate. Così riprendiamo dal Site del 29 marzo: “Manifestazione neonazista a Gera, Germania, inizia la campagna per riaccendere il movimento”. La sottovalutazione criminale e strumentale del neo-nazismo ucraino non resterà senza conseguenze.

Ucraina: l'errata evocazione di Monaco e la lezione del 1914. Piccole note il 2 aprile 2022 su Il Giornale.

Nel corso della guerra ucraina tanti, a iniziare da Zelensky, hanno accusato I Paesi occidentali di ignavia rispetto all’invasione russa, e tanti, a tal proposito, hanno evocato il nefasto accordo di Monaco, quando Francia e Gran Bretagna acconsentirono all’annessione dei Sudeti alla Germania nella speranza di evitare una guerra su larga scala in Europa.

Ryan Mcmaken, sul sito del Ron Paul Institute, annota come lo spettro di Monaco sia stato evocato dalla deputata ucraina Lesia Vasylenko, dal deputato estone Marko Mihkeleson e da opinionisti americani del calibro di Larry Elder e Peter Singer (ma sono solo alcuni).

Lo spettro di Monaco evoca un tragico fallimento, dal momento che l’ingenua speranza di conservare la pace aprì, invece, il vaso di Pandora. Da allora, scrive McMaken, “la lezione di Monaco, per i sostenitori dell’intervento militare a oltranza, è che è sempre meglio intensificare i conflitti internazionali e approcciare gli antagonisti sul campo di battaglia piuttosto che cercare compromessi”.

La trappola di Monaco

Come si legge nell’articolo, la tanto invocata lezione di Monaco si fonda su due pilastri fondamentali. In primo luogo vi è il presupposto che ogni atto di aggressione militare condurrà automaticamente, se non contrastato subito e con forza, ad altre aggressioni.

Per McMaken, si tratta di una declinazione della ormai screditata teoria del domino, in voga durante la guerra fredda, secondo la quale se una nazione si sottomette a un vicino aggressivo (all’epoca, l’Urss), anche le altre nazioni vicine saranno presto costrette a sottomettersi. Questo punto di vista parte dall’assunto che ogni Stato considerato “aggressivo” abbia le stesse motivazioni della Germania nazista e abbia dunque come obiettivo una catena di conquiste militari.

Il secondo pilastro della lezione di Monaco, continua McMaken, è conseguenza del primo: “Poiché è probabile che ogni azione militare aggressiva prelude ad altre, l’unica opzione realistica è quella di rispondere all’aggressione con un’escalation, evitando compromessi”.

In questo secondo punto, scrive McMaken, troviamo il motivo per cui i sostenitori dell’avventurismo militare equiparano puntualmente ogni leader straniero inviso alle élite occidentali a Hitler.

Così la retorica di Monaco è stata usata negli anni ’80 dai falchi della guerra fredda per criticare gli sforzi fatti allora per limitare l’utilizzo di armi nucleari e, più di recente, è stata usata contro l’iniziativa diplomatica di Obama verso l’Iran (accordo sul nucleare).

Inoltre, come si legge su The Conversation in un articolo sulla crisi ucraina del 2014, “questo tipo di parallelismo non è nuovo, è usato ogni volta che c’è un nemico sul quale far concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica. Negli ultimi anni, secondo la retorica occidentale, Adolf Hitler si è reincarnato diverse volte – nei panni di Saddam Hussein, Mohammed Gheddafi, Mahmoud Ahmadinejad e altri ancora”.

Come evidenzia McMaken, il fatto che gli eventi di Monaco siano ben noti ai più ha contribuito a portare acqua a questa narrativa, per cui ogni tentativo di compromesso o di eludere un intervento sono identificate come una declinazione della politica dell’appeasement.

E poco importa il fatto che sia stato dimostrato  varie volte che le dinamiche in gioco nel 1938 non si possono equiparare a quelle del mondo moderno. Come si legge nell’articolo, “Questa spaventosa immagine del domino che cade, per fortuna, non è in realtà qualcosa di usuale nella storia. Lo era negli anni ’30, ma non lo era, per esempio, durante la Guerra Fredda”.

“Gli aggressori non sempre interpretano una vittoria come un segnale per far cadere anche tutte le altre ‘tessere del domino’.  La deterrenza è determinata da fattori locali e storici […]. Così quando gli USA hanno perso il Vietnam, la Corea del Nord o la Germania dell’Est, hanno evitato di attaccare la Corea del Sud o la Germania dell’Ovest, né gli USA hanno attaccato Cuba o il Nicaragua dopo la sconfitta sovietica in Afghanistan”.

La lezione del 1914

Il punto, continua l’articolo, è che “ci sono altre lezioni da imparare” dalla storia, come quelle relative agli avvenimenti del luglio 1914. Il 23 luglio di quell’anno il governo austro- ungarico diede un ultimatum alla Serbia, innescando una serie di risposte da parte dei Paesi europei. “Ne seguirono quattro anni di inutile spargimento di sangue, che avrebbero potuto essere evitati. […] quella che sarebbe dovuta essere una guerra regionale nei Balcani si trasformò in un conflitto europeo” e poi mondiale.

“La guerra fu il risultato di azioni di governi che facevano, dal loro punto di vista, ciò che la lezione di Monaco suggerisce di fare: precipitarsi in guerra e affrontare i nemici con la forza militare in nome della lotta contro l’aggressione. La lezione del 1914 è certamente istruttiva oggi, in particolare laddove esiste la possibilità di trasformare guerre limitate [leggi Ucraina ndr] in disastri su vasta scala”.

“Fortunatamente, nonostante le pretese di essere i garanti globali della libertà, gli Stati Uniti hanno seguito la lezione del 1914 in almeno in due occasioni”: nel 1956, e nel 1968, quando l’Unione sovietica invase rispettivamente l’Ungheria e la Cecoslovacchia, la Nato evitò di intervenire. “In queste due situazioni –  scrive Mcmaken  – seguire gli insegnamenti della lezione di Monaco avrebbe aumentato notevolmente la probabilità di una guerra nucleare”.

“È interessante notare”, chiosa l’articolo, “come all’epoca la maggior parte dei critici del non intervento americano facevano parte della destra anti sovietica, mentre oggi è tra le file di una certa sinistra che si sente ululare l’evocazione di Monaco e che si spinge per una guerra USA-Russia, minimizzando il rischio di un confronto nucleare. Ma quanti oggi spingono per la terza guerra mondiale sono un esempio di ciò che accade quando si è ossessionati dalla lezione del 1938 ignorando quella del 1914”.

Peggio di Monaco. La pace che serve a Putin per vincere la guerra che sta perdendo. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Concedere a tavolino ciò che il Cremlino non riesce a conquistare sul piano bellico sarebbe molto peggio della Conferenza che nel 1938 diede il via libera a Hitler. Non significherebbe riconoscere la soverchiante forza del nemico, ma correre in soccorso della debolezza dell’aggressore (che per molti opinionisti è anche l’amico). 

Fin da prima della aggressione dell’Ucraina il partito trasversale del «bisogna distinguere» e del «non bisogna confondere», oltre a negare l’evidenza dei fatti di un’invasione programmata da mesi, ha negato la fondatezza e la legittimità di qualunque possibile parallelo tra quanto Adolf Hitler aveva ottenuto a Monaco nel 1938 e quanto Vladimir Putin voleva ottenere dai capi di stato e di governo che obbligava agli umilianti pellegrinaggi al tavolone del Cremlino: la legittimazione delle sue pretese sull’Ucraina. 

Invece quel paragone, in apparenza così ingenuo e così abusato, con il passare dei giorni si mostra sempre più esatto e pertinente. Non solo perché i massacri di civili e la cecenizzazione della guerra hanno ragguagliato l’orrore nazista (e stalinista, per rimanere nei paraggi ideologici del putinismo), ma soprattutto perché la natura di quella trappola che Putin immagina per l’Europa ha tutte le caratteristiche di quella in cui Francia e Germania finirono nel 1938: un accordo per una pace provvisoria, negli interstizi della guerra permanente.

Quando Neville Chamberlain ed Édouard Daladier rientrarono in patria dopo il patto di Monaco furono accolti come trionfatori e salvatori della pace. Ma le cose, come è noto, andarono in un’altra direzione, dando ragione a Churchill: il disonore della resa non avrebbe scongiurato, ma legittimato l’aggressione contro le democrazie francese e inglese. 

Alcune letture storiografiche sulle ragioni dell’appeasement giustificano la scelta pacifista, sostenendo che Francia e Inghilterra non avrebbero in ogni caso avuto scampo contro la soverchiante potenza militare tedesca e quindi il via libera al nazismo verso est avrebbe almeno ritardato l’espansionismo tedesco verso ovest. Senza entrare nelle diatribe interpretative su quella decisione fatale, è importante rilevare come, ammettendo la fondatezza di una lettura più indulgente verso Chamberlain e Daladier, esca ancora rafforzato il confronto tra l’appeasement fatto ai tempi con Hitler e quello auspicato oggi con Putin e quindi esca ancora aggravato il giudizio sulla responsabilità di chi chiama pace il trofeo da consegnare all’aggressore del Cremlino. E si tratta, in questo caso, di un giudizio che si aggrava non solo, per così dire, per le somiglianze, ma anche per differenze tra le due capitolazioni.

Partiamo dalle somiglianze. Come nel 1938, anche oggi l’alibi dell’aggressione è rappresentato dall’esigenza di proteggere minoranze nazionali discriminate o perseguitate in paesi terzi: i tedeschi dei Sudeti in Cecoslovacchia, i russi del Donbass in Ucraina. Come nel 1938 ai tedeschi, la scelta di un paradigma etno-nazionalista consente ai russi oggi di aprire nuovi fronti in ogni dove dell’ex impero sovietico. C’erano tedeschi ovunque nell’Europa dell’est per giustificare le pretese del Reich e ci sono russi e russofoni pressoché ovunque nei paesi emancipati dal dominio di Mosca dopo il crollo dell’Urss. 

L’altra evidente somiglianza tra la Monaco di allora e quella implorata ora è la difficoltà di salvaguardare equilibri politici e territoriali stabili per democrazie costrette a misurarsi con un antagonista non democratico e ideologicamente espansionistico, prima che militarmente imperialistico. Quello nazifascista non era solo un pericolo per le democrazie, ma un modello competitivo con quello democratico anche all’interno dei paesi democratici.

Il putinismo è da tempo anche un prodotto d’esportazione e dalla centrale del Cremlino è partita in questi anni una strategia di persuasione, condizionamento, corruzione, arruolamento e ricatto verso il cuore dell’Occidente democratico, che ha sedotto e soggiogato popolo e élite sempre più convinte che, come disse Putin nelle sua famosa intervista al Financial Times nel 2019, il liberalismo sia obsoleto e abbia fatto il suo tempo, perché milioni di persone, anche nei paesi democratici, si stanno rivoltando contro le sue più evidenti conseguenze: la globalizzazione economica, il multiculturalismo, l’immigrazione.

Il nazionalismo blut und boden (sangue e suolo), l’autoritarismo carismatico e il totalitarismo ideologico come alternative all’incertezza economica e agli squilibri politici delle democrazie in crisi. Sotto questo profilo, la sfida hitleriana e quella putiniana sono davvero sinistramente simili. La differenza tra l’una e l’altra sfida, oggi, non sta nella diversa caratura criminale dei due personaggi e nella diversa proiezione dei rispettivi disegni egemonici: sta proprio nella natura assai più effimera della potenza russa e quindi nella natura assai meno giustificabile dell’appeasement con il Cremlino.  

Se si può ragionevolmente ipotizzare che Hitler nel ’38 avrebbe fatto davvero un solo boccone delle democrazie che lo autorizzarono a sbocconcellare la Cecoslovacchia, non c’è alcun dubbio invece che, quanto a rapporti di forza, la Russia putiniana non sarebbe in grado di reggere alcun confronto né militare, né politico, né economico con il campo euro-atlantico. L’intimidazione nucleare e l’utilizzo criminale di mercenari sanguinari, chiamati a rimediare all’impreparazione di un esercito raccogliticcio e inefficiente servono a paralizzare il nemico europeo nel terrore, ma non dimostrano affatto una superiorità schiacciante. Al contrario dimostrano la natura disperata e nichilistica dell’opzione russa. 

La Russia putiniana può diventare una al Qaeda planetaria, non un Reich post-sovietico. Si continua a discutere dell’embargo energetico guardando a quanto costerebbe agli stati europei, ma sembra paradossalmente impossibile prendere atto, con fiducia e sollievo, che da solo forse basterebbe a spegnere i motori della guerra. Putin non può vincere neppure la guerra contro l’Ucraina, figurarsi quella contro l’Occidente. Per questo cerca una vittoria al tavolo della pace pacifista, della pace senza giustizia.

Qualunque strategia volta a scongiurare l’allargamento del conflitto sacrificando l’Ucraina o pezzi di Ucraina alle pretese di Mosca non risponde quindi a uno stato di necessità, ma a una valutazione politica totalmente sbagliata su quale sarebbe il prezzo politico della cosiddetta pace, non solo per l’Ucraina, ma per l’Europa. Preoccupati dalla prosecuzione della guerra, dai suoi costi economici, dalla ferita ucraina aperta e sanguinante nel cuore del continente, troppi politici italiani ed europei non sembrano temere che Putin vinca la guerra, ma al contrario che non sia in grado di vincerla e la possa cronicizzare e allargare in forma non convenzionale, continuando a minacciare con i suoi miasmi la pace e la sicurezza europea. 

L’idea che, dopo tutto quello che è successo, la Russia di Putin possa essere riabilitata dal rango di stato canaglia da isolare e da rovesciare e ridiventare un rispettabile interlocutore post-bellico significa che troppi leader democratici europei non hanno idea di quale siano i pericoli per la democrazia e che Putin controlla ancora troppe casematte nel sistema di potere dei paesi europei, a partire proprio dall’Italia.

I “falchi” di Zelensky che minacciano i negoziati. Federico Giuliani su Inside Over il 31 marzo 2022.  

La sensazione emersa dagli ultimi negoziati di Istanbul è che tra Ucraina e Russia non potrà esserci una resa indolore ma soprattutto soddisfacente per entrambi. Lo si è visto anche a Istanbul, nel dialogo benedetto da Recep Tayyip Erdogan in persona: se su alcuni punti le delegazioni russe e ucraine riescono a trovare un’intesa di massima – resta da capire quanto traballante – su altre questioni non sembra esserci spazio di manovra. E non solo per colpa di Mosca, come tutti potrebbero immaginare, ma anche per via di Kiev. Già, perché i cosiddetti “falchi“, a quanto pare, non affollano soltanto i corridoi del Cremlino.

Mariupol è oramai in mano russa: ecco come cambia la guerra

Se la posizione ufficiale di Volodymyr Zelensky è quella di voler trattare e negoziare per raggiungere al più presto la fine della guerra, o almeno una tregua, alle spalle del presidente ucraino c’è chi non è altrettanto accomodante. Benissimo partecipare ai colloqui e ben venga la pace, ma guai a cedere a qualsiasi tipo di compromesso, ben che meno se questi compromessi riguardano tematiche territoriali: potrebbe essere sintetizzato così il pensiero di quel gruppo di personaggi ucraini per niente affatto intenzionato ad inginocchiarsi davanti alle richieste di Vladimir Putin.

Il bivio di Zelensky

Ci sono, poi, da considerare altri due punti, e il primo riguarda il presidente ucraino. Zelensky sta lavorando su due fronti: da una parte continua a chiedere al blocco occidentale aiuto, armi e supporto con il quale sconfiggere l’esercito russo; dall’altra spinge per la diplomazia, consapevole tuttavia di non poter dare l’impressione di cedere perdendo faccia e ideali.

Secondo punto: data la mobilitazione generale che ha spinto l’intera popolazione ucraina a scendere in campo per difendere la loro terra, queste persone accetterebbero mai di raggiungere una sorta di pace mutilata?

Senza contare le posizioni degli ultranazionalisti presenti in alcuni battaglioni in prima fila per contenere l’avanzata di Mosca. Siamo ancora al livello di ipotesi, ma che cosa succederebbe nel caso in cui l’Ucraina accettasse lo status neutrale e di non aderire alla Nato in cambio di adeguate garanzie di sicurezza e della cessione di Crimea e Donbass alla Russia? Mosca potrebbe spingere anche per rendere i due territori indipendenti ma, in entrambi i casi, Kiev perderebbe di fatto una parte dei propri possedimenti.

Margini ridotti

Forse definirli “falchi” è eccessivo, perché il loro obiettivo non coincide con il proseguimento della guerra. Ma, senz’altro, questa categoria di politici ucraini dà la sensazione di pensarla diversamente rispetto a quanto sta dichiarando Zelensky davanti alle tv di tutto il mondo.

Ci sono poi quelli che hanno comunque posizioni complesse. È il caso di Inna Sovsun, deputata del Parlamento ucraino per il partito d’opposizione Holos (Voce). Nel corso di un’intervista rilasciata all’Adnkronos, Sovsun ha spiegato di non essere ottimista sui colloqui perché “nessuna persona al mondo in questo momento si fida della parola di Putin”. Per quanto riguarda i negoziati, “quello che ci viene offerto è un compromesso, non una pace giusta. Noi vogliamo che ci venga resa giustizia per i crimini russi e purtroppo quello che ci viene offerto è il congelamento del conflitto che può portare a un’altra guerra tra un anno, due o sette”, ha aggiunto la deputata.

Sovsun ha inoltre affermato che “il principio fondamentale per concludere un accordo è che devi fidarti della persona con cui lo stai facendo. E non credo che ci sia una sola persona al mondo che possa dire di potersi fidare della parola di Putin”. Infine, sulla Crimea e sul Donbass, l’ipotesi che Kiev lasci questi territori alla Russia sembrerebbe essere fuori discussione. “Chi è disposto a lasciare un pezzo del proprio Paese?”, ha tuonato la deputata, aggiungendo che sarebbe sbagliato effettuare simili concessioni perché questo infrangerebbe “il principio della sovranità di uno Stato su cui si basa l’intera infrastruttura delle relazioni internazionali”.

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Draghi e Putin, telefonata di 45 minuti: «Presidente, la chiamo per parlare di pace». Marco Galluzzo su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.

Il premier ha chiesto segnali tangibili di rallentamento Il leader russo ha parlato degli sviluppi dei negoziati ribadendo la richiesta di pagare il gas in rubli.

Anche i piccoli dettagli contano. I due leader stanno al telefono per 45 minuti, senza video, niente immagini. Modalità classica. Alla fine del colloquio esce quasi subito una nota del Cremlino, stringata, due righe, due argomenti. Quella di Palazzo Chigi verrà diramata un’ora dopo, è più articolata, soppesata. Anche i dettagli contano, quei pochi che si raccolgono riflettono lo sforzo diplomatico italiano, la postura più rigida del presidente russo. Eppure, durante la conversazione fra Mario Draghi e Vladimir Putin a un certo punto cade la linea. È il capo del Cremlino a richiamare, in questo lo sforzo lo fa lui.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

«Presidente Putin, la chiamo per parlare di pace», è stato l’esordio del presidente del Consiglio, dopo giorni di attesa in cui gli staff diplomatici hanno definito i termini e l’agenda del contatto. I due non si sentivano al telefono da prima dello scoppio della guerra, quando era imminente una visita di Draghi a Mosca, poi saltata dopo i primi bombardamenti dell’esercito russo sul territorio ucraino e l’inizio dell’invasione. Nella nota italiana, si evidenziano almeno due punti, sui quali ha insistito il capo del governo: la necessità di un cessate il fuoco e i contorni di un accordo sostenuto da garanzie internazionali di sicurezza per entrambe la parti, un accordo di cui l’Italia potrebbe far parte insieme ad altri attori internazionali, dai membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu ad altri Stati di peso geopolitico inferiore, dalla Turchia al Canada.

Draghi ha anche chiesto a Putin dei segnali tangibili di un rallentamento delle operazioni militari, delle loro intensità ed ampiezza. Nella nota di Palazzo Chigi il messaggio viene delineato in questo modo: «Il presidente del Consiglio ha ribadito la disponibilità del governo italiano a contribuire al processo di pace, in presenza di chiari segni di de-escalation da parte della Russia. Al centro del colloquio — viene aggiunto nella dichiarazione — l’andamento del negoziato tra la Russia e l’Ucraina e i suoi ultimi sviluppi. Il presidente Draghi ha sottolineato l’importanza di stabilire quanto prima un cessate il fuoco, per proteggere la popolazione civile e sostenere lo sforzo negoziale». Inoltre, «Putin ha descritto il sistema dei pagamenti del gas russo in rubli». Draghi e Putin «hanno concordato sull’opportunità di mantenersi in contatto». Un altro colloquio potrebbe tenersi già la prossima settimana.

Da parte del Cremlino i quarantacinque minuti di conversazione vengono invece ridotti a due soli concetti: «Putin ha riferito sugli sviluppi dei negoziati di ieri a Istanbul tra le delegazioni di Mosca e Kiev e sulla richiesta di Mosca di pagare in rubli le forniture di gas». Ma al di là della misura molto ridotta del comunicato russo, trapelano anche segnali che potrebbero essere incoraggianti: sembra che Putin nel corso del colloquio, sollecitato da Draghi, abbia espresso una certa soddisfazione per i negoziati di Istanbul, ma anche per l’ipotesi di una serie di garanzie internazionali vincolanti sullo status di neutralità dell’Ucraina e per la possibilità che Kiev non chieda più di entrare nell’Unione europea.

Alla situazione in Donbass, insieme allo status della Crimea, è stato dedicato poco tempo, mentre così come Macron e altri leader internazionali anche il nostro capo del governo ha chiesto che vengano messi in sicurezza i corridoi umanitari e chiesto a Putin di fare di tutto perché ciò avvenga. Martedì prossimo il premier Mario Draghi sarà ascoltato per la prima volta dal Copasir, il Comitato di controllo parlamentare sui servizi di sicurezza. Sarà anche un’occasione per i membri del Comitato di chiedere al premier notizie di prima mano sulla guerra, le sanzioni contro la Russia, i rapporti con gli alleati e la Nato.

Da ilsole24ore.com il 30 marzo 2022.

Dalle speranze alla frenata. Il Cremlino ridimensiona le attese su un accordo di tregua fra Ucraina e Russia, dopo che i colloqui di Istanbul di martedì avevano aperto spiragli di pace nella guerra. Il portavoce Dmitry Peskov ha dichiarato che la Russia non ha notato «nulla di promettente» o che «assomigliasse a una svolta» nei colloqui mediati da Ankara, sottolineando che servirà un lungo periodo di lavoro per strappare qualsiasi intesa.

Invece è positivo, a sorpresa, il giudizio sul confronto diplomatico del ministro degli Esteri di Mosca, Serghei Lavrov che, citato dalla Tass, definisce i colloqui russo-ucraini «un significativo progresso», aggiungendo che «Kiev capisce che Crimea e Donbass sono questioni chiuse». Su quest’ultimo punto, però, le autorità ucraine sono tutt’altro che d’accordo, a conferma che il giudizio sull’andamento non è affatto condivisa. 

 “Le questioni della Crimea occupata e del Donbass saranno definitamente chiuse dopo il ripristino della sovranità ucraina in questi territori”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko, secondo quanto riporta Unian, rispondendo a Lavrov. 

“Lavrov dimostra che c’è un malinteso nel processo negoziale - ha detto Nikolenko -. Crimea e Donbass saranno definitivamente chiuse dopo il ripristino della sovranità dell’Ucraina su di loro. Ai colloqui di Istanbul, la delegazione ucraina ha presentato proposte a Mosca su modi per raggiungere questo obiettivo”. 

Nel pomeriggio si è svolta una telefonata di un’ora fra il premier italiano Mario Draghi e il presidente russo V ladimir Putin. Nel corso del colloquio, spiega la Tass, Putin ha riferito al premier italiano sugli sviluppi dei negoziati di ieri a Istanbul tra le delegazioni di Mosca e Kiev e sulla richiesta di Mosca di saldare in rubli il pagamento per le forniture di gas.

«Presidente Putin, la chiamo per parlare di pace». Queste invece, secondo l’account di Palazzo Chigi, le parole con cui ha esordito il premier Draghi parlando con Putin. Al centro del colloquio, secondo la stessa fonte, l’andamento del negoziato tra la Russia e l’Ucraina e i suoi ultimi sviluppi. Il presidente Draghi ha sottolineato l’importanza di stabilire quanto prima un cessate il fuoco, per proteggere la popolazione civile e sostenere lo sforzo negoziale. Draghi ha anche detto a Putin che l’Italia è pronta ad assumere un ruolo nella pace, «ma a fronte di una reale de-escalation».

Cremlino: “Pagamenti gas in rubli non scatteranno domani”

Nell’immediato, pare scongiurato il rischio timori di uno stop a fine mese delle erogazioni di gas russe. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha infatti chiarito che la disposizione del presidente di richiedere il pagamento in rubli del gas russo non avrà da domani, giovedì 31 marzo, data inizialmente fissata per l'entrata in vigore del cambio di valuta. 

La frenata arriva dopo che i Paesi del G7 hanno ribadito la loro intenzione di continuare a pagare in dollari o euro, come previsto dai contratti in essere. Putin incontrerà rappresentanti di Gazprom e della Banca centrale che lo informeranno degli sviluppi relativi al cambiamento di valuta. «I pagamenti e le forniture sono processi con tempi lunghi. Questo significa che tutto quello che sarà fornito domani non dovrà essere pagato in rubli entro la sera», ha aggiunto Peskov, annunciando il rilascio a breve dei dettagli del nuovo schema di pagamento proposto dal governo russo.

Germania e Austria attivano allerta preventiva sul gas

Nonostante gli ultimi sviluppi che sembrano allontanare il rischio di uno stop alle esportazioni di gas russo, il governo tedesco ha attivato l'allerta preventiva del piano di emergenza sul gas in Germania. Ad annunciarlo è stato il ministro dell’Economia e del Clima, Robert Habeck, a Berlino, in una conferenza stampa al ministero, spiegando che a causa della guerra in Ucraina la Germania si prepara a un peggioramento dell’approvvigionamento del gas. La scelta è stata imitata, poche ore dopo, dall’Austria. 

Biden a Zelensky: aiuti per altri 500 milioni

I mercati, dopo l’entusiasmo di ieri, sono finiti in rosso, scontando la delusione per quella che sembrava una giornata di svolta nelle trattative.

Gli sforzi diplomatici proseguono, con nuovi colloqui incrociati fra i paesi occidentali, Ucraina e Russia. Tra questi, come detto, la telefonata tra il premier Mario Draghi e il presidente russo Vladimir Putin. Il presidente Usa Joe Biden ha parlato con il suo omologo ucraino Zelensky «per discutere del nostro sostegno continuo all’Ucraina, di fronte all’aggressione russa». Sul tavolo ulteriori aiuti in generale e anche militari degli Usa a Kiev per 500 milioni di dollari. 

L’ipotesi di accordo e il flop sul cessate il fuoco

Ai colloqui con i rappresentanti del Cremlino la delegazione ucraina si è detta disposta alla neutralità, rinunciando all’ingresso in alleanze militari (Nato inclusa) in cambio di appropriate garanzie di sicurezza, mentre la Russia accetterebbe un’adesione all’Unione europea, seppure non immediata. Il capo negoziatore di Mosca, Vladimir Medinsky, riconosce che Kiev ha mostrato per la prima volta di «essere pronta a soddisfare le condizioni per costruire relazioni di buon vicinato con la Russia» e «discuterne le richieste di principio», ma i termini di un’intesa restano distanti.

I colloqui del 29 marzo hanno mancato il proprio bersaglio principale, la richiesta di cessate il fuoco avanzata da Kiev. Né si sono registrate particolari aperture sui territori rivendicati da Mosca, Donbass e Crimea, anche se mercoledì pomeriggio il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov ha che l’Ucraina «ha capito che Crimea e Donbass sono questioni chiuse». 

L’escalation militare continua

Di sicuro, i margini di trattativa non hanno interrotto l’escalation militare in atto nell’Est Europa. Lo stesso ministero della Difesa di Kiev ritiene «ingannevole» l’annuncio del ritiro dei russi, intravedendo semmai una «rotazione» delle truppe già dirette sulla capitale. Una tesi sposata anche dal Pentagono, tra l’altro a fronte dell’arrivo di forze fresche per l’esercito russo: 2mila unità dalla Georgia. I bombardamenti proseguono nel nord-ovest di Kiev con esplosioni a circa 20 chilometri dalla capitale, mentre i russi bloccano cento navi nel Mar Nero e fermano l’export di grano.

Un portavoce del ministero della Difesa ucraino ha confermato che non c’è nessun ritiro dei russi su vasta scala nelle aree di Kiev e Chernihiv ma solo movimenti limitati. «Il nemico ha ritirato le unità che hanno subito le perdite maggiori per rifornirle», ha reso noto Oleksandr Motuzyanyk, aggiungendo che «l’assedio di Chernihiv continua, come missili e colpi di artiglieria lanciati dalle forze russe». 

Asse Cina-Russia sulla politica estera

Il conflitto sta ridefinendo gli equilibri globali. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il suo omologo cinese Wang Yi hanno concordato di «rafforzare il coordinamento politico estero» bilaterale e di «ampliare i contatti bilaterali e multilaterali»: lo ha reso noto il ministero degli Esteri russo in un comunicato dopo l’incontro odierno tra i due ministri a Tunxi, in Cina. Lo riporta Interfax. «Sullo sfondo di una complicata situazione internazionale, Russia e Cina continuano a rafforzare i partner strategici e a parlare con una sola voce negli affari globali», si legge inoltre nella nota.

Russia rimborsa cedola su eurobond al 2035

Alcuni gestori di fondi con base a Londra e Cipro hanno riferito di aver ricevuto ieri sui propri conti correnti il pagamento della cedola, scaduta lunedì, su un eurobond al 2035 emesso dalla Russia. Lo riporta l’agenzia Bloomberg. Il pagamento dimostra la volontà e la capacità di Mosca di servire il suo debito in valuta estera nonostante le sanzioni internazionali. Il pagamento, al pari di quello sulle cedole di altri bond, è stato però reso possibile da una deroga da parte delle autorità Usa alle restrizioni che hanno tagliato fuori Mosca dal sistema finanziario. Una eccezione che ha una scadenza, fissata per maggio.

Volodymyr Zelensky, Germano Dottori lo smaschera: "Articolo 5", così il premier condanna l'Europa alla guerra? Libero Quotidiano il 30 marzo 2022.

Una frase che spiega tutto. "L'articolo 42, par. 7 del Trattato Ue è più stringente dell'articolo 5 del Patto Atlantico". Poche parole quelle che Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes, affida ad un post pubblicato sul suo profilo Twitter. Poche parole appunto per dire che forse è anche per questo motivo che ormai il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky ha lasciato perdere l'idea di entrare nella Nato prediligendo l'ingresso del suo Paese in Europa. 

Recita infatti il trattato sull'Unione europea: "Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri".

E ancora: "Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell'ambito dell'organizzazione del Trattato del Nord Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri il fondamento della loro difesa collettiva e l'istanza di attuazione della stessa". 

L'articolo 5 del Patto dice che "le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza".

Domenico Quirico per “La Stampa” il 30 marzo 2022.

Ma che guastafeste questo Biden: chiama alle armi, alla soluzione radicale, o Putin o noi, perfino il buon dio che pure è infinitamente paziente non lo sopporta più al Cremlino, con un nemico mortale non ci sono accomodamenti, ucciderlo o farsi uccidere, nessuna via di mezzo. 

Finalmente venne il Presidente! Le sue parole di guerra e di odio sono di oro zecchino, le nostre, con i distinguo e i controdistinguo, sanno di reticente, di falso. Noi dell'Unione europea facciamo la guerra ma accuratamente difensiva, pudibonda, fino a un certo punto e non oltre, per carità. 

Ci viene comodissimo uno strampalato neologismo mussoliniano: tifiamo per uno dei duellanti ma restiamo «non belligeranti». Molte sono le scappatoie, confidiamo, molte le porte per non andare da nessuna parte. 

Adesso non abbiamo più bisogno di Cassandre. Sappiamo ufficialmente. L'Unione europea e gli Stati Uniti combattono in Ucraina due guerre diverse pur dandosi grande manate sulle spalle e giurandosi fedeltà eterna. Perché in guerra siamo già con la Russia e l'idea di poter fermare un simile macello in qualsiasi momento come si spinge il freno dell'automobile è una bella pretesa di ingenui.

Allora: l'Europa, con buona volontà e impegno, per quanto le consentono i suoi limiti, si propone di preservare per quanto possibile la indipendenza ucraina, salvare e aiutare i profughi e, elemento cruciale, uscirne limitando i propri danni già vasti. Che sono quelli che derivano dalle forniture di gas e altri utilissimi materiali che, purtroppo, arrivano in gran quantità da quelle latitudini selvatiche.

Gli americani invece... che cosa pescano nel vaso di pandora? Gli americani, come ha spiegato sillabando bene vocali e consonanti e mettendole poi per iscritto Biden, hanno un progetto molto più ambizioso di cui l'Ucraina, è amaro dirlo, non è che lo scenario geografico e a cui fornisce il materiale umano.

Il progetto è quello di spazzar via Putin dallo scenario politico mondiale. I mezzi da impiegare si svelano a poco a poco, con l'evoluzione della situazione sul campo, come dicono giudiziosamente i generali. All'inizio era soltanto l'idea di logorare i russi con una gigantesca guerriglia. 

Da anni, con saggia precauzione, la pianificavano imbottendo di armamenti efficienti gli sgangherati arsenali ucraini. Ecco servito un secondo Afghanistan modello anni Ottanta nel cuore dell'Europa con gli eroici, loro malgrado, ucraini al posto degli eroici mujiaheddin.

Sullo sfondo, non pronunciata esplicitamente ma accarezzata con cura, la possibilità che alla fine di questo ben architettato dissanguamento il capitolo finale lo scriva un efficace intrigo di palazzo: a eliminare il coriaceo dittatore logorato dalla mancata vittoria avrebbe provveduto una mano russa. In fondo il delitto perfetto. Non è escluso che le fertili menti della Cia stiano lavorando per ingaggiare pugnali in Russia disposti a correre il rischio di indossare i panni di Bruto e di Cassio. A rileggere la storia dei Servizi americani si può ben dire che questo «escamotage» è una specialità della casa. È difficile liberarsi della vecchia pelle.

Elemento fondamentale della strategia è sabotare qualsiasi possibilità di negoziato. Con dichiarazioni incendiarie, annunci di escalation chimiche batteriologiche atomiche del nemico russo, minacce, insulti. Una conclusione della guerra che veda Putin ancora al potere, per di più con la realizzazione di qualcuno dei suoi scopi come la neutralizzazione «in saecula saeculorum» della Ucraina o la definitiva russificazione di Crimea e zone collegate e allargate, sarebbe un disastro per gli americani.

Quando Zelensky lascia lampeggiare la possibilità di accettare alcune pretese russe pur di salvare quanto resta del suo Paese martoriato, si intravede l'irritazione. Serve perché è l'immagine della resistenza eroica e fino all'ultimo uomo, un abile rivenditore di sofismi oltranzisti. Se accarezzasse l'idea di metter da parte il vocabolario dell'inflessibile, be', a Kiev gli americani non faranno fatica a trovare i trinceristi del programma unico: ributtiamo i russi a casa loro.

A rilegger la storia dell'impero americano non sarebbe la prima volta: si fa in fretta a licenziare e sostituire i dipendenti locali che non si tengono sulla retta via della compiacenza e del rispetto delle regole. A Washington sanno benissimo che per loro, come per Putin, l'Ucraina cinicamente non vale in sé niente, è popolata di uomini senza importanza. 

Facendola a pezzi l'autocrate russo si rivolge proprio a Biden, una esibizione di forza brutale per ottenere una trattativa diretta, esplicita tra i Grandi che coinvolga anche l'alleato cinese. Dovrebbe il vertice riscrivere l'Ottantanove nefasto, definire le aree di influenza, i vassalli e le zone grigie con la Russia restaurata così nel suo ruolo sovietico-imperiale.

Sarebbe la fine dell'ordine americano del mondo che è conseguenza proprio della dissoluzione dell'Urss (la fine della Storia) e dello sfruttamento americano della lotta infinita al terrorismo. Ma trattare con Putin vorrebbe dire ammettere che gli Stati Uniti sono una potenza debole, ormai una potenza come le altre. Nelle ultime mosse di Biden fa capolino un pericoloso aggiornamento di questa strategia dei tempi lunghi. 

Gli americani hanno fretta ora di liquidare il Satana di turno. Sembrano disposti a alzare il livello dello scontro, si affaccendano a dimostrare che le trattative e i rinvii son tutte ciance che Putin sfrutta a vantaggio del suo orgoglio insolente. Insomma gli americani sembrano aver accettato l'idea che valga la pena menar le mani, di persona, direttamente. Si sente odore di battaglia e di permesso di sparare.

Come annunciatori di irrimediabile tempesta li precedono gli europei oltranzisti, la Gran Bretagna, regno disunito che nel ruolo di servizievole anglosassone trova ancora un simulacro di potenza, e i polacchi che cercano di saldare gli innumerevoli conti aperti con tutte le Russie, zarista, staliniana, putiniana. E l'altra Europa? La sua rotta fatalmente divergerà sempre più da quella americana. Poi al momento decisivo, dovrà o allineasi o ognuno cercherà di assicurarsi l'evasione con mezzi propri.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2022.

Non si è mai sottratto alle controversie Niall Ferguson, lo storico britannico che è uno dei più brillanti intellettuali sulla scena internazionale. E anche sulla guerra in Ucraina le sue posizioni provocano alla discussione. 

I russi si concentrano sul Donbass, le trattative in Turchia proseguono: stiamo assistendo all'inizio della fine di questa guerra?

«Ci sono due ragioni per pensare che la fine è in vista e una ragione per pensare di no. Le ragioni per il primo scenario sono che i russi chiaramente hanno un problema: la misera performance delle loro forze e le pesanti perdite subite, cui si aggiungono problemi logistici difficili da risolvere. Dunque l'annuncio che si focalizzano sul Donbass non è stata una sorpresa.

La seconda ragione è che Zelensky continua a segnalare la volontà di trovare un accordo basato sulla neutralità dell'Ucraina: questa è solo una delle questioni, quelle territoriali sono più difficili da risolvere, perché ogni giorno che passa il successo della resistenza ucraina fa scendere la volontà di fare concessioni ai russi. Ma Zelensky ha detto più volte di escludere l'ingresso nella Nato e di essere aperto alla neutralità, con garanzie di sicurezza».

E invece dove sta il problema? 

«Il problema sono gli Stati Uniti: perché l'Amministrazione Biden si è imbarcata in una strategia che punta a prolungare a la guerra, nella convinzione che questo porterà a un cambio di regime in Russia. La cosiddetta gaffe di Biden non era affatto una gaffe: membri dell'Amministrazione hanno più volte indicato quella che chiamo la strategia cinica ma ottimista di prolungare la guerra e aspettare che le sanzioni facciano cadere Putin. Trovo però questa strategia straordinariamente rischiosa e pensata male.

Se gli Usa adoperassero la loro influenza sia su Ucraina che Russia per spingere a un cessate il fuoco, allora accadrebbe: e tuttavia l'Amministrazione Biden non sembra coinvolta nella diplomazia. È un grave errore: e i rischi di prolungare la guerra sono molto maggiori di quanto Biden non sembri comprendere. Potrebbe essere fortunato e magari Putin viene davvero rovesciato: ma se scommetti il futuro dell'Ucraina su questo esito, le chance mi sembrano terribili». 

Quali sono i rischi più gravi?

«Quello ovvio è che l'Ucraina venga distrutta al punto da non essere è più una nazione sostenibile, magari con dieci milioni di profughi. Inoltre, se minacci Putin con un cambio di regime, le probabilità che ricorra a misure disperate per evitare la sconfitta crescono: e quelle misure disperate includono l'uso di armi nucleari. Lui non è Saddam o Gheddafi: ha un arsenale nucleare più vasto di chiunque al mondo ed è incredibilmente irresponsabile parlare apertamente di cambio di regime in queste circostanze. Putin deve essere portato al tavolo dei negoziati: dobbiamo sfruttare il fatto che è in difficoltà, non incoraggiarlo a prendere misure disperate».

Ma finché Putin è al potere non resta un problema per la stabilità mondiale?

«E cosa otterremmo con un cambio di regime in Russia? Anche assumendo che il risultato fosse di nostro gradimento, a beneficiarne sarebbe la Cina. Tutta la strategia americana è basata su un profondo e strategico errore di calcolo che mi rende molto nervoso per le prossime settimane». 

Una partizione dell'Ucraina è a questo punto inevitabile?

« Al momento l'Ucraina ha ottenuto una vittoria morale, perché non sono stati sconfitti, ma se si aspetta ancora l'equilibrio può spostarsi in favore della Russia: e in questo caso possono diventare più aggressivi nelle loro richieste territoriali. Non vogliamo una Ucraina dell'Est e una dell'Ovest, non vogliamo ripetere l'esperienza della Germania o della Corea: la divisione della Corea non ha creato una situazione stabile.

Dobbiamo pensare all'Ucraina come a una sorta di Israele in Europa dell'Est: non membro della Nato, ma sostenuta dall'Occidente abbastanza da scoraggiare future aggressioni. Se però la guerra continua, c'è il rischio che la Russia conquisti più territori prima che divenga impossibile per Putin proseguire le ostilità: la ragione per un cessate il fuoco immediato è che dobbiamo capitalizzare la vittoria morale dell'Ucraina». 

A che modello di neutralità si può guardare?

«La Finlandia è l'esempio più ovvio: ha funzionato come una società aperta e democratica nonostante fosse neutrale e dovesse essere in buoni rapporti con l'Urss. Il grande errore della politica occidentale è stato far balenare l'opzione dell'ingresso nella Nato senza averne davvero l'intenzione.

Se non eravamo sinceri a proposito, avremmo dovuto toglierla dal tavolo da tempo, già dal 2014, e chiedere qualcosa in cambio dalla Russia. Invece ora siamo nella posizione di dover accettare la neutralità sotto pressione, che è molto peggio, con la possibilità di richieste territoriali che sarà molto difficile da vendere agli ucraini. Dobbiamo adesso salvare quel che possiamo, e l'unica via è un modello finlandese, che Zelensky ha capito: lui vuole garanzie di sicurezza, ma se non le danno gli Usa sarà un accordo debole».

E qui l'America torna in gioco.

«Non dovremmo essere sorpresi: perché gli Usa sono stati la chiave della pace in Europa fin dal 1916. A ogni svolta nella storia europea, non sono stati gli europei che hanno portato la pace, ma gli Stati Uniti: alla fine della prima guerra mondiale, alla fine della seconda, poi con la costruzione della Nato e dopo la Guerra Fredda anche per negoziare la riunificazione tedesca e far finire la guerra in Bosnia, cosa che gli europei non riuscivano a ottenere. Dobbiamo essere realisti: a meno che gli Usa non si impegnino per la pace, non si realizzerà. Ed è per questo che credo che l'amministrazione Biden stia perseguendo una strategia molto pericolosa , che potrebbe prolungare la guerra non per settimane, ma per mesi o per anni».

“L’Ucraina finisca il lavoro”. La strategia Usa-Gb contro Putin. Il Times mette in dubbio la volontà russa di un accordo di pace, in linea con l’obiettivo di Biden e Johnson. Stefano Magni su Nicolaporro.it il 30 Marzo 2022.

Sta già facendo discutere l’editoriale odierno del “Times”, quotidiano britannico, in cui si mette in dubbio la reale volontà russa di negoziare un accordo di pace e si chiede all’Occidente di fornire più armi all’Ucraina, affinché “finisca il lavoro”. Cioè: che sconfigga la Russia.

L’editoriale del “Times”, che è un quotidiano indipendente, ma con un’inclinazione tradizionalmente conservatrice, non stona con l’atteggiamento del governo Johnson, favorevole ad un cambio di passo nella fornitura degli aiuti della Nato all’Ucraina. Non stona neppure con le affermazioni di Joe Biden, il quale, con “voce dal sen fuggita”, ha parlato di regime change in Russia, nel momento in cui ha affermato che Putin non ha più il diritto di governare dopo quel che ha fatto in Ucraina. La Casa Bianca lo ha corretto, ha affermato che non c’è alcun regime change in vista (e non ci sarebbe neppure la forza necessaria per compierlo), ma non ha cambiato atteggiamento sulla guerra. Anche il più lucido Segretario di Stato, Antony Blinken, da Rabat (dove era in visita) ha dichiarato ieri tutto il suo pessimismo sulla sincerità dei russi a volere la pace. “Guarderemo ai fatti”, ha detto, a prescindere da quel che sono le parole dei russi.

L’atteggiamento anglo-sassone è radicalmente differente da quello dell’Europa occidentale. Il presidente francese Emmanuel Macron è stato il primo a reagire duramente alle parole di Biden, ritenendole dannose per il tentativo di giungere ad una soluzione di pace in Ucraina: se vuoi abbattere il presidente russo, poi, ovviamente, non puoi metterti d’accordo con lui per un armistizio, men che meno per un trattato. Macron è il leader europeo ad essersi impegnato di più, a nome dell’Ue, nel negoziato con Mosca, prima e durante il conflitto, ma anche i governi tedesco e italiano sono sulla sua stessa linea.

Queste differenze radicali nell’approccio alla Russia e alla sua invasione dell’Ucraina riflettono, grosso modo, la stessa spaccatura nell’interpretare le intenzioni di Mosca prima della guerra. Quando gli Stati Uniti lanciavano l’allarme dell’invasione imminente, infatti, erano soprattutto i governi europei occidentali che mostravano incredulità. Ora gli europei occidentali sono i primi a credere nella buona fede del leader del Cremlino, o per lo meno vogliono dargli una chance, mentre Londra e Washington hanno chiuso la loro linea di credito nei suoi confronti.

I due punti di vista divergono a seconda degli interessi in gioco, soprattutto. L’Europa orientale, Ungheria a parte, si sente minacciata dal revanscismo militare russo e tende a condividere lo stesso punto di vista della anglosfera. L’Europa occidentale, al contrario, non si sente (nemmeno adesso) minacciata militarmente dal Cremlino, ma teme semmai di perdere tutta la fitta rete di interessi, non solo il gas, che ha costruito in questo trentennio con la Russia post-sovietica. Dunque sperava che il conflitto non scoppiasse neppure ed ora auspica che finisca al più presto. Per riprendere a trattare con Mosca come se nulla fosse accaduto? Probabilmente sì, anche se per ora nessuno lo dice. L’anglosfera (Regno Unito, Usa e alleati anglosassoni del Commonwealth) ha meno interessi economici in gioco e avrebbe tutto da perdere in uno scenario di una Russia, dominante sul continente, che tornasse a minacciarne la sicurezza militare.

Gli approcci sono differenti, ma la realtà è una sola, a prescindere dagli interessi in gioco. Qui qualcuno ha ragione e qualcun altro ha torto. I fatti, finora, hanno dimostrato che gli americani e gli inglesi avevano ragione, gli europei occidentali avevano torto. Contrariamente alle ottimistiche previsioni di Francia, Germania, Italia e alleati minori, la Russia ha realmente invaso l’Ucraina, come Biden ripeteva da settimane. Adesso è possibile che i fatti diano ancora ragione alla tesi di Londra e di Washington: nonostante le promesse, i combattimenti non rallentano. La città di Chernihiv, su cui i russi avrebbero dovuto “allentare la presa”, è ancora sotto i bombardamenti.

Nel Donbass, soprattutto a Mariupol, i combattimenti proseguono come se i negoziati di pace neanche esistessero. Continuano i rapimenti dei sindaci nelle città occupate dai russi (due solo ieri), così come gli arresti di giornalisti e attivisti: mosse di una forza di occupazione che non intende abbandonare il terreno spontaneamente, ma si prepara a restare. Se viene allentata la presa su Kiev, è probabilmente solo per le difficoltà logistiche e militari dell’Armata russa e non per una manifestazione di volontà di porre fine al conflitto, secondo l’analisi del “Times”.

Nella bolla informativa putiniana in Italia, esperti militari e civili continuano a dar ragione al Cremlino. Anche dopo 35 giorni di stallo, non ammettono che il suo esercito sia in difficoltà, né che il suo piano abbia dovuto subire variazioni a causa della tenace resistenza ucraina. Vivendo in questa bolla, è difficile, per ogni italiano informato, pensare che ci sia qualsiasi finale alternativo alla inevitabile sconfitta ucraina ed ogni sforzo (invio di armi, di aiuti, promesse e appoggio politico) servirebbe solo a prolungare l’agonia. Ma al di fuori della nostra bolla putiniana, nel resto del mondo occidentale, generali del calibro di David Petraeus, già vincitore dell’ultima fase di guerra di contro-insurrezione in Iraq, ritengono che l’Ucraina possa, a questo punto, anche vincere, se debitamente armata ed equipaggiata dalla Nato.

Perché l’esercito russo, dopo un mese di stallo, è veramente in difficoltà e la sua vittoria è tutt’altro che scontata. Da questo punto di vista, è possibile che la proposta di pace russa sia dettata più dalla necessità di riprendere fiato (e rilanciare l’offensiva in tempi migliori) più che dalla volontà sincera di giungere alla pace. Invece, fornire armi agli ucraini permetterebbe loro di “finire il lavoro” (per usare le parole del “Times”): arrivare alla pace, ma da una posizione di forza.

Stefano Magni, 30 marzo 2022

Linea dura di Usa e Regno Unito, cautela Ue. I due volti della Nato (con diversi obiettivi). Gian Micalessin il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

Londra e Washington tengono alta la tensione con Mosca: l'obiettivo è far cadere Putin anche prolungando il conflitto. Bruxelles pronta al dialogo.

Ora è chiaro, a contrapporsi a Vladimir Putin e ad appoggiare il governo di Kiev ci sono due Alleanze Atlantiche. Con due diversi obbiettivi, anche se non ufficialmente dichiarati. Da una parte c'è la Nato guidata da Washington e Londra, con dietro i Paesi Baltici e quelli dell'Est Europa, Ungheria esclusa. Quella Nato punta sulla guerra in Ucraina per far fuori Vladimir Putin e il suo modello di Russia. Dall'altra c'è la componente europea del Patto Atlantico guidata da Germania e Francia pronta, pur di mettere fine alle ostilità, ad accettare un compromesso sulla futura neutralità del governo di Kiev.

A evidenziare l'esistenza di una doppia linea all'interno del Patto Atlantico è stata la clamorosa gaffe di Joe Biden pronto ad affermare, sabato scorso, che Vladimir Putin «non può restare al potere». Ma quella «voce dal sen fuggita» - per quanto rettificata e addolcita dall'Amministrazione - conferma quanto delineatosi già nei primi giorni del conflitto quando sia Washington, sia Londra hanno gettato le basi per una completa e permanente delegittimazione di Vladimir Putin. Un ruolo fondamentale lo ha giocato l'inglese Karim Khan. Il Procuratore Capo della Corte Internazionale dell'Aja già il 3 marzo, ovvero solo sette giorni dopo l'inizio dell'invasione russa, ha garantito l'avvio di un’inchiesta sui presunti crimini di guerra russi. Un'inchiesta che ha come principale obbiettivo Vladimir Putin. Non a caso Joe Biden già il 16 marzo lo definisce un «criminale di guerra». Un'accusa confermata, 24 ore dopo, dal Segretario di Stato Anthony Blinken. Ma chiunque intenda arrivare a una trattativa o a un accordo con il «nemico» tende a non delegittimarlo o, peggio, a presentarlo come il potenziale imputato di un processo per crimini di guerra. Non a caso il presidente francese Emmanuel Macron, principale interlocutore di Putin dopo l'inizio delle ostilità, ha immediatamente preso le distanze dalle parole di Biden. Mentre il presidente americano ha continuato ad apostrofare il presidente russo dandogli del «macellaio».

Ma le divergenze tra la Nato a trazione europea rappresentata da Macron e quella guidata dalla potenza americana non si fermano alle parole. Lo scetticismo del segretario di Stato Blinken e dei portavoce del premier inglese Boris Johnson sulla disponibilità di Mosca a trattare evidenziano anche l'esistenza di una doppia strategia sui rifornimenti di armi. Una strategia che nelle intenzioni di Washington e Londra, punta - con l'assenso della Polonia e degli altri alleati dell'est Europa - a garantire a Kiev armi sempre più efficaci e potenti capaci non solo di rallentare l'esercito russo, ma addirittura di sconfiggerlo militarmente. Insomma mentre Macron invita ad evitare «parole e azioni capaci di portare ad un escalation» e Berlino punta ad «un cessate il fuoco» come «unica e principale priorità» Londra, Washington e i paesi dell'Est vanno in tutt'altra direzione. E incominciano ad abbozzare una strategia militare simile a quella usata per far cadere Slobodan Milosevic. Prima una campagna militare in grado di mettere la Russia con le spalle al muro e, subito dopo, una rivolta interna in grado di portare alla caduta del «nemico» Vladimir Putin.

Da tgcom24.mediaset.it il 23 marzo 2022.

Madeleine Albright, la prima donna segretario di Stato americana che ha contribuito a forgiare la politica americana dopo la Guerra fredda, è morta all'età di 84 anni. Albright è stata una figura centrale nell'amministrazione del presidente Bill Clinton, prima come ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite e poi segretario di Stato. 

Ha sostenuto l'espansione della Nato, ha spinto l'alleanza a intervenire nei Balcani per fermare il genocidio e la pulizia etnica, ha cercato di ridurre la diffusione delle armi nucleari e ha sostenuto i diritti umani e la democrazia in tutto il mondo.

Morta Madeleine Albright, la prima donna a guidare la diplomazia Usa. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.

Nemica dei tiranni, è stata una figura centrale sotto la presidenza di Bill Clinton. Ha contribuito a forgiare la politica estera occidentale all’indomani della Guerra Fredda. Aveva 84 anni. Quando la intervistai, a Washington, tre anni fa, per parlare dei fascismi risorgenti, soprattutto in Europa, il tema del suo ultimo libro, lei rispose alla mia prima domanda citando non se stessa, ma Primo Levi: «Lui diceva che ogni tempo ha il suo fascismo e che si può arrivare a tragedie immani come l’Olocausto anche senza passare per il terrore poliziesco: basta negare i fatti, distorcere l’informazione, inquinare la Giustizia, diffondere la nostalgia per un passato favoloso. Parole su cui riflettere visto quello che sta accadendo sotto i nostri occhi». Gli occhi di Madeleine Albright si sono chiusi ieri per sempre dopo aver visto quello che lei, fuggita due volte dai grandi totalitarismi europei del Novecento e poi grande protagonista della politica estera americana negli anni Novanta, aveva evidentemente immaginato e temuto. 

Prima donna ad aver ricoperto l’incarico di Segretario di Stato, la Albright è stata uccisa a 84 anni da un cancro. 

Figlia di un diplomatico cecoslovacco (all’anagrafe di Praga era registrata come Marie Jana Korbelova, Albright è il cognome del marito americano), Madeleine dovette fuggire dal suo Paese una prima volta, nel 1938, in seguito alla persecuzione degli ebrei e allo smembramento della Cecoslovacchia attuato dai nazisti, e poi, di nuovo, dieci anni dopo, per sfuggire all’oppressione staliniana. 

Profondamente legata all’Europa orientale delle sue origini, segnata dai totalitarismi e dall’Olocausto, con gran parte dei suoi parenti, compresi tre nonni, morti nei campi di concentramento del Terzo Reich, anno dopo anno la Albright ha visto rinascere i fascismi e ha conosciuto bene leader divenuti dittatori sotto i suoi occhi. 

Nel suo Fascismo si sofferma ad analizzare soprattutto tre figure tuttora al potere e con ruoli di rilievo nel conflitto ucraino: Putin, il grande protagonista, l’ungherese Orbán e il turco Erdogan che arma gli ucraini e condanna Mosca all’Onu, ma poi non applica le sanzioni alla Russia e media con Putin. 

Attivista democratica, la carriera della Albright nell’Amministrazione inizia nel 1976 con l’elezione di Jimmy Carter. Il consigliere del presidente per la politica estera, Zbigniew Brzezinski, la chiama alla Casa Bianca come assistente. Successivamente diventerà consigliere di Geraldine Ferraro, durante la sua corsa (fallita) alla vicepresidenza e del governatore del Massachusetts, Michael Dukakis. 

Quando Bill Clinton arriva alla Casa Bianca, la nomina prima ambasciatrice degli Usa all’Onu e, poi, Segretario di Stato. Tutt’altro che isolazionista, la Albright interpreta i suoi ruoli come esecutrice di una politica di intervento nei conflitti internazionali di un’America che per lei è «la nazione indispensabile». 

Si muove cercando di far valere quella che considera la superiorità morale degli Stati Uniti, ma anche coinvolgendo gli altri Paesi in quello che definisce un «vigoroso multilateralismo». Commette anche errori, poi confessati nelle sue memorie, come la rinuncia a intervenire con decisione in Ruanda dove, nel 1994, una piccola missione di peacekeeping dell’Onu non può impedire un genocidio: almeno un milione di morti. Imporrà, invece, il principio dell’ingerenza umanitaria nella guerra dei Balcani: dopo la strage di Srebrenica perpetrata dai serbi nonostante la presenza di un piccolo contingente di interposizione dei «caschi blu», vince le resistenza del Pentagono e dà via libera ai bombardamenti americani. Due mesi dopo, a Dayton, l’inviato speciale americano Richard Holbrooke ottiene la firma a un accordo che, pur lasciando varie questioni insolute, pone fine a una guerra costata almeno centomila morti. 

È morta Madeleine Albright, prima donna segretario di Stato negli Usa. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Marzo 2022.

Madeleine Albright, prima donna segretaria di Stato americana, è morta. Aveva 84 anni, da tempo soffriva di un tumore. Lo riferisce la Cnn. Albright è stata una figura centrale nell’amministrazione del presidente Bill Clinton, prima come ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite e poi segretaria di Stato.

Ha sostenuto l’espansione della Nato, ha spinto l’alleanza a intervenire nei Balcani per fermare il genocidio e la pulizia etnica, ha cercato di ridurre la diffusione delle armi nucleari e ha sostenuto i diritti umani e la democrazia in tutto il mondo, ricorda la Cnn.

Il suo nome prima di sposarsi con il giornalista Joseph Medill Patterson Albright era Marie Jana Korbelova, Albright, discendente di una famiglia ebraica, emigrò da Praga da bambina con la sua famiglia dopo essere sfuggita ai nazisti. Approdata negli Stati Uniti nel 1948, è poi diventata un volto della politica estera statunitense nel decennio tra la fine della Guerra Fredda e la guerra al Terrore innescata dagli attacchi dell’11 settembre.

Suo il termine “multilateralismo assertivo” per descrivere la politica estera dell’amministrazione Clinton. Ha considerato gli Stati Uniti come la “nazione indispensabile” quando si trattava di usare la diplomazia sostenuta dall’uso della forza per difendere i valori democratici nel mondo. “Siamo in piedi e guardiamo più lontano di altri Paesi nel futuro, e vediamo il pericolo qui per tutti noi”, aveva detto alla NBC nel 1998. “So che gli uomini e le donne americani in uniforme sono sempre pronti a sacrificarsi per libertà, democrazia e stile di vita americano”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Madeleine Albright, l’illusione della fine della storia violenta. MATTEO MUZIO su Il Domani il 24 marzo 2022

L’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright, scomparsa il 23 marzo all’età di 84 anni, era stata la prima sostenitrice dell’allargamento della Nato come fine di una lunga storia di nazionalismi. Non è andata così.

Quando l’ex segretario Madeleine Albright nacque nel 1937 con il nome di Maria Jana Corbelova a Praga, in Cecoslovacchia, la Storia era in movimento. Oggi che scompare all’età di 84 anni, sembra che qualcosa stia nuovamente cambiando per sempre. 

Poco dopo la nascita il suo Paese, giovane democrazia nata sulle ceneri dell’Impero asburgico, sarebbe stato annesso in due step dalla Germania hitleriana come parte essenziale del suo piano espansionistico verso Est.  Per quello si dovette trasferire subito al seguito del governo in esilio di Eduard Benes nel maggio 1939, a Londra. Da lì inizierà il suo percorso che la porterà negli stati Uniti, passando per la Jugoslavia di Tito al seguito del padre diplomatico, per la Svizzera neutrale dove ha acquisito questo nome dal sapore francofono fino agli Stati Uniti, dove arriva nel 1948.

GLI INIZI

Qui inizia una lunga carriera prima accademica e poi diplomatica che la porterà ad essere la prima “Madam Secretary”, la prima donna a capo del Dipartimento di Stato, incarico che sovrintende alla gestione della politica estera americana. La sua formazione segue in parallelo quella di altri diplomatici americani nati all’estero, figli della Mitteleuropa travolta prima dal nazismo e poi dal comunismo, tra cui spiccano il nativo della Baviera Henry Kissinger e il polacco Zbignew Brzezinski, rispettivamente segretario di Stato del presidente repubblicano Richard Nixon e consigliere per la sicurezza nazionale del democratico Jimmy Carter.

In modi diversi, rappresentavano i figli di un continente sfigurato dalla brutalità totalitaria che trovavano in America un modo di ricostruire un ordine al mondo. Madeleine Albright, dopo una carriera da esperta di politica estera e come consulente dello stesso Brzezinski e di due candidati dem sconfitti come Walter Mondale e Michael Dukakis, con la vittoria di Bill Clinton alle elezioni presidenziali del 1992 viene nominata come ambasciatore americano alle Nazioni Unite.

Certi editoriali parlavano di un mondo post-Guerra Fredda senza più nemici. Evidente che la situazione era molto più complessa e difficile. Era stata proprio Albright ad assistere alla violenta implosione della Jugoslavia e al genocidio del Ruanda, da lei per qualche tempo minimizzato per non favorire il coinvolgimento americano in Africa, posizione poi successivamente riconsiderata alla luce delle evidenze che non lasciavano spazio a dubbi.

Si era trovata anche a lottare con lo stesso segretario generale Boutros Ghali, visto come eccessivamente antiamericano, contro il quale scatena una guerra di logoramento attraverso uno spregiudicato uso del veto per negargli un secondo mandato alla guida dell’Onu. Operazione che si conclude con la nomina di Kofi Annan e per Albright si spalancano le porte del dipartimento di Stato.

LA RUSSIA

Tra i suoi obiettivi, l’allargamento della Nato verso Est. In un’audizione di fronte alla commissione Forze armate del Senato il 23 aprile 1997, la neosegretario di Stato aveva dichiarato che impedire l’espansione della Nato è come affermare «che le nuove democrazie dell’Est non potranno mai essere nostre alleate». In quella stessa occasione era stato anche specificato che la mossa non era contro la Russia, anzi, si auspicava la creazione di un “Consiglio Nato-Russia” perché sotto la presidenza di Boris Eltsin, la Russia si era avvicinata alle democrazie «sfatando le più cupe previsioni».

Un paio di anni dopo, sotto la premiership di Evgenij Primakov, la Russia sarebbe tornata nuovamente ostile a questo nuovo corso, sostenendo il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic nella sua spietata guerra contro gli autonomisti dell’Uck, l’esercito di liberazione kosovaro. Non fu un radicale cambio di rotta, tant’è vero che il successore di Primakov come premier, Vladimir Putin, avrebbe approvato la nascita del consiglio Nato-Russia nel famoso vertice di Pratica di Mare del 28 maggio 2002.

L’illusione successiva a quel vertice fu di aver finalmente integrato la Russia in una solida alleanza di nazioni impegnate nella lotta contro il terrorismo islamico internazionale. I fatti di questi giorni testimoniano come quell’illusione sia da tempo andata in pezzi e a riconoscerlo è stata la stessa Albright nel suo ultimo libro pubblicato con il titolo esemplificativo: Fascismo: un avvertimento.

Al suo interno l’ex segretario di Stato rifletteva su come quell’ordine fosse andato in pezzi sotto la spinta del populismo sponsorizzato dal Cremlino, guidato dal “molto intelligente” Vladimir Putin. Questa sirena poteva trasformare anche un giovane dissidente che lei aveva conosciuto nel corso degli anni ’80, un certo Viktor Orban sovvenzionato da George Soros nella creazione di un partito liberal-riformista che poi si è trasformato in nazional-conservatore.

Nella parabola di Madeleine Albright, quasi ad arco, c’è anche la perduta illusione degli anni ’90: il benessere e il libero mercato non bastano ad allettare le persone quando questo non viene sostenuto da un robusto set di valori liberaldemocratici. Le capacità taumaturgiche del capitalismo si sono rivelate totalmente inefficaci di fronte alle vecchie narrazioni nazionaliste che avevano distrutto l’Europa negli anni ’30 che avevano costretto la sua famiglia a fuggire dalla propria Patria.

MATTEO MUZIO. Laureato in storia contemporanea, giornalista. Scrive di economia e di cultura. Ha collaborato con Repubblica, iil Foglio, L’Espresso e il Fatto Quotidiano. Scrive per Linkiesta.

Russia e Cina, il trattato del 4 febbraio svela il piano per un nuovo ordine mondiale: dopo l'Ucraina...Renato Farina su Libero Quotidiano il 20 marzo 2022.

Subito dopo la fine del colloquio video -telefonico tra Joe Biden e Xi Jin ping, stravinto dialetticamente e culturalmente (purtroppo) dal leader cinese, Vladimir Putin ha dimostrato di aver afferrato il messaggio di Pechino. E ha usato la super-arma, per fortuna caricata (quasi) a salve, come un avvertimento e un proseguimento operativo del discorso: non siamo soli, la Cina è con noi. Lo Zar e il Celeste Imperatore saranno alleati fino ai confini del tempo. Questo è il senso della posizione cinese nell'attuale crisi ormai mondiale. La Cina è disponibile in futuro a mediare per interrompere un conflitto dove si versano fiumi di sangue, ma soprattutto per impedire una terza guerra mondiale: stando però dalla parte della Russia, aspettandosi di trovarsi gli Usa dall'altra parte a rappresentare l'Ucraina. 

Dove è chiaro che i rapporti di forza sono tutti dalla parte orientale, come dice quel missile ipersonico, più eloquente di Cicerone. Si andrà cioè verso una provvisoria pace ottenuta ad un prezzo molto alto per la sovranità e la libertà dell'Ucraina e - in fin dei conti- dell'Europa. In pratica è in corso una nuova Yalta, dove l'Ue non esiste come interlocutrice, ridotta a colonia di Washington, e l'Italia presa a schiaffi in modo volgare, come sta accadendo vergognosamente in queste ore. Da questa Yalta, secondo il disegno cinese, verrà il riconoscimento di un nuovo ordine mondiale non per forza statico, ma basato sul «realismo offensivo» come previsto dal politologo John Mearsheimer dell'Università di Chicago. Un mondo bipolare in competizione, dove ci si strappa delle pedine e delle torri sulla scacchiera del mondo. E dove si deve smetterla di demonizzare i valori altrui. Semplicemente - dicono i russo-cinesi - ci sono sistemi di valori e concezioni della democrazia diversi. 

LE 99 PAGINE

L'attacco all'Ucraina - che la Cina mai ha definito guerra o aggressione - rientra in questo percorso. Non è una fanfaluca retroscenista. $ tutto scritto nel trattato di 99 pagine del 4 febbraio scorso firmato a Pechino da Putin e Xi, che è ben più di un'alleanza settoriale e contingente su energia, petrolio, cereali eccetera. Insomma, è un patto di ferro per sancire che «l'amicizia tra Cina e Russia non ha limiti». Un documento poco o nulla analizzato, passato agli archivi senza essere preso sul serio. In realtà è il manifesto di un nuovo comunismo universale, dove si esprime una concezione dei diritti umani e della democrazia totalmente in balia della volontà dell'autocrate di turno. Le parole sono suadenti: «le nuove relazioni interstatali tra Russia e Cina sono superiori alle alleanze politiche e militari dell'era della Guerra Fredda», «l'amicizia tra i due Stati non ha limiti, non ci sono aree di cooperazione "proibite"». Poi si passa alla enunciazione ideologica proposta in termini quasi sacrali. «Non esiste solo la democrazia di Washington». 

«Non esiste un modello unico per guidare i Paesi nella creazione della democrazia» e spetta alle singole Nazioni «scegliere» le diverse «forme e metodi di attuazione della democrazia che meglio si adattano al loro particolare stato», a seconda di una serie di condizioni locali tra cui il background sociale e storico e «caratteristiche culturali uniche». In un passaggio profetico, i due presidenti di fatto giustificano quello che di lì a 15 giorni sarebbe accaduto in Ucraina e che, in futuro, potrebbe giustificare uno scenario simile per Taiwan. I cosiddetti «valori occidentali» che hanno governato il mondo per decenni sono appunto solo «occidentali» e non universali come Usa e Ue vorrebbero far credere. Si legge «Le parti (...) si oppongono all'abuso dei valori democratici e all'ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani con il pretesto della protezione della democrazia e dei diritti umani... Le parti invitano la comunità internazionale a rispettare la diversità culturale e di civiltà nonché i diritti all'autodeterminazione dei popoli di Paesi diversi... ogni Nazione ha le sue caratteristiche nazionali uniche, la storia, la cultura, il sistema sociale e il livello di sviluppo sociale ed economico che le sono propri, la natura universale dei diritti umani dovrebbe essere vista attraverso il prisma della situazione reale in ogni Paese particolare». 

Insomma: avanti Russia, prenditi l'Ucraina. Aveva detto Xi a Biden: «La guerra non conviene a nessuno». Traduzione: oggi l'America e la Nato sono militarmente inferiori. Sul piano missilistico la Russia è in grado di colpire qualsiasi zona d'Europa e non c'è scudo antimissile che tenga. Per cui non vi conviene eccitare troppo la tigre siberiana. Tirata in ballo da Xi con un proverbio di chiarezza cristallina: «Chi ha messo il collare alla tigre è lui che deve toglierlo». La tigre è Putin. Il collare è l'Ucraina e in generale tocca a chi ha scelto la politica di accerchiamento della Russia di rimediare. Come? Consentendo a Mosca un asservimento di fatto di Kiev. 

IL MISSILE

E così, ieri mattina, all'alba Putin ha tradotto in fatti le parole sinuosamente minacciose di Xi. E ha sparato a Deliatine, nella regione d'Ivano-Frankivsk un missile ipersonico, mai usato prima in un teatro di guerra. Si chiama Khinzal, che vuol dire Pugnale. Non è intercettabile da alcuno scudo antimissile occidentale. La notizia è stata orgogliosamente data ufficialmente dal ministero della Difesa di Mosca. Stavolta la testata era di tipo convenzionale, ma avrebbe potuto essere nucleare. Gli americani hanno software più sofisticati, ma non hanno avuto saputo ancora trasformarli in missili. E così alla resistenza ucraina forniscono fionde, per fermare uno che dispone dell'arma letale. Serve solo alla propaganda, a finanziare una guerra per procura coòl sangue degli altri. Intanto la Cina sta costruendosi una base militare marittima in Guinea Equatoriale. $ un collare con cui Xi cinge il leone americano. Il quale alla fine ruggirà. 

Di che cosa hanno parlato Cina e Usa nell'incontro diplomatico di Roma. Cinitalia su Il Giornale il 15 Marzo 2022.

Yang Jiechi e Jake Sullivan hanno avuto a Roma un approfondito e costruttivo scambio di opinioni sui rapporti Cina-Usa e sulle questioni più urgenti per il mondo. Ecco i temi dell'incontro diplomatico

Il 14 marzo è andato in scena a Roma un incontro diplomatico ad alto livello tra Cina e Stati Uniti. Si è trattato del primo incontro faccia a faccia dopo il vertice on-line tra i capi dei due paesi.

L'incontro di Roma

Durante il colloquio, Yang Jiechi, membro dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista cinese, nonché direttore dell’Ufficio della Commissione affari esteri del Comitato Centrale del Pcc, e Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno avuto un sincero, approfondito e costruttivo scambio di opinioni sui rapporti Cina-Usa e sulle questioni più urgenti per il mondo.

Le due parti si trovate d’accordo sulla necessità di mettere in atto gli accordi raggiunti dai due capi di Stato, in modo da favorire il ritorno delle relazioni bilaterali su un percorso di sviluppo sano e stabile.

Durante l’incontro, Yang Jiechi ha affermato che l'attuazione dei consensi raggiunti dai due capi di Stato costituisce il compito principale delle relazioni Cina-USA. La Cina ha sempre considerato e gestito le relazioni con gli USA secondo i tre principi proposti dal Presidente Xi Jinping, e spera che gli Stati Uniti realizzino le promesse fatte dal Presidente Biden.

I temi trattati

Yang Jiechi ha quindi sottolineato che la questione di Taiwan riguarda la sovranità e l'integrità territoriale della Cina. Allo stesso tempo, la Cina ha espresso seria preoccupazione e ferma opposizione alle recenti prese di posizione degli Stati Uniti sulle questioni relative. La parte cinese richiede che la parte statunitense riconosca la grande delicatezza della questione di Taiwan, rispetti il principio di "Una Sola Cina", le disposizioni dei tre comunicati congiunti sino-americani e gli impegni assunti.

Yang Jiechi ha poi chiarito la posizione della Cina in relazione allo Xinjiang, al Tibet e a Hong Kong, sottolineando che queste tre questioni coinvolgono gli interessi centrali della Cina e costituiscono degli affari interni del Paese. Le due parti si sono anche scambiate opinioni su questioni internazionali e regionali come quella relativa all'Ucraina, alla Corea del Nord, all’Iran e all'Afghanistan.

La posizione della Cina

Negli ultimi quattro mesi, la Cina ha lavorato costantemente per implementare i consensi raggiunti dai due leader, tuttavia gli Stati Uniti non sempre hanno completamente rispettato i loro impegni.

Dall’annuncio della vendita di armi alla regione di Taiwan, all’invio di funzionari in visita a Taiwan, al rilascio di una nuova versione della strategia indo-pacifica per intensificare le pressioni nei confronti della Cina, le azioni compiute dagli Usa non hanno sempre corrisposto a quanto stabilito, e hanno creato ostacoli alla normalizzazione dei rapporti bilaterali.

In qualità di relazioni bilaterali tra le più importanti al mondo, quella tra Cina e Stati Uniti superano il contesto bilaterale ed hanno una responsabilità particolare per il mantenimento della pace e della stabilità mondiale. Dopo l’incontro a Roma, gli Stati Uniti devono lavorare insieme alla Cina e rispettare gli impegni presi dal presidente Biden.

Biden-Xi, dispetti e finti sorrisi. Washington avverte Pechino: "Non fornite le armi a Mosca". Valeria Robecco il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.

Posizioni apparentemente più distese, ma non c’è ancora la svolta. La Cina: "Il conflitto non è nell’interesse di nessuno".

New York. Joe Biden gioca la carta cinese per piegare Vladimir Putin e incassa un'apertura da Xi Jinping con una posizione apparentemente più distensiva nel conflitto in Ucraina. Per la prima volta da quando è iniziata la guerra, il presidente americano ha sentito il collega cinese, e nella videochiamata durata quasi due ore il leader del Dragone ha sottolineato che «un conflitto e un confronto» tra stati «non sono nell'interesse di nessuno». Per l'inquilino della Casa Bianca, l'obiettivo del colloquio era di fare pressione perché Xi eserciti la sua influenza per costringere il Cremlino a mettere fine alla guerra. Biden deve anche fugare i timori di aiuti militari o finanziari cinesi alla Russia, e ha ribadito che un assistenza a Mosca avrà «implicazioni e conseguenze», sottolineando nuovamente il suo «sostegno per una soluzione diplomatica della crisi».

Il presidente cinese non ha condannato l'attacco di Mosca né si è impegnato a non aiutare il Cremlino, ma le sue parole sembra abbiano rafforzato la necessità di una rapida conclusione del conflitto. Nel giorno in cui Putin si è preso la scena allo stadio Luzniki di Mosca, dove ha organizzato i festeggiamenti per l'ottavo anniversario dell'annessione della Crimea, Xi ha sottolineato con Biden che «la tendenza prevalente alla pace e allo sviluppo sta affrontando sfide serie e il mondo non è né tranquillo né stabile». «La crisi in Ucraina non è qualcosa che vogliamo vedere, e gli eventi mostrano di nuovo che i Paesi non dovrebbero arrivare al punto di scontro sul campo di battaglia, perché il conflitto e il confronto non sono nell'interesse di nessuno - ha affermato - La pace e la sicurezza sono ciò di cui la comunità internazionale dovrebbe fare maggiormente tesoro». Secondo quanto riportato dal Quotidiano del Popolo, Xi ha poi sottolineato che come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e come principali economie mondiali «non solo dobbiamo guidare lo sviluppo delle relazioni Cina-Usa sulla strada giusta, ma dobbiamo anche assumerci le nostre dovute responsabilità internazionali per compiere gli sforzi per la pace e la tranquillità nel mondo». E ha invitato Stati Uniti e Nato a «condurre un dialogo con la Russia per risolvere il nodo cruciale della crisi ucraina». Entrambi i leader hanno parlato di «uno scambio di opinioni schietto e approfondito» e di una chiamata «costruttiva».

Pechino, pur se rimane l'alleato più forte di Mosca, si sforza di mantenere un delicato equilibrio con l'Occidente per evitare l'effetto sanzioni e la frenata della sua economia. È vero che il mese scorso, prima dell'invasione, Russia e Cina hanno proclamato che la loro amicizia è «senza limiti», ma ora appare sempre più evidente che il desiderio e la capacità del Dragone di aiutare il suo vicino potrebbero essere limitati. Anche perché le banche cinesi non possono perdere l'accesso al dollaro, così come molte aziende non possono permettersi di restare senza la tecnologia Usa. Sul tavolo, Biden ha messo proprio il futuro dei rapporti della Cina con gli Stati Uniti e con l'Europa, che economicamente valgono molto di più di quelli con la Russia: assistere Putin significherebbe una frattura durevole con l'Occidente.

Poco prima del colloquio, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian ha comunque accusato gli Usa di avere «la coscienza sporca» sulla crisi in Ucraina, invitando Washington a «non gettare fango» sul suo paese, «che non è parte del conflitto». Nel frattempo, una portaerei cinese ha attraversato lo stretto di Taiwan e la Uss Ralph Johnson, un cacciatorpediniere di classe Arleigh A. Burke, l'ha seguita come un'ombra per una parte della sua rotta. Un segnale che Pechino non rinuncia alle istanze sull'isola.

"La tigre e il sonaglio...". La frase di Xi a Biden che svela tutto. Alessandro Ferro il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.

Nella sua chiacchierata con Biden, Hi Jinping ha sfoderato un celebre proverbio cinese per indicare la situazione tra la Russia e la Nato: ecco il significato e da che parte sta la Cina.

Nell'incontro in videochiamata tra il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping per fare il punto sulla situazione Russia-Ucraina, i due leader si sono detti un mucchio di cose. Aiutati nel colloquio dagli interpreti, è chiaro che la traduzione fedelissima può spesso assumere un significato leggermente diverso dal senso originale di certi vocaboli e parole dette in lingua madre. È il caso di un proverbio cinese pronunciato da Xi durante il suo colloquio dal significato recondito molto importante.

I significati nascosti del proverbio

Se è vero che il repertorio linguistico di Xi Jinping, condito da tanta retorica è conosciuto ai più, c'è un'espressione cinese che però va al dià del mero significato letteral. "jie líng hái xu xì líng rén", la riportiamo soltanto per onor di cronaca e sapere da qualche cittadino cinese se è scritta correttamente. In questo caso, però, a noi interessa la traduzione: "Spetta a chi ha legato il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo". Tradotto letteralmente, sembra più uno scioglilingua. In realtà, il vero significato del proverbio esprime la linea cinese sulla crisi ucraina. Con "tigre" il chiaro riferimento è a Putin, il "sonaglio" riguarda l’allargamento della Nato ad Est che avrebbe compromesso la sicurezza russa mentre l’autore che ha "legato al collo" il sonaglio, ossia aver sfidato la belva feroce, sono gli Stati Uniti. Che adesso, se vogliono rendere "innocua" la tigre furiosa dal tintinnìo continuo del campanello legato intorno al collo, dovrebbero essere loro gli unici ad avvicinarsi al felino e sfilarglielo con cautela.

Cos'è la parabola della tigre

Insomma, secondo i cinesi le responsabilità maggiori sono degli americani ma la Nato è fatta di più Paesi, tra i quali l'Italia, che ha già ricevuto minacce dirette da Putin circa il suo operato sulle sanzioni russe. Indipendentemente dal fatto se debbano essere gli Usa, da soli, o Usa e Europa a provare a "sfilare il campanello" dalla tigre, cosa fa la Cina? Sta a guardare o vuole prendere parte a questo storico proverbio cinese? Quel che si evince finora, è la reale intenzione della Cina di vestire i panni di "potenza responsabile", termine ripetuto spesso nei discorsi ufficiali dei leader cinesi e pure nei comunicati. Insomma, sembra che Xi abbia tirato il sasso ma non esposto la mano (non ritirata): una battuta che significa tante cose.

Il "fastidio" di Xi

Come ricorda il Corriere, l'ormai celebre citazione è tratta dall’antico poeta Huì Hóng della Dinastia Song. La "parabola della tigre e del sonaglio" è tra le preferite del segretario generale comunista che spesso e volentieri la usa in pubblico quando prova fastidio di fronte a una domanda sgradita. Nel 2014 la recitò contro un giornalista del New York Times che contestava le restrizioni di Pechino nei confronti della stampa internazionale. "Il governo della Repubblica popolare cinese, in base alle leggi, protegge la libertà di parola del popolo e anche i diritti legittimi della stampa - disse - Però, la stampa internazionale qui dovrebbe anche rispettare le leggi della Cina". Da lì ci fu l'esempio di un'auto, che se si rompe bisogna scendere per controllare dove si trova il problema. "Se si riferisce una cosa come un problema, significa che ci sono dei motivi", aggiunge, recitando il detto cinese che "per togliere il campanello ci vuole chi lo ha messo". È chiaro, a questo punto, che la Cina sta in mezzo al guado: vogliono placare gli animi internazionali o vogliono essere, anche loro, la tigre alla quale sfilare il campanello?

Biden parla con Xi, ma scoppia il caso del computer di Hunter. Piccole Note il 18 marzo 2022 su Il Giornale. Oggi la conversazione telefonica tra Biden e Xi Jiping, al quale il presidente americano, secondo i media occidentali, chiederà di non sostenere la Russia, pena dure sanzioni. Difficile che sia ascoltato, come peraltro ha fatto trapelare Pechino poco prima del contatto.

Così il Global Times nel riferire la notizia: “la Cina, con un’iniziativa inusuale, ha inviato un segnale duro, dichiarando che non accetterà mai le minacce e la coercizione degli Stati Uniti sulla questione dell’Ucraina, giurando di dare una risposta forte se gli Stati Uniti adottassero misure lesive dei legittimi interessi della Cina” in caso di mancato assolvimento della richiesta. Il fatto è che tra le due potenze si è stabilito un legame esistenziale e sanno bene che simul stabunt simul cadent.

A creare tale rapporto, peraltro, è stata la stessa Washington che ha orientato la sua politica estera a contrastare le minacce poste dai Paesi autoritari (Pechino e Mosca) al mondo libero guidato dagli Stati Uniti. Slogan efficace e che sta producendo dinamiche nuove nel mondo.

Ma, al di là delle ovvietà di cui sopra, che non valgono il costo della comunicazione, è possibile che i due parlino anche di cose serie, come ad esempio tentare di trovare una soluzione al rebus ucraino.

Non è un caso che tale contatto avvenga nel giorno successivo alla conversazione tra il Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, la persona dell’amministrazione Usa più vicina al presidente, e il suo omologo russo Nikolai Patrushev, che sembra sia la persona più vicina a Putin.

Di quest’ultima conversazione abbiamo parlato nella nota precedente, spiegando che era la prima volta che avveniva un contatto a così alto livello tra Russia e Usa dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.

E avevamo ipotizzato che i due avessero anche esplorato vie per trovare una soluzione al conflitto, ipotesi che sembra confermata da due elementi. Il primo è che, nello stesso giorno, Biden ha definito Putin “criminale di guerra”, definizione che esula dal registro al quale un presidente deve attenersi per ragioni di Stato (tali le dinamiche della geopolitica).

Non è la prima volta che Biden esula da tale registro parlando di Putin. Nel marzo dello scorso anno, ad esempio, lo definì “assassino“, salvo invitarlo, subito dopo, al vertice sul clima, durante il quale ebbe il primo approccio da presidente con lo zar.

Enfatizzare l’avversione per Putin mette Biden al riparo da critiche interne ed è possibile che sia appunto una cortina fumogena per nascondere un tentativo di approccio risolutorio della crisi ucraina, alla quale i falchi del suo Paese sono radicalmente avversi, avendo visto l’opportunità di far collassare finalmente il nemico storico.

Di interesse, sul punto, quanto scrivono alcuni analisti sul sito ufficiale dell’autorevole Atlantic Council, i quali spiegano come questa guerra può portare Putin nella polvere, ma perché accada occorre continuare a sostenere la resistenza ucraina, implementando l’invio di armamenti, in particolare di droni, sistemi anti-carro e anti-aereo (i micidiali S-300).

Questa la conclusione della nota: “A proposito di no-fly zone: John [John Herbst, uno degli analisti ndr] dice che essa è possibile più di quanto si pensi, a patto che si tratti di un trasporto aereo umanitario comunicato in modo chiaro che non ha il compito di eliminare le difese aeree del nemico. “Poi affida al Cremlino l’onere di iniziare le ostilità” [passaggio più che inquietante…].

“E sebbene oggi la Casa Bianca e l’opinione pubblica americana ancora non sembrano pronti per questo livello di intervento ora, ha aggiunto, “altre due settimane di nefaste operazioni russe, cosa che è praticamente garantita, e tale disposizione potrebbe cambiare” (i neretti sono del testo). In pratica, si suggerisce di trattare la Russia alla stregua di Siria e Libia, dove tale iniziativa bellica è stata adottata con successo, nulla importando che si tratta di una potenza nucleare).

Così gli analisti dell’Atlantic Council, che reputano sia necessario il prosieguo del conflitto e la sua escalation. Come accennavamo, e come spiegano anche gli analisti in questione, Biden non sembra condividere affatto tale politica.

Ma Biden è sfortunato. Subito dopo la conversazione telefonica tra Sullivan e Patrushev, il New York Times ha pubblicato un articolo che riferisce di un’indagine a carico del figlio Hunter, che si avvarrebbe anche del contenuto del suo portatile.

Il computer di Hunter Biden è stato al centro di un’accesa querelle durante la recente campagna elettorale, dal momento che i media repubblicani sostenevano che fosse stato consegnato alle autorità, le quali vi avevano scoperto materiale compromettente.

La notizia fu derubricata a bufala dai media mainstream, anzi, al solito, come disinformazione russa, e come tale censurato (vedi ad esempio la mannaia calata su un cronista del celebre Intercept), con tanto di Fact checks autorevoli che smentivano punto per punto tali rivelazioni (questo il metodo della censura moderna).

Ora il Nyt, nulla importando della censura pregressa, che aveva applicato con l’usuale zelo, afferma che era tutto vero, che i russi non c’entravano per niente, e che si sta indagando a tutto campo sullo scavezzacollo Hunter.

Una bomba sulla Casa Bianca. Biden rischia di finire fuori dai giochi. E le redini dell’America, in un momento tanto delicato (anche per il negoziato sul nucleare iraniano) potrebbero diventare appannaggio di ambiti più oscuri, che magari condividono i sogni segreti dell’Atlantic Council.

Ma potrebbe addirittura prendere piede l’idea che il presidente sia “compromesso”, come già dice qualcuno. In tal caso potrebbe essere sostituito da Kamala Harris, rinnovando così i fasti del sanguinario Vice, quel Dick Cheney che diede avvio alle guerre infinite. Sarebbe una iattura, per l’Ucraina e per il mondo. 

Il mistero del negoziatore ucraino ucciso: “Sono stati gli 007 di Kiev, era una spia russa”. Ma l’Esercito: “Falso, morto per difenderci”. Il Fatto Quotidiano il 5 marzo 2022.

Mistero sulla morte di Denys Kireev, banchiere e membro della delegazione ucraina che ha partecipato al primo round di colloqui. Per tutta la giornata i media ucraini hanno riferito che sarebbe stato ucciso dai servizi perchè scoperto a fare la spia per Mosca, In serata, un tweet del comando delle forze armate di Kiev ribalta questa tesi: la loro versione è che questo banchiere era in realtà una spia ucraina, caduto mentre svolgeva compiti speciali.

Di sicuro c’è solo che è morto. Al momento l’unica cosa certa è che Denis Kireyev, uno dei negoziatori ucraini, è stato ucciso con un colpo alla testa a Kiev. Ma da chi sia assassinato non è dato sapere. Per tutta la giornata i media ucraini hanno riferito che sarebbe stato ucciso dai servizi perchè scoperto a fare la spia per Mosca, In serata, un tweet del comando delle forze armate di Kiev ribalta questa tesi: la loro versione è che questo banchiere era in realtà una spia ucraina, caduto mentre svolgeva compiti speciali. E che quindi il suo sacrificio “avvicinerà l’Ucraina alla vittoria”. Nessun cenno sui killer. Insomma, un mistero che fa capire bene il caos che regna all’interno dei vertici politico-militari e negli apparati di sicurezza ucraini. I russi, addirittura, non credono neanche alla notizia della morte: “Non ci sono ancora chiare informazioni sul fatto che Kireyev sia stato effettivamente ucciso”, ha detto in tv il presidente della Commissione esteri della Duma russa, Leonid Slutsky.

Tutto è cominciato nel primo pomeriggio quando dai media di Kiev trapela la notizia che gli uomini del Sluba Bezpeky Ukrayiny (Sbu), gli 007 di Zelensky, hanno ucciso un componente della squadra negoziale ucraina con l’accusa di tradimento, colpevole – secondo loro – di aver divulgato informazioni a Mosca. Si tratta appunto di Denis Kireyev, un banchiere di grande esperienza internazionale, considerato una creatura di Andriy Petrovych Klyuyev, un notissimo oligarca miliardario ucraino impegnato in passato con incarichi di massimo livello nei governi filorussi. A inchiodarlo ci sarebbero state delle intercettazioni telefoniche.

Il primo a diffondere la notizia è il sito della Ukrainska Pravda, quindi, seppure con grande prudenza, l’uccisione viene confermata anche dalla Unian, l’agenzia di stampa ucraina, che per prima fornisce importanti dettagli rivelando l’identità della spia e il modo in cui è stata fatta fuori. “Kireev è stato ucciso nel centro di Kiev. È stato giustiziato, colpito alla testa all’ingresso del tribunale di Pechersk“, scrive l’agenzia. Di segno opposto la versione dell’esercito: “Durante l’esecuzione di compiti speciali, tre spie sono state uccise: dipendenti della direzione principale dell’intelligence del Ministero degli affari interni: Alexei Ivanovich, Chibineev Valery Viktorovich, Denis Borisovich Kireev. Sono morti difendendo l’Ucraina e il loro impegno ci ha avvicinato alla vittoria!”, sostengono i militari. Difficile capire come sia andata la vicenda.

L’unica cosa certa è che Kireev ha partecipato fisicamente al primo round negoziale, quello che si è tenuto a Gomel, ma il suo nome non è mai comparso nella lista ufficiale della delegazione ucraina. La sua presenza è dimostrata solo da alcune foto, in cui si vede che sta seduto al tavolo del colloquio, in fondo, l’unico in giacca e cravatta, non in uniforme militare. La sua carriera di banchiere internazionale è cresciuta all’ombra di Andriy Petrovych Klyuyev, un oligarca miliardario, dalla ricchezza stimata in 227 milioni di dollari, sontuosi palazzi nei pressi di Vienna e grande magnate nel mercato dell’energia solare, affiliato di Activ Solar GmbH, un’azienda con sede nella capitale austriaca, impegnata nello sviluppo di centrali fotovoltaiche su larga scala in Ucraina. Ma è soprattutto una figura chiave nella politica ucraina degli ultimi decenni per essere stato il braccio destro del presidente filorusso Victor Yanukovich. Secondo il presidente della commissione Esteri della Duma, invece, “Denis Kireyev, che una volta era un noto banchiere, è attualmente, per quanto ne so, una persona di fiducia di David Arakhamia, capo della delegazione ucraina ai colloqui” con la Russia “e leader del partito di maggioranza della Verkhovna Rada“, il parlamento ucraino, ha detto Slutsky citato da Interfax.

Chi ha ucciso il negoziatore ucraino Denis Kireev? Dietro la morte della spia potrebbe esserci un piano degli 007 russi a Kiev. Guido Olimpio suIl Corriere dell aSera il  7 marzo 2022.

Kireev aveva partecipato ai colloqui tra Kiev e Mosca come negoziatore. Era una spia russa oppure un eroe che ha sventato un colpo del nemico? Secondo fonti d’intelligence Mosca voleva sabotare il Paese dall’interno

Le vicende di spionaggio non sono mai avare di versioni. La confusione è ancora maggiore in epoca di guerra, come raccontano le storie a seguire. La prima ha coinvolto Denis Kireev, 45 anni, un passato come vice direttore di un gruppo bancario ucraino e poi entrato nei servizi segreti locali. Il 28 febbraio partecipa al round di negoziati in Bielorussia, le foto lo mostrano seduto al tavolo dove si confrontano le due delegazioni. Una presenza importante.

Sabato 5 marzo ne hanno annunciato la morte. Violenta. Indiscrezioni sostengono che Kireev è stato ucciso dai suoi colleghi che cercavano di arrestarlo, avevano scoperto che faceva il doppio gioco. Un traditore punito in modo rapido. Una tesi ribaltata dal Ministero della Difesa che, invece, lo ha definito un eroe, caduto insieme ad altri due funzionari durante un’operazione: «Sono morti difendendo l’Ucraina, il loro gesto avvicina la vittoria».

Il mistero può nascondere molte cose. Ben prima dell’invasione erano uscite informazioni sull’infiltrazione di unità speciale russa negli apparati di Kiev, difesa inclusa, resa possibile da un piano organizzato da un alto ufficiale collegato al Cremlino. Una connivenza nota — ha scritto un analista britannico —, quasi scontata. Ora la tragica fine di Kireev potrebbe entrare nella battaglia tra 007. Lui che si sacrifica per sventare un colpo oppure l’esatto opposto. Mosca potrebbe diffondere patacche per instillare dubbi nel campo avversario in una fase critica. Serve compattezza perché le minacce interne sono numerose. Reali e presunte.

Fonti di intelligence sostengono che i servizi di Kiev hanno neutralizzato un piano russo per creare la «Repubblica popolare dell’Ucraina» in numerose regioni. L’obiettivo era quello di condurre sabotaggi e omicidi mirati, quindi di occupare edifici pubblici allo scopo di creare seminare caos e aprire un fronte interno. Un diversivo per aumentare le difficoltà dell’esercito. La successiva mossa sarebbe stata l’unione con la Russia, emulando quanto è avvenuto nella parte meridionale del paese. Lo scenario combacia con un rapporto diffuso dall’istituto britannico RUSI che avvertiva su un progetto sovversivo sempre ispirato dai russi ed elaborato da un dirigente molto vicino a Putin. A questo fine erano stati preparati circa 200 uomini, divisi in team, sostenuti da complici locali.

Infine gli intrighi fumosi della Bielorussia. Sono circolate notizie sulle dimissioni del viceministro della Difesa Viktor Gulevich, un gesto di protesta perché contrario ad un intervento diretto dell’esercito in territorio ucraino. Tuttavia sono arrivate le smentite che, però, non cancellano i sospetti di problemi per il regime di Lukashenko e su una presunta resistenza dei suoi generali a partecipare al conflitto.

DAGONEWS il 28 marzo 2022.

Secondo il “Wall Street Journal” l'oligarca russo Roman Abramovich e i negoziatori ucraini hanno sofferto i sintomi di “sospetto avvelenamento” all’inizio del mese, a Kiev, dopo uno degli incontri nelle trattative per la pace con la Russia. 

Tra i sintomi riscontrati da Abramovich e dai negoziatori c’erano occhi rossi, lacrimazione costante e dolorosa, e pelle che si staccava dal volto e dalle mani, hanno detto le fonti del quotidiano americano.

Le vittime del presunto avvelenamento avrebbero subito dato la colpa a chi, a Mosca, voleva sabotare i colloqui per mettere fine alla guerra. Una persona vicina a Abramovich, interpellata dal WSJ, ha però detto che non era chiaro chi avesse preso di mira il gruppo. 

Da quel giorno le condizioni di salute sia di Abramovic, sia dei negoziatori ucraini, tra cui il tataro Rustem Umerov, sono migliorate. Il presidente dell'Ucraina, Volodymyr Zelensky, che pure ha incontrato Abramovich quel giorno, non è invece stato colpito, e il suo portavoce ha detto di non avere informazioni su un sospetto avvelenamento. 

Secondo gli esperti occidentali che stanno indagando su quanto avvenuto, però, è difficile determinare se i sintomi siano dovuti a un agente chimico-biologico o da una sorta di attacco elettromagnetico. Da parte sua, il Cremlino non ha risposto alle richieste di commento. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 marzo 2022.

Roman Abramovich sta agendo come un "operatore di pace" nella guerra russa in Ucraina. Secondo quanto riferito, il proprietario del Chelsea avrebbe viaggiato tra Istanbul, Mosca e Kiev per trasmettere messaggi tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky. Ma quando ha consegnato la nota del presidente ucraino che delineava i termini per la pace, la furia del presidente russo sarebbe esplosa. 

Abramovich ha cercato di salvare la sua reputazione dopo essere stato colpito da sanzioni da parte del Regno Unito e dell'UE per la sua vicinanza a Putin. I suoi beni sono stati congelati in tutta la Gran Bretagna e ha dovuto mettere in vendita le sue proprietà londinesi e la squadra di calcio del Chelsea. 

È riuscito a salvare i suoi yacht e i suoi jet, che valgono centinaia di milioni di sterline, schivando le acque e lo spazio aereo sanzionati. Proprio per via del suo ruolo nei negoziati, Zelensky avrebbe chiesto al presidente Joe Biden di sospendere l'adozione di misure contro l'oligarca, proprio.

Abramovich ha lasciato l'aeroporto Ataturk di Istanbul su un jet privato Hawker 800XP mercoledì scorso, attraversando il Mar Nero verso Sochi. Il suo localizzatore di volo si è oscurato vicino alla città di Mineralnye Vody, e l'aereo è risbucato poi fuori dall'aeroporto di Vnukovo a Mosca per poi rientrare nella capitale turca. 

L'oligarca era arrivato in aereo per incontrare Putin e consegnargli una nota scritta a mano da Zelensky che delineava le richieste dell'Ucraina per siglare un accordo di pace. Secondo il Times, il presidente russo ha detto all'oligarca: «Digli che li bastonerò».

Quindi è tornato a Istanbul e si è unito al politico ucraino Rustem Umerov, che si dice agisca come negoziatore di Kiev. Si sono incontrati in un hotel a cinque stelle nella capitale turca, in un incontro organizzato da Ibrahim Kalin, portavoce del presidente Recep Tayyip Erdogan. I colloqui faccia a faccia continueranno anche questa settimana. 

Kalin ha detto al quotidiano Hurriyet lo scorso fine settimana che «l’accordo è vicino» su questioni chiave come la Nato, la smilitarizzazione e lo status protetto per la lingua russa. Ma ci sono ancora differenze sul futuro della Crimea - che la Russia ha annesso nel 2014 - e del Donbas, che è stato occupato durante l'attuale conflitto.

Kalin ha lanciato l'idea che la Crimea e il Donbas fossero detenuti da Mosca con un contratto di locazione a lungo termine come aveva fatto la Gran Bretagna su Hong Kong tra il 1898 e il 1997. 

Si ritiene che Putin stia prendendo in considerazione l'idea, ma si dice che la sua furia per i fallimenti dei suoi militari e l'odio per Zelensky lo stiano trattenendo. 

Abramovich e Umerov hanno visitato il presidente ucraino a Kiev dopo aver viaggiato su jet privati diretti a Varsavia, in Polonia. La Turchia non ha sanzionato Abramovich e sembra averlo aiutato nei negoziati che circondano la guerra. 

Gli addetti ai lavori hanno detto che Abramovich era determinato a porre fine alla guerra dopo aver visto gli orrori in Ucraina, dove è nata sua madre Irina. Nel frattempo in Turchia si stanno svolgendo un'altra serie di negoziati tra i ministri degli Esteri russo e ucraino.

Sergey Lavrov e Dmytro Kuleba si sono incontrati ad Antalya il 10 marzo, con il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu che ha supervisionato l'incontro, alla fine fallito.

"Persi la vista per ore". Abramovich nel mirino dei "falchi" di Mosca. Andrea Cuomo su Il Giornale il 29 marzo 2022. 

Spie, oligarchi, trattative segrete, veleno. Non parlassimo della Russia di Vladimir Putin si potrebbe pensare a un film di James Bond: Agente 007, vivi (per miracolo) e lascia morire. Ma la storia non è stata creata da un pool di sceneggiatori, almeno a giudicare da quanto racconta il Wall Street Journal.

Il protagonista della vicenda è uno che ha anche il physique du rôle di James Bond, gli stessi occhi di ghiaccio: Roman Abramovich, forse il più famoso degli oligarchi che hanno fatto fortuna nella Nuova Russia, quella della deregulation economica, quella pilotata con il joystick dallo stesso Putin. Abramovich, famoso soprattutto per essere stato il proprietario che ha fatto la fortuna del Chelsea, che sotto la sua gestione miliardaria ha vinto cinque dei sei campionati di Inghilterra della sua storia, oltre a due Champions League, due Europa League e numerose altre coppe.

Abramovich, che dopo lo scoppio della guerra ha lasciato il Chelsea per evitare la tagliola delle sanzioni e ha affidato la gestione alla Chelsea Charitable Foundation, si è offerto come mediatore nel conflitto in corso in Ucraina, Paese di origine della madre (lui è russo con nazionalità israeliana, portoghese e lituana), bene accetto da entrambe le parti, al punto che qualche giorno fa Volodymyr Zelensky, presidente dell'Ucraina, ha chiesto (e ottenuto) agli Stati Uniti di non imporre sanzioni al cinquantacinquenne oligarca, dopo quelle disposte dal regno Unito e dall'Unione Europea.

Abramovich ha partecipato a vari round dei negoziati. In uno dei primi, svoltosi il 3 e 4 marzo a Brest, in Bielorussia, lui e due dei negoziatori ucraini, tra i quali il deputato tataro Rustem Umerov, avrebbero sofferto sintomi che farebbero pensare a un avvelenamento, tra i quali «occhi rossi, desquamazione della pelle sul viso e sulle mani». Secondo il Wall Street Journal, che cita «fonti bene informate», le condizioni di Abramovich e degli altri non sarebbero mai state critiche e sarebbero migliorate rapidamente. La circostanza è stata confermata ieri pomeriggio anche da una portavoce di Abramovich, che da parte sue avrebbe raccontato di aver perso anche la vista per qualche ora e di essere stato curato in Trchia. Il capo negoziatore ucraino Mikhailo Podolyak smonta invece il film, parlando di «speculazione. Tutti i negoziatori ucraini lavorano come al solito».

Podolyak può dubitare dell'avvelenamento, non dei sintomi, che sembrano obiettivi. In ogni caso, chi avrebbe avuto interesse ad avvelenare il magnate e i funzionari ucraini? E lo scopo era intimidire i mediatori o ucciderli? E come sarebbe stato condotto il tentativo di avvelenamento dei tre? Alla prima domanda la risposta appare piuttosto semplice: l'attentato potrebbe essere stato commesso da chi a Mosca ha interesse a sabotare le trattative per mettere fine alla guerra. Probabilmente estremisti che hanno agito di loro iniziativa. Da questo punto di vista l'obiettivo sarebbe potuto essere raggiunto non necessariamente uccidendo Abramovich e gli altri, ma anche solo spaventandoli. Della serie: stavolta ve la siete cavata ma la prossima andrà peggio. La pensa così anche il sito investigativo Bellingcat, che ripostando la notizia parla di «armi chimiche» con dosaggio della tossina insufficiente per provocare problemi gravi. Ma gli esperti occidentali che stanno esaminando l'incidente non sono invece riusciti a determinare con chiarezza se si sia trattato di un agente chimico oppure di un agente biologico o addirittura un assalto con radiazioni elettromagnetiche. A quest'ultima pista sembra credere Mario Scaramella, esperto di intelligence che nel 2006 provoò a sventare l'omicidio dell'ex agente russo Alexander Litvinenko e fu a sua volta contaminato dal Polonio 210. «Più che di avvelenamento vero e proprio, che è roba da guerra fredda, mi pare si possa parlare di sintomi di irraggiamento con radiofrequenze. Come se li avessero cotti al microonde - dice all'Adn-Kronos -. Sono alcuni anni che gli agenti delle agenzie di intelligence americane e i diplomatici vengono esposti a questo tipo di avvelenamento da microonde» frutto di «pura disinformazione e condizionamento comportamentale, una sorta di pressione sui nemici».

Stampa americana: sintomi di avvelenamento per Abramovich. Secondo il Wall Street Journal l'oligarca russo e alcuni negoziatori di Kiev sarebbero stati colpiti da sabotatori delle trattative sul conflitto in Ucraina. Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.

L’oligarca russo Roman Abramovich e i negoziatori ucraini hanno sofferto sintomi di sospetto avvelenamento dopo un incontro a Kiev all’inizio del mese. Lo riporta il Wall Street Journal citando alcune fonti secondo le quali il sospetto attacco potrebbe essere stato commesso da alcuni a Mosca che volevano sabotare le trattative per mettere fine alla guerra.

Fra i sintomi riscontrati dopo l’incontro a Kiev all’inizio del mese c’erano “occhi rossi, desquamazione della pelle sul viso e sulle mani”. Da allora, riporta il Wall Street Journal, le loro condizioni di salute sono migliorate e non appaiono in pericolo.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha incontrato Abramovich, non ha avuto alcun problema. Gli esperti occidentali che stanno esaminando l’incidente ritengono che sia difficile determinare se i sintomi siano stati causati da un’agente chimico o biologico, o se si sia trattato di un attacco con radiazioni elettromagnetiche.

Una pace avvelenata: Roman Abramovich colpito il 3 marzo assieme ad altri due negoziatori. Benedetto Antonelli su Il Tempo il 29 marzo 2022.

L'oligarca russo Roman Abramovich e due negoziatori ucraini hanno «manifestato sintomi di sospetto avvelenamento» dopo un incontro a Kiev che si è tenuto il 3 marzo scorso. A rivelarlo è stato il Wall Street Journal. Abramovich avrebbe manifestato sintomi quali occhi rossi, lacrimazione dolorosa e desquamazione della pelle delle mani e del volto. La notizia, poco dopo, è stata confermata anche dallo stesso ex patron del Chelsea. Un suo portavoce, infatti, ha fatto sapere alla Bbc che ora sta bene e che continuerà ad adoperarsi per i negoziati. L'obiettivo è riuscire a far incontrare Putin con Zelensky. Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino, però, ha smentito il tentato avvelenamento. «Ci sono molte speculazioni e varie teorie del complotto - ha detto - tutti i negoziatori ucraini stanno bene».

Il sito investigativo Bellingcat, invece, sostiene che Abramovich e gli altri due mediatori hanno sofferto sintomi di avvelenamento da «armi chimiche», ma che il dosaggio della tossina utilizzata sarebbe stato insufficiente per provocare problemi gravi. Lo scopo, quindi, sarebbe stato solo quello di spaventare. Bellingcat «può confermare che tre membri della delegazione che ha partecipato ai colloqui di pace tra Russia e Ucraina la notte tra il 3 e il 4 marzo hanno sofferto sintomi coerenti con l'avvelenamento con armi chimiche. Una delle vittime era, appunto, Abramovich. Le sue condizioni di salute e quelle degli altri due negoziatori, tra cui il rappresentante dei tartari di Crimea Rustem Umerov, sono migliorate e i tre non sono in pericolo di vita». Su Twitter, Bellingcat ha spiegato che «Abramovich e un altro imprenditore hanno preso parte a negoziati insieme a Umerov. I colloqui si sono tenuti il pomeriggio del 3 marzo in territorio ucraino e sono durati fino alle 22». In seguito, «i tre membri del team negoziale si sono ritirati in un appartamento a Kiev e durante la notte hanno iniziato a manifestare i primi sintomi, tra cui infiammazione agli occhi e alla pelle, e dolore lancinante agli occhi. I sintomi non sono diminuiti fino al mattino». Quindi, «il giorno successivo il gruppo di negoziatori ha guidato da Kiev a Leopoli per dirigersi verso la Polonia e quindi a Istanbul, per continuare negoziati informali. A Bellingcat è stato chiesto un aiuto per individuare specialisti di armi chimiche che potessero eseguire un esame». E «in base a esami condotti in loco e da remoto, gli esperti hanno concluso che i sintomi erano molto probabilmente il risultato di un avvelenamento intenzionale con armi chimiche».

I sintomi erano compatibili con porfirina, organofosfati e sostanze bicicliche. Questo avvelenamento riporta subito alla mente quanto accaduto a personaggi considerati scomodi da Mosca, da Alexei Navalny ad Alexander Litvinenko, fino all'ex presidente ucraino Viktor Yushchenko. Il più recente è quello a Navalny. Era il 20 agosto 2020 quando l'oppositore di Putin perse conoscenza in volo da Tomsk a Mosca. L'aereo fece scalo a Omsk, dove Navalny venne ricoverato in coma. Due giorni dopo, su pressione di Francia e Germania, Navalny fu trasportato a Berlino all'ospedale la Charitè, dove gli venne salvata la vita. Era stato avvelenato con l'agente nervino novichok. Una volta guarito, nel gennaio 2021, Navalny è tornato in Russia dove è stato subito arrestato. Recentemente ha ricevuto una nuova condanna a nove anni di carcere.

Roman Abramovich «avvelenato con altri due negoziatori»: curato in Turchia, ha perso per ore la vista. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

La notizia del presunto avvelenamento diffusa da Wall Street Journal e Bellingcat, Ucraina e Usa smentiscono, ma c’è la conferma del portavoce del miliardario. I sintomi: eruzioni cutanee, mal di testa, perdita della vista. 

Di sicuro c’è solo che Roman Abramovich assieme a due negoziatori ucraini è stato male nei giorni scorsi per una forte intossicazione. Un tentativo di avvelenamento? O una semplice «questione ambientale» come sosterrebbe l’intelligence americana? Secondo la presidenza ucraina, poi, sarebbero tutte illazioni: i funzionari e gli altri personaggi che oggi dovrebbero riprendere i colloqui con la controparte russa in Turchia stanno «lavorando normalmente».

Difficile quindi capire cosa sia successo, anche perché tra Russia e Ucraina quando si sente parlare di sintomi misteriosi, di possibile avvelenamento, il pensiero corre subito ai tanti precedenti, uno più grave dell’altro. Dall’ex agente del Kgb Litvinenko, assassinato a Londra nel 2006, a Skripal, a Navalny che tentarono di eliminare mettendogli il Novichok negli slip. Il candidato alle presidenziali ucraine del 2004 Viktor Yushchenko che si ritrovò con il corpo coperto di bolle e si salvò per miracolo.

Iniziamo dal poco che sappiamo. Una persona vicina al magnate russo ha rivelato al Wall Street Journal che Abramovich è stato male due settimane fa, dopo un viaggio a Kiev per parlare con il presidente Zelensky. Era assieme a un altro negoziatore, il deputato Umerov (l’unico di cui è trapelato il nome); non appena arrivati a Istanbul, i due avrebbero avuto eruzioni cutanee, forti mal di testa e perdita della vista. Gli uomini sarebbero stati trattati in una clinica nella città turca e si sarebbero rimessi rapidamente. Qualcuno ha ipotizzato un avvelenamento dovuto a una sostanza atomizzata nell’aria. Il sito Bellingcat, che ha diffuso per primo la notizia, ha fornito una versione leggermente diversa: Abramovich si sarebbe sentito male dopo essere stato in una località ucraina diversa da Kiev e se ne sarebbe accorto una volta arrivato nella capitale. Non si capisce chi potrebbe avere interesse a eliminare o magari solo a intimidire l’ex patron del Chelsea.

Anche il suo ruolo nella trattativa è del tutto poco chiaro. Sarebbe stato coinvolto da Zelensky, viste le sue radici ebraiche (anche il presidente ucraino è ebreo, nonostante in Russia si sostenga che sia a capo di un governo filonazista) e la vicinanza con Vladimir Putin. Abramovich ha incontrato Putin in questo periodo e gli ha portato una lettera di Zelensky con le richieste ucraine . Secondo il Times di Londra, il signore del Cremlino avrebbe reagito male alle proposte arrivate da Kiev: «Digli che li spazzerò via!» avrebbe urlato ad Abramovich prima di congedarlo.

Il ruolo di ambasciatore tra i due contendenti avrebbe fruttato all’oligarca, almeno fino a ora, la non inclusione nella lista dei russi sottoposti a sanzioni da parte dell’amministrazione Usa. Questo a seguito di una esplicita richiesta che Zelensky ha fatto al presidente americano Biden.

Ma a un certo punto dal Cremlino è arrivata una strana precisazione. È stato detto che Abramovich aveva giocato un ruolo in un primo momento favorendo uno scambio di informazioni tra Mosca e Kiev. Ma che oramai la questione era passata nelle mani delle due delegazioni ufficiali. Questo vuol dire che Abramovich è fuori dai giochi? Non c’è una risposta definitiva.

Sappiamo, comunque, che l’oligarca è sì vicino a Putin ma non ha alcun potere su di lui e difficilmente potrebbe riuscire a fargli cambiare idea. Come tutti gli altri grandi imprenditori russi, è lui a dipendere in tutto e per tutto dal volere del numero uno e non viceversa.

Nei primi anni della presidenza Putin, venne chiesto ad Abramovich di prendersi cura di una delle aree depresse della Russia, la Chukotka. E lui obbedì, diventandone per 8 anni governatore e investendoci un miliardo di euro.

Cosa sappiamo del misterioso “avvelenamento” di Roman Abramovich. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 29 marzo 2022

Il proprietario del Chelsea avrebbe perso la vista per alcune ore mentre era impegnato in un negoziato parallelo e segreto per arrivare alla pace in Ucraina, ma molte cose in questa storia ancora non tornano

Lunedì sera, mentre le delegazioni di Ucraina e Russia si dirigevano verso Istanbul, dove oggi è previsto l’inizio di nuovi colloqui di pace, è uscita la notizia che il miliardario russo Roman Abramovich, proprietario della squadra di calcio Chelsea e stretto alleato di Putin, era stato avvelenato all’inizio di marzo, mentre prendeva parte a delle trattative parallele e segrete.

La notizia è stata diffusa dal sito Bellingcat e dal Wall Street Journal ed è stata confermata da un portavoce di Abramovich. Gli ucraini non hanno commentato la notizia, mentre un funzionario americano ha detto a Reuters che al momento non ci sono elementi per supporre che si tratti di un caso di avvelenamento. 

I FATTI

Secondo la ricostruzione di Bellingcat e del Wall Street Journal, i fatti si sarebbero svolti nella notte tra il 3 e il 4 marzo, mentre Abramovich si trovava a Kiev per condurre negoziati segreti con alcuni rappresentati del governo ucraino: il parlamentare Rustem Umerov e altri due individui.

I quattro avrebbero consumato soltanto «acqua e ciccolato» prima che tre di loro, Abramovich, Umerov e una terza persona, iniziassero a manifestare i primi sintomi: irritazione alla pelle e un penetrante dolore agli occhi. Abramovich avrebbe perso la vista per alcune ore.

Il giorno successivo, il gruppo avrebbe lasciato l’Ucraina per la Polonia per poi dirigersi a Istanbul, dove avrebbe ricevuto un trattamento medico. I sintomi sarebbero durati per poco tempo e sembra che non abbiano avuto conseguenze a lungo termine. Mentre erano a Istanbul, i tre sono entrati in contatto con gli esperti investigativi del sito Bellingcat.

«Un esame a distanza e sul posto da parte di esperti di guerra chimica – ha scritto Bellingcat – ha dimostrato che i tre sono stati vittime di un avvelenamento con una sostanza chimica non identificata». Secondo Gozev e Bellingcat, la dose di veleno ricevuta dai tre non era pensata per ucciderli, ma soltanto per spaventarli. 

Tra i possibili responsabili sono stati indicati funzionari russi favorevoli alla linea dura e contrari ai negoziati. I servizi segreti russi hanno utilizzato spesso sostanze chimiche per avvelenare i propri avversari. La lista include l’attivista politico russo Alexei Navalny, l’ex spia russa Sergei Skripal e sua figlia Yulia e l’ex presidente ucraino Viktor Yushchenko.

IL RUOLO DI ABRAMOVICH

Per la sua amicizia con Putin e la sua capacità di avvicinare il presidente russo, Abramovich è coinvolto in un negoziato parallelo tra Russia e Ucraina fin dai primi giorni di guerra. 

Anche se il suo ruolo era noto, non gli è stata data grande pubblicità fino a ieri. Per la sua amicizia con Putin, Abramovich si trova sulla lista delle persone sanzionate di Unione Europea e Regno Unito. Non è stato invece sanzionato dagli Stati Uniti, su esplicita richiesta del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Secondo il giornalista del Guardian ed esperto di Ucraina Shaun Walker, Abramovich è stato coinvolto nei negoziati su suggerimento del produttore cinematografico ucraino Alexander Rodnyansky. Lo scopo, ha spiegato al Guardian il figlio di Rodnyansky, era utilizzare Abramovich per cercare di comunicare direttamente con il presidente russo Vladimir Putin.

Rodnyansky ha spiegato al Guardian che gli ucraini non speravano molto in questa pista, visto il crescente isolamento di Putin, ma allo stesso «dovevamo tentare ogni strada per dare una possibilità agli accordi di pace». Secondo il Guardian, nel corso dell’ultimo mese Abramovich si è incontrato almeno una volta con Zelensky e una con Putin. Al momento si trova a Istanbul per partecipare ai colloqui in corso.

I MISTERI

I dettagli di questa storia, però, continuano a rimanere oscuri. Per cominciare, non c’è nessuna conferma ufficiale della storia da parte del governo ucraino, che non conferma nemmeno il ruolo di Abramovich nei negoziati. Un portavoce del presidente ucraino Zelensky si è limitato a raccomandare di «ascoltare soltanto le informazioni ufficiali» sottolineando che «circolano molte speculazioni al momento». Ieri, il capo delegazione ucraino ai negoziati Mykhailo Podolyak si è rifiutato di rispondere sul ruolo di Abramovich nei negoziati. 

Stesse parole del deputato Umerov, uno dei tre che sarebbero stati avvelenati a Kiev il 3 marzo, che su Facebook ha scritto di essere in buona salute e ha invitato i suoi lettori a non fidarsi delle «informazioni non verificate».

Ulteriori dubbi sulla vicenda sono stati sollevati da un anonimo funzionario americano interpellato dall’agenzia Reuters, secondo cui gli elementi a disposizione al momento indicano che l’episodio è probabilmente frutto di «circostanze ambientali» e cioè «non è stato causato da un avvelenamento». Reuters specifica che il funzionario non ha voluto aggiungere altro.

Negli stessi giorni del supposto avvelenamento, a Kiev si è verificato un altro episodio tutt’ora inspiegato. Il 6 marzo, uno dei membri del team ufficiale dei negoziatori ucraini, Denys Kireev, è stato ucciso nella capitale.

Inizialmente era circolata la notizia che Kireev fosse una spia russa e che fosse morto mentre resisteva all’arresto. Successivamente, l’intelligence militare ucraina ha scritto che Kireev era stato ucciso insieme ad altri due operatori mentre era in servizio, facendo supporre che Kireev lavorasse per loro. Tutt’ora non è chiaro se Kireev sia morto a causa del suo ruolo nei negoziati e se la sua vicenda è collegata all’avvelenamento di Abramovich.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Roman Abramovic, "digli che lo spazzerò via": retroscena, subito dopo la minaccia di Putin l'avvelenamento dell'oligarca. Libero Quotidiano il 29 marzo 2022.

Roman Abramovich sarebbe stato avvelenato il 3 marzo scorso durante un incontro per i negoziati di pace con la Russia su incarico del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L'oligarca amico di Vladimir Putin, un altro magnate russo e il parlamentare ucraino Rustem Umerov hanno avuto tutti sintomi da avvelenamento: occhi rossi con lacrimazione dolorosa e desquamazione della pelle del viso e delle mani. Addirittura Abramovich avrebbe perso la vista per qualche ora e sarebbe stato curato in un ospedale turco. Un "avvelenamento leggero", probabilmente una sorta di "avvertimento". 

Ma chi lo ha voluto "spaventare"? I sospetti, riporta Il Messaggero, cadono su ambienti russi che non vogliono la fine del conflitto. Quel che è certo è che i tre negoziatori hanno cominciato a manifestare questi sintomi mentre si trovavano in un appartamento a Kiev durante una riunione che sarebbe durata parecchie ore. Difficile che la contaminazione sia avvenuta in quel luogo, più facile invece che sia avvenuta prima visto che erano appena tornati da altri colloqui in Bielorussia o forse a Mosca. Del resto sappiamo bene che Abramovich da settimane fa aventi e indietro tra Kiev, Istanbul e Mosca appunto. 

Non solo. Abramovich secondo un retroscena riportato dal Daily Mail e dal Times ha consegnato al presidente russo dei messaggi scritti a mano da Zelensky con le sue condizioni per la pace. Messaggi che hanno fatto infuriare Putin che sarebbe esploso di rabbia e avrebbe urlato: "Digli che li spazzerò via".

Roman Abramovich, il retroscena: consegna a Putin il messaggio di Zelensky, "lo zar esploso come una furia". Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Non ha reagito bene il presidente russo Vladimir Putin quando il suo fedelissimo oligarca Roman Abramovich - che sta facendo da mediatore - gli ha consegnato un messaggio di Volodymyr Zelensk. Secondo quanto riporta il Daily Mail, il proprietario del Chelsea che per evitare le sanzioni dell'Occidente ora si trova in Turchia, avrebbe viaggiato tra Istanbul, Mosca e Kiev per trasmettere messaggi tra lo zar e il presidente ucraino. Si racconta però che quando Abramovich ha portato una nota del presidente ucraino che delineava i termini di pace a Puti, lo zar "sarebbe esploso come una furia".

Abramovich è stato duramente colpito dalle sanzioni contro di lui da parte del Regno Unito, dove non può nemmeno mettere piede, e da parte dell'Unione europea. Non può vendere il Chelsea e i suoi yacht hanno lasciato i porti dei mari europei per approdare in Turchia. Nel frattempo, Zelensky avrebbe supplicato il presidente Joe Biden agli Stati Uniti di sospendere le misure contro l'oligarca  proprio per il suo ruolo nei negoziati.

L'oligarca era quindi arrivato in aereo a Mosca per incontrare Putin e consegnargli una nota scritta a mano da Zelensky per un accordo di pace. Ma il presidente russo ha detto all'oligarca: "Digli che li distruggerò". Così Abramovich è tornato a Istanbul e si è incontrato in un hotel a cinque stelle con il politico ucraino Rustem Umerov, che è negoziatore di Kiev, e con il portavoce del presidente Recep Tayyip Erdoğan, Ibrahim Kalin.

Roman Abramovich, "sintomi di avvelenamento: dolori e desquamazione della pelle". Putin ha cercato di ucciderlo? Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Dal Wall Street Journal arriva un’indiscrezione a dir poco rilevante sulla guerra in Ucraina. Non si tratta di una notizia “militare”, ma paradossalmente addirittura più importante perché riguarda il tavolo dei negoziati: Roman Abramovich e i delegati di pace ucraini avrebbero sofferto sintomi da avvelenamento dopo un incontro a Kiev avvenuto all’inizio di marzo.

Né l’oligarca russo né i tre negoziatori ucraini sarebbero in pericolo di vita, ma resta il fatto che abbiano accusato sintomi piuttosto sospetti e riconducibili ad un avvelenamento. Di che tipo è difficile stabilirlo: gli esperti occidentali che hanno analizzato l’accaduto hanno affermato che non si può determinare se i sintomi erano stati causati da un agente chimico o biologico o da una sorta di attacco di radiazioni elettromagnetiche. Per quanto concerne Abramovich, dopo quell’incontro a Kiev è stato anche a Mosca e in altre sedi negoziali: in questo arco di tempo ha sviluppato sintomi che includevano occhi rossi, lacrimazione costante e dolorosa e desquamazione della pelle del volto e delle mani.

Gli stessi sintomi accusati anche dai negoziatori ucraini, che sospettano un attacco da parte di esponenti di Mosca che avrebbero voluto sabotare i colloqui di pace: ma a che scopo? E soprattutto perché includere anche Abramovich che in teoria è un oligarca vicino a Vladimir Putin? Tra l’altro il magnate russo dopo il tavolo di Kiev ha incontrato anche Volodymyr Zelensky, il cui portavoce ha affermato di non avere alcuna informazione su un sospetto avvelenamento.

I sintomi: "Occhi rossi e desquamazione della pelle". La conferma del portavoce. “Abramovich avvelenato con i negoziatori ucraini”, l’ombra dell’attacco all’oligarca che negozia con la Russia. Vito Califano su Il Riformista il 28 Marzo 2022. 

Roman Abramovich e alcuni negoziatori ucraini avrebbero accusato dei sintomi di avvelenamento. A riportare la notizia è l’agenzia di stampa statunitense Bloomberg. E la notizia fa parecchio rumore considerando la partecipazione di Abramovich alle negoziazioni Ucraina-Russia sulla guerra in corso dal 24 febbraio. L’oligarca si era proposto come mediatore. Sarebbe stato presente al primo round di colloqui a Gomel ma nelle foto diffuse non compariva mai. Nessuna delle persone coinvolte è in pericolo o soffre ancora delle conseguenze del presunto attacco.

I sintomi sarebbero stati accusati dall’oligarca dopo un incontro a Kiev all’inizio del mese. Il Wall Street Journal aggiunge che il sospetto attacco potrebbe essere stato commesso come un atto di sabotaggio delle trattative per mettere fine all’invasione. Occhi rossi, desquamazione della pelle sul viso e sulle mani i sintomi accusati. Le condizioni dei destinatari dell’attacco sarebbero comunque migliorate. Non sarebbero in pericolo al momento. Le fonti citate dal Wall Street Journal concordano nell’attribuire il presunto attacco a “estremisti russi che vogliono sabotare i colloqui fino alla fine della guerra”

La conferma arriva dal portavoce dell’ex presidente del Chelsea secondo il quale l’oligarca russo ha sofferto i sintomi di un sospetto avvelenamento all’inizio del mese dopo un incontro avvenuto nell’ambito dei negoziati per la pace fra Ucraina e Russia. Il portavoce, si legge sul sito della Bbc, non conferma se ci sono state altre persone che hanno avuto gli stessi sintomi né chi possa essere l’autore di questo presunto avvelenamento. Presunto avvelenamento che si sarebbe verificato a Kiev il 3 e il 4 marzo scorsi, prendendo parte a dei negoziati di pace nella capitale.

Abramovich si troverebbe in questo momento a Mosca, dove è arrivato con un volo privato dalla Turchia dove si era rifugiato per sfuggire alle sanzioni. Stando a quanto riportato da diversi media internazionali l’ex patròn del Chelsea avrebbe portato al presidente russo Vladimir Putin una lettera del suo omologo Volodymyr Zelensky – al momento le richieste di un incontro di quest’ultimo per risolvere il conflitto non sono state accolte dal suo omologo che ha lanciato l’operazione di “smilitarizzazione” e “denazificazione”.

Il prossimo round di negoziati è previsto per domani, in Turchia, tra due delegazioni dei rispettivi ministeri degli esteri. Non è stato chiarito se il supposto avvelenamento sia avvenuto tramite agenti chimici o biologici o se si sia trattato di un attacco con radiazioni elettromagnetiche. Il Wsj riporta perfino una fonte vicina ad Abramovich che dichiara che non è chiaro chi abbia preso di mira il gruppo.

Abramovich, 55 anni, passaporto russo e israeliano è stato spesso e volentieri indicato come mediatore tra le due parti in guerra. La madre era ucraina. Ha un patrimonio di circa sei miliardi di euro e ha annunciato la cessione del Chelsea, club della Premier League inglese e campione in carica della Champions League. Stando a diversi media americani Zelensky ha chiesto ai Paesi occidentali di non includere Abramovich tra i destinatari delle sanzioni. Prima di volare a Mosca Abramovich avrebbe incontrato proprio il presidente ucraino.

Abramovich, persi in tenera età entrambi i genitori e cresciuto da uno zio paterno, approfitto delle aperture all’economia di mercato dell’Unione Sovietica e investì in petrolio e derivati. Con l’imprenditore Boris Berezovskij acquistò nel 1995 il colosso petrolifero Sibneft, pagandolo circa cento milioni di dollari. Negli stessi anni acquistò quote consistenti della compagnia aerea statale Aeroflot e investì nel settore dell’alluminio. Divenne così tra i più noti e influenti e cosiddetti oligarchi, giovani imprenditori divenuti ricchissimi dopo aver comprato a basso prezzo le maggiori aziende pubbliche del paese, privatizzate in seguito al crollo dell’URSS.

Abramovich non ha mai subito le conseguenze penali dei controlli che il nuovo Presidente Vladimir Putin riscontrò nelle società di alcuni oligarchi, facendo così nascere sospetti di legami tra i due. L’oligarca rivendette a 13 miliardi di dollari le quote della Sibneft e investì nel gruppo siderurgico Evraz. È stato eletto governatore della Chukotka, remota regione russa vicina all’Alaska, ricca di risorse energetiche. Abramovich investe più di un miliardo di dollari del proprio patrimonio in opere pubbliche, conquistando così il consenso della popolazione. Ha comprato nel 2003 il Chelsea, storico club di Londra, portandolo sul tetto del mondo e aumentando la sua nomea a livello internazionale. Soft Power che la guerra in Ucraina ha incrinato.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

(ANSA il 27 marzo 2022. - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accusato oggi l'Occidente di non aver abbastanza "coraggio" quando si tratta di aiutare l'Ucraina, ripetendo la sua richiesta di inviare aerei e carri armati a Kiev. Parlando in un nuovo video sui suoi canali social, Zelensky ha affermato che l'Occidente "gioca a ping-pong nel decidere chi dovrebbe mandare i jet". "Oggi ho parlato con i difensori di Mariupol - dice -. Sono in costante contatto con loro. La loro determinazione, il loro eroismo e la loro fermezza sono straordinarie. Se solo coloro che da 31 giorni stanno pensando come mandarci aerei e tank avessero l'1% del loro coraggio". 

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2022.

Le sostanze letali sono parte della lotta «coperta», in tempo di pace e in guerra. In attesa di conferme o smentite sull'avvelenamento della delegazione ucraina, possiamo ripercorrere la storia del «killer silenzioso»: un metodo - in teoria - più «pulito» del sicario con la pistola, anche se spesso gli agenti con licenza d'uccidere si sono fatti beccare. Molti servizi segreti hanno usato veleni per eliminare gli avversari, e i russi hanno una tradizione di attacchi portati con sistemi «non ortodossi». 

Negli anni Venti l'intelligence sovietica aveva creato il Dipartimento 12, noto anche come «Kamera», con questo compito: una missione poi proseguita dal Kgb. Già negli anni Cinquanta, un paio di nazionalisti di estrema destra ucraini, protagonisti di gesti di resistenza anti-sovietica, vennero eliminati da Mosca ricorrendo a questi metodi.

I precedenti La storia è proseguita per decenni. Nel 2004, il leader dell'opposizione ucraina Viktor Yushchenko venne avvelenato con la diossina: nel suo sangue c'era una concentrazione mille volte superiore rispetto ai livelli normali, una quantità facile da somministrare con una minestra.

Yushchenko si salvò, a differenza dell'ex agente del Kgb Aleksandr Litvinenko, assassinato nel 2006 a Londra con un tè «corretto» con il polonio radioattivo. L'operazione, ha concluso nel 2016 un'inchiesta britannica, fu probabilmente autorizzata da Putin in persona. Nel 2018, sempre in Gran Bretagna, un altro ex agente del Kgb viene ritrovato incosciente insieme alla figlia su una panchina di Salisbury: Sergey e Yulia Skripal vengono ricoverati per avvelenamento, un tentativo di omicidio con il gas nervino Novichok. 

Sopravvissero entrambi ma, qualche mese dopo, una donna trovò in un parco la fiala del veleno abbandonata, e morì. Come per le armi comuni, esistono gli effetti collaterali, dipende da circostanze e capacità del killer: c'è il rischio di contaminare innocenti o testimoni. Due dei presunti colpevoli finiranno poi in un'indagine aperta in Bulgaria per il tentato omicidio - nel 2015 - di un mercante d'armi. Prima ancora, in piena Guerra fredda, gli 007 bulgari liquidarono l'esule Georgi Markov con una micro-pallina alla ricina sparata da un ombrello modificato in una via di Londra.

C'è poi il caso del dissidente Aleksej Navalny, il principale oppositore di Putin, avvelenato nell'agosto del 2020 in Siberia. Si salva grazie a un atterraggio di emergenza a Omsk, dove un'eliambulanza tedesca lo preleva per portarlo a Berlino: l'agente nervino che doveva ucciderlo, emerse successivamente, era stato nascosto nelle mutande. «Avevamo Alessandro il Liberatore e Jaroslav il Saggio», disse Navalny. 

«Ora avremo Vladimir, l'avvelenatore di mutande». Il terrore L'esperto Andrei Soldatov ha spiegato perché i russi «amano» questa tecnica. Non solo serve per spazzare via il target, ma la sua agonia avviene sotto gli occhi dei familiari: accresce l'impatto, la sofferenza, il terrore. È un messaggio di deterrenza, rivolto anche ad altri possibili avversari.

A volte, per creare una cortina fumogena, sostengono che la vittima in realtà non sia stata contaminata: i problemi di salute deriverebbero invece da malattie, medicine, droghe, cibo avariato. Per questo spesso si parla di «sospetto di avvelenamento», ma è anche possibile negare e dirottare la responsabilità su colpevoli diversi. 

Può anche diventare strumento di provocazione da parte di forze straniere o nemici interni, in una faida di potere. Il Mossad israeliano definisce questo modus operandi «la pozione di Dio», una soluzione che, in teoria, non deve lasciare traccia.

Così ha fatto fuori nel 2010 a Dubai un alto dirigente di Hamas impegnato nell'approvvigionamento di armi. Nel 1997 aveva cercato invece di avvelenare ad Amman Khaled Meshal, sempre di Hamas. L'operazione fallì, trasformandosi in un fiasco diplomatico: furono costretti a fornire un antidoto e a liberare il padre storico del movimento integralista, lo sceicco Yassin. Il regime nordcoreano ha invece organizzato la trappola con il nervino contro il fratellastro di Kim Jong-un, sospettato di parlare con la Cia, all'aeroporto di Kuala Lumpur. Proprio la Cia, secondo molte ricostruzioni, aveva pensato di sopprimere Fidel Castro ricorrendo a un sigaro avvelenato.

(ANSA il 29 marzo 2022) - Fonti non ufficiali statunitensi e ucraine hanno sollevato sospetti circa la veridicità del presunto avvelenamento denunciato dal miliardario russo Roman Abramovich che ne avrebbe accusato i sintomi durante i colloqui di pace al confine tra Ucraina e Bielorussia all'inizio di questo mese, secondo fonti a lui vicine.

Stessi sintomi avrebbero accusato due negoziatori di pace ucraini. Lo riporta la Bbc citando un rapporto secondo cui il presunto avvelenamento sarebbe stato orchestrato da estremisti russi che volevano sabotare i colloqui.

Un funzionario statunitense tuttavia, citato da Reuters e ripreso dalla Bbc in condizione di anonimato, avrebbe affermato che l'intelligence suggeriva che i sintomi degli uomini fossero dovuti a fattori "ambientali" e non ad avvelenamento.

In seguito un funzionario dell'ufficio del presidente ucraino, Ihor Zhovkva, ha detto alla BBC che, sebbene non avesse parlato direttamente con Abramovich, i membri della delegazione ucraina stavano "bene" e che uno di loro aveva definito "falsa" l'ipotesi di avvelenamento. 

Tuttavia, il corrispondente della BBC per la sicurezza Frank Gardner ha osservato che non sorprenderebbe che gli Stati Uniti volessero smorzare i sospetti circa l'uso di armi chimiche, in particolare da parte russa, in Ucraina, una mossa che potrebbe spingerli ad azioni di rappresaglia a cui non vorrebbero arrivare.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2022.  

Chissà se è per via di quella foto. Anni fa, i giornalisti convocati per la prima intervista a Roman Abramovich, proprietario del Chelsea che aveva appena vinto il titolo della Premier league, notarono l'immagine in bianco e nero di una donna dentro una piccola cornice. 

Quando gli chiesero chi fosse quella persona, il miliardario dallo sguardo timido tagliò corto. «È mia nonna», disse. E fu lui per una volta a cambiare argomento. Si chiamava Faina Mikhailenko. Era nata e cresciuta a Kiev, come suo marito Vasily.

Fuggì dalla capitale ucraina nel 1941, mentre le truppe naziste stavano invadendo il suo Paese.

E così facendo si salvò dal massacro di Babyn Yar, avvenuto tre mesi dopo la sua partenza, dove vennero uccisi oltre trentatremila ebrei ucraini. Con sé, Faina portava la sua ultima figlia, di appena due anni, Irina, che nel 1966 avrebbe messo al mondo un bambino chiamato Roman. 

Ribellione in famiglia

Le settimane folli dell'oligarca più famoso e riservato del mondo erano cominciate con la ribellione della figlia Sophia, che con una storia su Instagram era stata la prima figlia dei «russi occidentali», a dire no alla guerra. Era il 26 febbraio. 

Pochi giorni dopo, nella sorpresa generale, mentre alcuni suoi colleghi oligarchi prendevano posizione contro l'operazione militare speciale e lui taceva come di consueto, era stato indicato addirittura da Volodymyr Zelensky come negoziatore per i colloqui di pace.

E subito era trapelata la notizia che avesse accettato solo dopo aver ottenuto il benestare del Cremlino. Sembrava quasi un orpello, la sua presenza. Invece, l'ormai ex proprietario del Chelsea, cittadino russo, lituano, portoghese e israeliano, ci ha provato. 

Lo testimoniano le rotte percorse dal jet affittato da una compagnia privata turca, con viaggi continui tra Mosca, Istanbul, Kiev, Varsavia, Minsk. 

Il presidente ucraino ha spiegato che l'oligarca era inserito nella delegazione russa di un non meglio precisato sottocomitato, ma che aveva esteso il suo ambito di azione alle questioni umanitarie, occupandosi di facilitare anche con risorse proprie l'evacuazione dei civili da Mariupol. Quasi un modo per schierarsi senza proferire parola. Ma in queste bizzarre negoziazioni, dove i russi al tavolo riconoscono di non avere alcun contatto diretto con il Cremlino, Roman Abramovich è sempre stato la chiave per arrivare a Putin.

Messaggio al Cremlino

E mercoledì scorso, lo ha fatto, arrivando a Mosca per portargli una nota scritta a mano da Zelensky sulla quale erano scritte le condizioni per mettere fine alla guerra. «Digli che lo distruggo», sarebbe stata la risposta di un Putin dall'aria cupa. Poco importa la relativa gravità dell'avvelenamento subito lo scorso 3 marzo da Abramovich e dagli altri tre diplomatici ucraini. 

Il gruppo Bellingcat, agenzia di giornalismo investigativo con sede in Olanda, è riuscito anche a entrare in possesso di alcune foto che documentavano lo stato di Abramovich dopo l'avvelenamento avvenuto tramite cioccolato e acqua, gli unici alimenti consumati quella sera dalla delegazione. E basandosi su analisi fatte da remoto e anche sul posto, ha stabilito che potrebbe trattarsi di un attacco chimico effettuato in dosi modeste. Un avvertimento.

La cosa davvero importante è che Abramovich sapeva dove si stava infilando. Sapeva cosa succede a chi dispiace allo Zar. Era consapevole di correre un rischio. Lui c'era, alla cena privata nella sua residenza di Novo-Ogarevo, quando una volta passati al cognac, Putin ordinò al suo amico Michail Khodorkovskij «di non finanziare più i comunisti». 

Quando quello rispose che non voleva obbedire, il presidente divenne paonazzo, e tutti gli ospiti vennero mandati via. Pochi mesi dopo, l'oligarca dissidente finì in un carcere siberiano.

Un rischio di troppo

In questi anni, Abramovich ne ha visti cadere molti, dei suoi ex compagni del Komonsol, giovani brillanti cresciuti nella Federazione giovanile del Partito comunista russo e diventati poi miliardari grazie alle privatizzazioni degli anni Novanta. Lui, ex portaborse di Boris Eltsin, è uno dei pochi di quella prima nidiata a essersi salvato.

Lo ha fatto nell'unico modo possibile. Obbedendo, chinando la testa, assecondando. Quando Putin gli ordinò di fare il governatore della Cukotka, una regione ghiacciata dimenticata da Dio e dagli uomini, lui ci rimase per otto anni, dal 2000 al 2008. E finanziò di tasca sua quella regione, spendendo decine di miliardi di rubli. Tutto pur di fare contento il Presidente-padrone. Fino allo scorso 24 febbraio. Da allora, ha fatto capire in ogni modo cosa pensa davvero di questa guerra. E infine si è messo in gioco. Certe volte, più che il richiamo del patrimonio, conta quello del sangue.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 29 marzo 2022.

Il veleno non fa bene ai (presunti) negoziati - vere o false che siano le intenzioni dei colloqui. 

La storia sinistra dell'avvelenamento di Roman Abramovich e di due dei negoziatori ucraini non fa che rendere ancora più impervia la strada dei colloqui che riprendono oggi a Istanbul tra le delegazioni russe e ucraine, mentre la Russia intensifica i bombardamenti sull'Ucraina (non esattamente un segno di trattativa).  

Ieri il Wall Street Journal e il team investigativo di Bellingcat - che aveva già in passato identificato la squadra del FSB (i servizi segreti interni russi) responsabile dell'avvelenamento di Alexey Navalny in Siberia - hanno pubblicato la notizia che l'oligarca patron del Chelsea e due negoziatori ucraini che erano con lui (tra cui il deputato Rustem Umerov) sarebbero stati avvelenati il 3 marzo in Ucraina, nei negoziati vicino al confine con Polonia e Bielorussia. 

Abramovich e gli altri due hanno sofferto di chiari sintomi di avvelenamento, occhi rossi, lacrimazione costante e dolorosa, desquamazione e caduta della pelle del volto e delle mani, durati un giorno e una notte. 

L'oligarca numero uno (ma lui ha sempre negato di esserlo) - quello che per anni è stato il testimonial russo dal volto liberal, con i jeans, la barbetta curata e la camicia fuori dai pantaloni, il russo che incantava Londongrad - perse la vista per alcune ore, confermano adesso diverse fonti tra cui Mikhail Khodorkovsky, l'ex patron di Yukos che invece si fece dieci anni in Siberia e fu espropriato della sua azienda per non essersi piegato a Putin.

Un portavoce di Abramovic ha confermato alla Bbc l'avvelenamento. Anche Khodorkovsky fu avvelenato. Tremendo parallelismo della storia, sintomi analoghi toccano ora all'uomo che iniziò la sua ascesa proprio dopo l'esproprio putiniano ai danni di Khodorkovsky, che ricorda: «Quando sono stato avvelenato nel 2018 a Mosca, la prima cosa che ha iniziato a deteriorarsi drammaticamente è stata la mia vista. Due ore dopo essermi sentito male non riuscivo a vedere nulla, tre ore dopo ho perso conoscenza». 

Secondo il WSJ, le stesse vittime del presunto veleno avrebbero indicato come responsabili «i falchi di Mosca contrari alla trattativa». La Stampa ha verificato indipendentemente questo punto. 

"Hardliners", nel linguaggio degli osservatori anglosassoni del Cremlino, sta di solito per i servizi segreti di Mosca, o almeno una parte dei servizi segreti, quelli più ostili a qualunque ipotesi di pace. Se fosse vero si delineerebbe uno scontro fratricida a Mosca, tra pezzi di siloviki - gli uomini degli apparati, militari e intelligence - e oligarchi, o almeno il gruppo di oligarchi attorno a Abramovich.

Il capo negoziatore ucraino, Mikhailo Podolyak, parla invece di «speculazioni», a proposito di questo identikit dei responsabili, aggiungendo che tutti i negoziatori ucraini «sono al lavoro come al solito». 

Un tentativo di tenere aperta una porta. La vicenda del resto è opaca: ricorda Andrew Roth del Guardian che tre giorni dopo il presunto avvelenamento di Abramovich, un membro della squadra di negoziatori ucraina era stato ucciso a colpi di arma da fuoco. 

Le cronache dissero che era stato giustiziato come traditore, poi fu annunciato che era un agente dell'intelligence ucciso in servizio.

Proprio ieri Zelensky aveva fatto filtrare due possibili piattaforme di dialogo: apertura sulla neutralità di Kiev, ma a patto che ogni discussione sia preceduta dal cessate il fuoco (che però è lungi dall'intravedersi, anzi, la Russia bombarda a tutto spiano). 

L'avvelenamento non sembra certo andare nella direzione sperata. Sarebbe avvenuto dopo uno degli incontri tra russi e ucraini in Ucraina: Abramovich di recente si è mosso tra Kiev, Leopoli, e altre sedi (alcune segrete) dei negoziati, di solito utilizzando il suo aereo privato (decollato da Istanbul), Mosca e l'Ucraina. Non è riuscito a evitare sempre alimenti non controllati, tra cui cioccolata e acqua.

Per Bellingcat, che ha coinvolto negli esami due esperti di armi chimiche, «i sintomi sono compatibili con varianti di porfirina, organofosfati o sostanze bicicliche. Una determinazione definitiva non è stata possibile a causa dell'assenza di attrezzature di laboratorio specializzate vicino alle vittime. Un'ipotesi alternativa meno probabile è che siano stato usate contro di loro irradiazioni a microonde».

Volodymyr Zelensky, che ha incontrato Abramovich in quel round di colloqui, non ha avuto alcun problema. Proprio ieri il presidente ucraino, parlando a un gruppo di media indipendenti russi degli oligarchi impegnati nelle trattative, aveva detto: «Tutta questa gente ha paura delle sanzioni. Non ne sono sicuro, diciamo solo che la penso così. Comprendo la comodità in cui si trovavano e che lasceranno o hanno già lasciato. Stanno tutti cercando una via d'uscita». 

Zelensky aveva anche chiesto agli Stati Uniti di non inserire il nome di Abramovich nella lista dei sanzionati dall'America (dopo che gli sono stati sequestrati tutti gli asset in Europa e Uk, luoghi dove ormai ha anche il divieto di viaggio). Segno che l'oligarca un qualche ruolo stava giocando, agli occhi di Kiev. Ieri il Times ha raccontato che mercoledì Roman Abramovich era volato a Mosca, dove avrebbe consegnato a Putin una nota di Zelensky contenente le condizioni ucraine per la pace. Il presidente russo, dopo aver letto la nota, scrive il quotidiano londinese, gli avrebbe detto: «Digli che li spazzerò via».

Spie, sabotatori e l'ipotesi del bluff di Roman. Angelo Allegri su Il Giornale il 30 marzo 2022.  

Gli occhi azzurro chiari e la faccia da bimbo appena invecchiato ingannano. In realtà nessuno ha saputo navigare in trenta anni di storia russa con la stessa spregiudicatezza di Roman Abramovich: oligarca tra i più famelici, enfant prodige di casa Eltsin, poi trait d'union tra gli oligarchi stessi e il potere di Putin. Chris Hutchins, giornalista inglese che ha pubblicato le biografie di entrambi, ha scritto che tra i due c'è il rapporto di un padre con il figlio preferito.

Forse anche per questo nella storia del presunto avvelenamento c'è chi dubita della versione dello stesso Abramovich. Di prove non ce ne sono, nessuno ha pensato di prelevare in tempo utile dei reperti per farli analizzare. Catherine Belton, nel suo «Gli uomini di Putin», ha scritto che Abramovich comprò il Chelsea su indicazione di Putin che voleva migliorare l'immagine della Russia e avere una carta da giocare in un settore importante come il calcio. Il miliardario ha fatto causa e le parti si sono accordate per una versione più soft da inserire nelle nuove edizioni del libro, senza più l'intervento del Cremlino.

La sostanza però rimane: Abramovich è da sempre la versione più presentabile del potere dei soldi russi. E la sua capacità di giocare su più tavoli è confermata in questo caso dal fatto che a chiamarlo al tavolo delle trattative sia stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

La vicenda del veleno, nel cioccolato o nell'acqua, le uniche cose che le persone coinvolte hanno mangiato o bevuto, resta comunque tutta di scrivere. Secondo la prima interpretazione dello stesso Wall Street Journal, che ha dato la notizia, a idearla sarebbero i «duri» del regime putiniano, pronti a sabotare gli accordi di pace. Sarebbe una notizia importante visto che presuppone l'esistenza di più linee di pensiero all'interno del Cremlino. L'idea prevalente tra gli analisti è che in realtà di linea ce ne sia una sola: quella di zar Vladimir. E che ormai, come nei film sui despoti orientali, siano ormai pochissime le persone in grado di vederlo o di influenzarlo. Fino a qualche settimana fa c'era di sicuro il ministro della Difesa Serghey Shoigu, che ora in molti danno in disgrazia o semplicemente poco presente per un infarto. I sicuri interlocutori restano due: Nikolai Patrushev e il meno noto Jurij Kovalchuk. Il primo, presidente del Consiglio di sicurezza, è la quintessenza della spia ed è anche lui un ex Kgb. A Patrushev si deve la definizione di «nuova nobiltà» riferita agli uomini dei servizi di sicurezza, destinati a incarnare ormai l'élite del Paese.

Kovalchuk, invece è invece, secondo molti, il «banchiere» di Putin. Michail Zygar, uno dei più noti giornalisti russi, uno dei quattro ad aver intervistato nei giorni scorsi il presidente ucraino Zelensky, dice anche di più: che è il vero e proprio numero due del regime. Primo azionista di Bank Rossya, padrone del National Media Group a cui fanno capo giornali e televisioni, è amico del presidente dai primi anni Novanta.

Il rapporto tra i due si è rafforzato nei mesi del Covid: secondo le voci di palazzo Kovalchuk è stato tra i pochissimi autorizzati a violare lo stretto isolamento che Putin si era imposto. Nelle lunghe ore trascorse insieme nei momenti peggiori della pandemia sarebbero state elaborate le tesi sul ruolo storico dell'attuale classe dirigente, incaricata di riportare la Russia all'antica grandezza.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 30 marzo 2022.

«Stiamo morendo?», ha chiesto Roman Abramovich dopo aver accusato i sintomi dell’avvelenamento al dottore che lo stava visitando. Si sentiva così male da temere per la sua vita. Secondo il giornalista investigativo Christo Grozev, che ha condotto una ricerca sull’incidente, un team di esperti ha convenuto che la sostanza utilizzata nell’attacco fosse cloropicrina, un agente chimico utilizzato durante la I Guerra Mondiale, o un basso dosaggio di Novichok. 

Abramovich e gli altri negoziatori di pace hanno tutti sofferto di sintomi debilitanti, tra cui una temporanea cecità, durante la missione dei primi di marzo a Kiev. Sintomi che lo hanno costretto a rivolgersi a cure ospedaliere non appena atterrato a Istabul, in Turchia, una volta terminati i colloqui in Ucraina. 

In una nuova intervista, Grozev ha parlato al canale YouTube di Popular Politics sostenendo che tutti gli esperti avevano concordato che la causa più probabile dei sintomi fosse un avvelenamento da cloropicrina, un agente di guerra chimica utilizzato nella prima guerra mondiale e accumulato durante la seconda.

«Tutti gli esperti che hanno comunicato con loro, studiato le loro fotografie ed effettuato esami personali hanno detto tutti che non si trattava di una coincidenza, non di un'intossicazione alimentare, non di un'allergia». Ha detto: «Hanno suggerito questo ?hlorpicrin e altri agenti di guerra. Ma sul Chlorpicrin erano tutti d’accordo». «Questo agente provoca tutti i sintomi rilevati. L’unica obiezione è che la clorpicrina di solito emette un odore piuttosto forte, ed è quindi difficile somministrarla senza che la vittima se ne accorda». 

«Ma poi uno degli specialisti ha raccontato che questo agente chimico era stato sviluppato anche inodore». «Altri hanno suggerito che potesse trattarsi anche di un basso dosaggio di Novichok». Novichok è stato utilizzato per avvelenare l’agente Sergei Skripal nella sua casa di Salisbury, in Inghilterra, e su Alexei Navalny, che ha avuto bisogno di cure salvavita in Germania per riprendersi.

«Nelle settimane successive i sintomi sono andati via via scomparendo, e poiché il gruppo era effettivamente impegnato in trattative, e volava da un posto all’altro, è stato molto difficile trovare un giorno in cui potessero raggiungere una capitale europea per esami in un laboratorio di alta qualità. Quando è stato possibile, i processi metabolici avevano reso impossibile rilevare l’agente». 

«In qualsiasi altra situazione sarebbero volati dove gli era stato detto di andare per capire di cosa si trattava, ma in quella situazione hanno dato la priorità ai negoziati rispetto alla loro salute».

Grozev - che è collegato all'agenzia investigativa britannica Bellingcat e alle piattaforme mediatiche russe indipendenti - ha affermato di essere stato chiamato intorno al 3 marzo per esaminare il caso perché era a conoscenza di precedenti avvelenamenti. Ha contattato altri esperti che desideravano rimanere anonimi per la loro sicurezza. 

Non avevano intenzione di rendere la cosa pubblica, ma i dettagli dell'avvelenamento hanno cominciato a trapelare, ha detto. «Non volevamo scriverne fino a quando... qualcosa non ha iniziato a trapelare».

Ha detto: «Quello che sappiamo: tre rappresentanti avevano sintomi quasi identici: forte dolore agli occhi, macchie rosse intorno agli occhi, desquamazione della pelle». 

Un analista politico russo Konstantin Kalachev ha avanzato la straordinaria ipotesi che l'avvelenamento potrebbe essere stato un tentativo di Abramovich di ottenere simpatia in Gran Bretagna, dove i suoi interessi sono stati danneggiati dalle sanzioni. 

Secondo quanto riferito, i negoziatori che hanno sofferto di problemi di salute avevano mangiato solo cioccolato e bevuto acqua.

Roman Abramovich, "sto morendo?". Panico dopo l'avvelenamento, scoop del NYT: il racconto minuto per minuto. Libero Quotidiano il 30 marzo 2022.

Continuano ad emergere dettagli sull’avvelenamento di Roman Abramovich e dei due negoziatori ucraini. Secondo quanto riportato dal giornalista investigativo Christo Grozev, l’oligarca russo sarebbe stato avvelenato con cloropicrina, un agente chimico utilizzato nella prima guerra mondiale. Il New York Times ha riportato anche che Abramovich avrebbe avuto a un certo punto la sensazione di morire, sconvolto dalla sensazione di soffocamento e dalla lacrimazione continua.

Il miliardario si sentiva talmente male che avrebbe chiesto al medico che lo stava visitando se stesse morendo. D’altronde i sintomi sono stati piuttosto terribili, soprattutto per il fatto che per qualche ora ha perso completamente la vista. Abramovich sarebbe stato ricoverato in Turchia, dove tra l’altro ha portato anche i suoi mega yacht di lusso per sfuggire alle sanzioni dell’Occidente, dato che il Paese di Recep Erdogan non ha aderito. Nonostante l’episodio a dir poco spiacevole di cui è stato vittima nel corso di uno dei primi negoziati svolti a inizio marzo, Abramovich ha continuato a essere uno dei protagonisti dei colloqui di pace.

D’altronde i sintomi sono progressivamente scomparsi ne giorni precedenti. Ciò però non ha permesso di scoprire con esattezza qual è stato l’agente scatenante: Abramovich e le altre vittime si sono sottoposti a test approfonditi solo dopo essere quasi del tutto guariti. Gli esperti però pensano che si sia trattato di cloropicrina, che è vietata per uso militare ed è utilizzata in agricoltura come fumigante del suolo.

Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 30 marzo 2022.

«Consiglio a chiunque si trovi a negoziare con la Federazione russa di non mangiare o bere, e preferibilmente evitare di toccare qualunque superficie». Il primo a lasciar intendere anche ieri che l'avvelenamento di Roman Abramovich e altri due negoziatori (ucraini) c'è stato davvero è stato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Con una battuta che rapidamente ha girato per le cancellerie, e significa semplicemente una cosa: l'Ucraina sa. 

Il secondo segnale forte di una decisa controffensiva di Kiev non solo sul terreno ma anche nella guerra dell'intelligence è stato dato con la diffusione, sul sito delle forze armate ucraine, di un elenco di 620 ufficiali del FSB, il servizio segreto della Russia, il successore del leggendario Kgb di Vladimir Putin, "autori di operazioni criminali in Europa".

Non si specifica in quali paesi dell'Unione, ma il numero di spie russe che Kiev così facendo espone è davvero pesantissimo: nomi, cognomi, date di nascita, indirizzi. Spie russe che ora risultano bruciate per ogni futura operazione (e si sa quanto la Russia abbia agito in questi anni in Europa, dall'avvelenamento di Sergey Skripal a quello del mercante bulgaro Emilian Gebrev, dalla distruzione di un deposito di armi nella repubblica ceca alle operazioni di destabilizzazione in Spagna, Italia - dove spie russe atterravano e ripartivano sistematicamente dagli aeroporti di Milano e Roma - Montenegro).

Veleno e spie. Ieri sulla storia del veleno ad Abramovich si è scatenata una controffensiva potente di propaganda russa, partita dalle frasi del portavoce del Cremlino (Dmitry Peskov ha definito quegli articoli «parte della guerra dell'informazione», e sostiene anche che Abramovich «non è un membro ufficiale della delegazione russa ai negoziati, ma è coinvolto nell'assicurare alcuni contatti tra la parte russa e quella ucraina»). 

Ruptly, l'agenzia video di Rt (RT ormai è vietata nei paesi dell'Unione europea) ha diffuso di buon mattino sui social il video dell'arrivo dell'oligarca ai colloqui: «Abramovich appare ai negoziati Russia-Ucraina a Istanbul dopo le segnalazioni di sospetto avvelenamento». 

La Tass ha pubblicato prontamente le sue foto - ravvicinatissime - con Erdogan, e un video in cui si vede lui con le cuffiette (ma non era in dubbio che Abramovich fosse vivo, l'avvelenamento è avvenuto il 3 marzo e i sintomi gravi sono durati un giorno circa).

Certo è che Bellingcat e Christo Grozev, il capo delle investigazioni russe, rilanciano: «In relazione ai funzionari ucraini e statunitensi che minimizzano questo incidente: ci sono dozzine di ragioni plausibili, e alcune anche legittime, per cui funzionari governativi mentono su questo. Non c'è motivo per noi (o il Wall Street Journal, o la BBC, o il Guardian)». 

A La Stampa risulta che Bellingcat stia per rivelare altri dettagli sull'avvelenamento. Una fonte a conoscenza della questione conferma ancora adesso all'AFP: «Purtroppo ci sono stati». Shaun Walker del Guardian, uno dei più stimati Russia watcher, riferisce: «Una fonte a conoscenza diretta mi ha appena confermato che Abramovich soffriva di sintomi di avvelenamento.

"Roman ha perso la vista per diverse ore" e è stato curato in Turchia, ha detto la fonte».

Zelensky conferma che diversi oligarchi russi, tra cui Abramovich, si sono offerti di inviare denaro all'esercito ucraino, ricostruire l'Ucraina e trasferirvi le loro attività. E il presidente ucraino ha risposto loro che a qualsiasi uomo d'affari russo pronto a supportare l'esercito ucraino verrà offerta sicurezza e lavoro. 

Segno che le manovre degli oligarchi sono come minimo duplici, e possono non piacere a certi pezzi di siloviki. Gli oligarchi sono fedeli al Cremlino o a se stessi? Grozev spiega: «Perché il governo ucraino smentisca non è una domanda difficile (è guerra, è tempo di negoziati, informazioni di questo tipo sono sia una leva (se private, si può scambiarle) sia una responsabilità (se pubbliche, bisogna agire di conseguenza). Abramovich non nega, conferma ma in background (proprio la conferma dal suo entourage al WSJ è ciò che ci ha portato a parlarne).

Perché la Russia nega è un'ottima domanda. Se la Russia non avesse nulla a che fare con questo, avrebbe avuto tutti i motivi per affermare che ciò è accaduto ma è stata una provocazione ucraina. Dopotutto, i sintomi sono comparsi a Kiev. Che opportunità per la Russia... persa. Infine, perché gli Stati Uniti riconoscono in modo anonimo che qualcosa è accaduto ma non si trattava di avvelenamento ma di cause ambientali? Non lo so. È un'affermazione così poco plausibile senza ulteriori dettagli che è difficile da prendere sul serio».

Una spiegazione, dice, «potrebbe essere che gli Stati Uniti non vogliono mettere alle strette Putin. O anche che i falchi intorno a Putin lo hanno fatto (l'avvelenamento), e sarebbe controproducente attaccare Putin su questo (ma avrebbe senso tenere un back channel su questo con loro). In ogni caso è successo qualcosa che ha causato sintomi da avvelenamento. Abbiamo le prove ma non violeremo gli standard etici e non pubblicheremo dati privati a meno che le vittime non siano d'accordo. Hanno il diritto di negare, la sicurezza prima di tutto»

Il tossicologo Locatelli: “Abramovich avvelenato? I conti non tornano”. E' giallo sul presunto avvelenamento dell'oligarca russo. Secondo l'esperto i sintomi riferiti "non sono caratteristici di nessuna sindrome classica". Il Dubbio il 29 marzo 2022.

«Sono segni molto diversi uno dall’altro» quelli riportati sui media come sintomi del presunto avvelenamento che sarebbe avvenuto al tavolo dei negoziati Ucraina-Russia ai danni dell’oligarca russo Roman Abramovich e di altri due negoziatori. Secondo l’analisi di Carlo Locatelli, responsabile Centro antiveleni e Centro nazionale di informazione tossicologica dell’Irccs Maugeri di Pavia, «i sintomi riferiti sono, a mia conoscenza, un qualcosa che complessivamente non è caratteristico di nessuna sindrome classica» da avvelenamento.

«Una lacrimazione importante è spia di una sindrome che potrebbe essere in linea con l’uso di agenti nervini. Ma l’occhio rosso no – spiega l’esperto all’Adnkronos Salute – La cute che si desquama è un elemento storico che viene riportato per il caso di Viktor Yushenko», ex presidente ucraino, leader della “rivoluzione arancione”. Ma per lui «si sospettò un avvelenamento da diossina. E questi effetticuta nei non sono mai così immediati, ci vuole del tempo perché arrivino. Mentre i tre negoziatori, da quello che mi pare di capire, avrebbero avuto i sintomi tutti insieme e molto velocemente. Sono elementi non interpretabili da un punto di vista clinico-tossicologico». «Certo, si può anche inventare un veleno nuovo, o usare miscele di sostanze, ma non saprei», ragiona l’esperto. «Mi sembra che siamo un po’ lontani da quello che si potrebbe ritenere fondato, a mio parere. Questi sintomi descritti non mi danno idea di niente di caratteristico», ripete. Poi, «può essere vero che alcuni casi precedenti fanno pensare che i russi potrebbero utilizzare sistemi di questo tipo. Ma in questo caso mi sembra curioso».

Le ipotesi che vengono avanzate da chi riporta la notizia di Abramovich spaziano da agenti biologici o chimici a radiazioni elettromagnetiche. In riferimento a queste ultime, Locatelli precisa: «Siamo lontani da cose di questo tipo. I campi elettromagnetici vengono tirati in ballo spesso e volentieri, le radiazioni sono tutta un’altra cosa». Lo specialista cita il caso della spia russa Aleksandr Litvinenko, ucciso col polonio nel 2006. Il polonio «è un alfa emettitore. Litvinenko fu ricoverato a Londra, perse i capelli – ricorda – Lì abbiamo visto una malattia da danno che procura un raggio di un alfa emittente e che può dare tutta quella serie di disordini e disturbi. Le radiazioni sono di tipi diversi, e fanno dei danni diversi a seconda della forza che esprimono e se sono interne o esterne. Ma non sono un qualcosa da cui si torna indietro, non potrebbero essere un avviso per intenderci». Quali sono i sintomi caratteristici di un avvelenamento da agenti nervini? «La lacrimazione importante c’è tipicamente – conferma Locatelli – ma è associata ad altri sintomi: naso che cola, ma specialmente il bronco e il polmone che si riempiono d’acqua. In pratica, gli agenti nervini e le sostanze di questa famiglia danno dei sintomi che portano a buttare fuori liquidi da tutte le parti. Quindi la lacrimazione, la rinorrea, la sudorazione, l’edema polmonare, pervia del fatto che il polmone si riempie d’acqua ed è poi la causa di morte rapida per un’esposizione a queste sostanze. Non ci stanno invece né l’occhio rosso né la cute desquamata, anzi quest’ultima sarebbe al contrario bagnata. Ci sono metalli che invece danno un sintomo simile alla desquamazione, ma questo compare dopo qualche giorno che viene assunta una dose di un veleno. E la lacrimazione non c’entra».

Otto e Mezzo, Roman Abramovich? "Ho sentito di avvelenati che stanno meglio di prima": fin dove si spinge Travaglio. Libero Quotidiano il 30 marzo 2022.

Negli ultimi giorni si è parlato molto dell’avvelenamento di Roman Abramovich e di due negoziatori ucraini, avvenuto a inizio marzo. Marco Travaglio non sembra credere a quanto accaduto, nonostante le conferme siano arrivate da più fonti, anche da quelle vicine al magnate russo. Intervenuto in collegamento con Lilli Gruber a Otto e Mezzo, il direttore del Fatto Quotidiano ha manifestato tutti i suoi dubbi, sostanzialmente per avvalorare la tesi che bisogna sentire anche la campana russa e non solo quella occidentale.

“Ho sentito di avvelenati che stanno meglio di prima che li avvelenassero e anche di generali morti ricomparsi vivi - ha dichiarato Travaglio - noi non sappiamo assolutamente nulla, nelle guerre ascoltando solo la campana occidentale riusciamo a sapere ancora meno. Tra l’altro molti pensano che nessuno più parla a Vladimir Putin, ma per fortuna non è così. D’altronde i governanti li paghiamo per questo, anche per parlarsi nei momenti peggiori e in quelli in cui ci si fa la guerra. Il dialogo è l’unico modo per evitare la terza guerra mondiale”.

Lucio Caracciolo è apparso un po’ perplesso per la prima parte del discorso di Travaglio, mentre è stato d’accorso su quella riguardante il dialogo: “È vitale mantenerlo con Putin, ma proprio perché quest’ultimo ha un consenso alto in Russia ha un motivo in più per portare risultati concreti sul campo rispetto a quelli che ha ottenuto finora, dato che le cose non stanno affatto andando bene”.

Ucraina: i negoziati in Turchia e la disinformazione-bomba del WSJ. Piccole Note il 29 marzo 2022 su Il Giornale.  

A Istanbul si stanno svolgendo negoziati tra la delegazione ucraina e quella russa, che dovrebbero durare due giorni, tempistica che indica un incontro niente affatto formale. Arduo che si trovi un vero e proprio accordo, ma qualcosa potrebbe uscire.

È fallito il tentativo di far saltare il negoziato orchestrato ieri con la bomba lanciata dal Wall Street Journal che riportava la notizia che l’oligarca Roman Abramovich, che pare si stia spendendo nelle trattative, e due negoziatori ucraini sarebbero stati avvelenati dai russi nel corso dei primi colloqui di pace.

La notizia ha fatto il giro del mondo, rilanciata da tutti i media senza che nessuno cercasse uno straccio di riscontro, perché a riferirla era stato uno dei media più autorevoli del globo.

Così sintetizzava Dagospia: “Abramovich ha capito cosa vuol dire mettersi contro Putin. L’oligarca russo e due negoziatori ucraini avrebbero sofferto sintomi compatibili con l’avvelenamento da armi chimiche dopo un incontro a Kiev all’inizio del mese di marzo: occhi rossi, lacrimazione costante, pelle che si staccava. La notizia bomba è stata sparata dal Wall Street Journal. Il Daily Mail: l’ex boss del Chelsea ha perso la vista per ore ed è stato ricoverato per alcune ore in Turchia. Il sospetto attacco è stato commesso da qualcuno a Mosca che voleva sabotare le trattative per mettere fine alla guerra “.

Ma il giochino è durato solo qualche ora, dal momento che poco dopo la narrazione iniziava a essere corretta, con report che riconducevano le sintomatologie di cui sopra a fattori naturali. Oggi l’immagine rassicurante di Abramovich ai colloqui di pace, ai quali non sarebbe andato se la bufala avesse avuto un fondo di verità…

Ma perché il WSJ ha tirato fuori questa notizia tossica, ancor più dirompente perché a ridosso dell’inizio dei colloqui di pace in Turchia? Qualcuno sta avvelenando, stavolta davvero, i pozzi dai quali si potrebbe attingere una qualche soluzione alla guerra ucraina?

I negoziati che si stanno dipanando tra Russia e Ucraina sono avvolti da un velo di mistero, dal momento che poco o nulla trapela di quanto si sta davvero trattando. Come un alone di mistero adombra i negoziatori.

Per restare ad Abramovich, citiamo un curioso errore di Dagospia, che nel riferire la notizia dell’incidente del  velivolo militare M-346, che a metà marzo si schiantato nel lecchese, metteva a corredo della nota anche una foto che riportava la rotta del Gulstream privato dell’oligarca anglo-russo, che quel giorno era volato da Mosca diretto verso Israele.

Ma al di là degli svarioni, non si può non registrare che negoziare la fine di questa guerra porta sfortuna. Uno dei delegati ucraini che ha condotto la prima tornata di negoziati con la delegazione russa, il banchiere Aleksandr Dubinsky, il 5 marzo, poco dopo i colloqui, è stato ucciso dai servizi segreti ucraini, la SBU, perché accusato di essere una spia russa.

Nel riportare la notizia, il media indiano Sirf News riferiva che un deputato ucraino aveva twittato che Dubinsky sarebbe stato ucciso mentre la SBU stava “tentando di arrestarlo”. Lo stesso media riferiva che “due organi di stampa ucraini, Ukraina.ua e Obozrevatel, hanno confermato l’affermazione, citando entrambi le rispettive (o identiche) fonti anonime”.

“Il primo ha pubblicato una foto parzialmente sfocata di quello che si affermava fosse il corpo dell’uomo. L’immagine mostrava qualcuno sdraiato sul marciapiede a faccia in su, con il volto apparentemente insanguinato e una pozza di sangue sotto la testa”. Analoghe descrizioni del defunto si potevano rinvenire su altre fonti.

La descrizione della foto cozza con un arresto andato storto, dal momento che appare davvero arduo immaginare che una persona di una certa età come Dubinsky possa divincolarsi da agenti ben addestrati, che sarebbero stati così costretti a ucciderlo mentre tentava la fuga. E il corpo riverso sul marciapiede indica che Dubinsky non è stato ucciso a seguito di un arresto. Sembra piuttosto un omicidio avvenuto per strada, come notava anche il Riformista, da cui un certo alone di mistero.

L’uccisione avveniva poco dopo l’annuncio dell’apertura dei primi corridoi umanitari per evacuare i civili dalle città ucraine assediate, altra coincidenza sfortunata (e infatti fu procrastinata).

Ma al di là della sfortuna che aleggia attorno ai negoziati e ai negoziatori, resta la strana bomba mediatica del Wall Street Journal, che interpella e inquieta.

Resta da vedere se, nonostante l’intossicazione mediatica (difficilmente riconducibile a un banale svarione giornalistico), i colloqui che si stanno svolgendo in Turchia porteranno qualcosa di buono. Forse è troppo presto, ma qualcosa sembra stia accadendo davvero. Vediamo, speriamo. 

P.S. Zelensky ha chiesto di parlare alla notte degli Oscar. Evidentemente ha ricevuto un niet da Hollywood che rappresenta un centro di potere americano. Forse questa America si è stufata di certi programmi di guerra

Zelensky: "Occidente pavido". E apre sulla neutralità di Kiev. Andrea Cuomo il 28 Marzo 2022 su Il Giornale.

"Servono aerei e tank, siete senza coraggio". Censurata l'intervista con i media russi. Un sito anti-Putin la pubblica.  

L'ultimo sfregio di Mosca a Volodymyr Zelensky è cercare di tappargli la bocca. Uno sforzo in parte vanificato. Perché ieri il presidente dell'Ucraina ha rilasciato, per la prima volta dall'inizio della guerra, una lunga intervista ad alcuni giornalisti russi. Due ore di conversazione in collegamento video con il caporedattore di Dozhd TV Tikhon Dzyadko, con lo scrittore e giornalista Mikhail Zigar, con il corrispondente di Kommersant Vladimir Solovyov, con il caporedattore di Meduza Ivan Kolpakov. E proprio quest'ultimo, notoriamente antiputiniano, ha sfidato il diktat emanato qualche ora prima dall'ente regolatore dei media di Mosca di non pubblicare né trasmettere l'intervista. Non sappiamo quali saranno le conseguenze di questa ribellione. Ma almeno sappiamo che cosa Zelensky ha detto ai russi: «Probabilmente ci sono stati diversi tentativi da parte di diverse persone di farmi fuori, la mia eliminazione è pianificata». E poi: «Mariupol sta vivendo una catastrofe umanitaria». E ancora: «L'invasione russa dell'Ucraina ha creato una spaccatura irreversibile tra i due popoli e l'odio per tutto ciò che è russo crescerà sicuramente». Infine: «L'Ucraina sta attentamente prendendo in considerazione la questione della neutralità».

Parole che non spostano molto nella crisi ucraina, ma che rappresentano uno schiaffo alla Russia, perché veicolate attraverso un media di Mosca. E di schiaffi il presidente-attore in mattinata ne aveva riservati anche all'Occidente, strigliato per bene perché a suo giudizio non fa abbastanza. «È impossibile salvare Mariupol senza altri tank e aerei - ha detto il presidente ucraino in un video citato dal Kyiv Independent -. L'Ucraina non può abbattere i missili russi con fucili e mitra». Poi una stoccata: «Chi guida la comunità Euro-atlantica? È ancora Mosca, attraverso l'intimidazione?».

Nei giorni in cui la resistenza ucraina incassa non pochi successi, Zelensky consegna la lista della spesa agli alleati. Ci vogliono caccia, e ci vuole soprattutto coraggio: «Ho parlato con i difensori di Mariupol. La loro determinazione, il loro eroismo e la loro fermezza sono sorprendenti. Se solo coloro che hanno pensato per 31 giorni a come consegnare dozzine di jet e carri armati avessero l'1 per cento del loro coraggio...». Zelensky imputa all'Occidente le esitazioni nell'inviare le armi, il mancato invio di caccia, la paura che spedirli attraverso la Polonia costituirebbe un pretesto caro a Vladimir Putin per alzare il livello dello scontro.

E ieri è continuata la polemica sul possibile videointervento del presidente ucraino alla Notte degli Oscar, rimasto top secret fino all'ultimo. Quando scriviamo queste righe non possiamo sapere se alla fine l'ex attore Zelensky si sia collegato con Hollywood, essendo la cerimonia svoltasi a notte fonda in Italia. Di certo c'è stato un momento dedicato all'Ucraina, come rivelato poche ore prima della cerimonia al New York Times da Regina Hall e Wanda Skyes, due delle tre presentatrici della kermesse, trasmessa da Abc. «Sarà uno spazio onesto e sentito, come devono essere trattati questi difficili momenti», hanno detto le due. Ieri Sean Penn ha chiesto a tutti il boicottaggio della cerimonia degli Oscar in caso di eventuale top all'intervento di Zelensky. L'attore americano ha addirittura promesso che distruggerà le due statuette da lui vinte per Mystic River nel 2004 e per Milk nel 2009 se la notte sarà stata dezelenskizzata. «Sarebbe il momento più vergognoso della storia di Hollywood», ha detto l'attore alla Cnn. Penn sta girando un documentario sull'aggressione russa e sta aiutando i rifugiati ucraini in Polonia attraverso la sua fondazione CORE.

In Usa sta crollando il mito di Volodymyr Zelensky? Il sospetto: mistero sugli accordi di pace. Il Tempo il 20 marzo 2022.

È possibile un accordo di pace fra Russia e Ucraina? E su quali basi? «Il crescente numero di vittime in Ucraina ha costretto il presidente Volodymyr Zelensky a considerare concessioni alla Russia per mettere fine al devastante conflitto, ma gli elementi specifici di ogni accordo di pace che potrebbe essere discusso con Mosca rimangono un mistero», scrive il Washington Post. L’Occidente s’interroga su quali siano le intenzioni di Kiev, da cui vengono segnali contrastanti. Tanto più che un accordo avrà implicazioni sulla sicurezza europea e alcuni paesi del fianco est della nato temono una intesa che possa concedere troppo al leader russo Vladimir Putin. «Sono pronto al dialogo, non alla capitolazione», ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in una intervista all’Abc. E martedì, quando ha ricevuto a Kiev i leader di Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia «ha dimostrato poco interesse in un accordo negoziato, dicendo che l’Ucraina deve combattere fino a quando Putin non cambierà le sue richieste», ha detto un diplomatico ben informato. Ma allo stesso tempo, il capo negoziatore ucraino, Mykhailo Podolyak, è apparso più ottimista su un possibile accordo. Secondo fonti americane ed europee, è possibile che Zelensky e i suoi consiglieri non siano ancora giunti ad una conclusione definitiva su cosa potrebbero concedere.

Da una parte vi è una pressione per ridurre le sofferenze della popolazione civile, mentre dall’altra Zelensky ha saputo unire il suo popolo nella resistenza all’invasione. In caso di accordo, il presidente ucraino dovrà far accettare l’intesa al suo popolo, un’impresa difficile se dovesse fare importanti concessioni a Mosca, che rischierebbero di passare per un tradimento. Una rinuncia ad entrare nella Nato, cui ha alluso Zelensky, dovrebbe comunque essere sancita a grande maggioranza dal parlamento, dato che questa aspirazione è compresa nella costituzione. Inoltre ogni possibile accordo dovrebbe essere approvato dall’Occidente per portare ad una revoca delle sanzioni. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha chiarito che non basterebbe il ritiro dei russi dall’Ucraina, perché gli Stati Uniti vogliono «un passo irreversibile», l’assicurazione che l’aggressione «non possa ripetersi». «Se alla fine di tutto questo, Putin ne esce con qualcosa che non sia una chiara sconfitta, questo destabilizzerebbe l’Europa e la sicurezza internazionale in maniera mai vista dalla Seconda guerra mondiale», commenta Jonatan Vseviov, segretario generale del ministero degli Esteri estone.

Una soluzione potrebbe essere una rinuncia ucraina ad entrare nella Nato in cambio del ritorno delle repubbliche separatiste sotto il suo controllo. «Ma la domanda è se Putin sarebbe capace di un accordo che potrebbe apparire come una sconfitta», nota un diplomatico europeo. Intanto gli occidentali non vedono segnali che la Russia stia fermando il suo attacco. E si chiedono perché la Russia faccia sfoggio di ottimismo sull’andamento dei negoziati. Le fonti del Washington Post divergono fra due possibili spiegazioni: la prima che Mosca voglia seriamente un accordo perché vengano sollevate le sanzioni, la seconda che vogliano creare un’impressione di serietà per evitare ulteriori sanzioni.

Gli Usa tra cambi di strategia ed errori: cosa vuole davvero la Casa Bianca di Biden. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 18 marzo 2022.  

Alla quarta settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ci si interroga sull’efficacia della strategia dell’amministrazione Biden nei confronti di Mosca. La Casa Bianca si “limiterà” ad armare l’esercito ucraino e a imporre durissime sanzioni economiche contro la Federazione russa oppure valuterà un impegno diretto della Nato, magari con una no-fly zone, come richiesto dal presidente ucraino Zelensky e da Paesi come Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia? Quest’ultima rimane un’ipotesi che al momento non viene presa in considerazione ma certo è che quando mercoledì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha definito il leader del Cremlino Vladimir Putin “un criminale di guerra”, ha compiuto un atto che potrebbe influire negativamente sui negoziati in corso e precludere ogni tipo di iniziativa diplomatica fra le due grandi potenze. Iniziativa che, non a caso, ha fatto storcere il naso a molti.

Persino il New York Times, non certo un quotidiano di orientamento conservatore, ha sottolineato come Biden, nelle sue recenti dichiarazioni, abbia “personalizzato il conflitto”, in un modo tale che i presidenti del passato hanno sempre evitato nei “momenti di crisi con il principale avversario nucleare degli Stati Uniti”. Quella “condanna personale” ora è diventata “anche politica”, poiché Biden e il suo staff definiscono il presidente russo un criminale che andrebbe processato all’Aja. Una “retorica inaccettabile e imperdonabile” secondo il portavoce del presidente russo, Peskov.

Il nuovo obiettivo di Biden: il “regime change” a Mosca

Ma quella di Joe Biden non è stata una tragica gaffe ma una strategica politico-comunicativa ben precisa. Giovedì, infatti, il presidente Usa ha rincarato la dose, definendo Vladimir Putin “un dittatore omicida, un delinquente puro che sta conducendo una guerra immorale contro il popolo ucraino”. Il suo segretario di stato, Antony J. Blinken, si è accodato a tali dichiarazioni: “Personalmente, sono d’accordo. Prendere di mira intenzionalmente i civili è un crimine di guerra”. L’amministrazione Biden ha sempre assicurato che il “cambio di regime” non è nell’agenda strategica di Washington, ma evidentemente non è così. Come nota il New York Times, infatti, quando i predecessori di Biden hanno definito i leader nazionali ostili “criminali di guerra” – Saddam Hussein in Iraq, Bashar al-Assad in Siria o Slobodan Milošević in Serbia  – è perché gli Stati Uniti in quel momento avevano deciso di sposare la strategia del “regime change” e di provare a rovesciare il “tiranno” di turno. Da qui la decisione di sanzionare personalmente Vladimir Putin e isolare economicamente la Russia per far sì che la popolazione si ribelli contro il presidente russo e la sua cerchia.

“Sanzioni a Putin e agli oligarchi”

In un’intervista esclusiva rilasciata a Insider, il portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price, spiega che l’obiettivo primario di Washington rimane quello di negoziare con la Russia. “Ci sono una serie di tattiche che stiamo perseguendo per fare pressione sulla Russia, per portarla al tavolo dei negoziati”. Una di questi è quella di “imporre enormi costi e conseguenze sull’economia russa”. Un’altra è rappresentata “dall’enorme quantità di assistenza alla sicurezza che stiamo fornendo ai nostri partner ucraini: 2 miliardi di dollari dall’inizio di questa amministrazione. Queste due linee stanno effettivamente rafforzando l’Ucraina al tavolo dei negoziati” e “facendo pressioni sulla Russia”. Altra chiave della strategia dell’amministrazione Biden: lavorare con gli altri partner europei e internazionali per isolare Mosca a livello internazionale. “La Russia è sull’orlo del default” osserva Price. “Le compagnie internazionali stanno fuggendo a dozzine. Questo racconta dell’utilità e dell’efficacia di lavorare con i nostri alleati e partner”. Ma oltre alla pressione sul Paese, Washington vuole colpire il leader del Cremlino, direttamente: “Putin ha dimostrato che è l’interesse personale a motivarlo. Ecco perché, per la prima volta, lo abbiamo sanzionato personalmente. Abbiamo perseguito gli oligarchi russi e i suoi compari per fare pressione su di lui. Non solo sulla sua economia, ma su di lui personalmente”.

Gli errori di valutazione iniziali

Va detto che l’amministrazione Biden ha commesso dei gravi errori di valutazione all’inizio dell’invasione russa. Come ricorda il Corriere della Sera, i generali americani erano convinti che l’avanzata di Putin sarebbe stata travolgente e la guerra durata pochi giorni, con una rapida capitolazione di Kiev. Il 5 febbraio il Capo di Stato Maggiore Mark Milley aveva dichiarato in un’audizione al Congresso che Kiev sarebbe caduta “in 72 ore” se si fosse verificata “un’invasione dei russi su larga scala”. Non era l’unico a esserne convinto. È il primo errore degli analisti del governo che fino ad allora avevano previsto con grande precisione gli sviluppi della crisi. Cosicché il dipartimento della Difesa ha poi rivisto gli scenari che erano stati prefigurati all’inizio. Rimane la convinzione che, nonostante la lentezza e le difficoltà dell’esercito russo, Mosca riuscirà a ottenere la vittoria militare sul campo di battaglia, prima o dopo. Ma non vincerà la guerra, tant’è che Joe Biden punta ora sulla “sconfitta strategica di Putin”. È questa la nuova strategia della Casa Bianca per battere il presidente russo. Una lunga guerra di logoramento, che va ben al di là dei risultati ottenuti sul campo di battaglia. Basterà?

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Vladimir Putin, l'India e il sostegno alla Russia: cosa c'è dietro, perché sta cambiando l'ordine mondiale. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 21 marzo 2022.

Sull'Ucraina, gli indiani fanno gli indiani. È diventato virale in India l'imbarazzante video dell'anchorman Rahul Shivshankar che sul canale Times Now ha fatto una piazzata anti -americana a Bohdan Nahaylo, direttore del giornale ucraino in inglese Kyiv Post, scambiandolo per il politologo appunto statunitense Daniel McAdams, e andando avanti come un treno per un bel po', incurante ai tentativi di entrambi di spiegargli il qui pro quo. $ forse simbolico di quella situazione confusa per cui il governo di New Delhi da una parte sta cercando di approfittare della guerra per fare con la Russia più affari possibili, rifugiandosi anche nell'astensione sul voto di condanna dell'invasione. Dall'altra però ha lasciato la Russia isolata, nel momento in cui ha rifiutato di sottoscrivere in Consiglio di Sicurezza una sua mozione «umanitaria» nella quale si parlava di una generica esigenza di «proteggere i civili» senza menzionare affatto la parola «invasione».

TROPPI SILENZI - E' un po' la stessa posizione della Cina, se vogliamo. Solo che la Cina la assume con più forza: inviando nel contempo aiuti umanitari in Ucraina, facendosi sollecitare come possibile mediatrice, e approfittandone per delineare una specie di Opa su quello che resterà di una Russia destinata comunque a subire un pesante isolamento politico ed economico anche nel caso riesca a spuntare qualche risultato sul campo. L'India, invece, è defilata: «stiamo osservando da vicino la situazione». Neanche vero, visto che ha spostato l'ambasciata in Polonia. In Consiglio di Sicurezza il suo rappresentante ha detto banalità tipo «se non si fa attenzione si mette a rischio la pace» (!). L'India aveva in Ucraina 20.000 studenti, che sono stati la sua principale preoccupazione. Ma lo scorso dicembre il primo ministro indiano Narendra Modi aveva tenuto a New Delhi con Putin il XXI vertice bilaterale India-Russia durante il quale sono stati firmati accordi sugli armamenti e la difesa. E mentre la preoccupazione di Biden è stata che fosse la Cina a rifornire di armi la Russia, l'India dalla Russia invece le armi le compra: il 49% del proprio fabbisogno, contro il 10% dagli Usa, che sono invece storici fornitori del ne mico Pakistan: oltre 10 miliardi di forniture militari tra 1950 e 2020. 

PETROLIO SCONTATO - In particolare, c'è un ac cordo sulla fornitura all'India di missili antiaerei russi S-400, firmato nel 2018 malgrado le minacce di sanzioni Usa. L'India deve anche acquistare dall'estero l'85% delle proprie forniture di petrolio, e per questo ha insistito che «non bisogna politicizzare» i suoi acquisti di greggio dalla Russia malgrado le sanzioni. In realtà finora, il petrolio russo rappresentava meno non più del 3% del suo fabbisogno. Ma «la Russia sta offrendo petrolio e altre materie prime con un forte sconto. Saremo felici di accettarlo», ha confessato un funzionario del governo indiano alla Reuters, riferendosi a un primo acquisto da 3 milioni di barili. In realtà piccolo, ma di forte impatto simbolico. Gli indiani fanno osservare che comnqe la stessa Europa con tutte le sanzioni continua per ora a ricevere gas russo. 

I FERTILIZZANTI - Oltre al petrolio all'India interessano anche i fertilizzanti, che non vengono solo dalla Russia di Putin ma anche dalla Bielorussia del suo alleato Lukashenko: in totale, un terzo dell'import indiano di potassa. Sempre secondo la Reuters, aziende e istituti di credito russi potrebbero aprire conti correnti in banche indiane, così come già fatto per comprare petrolio dall'Iran malgrado le sanzioni sul nucleare. A parte olii minerali e fertilizzanti, un'altra voce importante dei 6,9 miliardi di dollari di export russo in India è rappresentata dai diamanti: la Russia ne è primo produttore mondiale; l'India ha a Bombay una delle quattro più importanti sedi mondiali di taglio. I 3,3 miliardi di export russo sono invece consistititi soprattutto in prodotti farmaceutici, tè e caffè. Prima della crisi l'intenzione era di portare l'intercambio a 30 miliardi entro il 2025. Il bello è che però l'India fa parte del Quad, che è un forum di sicurezza con Stati Uniti, Australia e Giappone, per bilanciare l'invadenza cinesi. Però sta pure con India, Russia, Brasile e Sudafrica nel Brics. Tra Modi e Putin sembra esserci pure una forte ed evidente simpatia personale, però come ricordato l'India non si è spinta fino al punto da prestarsi alla manovra russa in Consiglio di Sicurezza. Insomma, come quelle divinità indù con tre facce e sei braccia che sembrano andare contemporaneamente in direzioni opposte, ma poi rimangono sempre dove stanno.

Joe Biden, Vittorio Feltri: "Un rimbambito che ci condanna alla guerra". Ucraina, il gioco sporco del presidente. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 marzo 2022.

Leggo che Biden, detto Rimbambiden, raccomanda a Pechino di non fornire armi a Mosca. Con le quali in effetti non è possibile ottenere la pace. Però c'è un però. Perché invece l'America invia munizioni, mitragliatrici e roba simile all'Ucraina? Se si desidera il cessate il fuoco e lo si persegue onestamente bisogna che entrambi i belligeranti puntino al disarmo, il quale deve obbligatoriamente essere bilaterale. Dal punto di vista etico personalmente sto dalla parte di Kiev e dintorni, ovvio, chi è stato aggredito merita di essere soccorso. Ma gli aiuti devono essere umanitari, non di tipo bellico che servono solo a prolungare lo spargimento di sangue. Pertanto anche noi italiani dobbiamo darci da fare, ma non regalando materiale per combattere, bensì per andare incontro alle esigenze del popolo in estrema difficoltà.

Penso soprattutto ai bambini che si trascinano tra disagi insopportabili. Mi domando perché il nostro governo, invece di esportare cannoni in Ucraina, non organizzi una catena della fraternità per recuperare l'infanzia abbandonata. Nel nostro Paese sono numerose le famiglie che desiderano adottare delle creature, peccato che le operazioni burocratiche siano talmente complicate da scoraggiare chiunque aspiri a ottenere un bebè in affidamento. Ora che siamo in emergenza lo Stato dovrebbe agevolare i genitori intenzionati ad accogliere un pargolo. Ma non mi risulta che siano state avviate iniziative in questo senso. Intanto le televisioni ci mostrano immagini di piccoli allo sbando, e ciò ci trafigge il cuore e ci fa detestare le autorità nostrane che si limitano a fare il tifo per Putin o per Zelensky, disorientando l'opinione pubblica.

Noi siamo vicini ai più deboli, e più debole dei bimbi non c'è nessuno. Non ci vorrebbe molto a dare loro una casa che li ospiti con amore. Servirebbe solo un pizzico di buona volontà per risolvere il problema drammatico degli orfani, ma non esiste un politico che si impegni per stabilire un canale di salvezza tra noi e l'Ucraina. Solamente i preti e i gruppi di volontari aggregatisi nelle parrocchie si sono mobilitati per assistere le vittime delle assurde battaglie in corso. 

Il ministro degli esteri Lavorov ha ribadito le richieste di Mosca. Cosa vuole la Russia dall’Ucraina, le richieste di Putin per fermare la guerra: “È tutto qua”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Marzo 2022. 

Da giorni il presidente ucraino da giorni chiede di poter incontrare Vladimir Putin e discutere le modalità di una pace. Mentre continuano le trattative diplomatiche tra stati tra telefonate e incontri, la fine della guerra sembra ancora lontana. A ribadire le richieste della Russia all’Ucraina è stato ancora una volta il ministro degli Esteri russo Lavorov: “Abbiamo annunciato gli obiettivi che stiamo perseguendo al momento”.

Continuando: “per quanto riguarda il dialogo interno all’Ucraina, dopo tutto, saranno affari degli ucraini quando l’operazione sarà finita. Spero che terminerà con la firma di un documento complessivo sulle questioni che ho menzionato, come la sicurezza, lo status neutrale dell’Ucraina con garanzie per la sua sicurezza”. Lavrov ha poi chiesto che Kiev approvi leggi a tutela del linguaggio russo, dell’educazione in russo e dei media russofoni, nonché norme contro la ‘nazificazione’ del Paese. “Leggi simili esistono in vari Paesi europei, compresa la Germania”, ha spiegato Lavrov, “è tutto qua”.

All’alba del 24 febbraio quando le truppe russe iniziarono ad entrare in Ucraina, Putin in u discorso alla nazione ha dichiarato che la Russia non poteva sentirsi “sicura, svilupparsi ed esistere” ritenendosi minacciata. Putin ha giustificato l’attacco militare spiegando di volere proteggere le persone sottoposte a genocidio e puntare alla “demilitarizzazione e de-nazificazione” dell’Ucraina. In Ucraina però non c’è stato alcun genocidio. “Come potrei essere un nazista?” ha detto il presidente Volodymyr Zelensky, riferendosi alle sue origini ebraiche.

La decisione di attaccare di Putin è dipesa dai timori legati a un’espansione verso est della Nato. La Russia considera l’Ucraina come parte naturale della sua sfera di influenza: Putin stesso ha descritto i russi e gli ucraini come “una nazione” e il crollo dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991 come la “disintegrazione della Russia storica”. Per il presidente russo l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia comunista mentre ora rappresenta uno stato fantoccio, controllato dall’Occidente.

Ma la Russia non è solo concentrata sull’Ucraina e chiede che la Nato ritorni ai suoi confini precedenti al 1997. Putin vuole che la Nato rimuova le sue forze e le infrastrutture militari dagli stati membri che hanno aderito all’alleanza dal 1997 e che non schieri “armi d’attacco vicino ai confini della Russia”.

Washington sta esercitando pressioni sulla delegazione di Kiev impegnata nei colloqui con Mosca sulla crisi ucraina. Lo ha affermato il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, secondo quanto riporta l’agenzia Tass. “Zelensky ha suggerito di tenere dei colloqui e il nostro presidente ha accettato, tuttavia c’è la sensazione costante che qualcuno – molto probabilmente gli Stati Uniti – stia tenendo la mano della delegazione ucraina, impedendole di accettare le richieste che consideriamo minime”, ha sottolineato Lavrov, aggiungendo che comunque “il processo negoziale continua”. Finora ci sono stati tre round di colloqui tra le delegazioni russa e ucraina e le parti.

A questo si aggiunge il ruolo della Cina. I legami fra Russia e Cina usciranno rafforzati della crisi ucraina: lo ha affermato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, le cui dichiarazioni sono state riportate dall’agenzia di stampa russa Ria Novosti. “In un contesto in cui l’Occidente sta brutalmente minando le basi del sistema internazionale, dovremo certamente considerare che cosa dovranno fare le due grandi potenze” ha proseguito Lavrov, notando come i rapporti bilaterali fra Mosca e Pechino abbiano raggiunto un livello senza precedenti.

“La richiesta di inviare peacekeeper della Nato in Ucraina è demagogica”, ha messo in guardia il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov citato da Interfax. “È possibile – ha sostenuto Lavrov – che tale richiesta implichi il controllo polacco sulla parte occidentale dell’Ucraina”. “La crisi ucraina è stata causata dalla politica perseguita dall’Occidente nei confronti della Russia”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, secondo quanto riporta la Tass.

Secondo il portavoce del ministero degli Esteri ucraino, Oleg Nikolenko, “i mantra sempre più disperati del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov sui neonazisti in Ucraina e l’oppressione della popolazione russofona per giustificare la guerra russa significano solo una cosa: che la nave da guerra russa sta affondando, che il suo equipaggio è intrappolato e che non ci sarà un lieto fine per loro”, ha scritto su Twitter.

Intanto il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podoliak ha sottolineato che “ci sono alcune concessioni che non siamo decisamente disposti a fare. Non possiamo cedere alcun territorio. Se un accordo di pace completo potrebbe richiedere tempo”. Podoliak, membro della delegazione di Kiev ai colloqui con Mosca, ha detto che “quello che potrebbe aver luogo in pochi giorni è un cessate il fuoco” che consentirebbe l’apertura di più corridoi umanitari.

Già alle prime luci del mattino di sabato 19 marzo, Vladimir Medinsky, il capo negoziatore russo ha allontanato l’ipotesi del raggiungimento di un accordo nel breve tempo. Il testo di un possibile trattato tra Russia e Ucraina deve essere approvato prima ancora di menzionare la possibilità di un incontro tra i presidenti di Russia e Ucraina, Putin e Zelensky, come citato dalla Tass “Non sono assolutamente pronto a commentare in merito. Posso solo dire che prima ancora di menzionare una riunione dei due leader, le delegazioni di negoziatori devono preparare e concordare il testo di un trattato. Successivamente, il testo dovrebbe essere siglato dai ministri degli Esteri e approvato dai governi”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 19 marzo 2022.

Santità Oso. Oso lanciarle un appello perché credo che soltanto un grande gesto umano possa spezzare questa mischia sacrilega in cui l'Europa sale sullo scannatoio e come per un contagio di furore omicida tutti ormai si armano e gridano e minacciano e sembra impossibile salvare la ragione dalle allucinazioni che il flagello scatena. Oso con l'umile diritto del credente.

E aggiungo perché so che cosa è la guerra per averla vissuta e guardata negli occhi in molti luoghi dove ho visto galleggiare gli infiniti relitti di vite naufragate. Le chiedo, la invoco: Santità, vada a Leopoli, vada in Ucraina a dire la parola pace. Lo so, in questi giorni Lei ha detto e ridetto ciò che è vero per sempre. Ma bisogna gridarlo lì. Non a Roma: a Leopoli, a Kiev dove la morte fa le sue grandi manovre, la violenza ci accerchia e il perverso incantesimo deve essere affrontato e vinto. Vada subito, ora. A chiedere la pace, a esigere, sì esigere, che esseri umani non debbano attendere le insopportabili lentezze della diplomazia per sperare di restare vivi. Bisogna raddrizzare i sentieri sbandati della Storia.

Lei può farlo. Le chiedo un grande gesto umano, oltre la ragione la prudenza le condizioni della realtà la sicurezza le usanze. Un gesto impossibile che solo Lei può compiere. Un miracolo. Ma saremmo cristiani se non credessimo nel miracolo, se accettassimo il riposo, non fossimo portatori di meraviglie? Dolore si chiama questo mistero e questa condanna. Lei può spalancare questo mistero. 

Chieda, ci chieda, da lì, alzando semplicemente le braccia al cielo, di spezzare il contagio dell'odio che è peggio della guerra perché è prodotto dalle ferite che essa provoca, e fa male sia a quello che le porta in sé sia a colui che ne è vittima. Non per una provocazione, parola orribile perché tante già ne vediamo ogni giorno: per un atto a cui sono certo nessuno, neppure gli aggressori, potrebbero sottrarsi, davanti a cui divenuti inermi dovrebbero fermarsi.

Sento già gli scettici opporre: sarebbe un grido nel deserto, un rumore di canne nel frastuono delle bombe, vuol dire essere scudisciati da delusioni e amarezze. Forse. Forse grido nel deserto è ogni parola di pietà. Ma noi siamo uomini, non possiamo avere la sublime pazienza di io. Lei non è un politico, è una autorità morale, forse l'ultima in questo mondo dove ogni atto, ogni parola determina rappresaglie. Io credo che per noi laici l'unica sincera comunanza nel dolore sia quella che si prova insieme. Altrimenti ogni «io sono con voi» sillabato da lontano è retorica.

Non possiamo dire agli ucraini (e ai russi perché nella guerra muoiono anche ragazzi russi) sono con voi. Non è vero: io, noi siamo qua, li guardiamo, ma non soffriamo. Non si possono amare le astrazioni. Bisogna sagomare, anche laicamente, la vita su questa determinazione cocente: affiancare il dolore dove è. Il cristianesimo infatti è una religione che sboccia dalla sofferenza, fisica, umana, visibile e vissuta, che sublima lo scandalo del dolore. 

È impastato di profezia, di martirio, pianto, sangue e regno. Chi altri ha il diritto di essere lì a condividere tutto questo se non Lei santità? Per questo le chiedo: se il male, e non ci sarebbe la guerra se non ci fosse il male assoluto, altro non è che la somma di atti umani, chi se non Lei, santità, può sfidarlo con un atto umano? L'Ucraina è un forsennato campo di battaglia, non c'è la possibilità di percorrerla, come sarebbe possibile organizzare un viaggio sicuro? 

Perfino ministri e ambasciatori si tengono alla larga, si fermano ai confini... Li sento già i prudenti, i realisti. Ma dove è più sicuro un Papa se non accanto ai poveri armenti umani uguali dinanzi al dolore? Questa è una guerra tra cristiani: dove può esser più sicuro che tra i martiri cristiani? Sono certo Santità che io, molti, se deciderà di andare, fisicamente la accompagneremo. Il terzo millennio, così breve e inerte, ha già bisogno di risorgere.

Lorenzo Bertocchi per "La Verità" il 19 marzo 2022.  

La manovra incessante delle «divisioni» del Papa per conquistare una «riconciliazione» tra Russia e Ucraina prosegue senza sosta. Francesco bombarda la pace fin da quel 25 febbraio, in cui attraversò piazza San Pietro per andare in via della Conciliazione all'ambasciata russa. Le sue «truppe», schierate nel mondo, seguono la linea della Santa Sede per una soluzione di negoziato che porti al «cessate il fuoco». Quella del Papa non è una posizione utopica o cerchiobottista, né di qua, né di là, ma l'unica posizione possibile perché innanzitutto «tacciano le armi» di fronte alla «tragedia della guerra», come l'ha definita nel messaggio inviato per l'apertura delle Giornate sociali cattoliche europee a Bratislava in programma dal 17 al 20 marzo.

L'apice di questa azione diplomatica, umanitaria e spirituale messa in campo dal Vaticano è stato raggiunto con due atti, l'incontro in video conferenza di mercoledì scorso del Papa con il patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill e l'annuncio che venerdì 25 marzo Francesco consacrerà all'Immacolato Cuore di Maria la Russia e l'Ucraina. Preghiera ed ecumenismo, diplomazia e politica, nulla vuole lasciare di intentato Francesco.

Fin dal primo incontro con l'ambasciatore russo presso la Santa Sede, ha detto ieri il Segretario di stato Pietro Parolin a Vida Nueva, «siamo sicuri che quanto ha detto all'ambasciatore è stato subito riferito al presidente Putin». Il patriarca Kirill che con due interventi recenti, il 6 marzo in un sermone, e il 10 marzo con una lettera al segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, aveva di fatto trovato una sorta di «giustificazione» all'atto militare russo scaricando sull'Occidente la responsabilità di quanto sta accadendo, mercoledì si è sentito dire da Francesco che «la Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù».

Parole forti, soprattutto se pensiamo a quanto Francesco tenga al processo di avvicinamento con le chiese ortodosse e con la chiesa ortodossa russa in particolare. Proprio con Kirill nel 2016 ci fu lo storico incontro a l'Avana con la firma di una dichiarazione congiunta tra i due. Con Kirill mercoledì il Papa è tornato su di un tema già accennato nella sua enciclica Fratelli tutti e che in questi giorni ha più volte ribadito. «Un tempo si parlava anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può parlare così», ha detto Francesco. «Non esistono le guerre giuste: non esistono!».

 Ma questo non ha impedito al cardinale Parolin di dichiarare al giornale spagnolo Vida Nueva che «approva tristemente la consegna di armi all'Ucraina nel contesto della legittima difesa della propria vita, del proprio popolo e Paese», aggiungendo che ciò non impedisce la ricerca prioritaria di «una soluzione negoziata che metta a tacere le armi ed eviti una escalation nucleare». Le parole di Francesco sul fatto che «non esiste una guerra giusta» e le risposte di Parolin sulle armi per la legittima difesa sono solo apparentemente in contraddizione.

Peraltro lo stesso Francesco sull'aereo di ritorno dal suo viaggio apostolico in Corea del Sud nel 2014 diceva che «dove c'è un'aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l'aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l'aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto».

La priorità della Santa Sede in Ucraina è una e una soltanto: «Fermare subito le armi e aiutare la gente», come ripetono a microfoni spenti dalle sacre stanze. Il Papa disse al sociologo francese Dominique Wolton, in un libro del 2017, che non gli piace usare la parola «guerra giusta», «Si dice: "Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi". Ma nessuna guerra è giusta.

L'unica cosa giusta è la pace». Il Catechismo prevede alcune condizioni perché si possa parlare appunto di «guerra giusta», ossia, in sintesi, la proporzionalità della violenza, la discriminazione fra combattenti e non combattenti, la giusta causa, la retta intenzione e la speranza di vittoria, ma già Pio XII nel 1954 di fronte ai pericoli di armi nucleari, chimiche o batteriologiche metteva in guardia dalla via strettissima di una possibile legittimità del loro utilizzo «giusto».

Il cardinale Alfredo Ottaviani (1890-1979), grande prefetto dell'ex Sant' Ufficio, riteneva che nella guerra moderna non potessero mai verificarsi le condizioni teoriche affinché si potesse avere una proporzionalità verso il fine morale che la guerra «giusta» dovrebbe perseguire. Le «divisioni» del Papa restano impegnate chiaramente contro la guerra e «l'inaccettabile aggressione armata» della Russia, ma lo fanno consapevoli che, per usare ancora parole di Francesco pronunciate ieri, «una guerra sempre - sempre! - è la sconfitta dell'umanità, sempre».

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica”.

Il Papa, il Vaticano, potrebbero guidare una mediazione per la soluzione della guerra russo-ucraina? Oltre a dirlo, bisogna avere i mezzi per farlo. Prima di esaltare la forza, vera o presunta, della diplomazia vaticana, i più realisti ricordano che durante il pontificato bergogliano, i diplomatici scesi in campo si sono distinti per i flop realizzati.

Anzi, le mediazioni tentate in Venezuela dall'ex nunzio, ed ex sottosegretario ai Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana Claudio Maria Celli, hanno aggravato lo stallo politico del Paese a vantaggio di un Maduro allora periclitante ed ora più saldo che mai. Secondo il pontefice, il Celli è «un diplomatico di prim' ordine»: non era stato informato dei suoi pasticci nelle trattative condotte con la Cina (che il cardinale Zen attribuisce al cardinale Parolin, ma non è questa la vera storia) e nel 1993 con la redazione di quell'«accordo fondamentale» con Israele concepito in modo così confuso da autorizzare lo Stato ebraico a considerarlo fino ad ora carta straccia. 

Mentre tutti pensano e pesano la "potenze di fuoco" dei diplomatici con la tonaca per l'Ucraina (dimenticando il flop in Bielorussia sul caso dell'arcivescovo Kondrusiewicz), il nunzio in Nicaragua, il polacco Waldemar Sommertag, ha lasciato da insalutato ospite la sede di Managua. 

Nel 2019, aveva partecipato a un tavolo negoziale tra l'esecutivo del presidente Ortega e l'opposizione di Alleanza civica per la giustizia e la democrazia. Il risultato è stato che lo scorso novembre il governo gli ha tolto il ruolo di "decano del corpo diplomatico", che il Congresso di Vienna del 1815 e la Convenzione sulle relazioni diplomatiche del 1961 gli attribuivano di diritto. Per il momento, sappiamo che i vescovi dell'Ucraina, di tutte le confessioni, stanno facendo miracoli. Meglio non disturbare.  

Ceccanti: "Il Papa non può fare il cappellano dell'Ue o della Nato". Francesco Boezi il 19 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il professor Stefano Ceccanti spiega perché "l’aspirazione alla pace non va scambiata con l’inazione, col neutralismo". Poi le aperture sulle riforme strutturali (e sul referendum Giustizia). 

Il professor Stefano Ceccanti, esponente di punta del Pd che prima di tutti gli altri si era detto convinto che Sergio Mattarella potesse (per Ceccanti dovesse) essere rieletto al Quirinale, disegna i confini tra il ripudiare la guerra e ad assistere inermi ad un massacro. Gli stessi disciplinati dalla Costituzione. Se i cattolici non sempre si sono schierati dalla parte del "pacifismo astratto", l'art.11 della Carta, come l'onorevole spiega nella introduzione di "I cristiani e la pace", libro di Emmanuel Mounier edito da Castelvecchio, necessita d'interpetazioni precise. E poi la politica, con la necessità mai venuta meno - dice Ceccanti - di una riforma elettorale e con qualche apertura sul Referendum sulla Giustizia.

Professor Ceccanti, è tornato il pacifismo di sinistra?

"Secondo la grande maggioranza delle grandi culture democratiche che hanno ispirato la Costituzione l’aspirazione alla pace non va scambiata con l’inazione, col neutralismo, ma col multilateralismo, è incardinata in una concertazione tra democrazie. Questo sono le distinte realtà dell’Unione europea e della Nato. Poi ci sono correnti minoritarie, a destra come a sinistra, che fanno una sorta di salto logico, per me sbagliato, dalla scelta personale della nonviolenza, che è apprezzabilissima e che può essere una scelta efficace dentro le democrazie, passano ad una sorta di pacifismo astratto che non tiene conto delle volontà di potenza negli Stati autocratici. Del resto anche nelle nostre società evolute e democratiche nessuno pensa di eliminare i corpi di polizia contando solo sulla bontà delle persone. Un deputato socialista all’Assemblea costituente propose la neutralità e la rinuncia all’esercito ma prese solo trenta voti. Queste posizioni di per sé sbagliate possono comunque aiutarci perché ci aiutano volta per volta a porci dei dubbi sulle scelte che facciamo, se esse siano razionali e proporzionate. Il dibattito in una società democratica è un elemento di forza".

Lei ha da poco introdotto un libro di Mounier sul rapporto tra i cristiani e la Pace. Non è sempre vero che i cristiani ripudiano la guerra?

"Storicamente fino al Concilio Vaticano II la dottrina, pur dentro alcuni criteri e limiti, tendeva ad essere troppo permissiva, alla fine tendeva a riconoscere in quasi ogni guerra un conflitto giusto. Come mi raccontò l’uditore laico Sugranyes de Franch, amico di Papa Montini e esule antifranchista, al Concilio ci fu un impegno forte per stringere i freni, soprattutto tenendo conto del potenziale distruttivo delle armi nucleari, tanto che nei testi del Concilio si parla solo di legittima difesa e non anche di guerra giusta. Però il Concilio non voleva affatto arrivare all'opposto, quello di ritenere sempre illegittima la difesa armata. Infatti Sugranyes ripeteva spesso che Francia e Regno Unito avevano sbagliato a non intervenire contro Franco e fu favorevole all’intervento contro la Serbia. Del resto Montini era stato insieme a Degasperi tra i sostenitori più forti dell’adesione dell’Italia alla Nato".

E poi c’è l’Art.11 della nostra Costituzione….

"Che ripudia appunto non solo la guerra per noi ma anche quella di aggressione degli altri. Per questo l’articolo nella sua seconda parte, che va letta in modo strettamente legato alla prima, tende a spostare a livello multilaterale la questione dell’uso legittimo della forza. Non è una scelta di isolazionismo per cui noi ripudiando la guerra nostra ci dovremmo disinteressare di quelle procurate da altri. Dopo di che, se non funziona il monopolio legittimo della forza perché il Consiglio Onu riconosce il potere di veto alla Russia che è un aggressore, è giusto che ci si ponga il problema di come aiutare chi legittimamente, secondo la stessa Carta Onu, difende il proprio diritto a resistere. Ovviamente in forme proporzionate e ragionevoli. L’aiuto all’Ucraina anche con armi è una via media tra l’assistere rassegnati in modo pilatesco e pendere iniziative con esiti sproporzionati come una no fly zone".

Senta, la guerra di Putin sembra bloccare in parte l’attività del Parlamento che è chiamato a nuove urgenze. Rischiamo di rimandare questioni centrali in termini di riforme istituzionali?

"Più che bloccare l’attività la ridefinisce, impone ad esempio di rimodellare il Pnrr e più in generale le politiche energetiche e quelle della difesa".

Come giudica la posizione del Papa sulla guerra?

"Il Papa e la diplomazia della Santa Sede sono chiamati ad un ruolo altro, di ricomposizione del conflitto, giocando lì il loro prestigio, ma questo non risolve il problema di cosa dobbiamo fare noi. Il Papa lavora su un piano diverso, non può fare il cappellano della Nato o dell’Unione europea, ma neanche noi possiamo vederci come ambasciatori della Santa Sede, noi dobbiamo fare il nostro dovere nella Ue e nella Nato, nelle forme multilaterali efficaci in questa fase".

L’Unione europea è chiamata a diventare “adulta”. Anche il Pd ormai sostiene la necessità di una Difesa comune.

"Il Pd ha nel suo dna De Gasperi e Spinelli, coloro che più di molti altri avevano lavorato nei primi anni ’50 per la Comunità europea di difesa, allora bocciata dai francesi. Lo è quindi non da oggi".

Sistema elettorale: non è più un argomento sul tavolo?

"L’esigenza c’è ed è forte, ma evidentemente a fine legislatura non si può immaginare una riforma votata fini da una piccola maggioranza contro altri. Bisogna provare fino alla fine ma con la condizione di una maggioranza larghissima, senza tentazioni di parte sulla base dell’ultimo sondaggio".

L’attenzione si è spostata: avete ancora intenzione, come forza di esecutivo, di intervenire sulla Giustizia prima del Referendum?

"La Commissione Giustizia sta lavorando e credo che ce la possa fare. Se non arriverà in tempo occorrerà sostenere col Sì i quesiti coerenti col nostro impegno parlamentare (distinzione funzioni, valutazione magistrati, sistema elettorale Csm) e bocciare col No quelli non coerenti (abrogazione totale del decreto Severino, intervento confuso sulla carcerazione preventiva. In ogni caso il Parlamento dovrebbe intervenire anche dopo l’esito dei referendum perché il loro esito concreto non sarebbe risolutivo".

(ANSA il 16 marzo 2022) - Un piano di pace in 15 punti che include il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe russe se l'Ucraina dichiara la neutralità e accetta limiti alle forze armate. 

E' il contenuto della bozza di accordo sulla quale i negoziatori russi e ucraini stanno discutendo, secondo quanto riportato dal Financial Times. 

(ANSA il 16 marzo 2022) - La bozza del piano di pace in Ucraina anticipata dal Financial Times include la rinuncia da parte dell'Ucraina alla Nato e la promessa di non ospitare basi militari straniere o armi in cambio di protezione da alleati quali Stati Uniti, Gran Bretagna e Turchia. Le garanzie occidentali per la sicurezza ucraina potrebbero rivelarsi un "grande ostacolo ad ogni accordo, così come i territori" conquistati dalla Russia nel 2014, mette in evidenza il Financial Times.

 (ANSA il 17 marzo 2022) - "I negoziati tra l'Ucraina e la Russia sono abbastanza difficili". Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un'intervista con il canale televisivo americano Nbc. "I negoziati sono ancora in corso e sono abbastanza difficili", ha sottolineato il presidente ucraino e ha osservato che "qualsiasi guerra potrebbe essere finita al tavolo dei negoziati". Allo stesso tempo, non ha commentato le informazioni apparse in precedenza nei media sulle presunte condizioni di un possibile accordo tra le parti.

(ANSA il 17 marzo 2022) - "Devo essere chiaro, entrambe le delegazioni, quella russa e quella ucraina, sono lontane dal raggiungere un accordo sulla situazione attuale". E' quanto ha dichiarato il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, in un'intervista alla Cnn.  

"Ci sono una serie di fattori - ha spiegato - che fanno la differenza nella posizione russa nei colloqui. Il primo è la feroce resistenza dell'esercito e del popolo ucraini sul campo, la seconda sono le sanzioni imposte alla Russia, che fanno crollare e soffrire l'economia russa. Fattori che hanno costretto la Russia a cambiare leggermente posizione". 

"Non posso definirlo un cambiamento drammatico o serio - ha proseguito Kuleba - ma, date le circostanze, ogni cambiamento nella posizione russa è costruttivo. Perché loro iniziano con degli ultimatum che, se messi insieme, costituiscono una resa unilaterale dell'Ucraina e questo non è accettabile".

(ANSA il 16 marzo 2022) - Austria e Svezia - i cui modelli sono stati evocati oggi da Mosca per l'Ucraina ma rifiutati da Kiev - sono arrivati alla scelta della neutralità attraverso percorsi politici molto diversi. Quella austriaca fu una scelta condizionata da un compromesso politico. Vienna si liberò dell'occupazione di Usa, Gran Bretagna, Francia e Urss successiva alla Seconda guerra mondiale grazie alla firma, da parte delle potenze occupanti, del Trattato di stato del 15 maggio 1955.

Un mese prima i sovietici avevano chiesto a Vienna di sottoscrivere il Memorandum di Mosca con l'obiettivo di impedirle l'adesione alla Nato dopo il ritiro alle truppe di occupazione: un percorso analogo a quello probabilmente immaginato da Vladimir Putin e messo sul tavolo dei colloqui dalla delegazione russa. Il 26 ottobre 1955 fu promulgata a Vienna la Dichiarazione di neutralità, un atto costituzionale del parlamento austriaco che quindi non poggia, sotto il profilo giuridico, su un accordo internazionale. 

Si tratta di una legge fondamentale dello Stato che sancisce l'impegno perpetuo a rimanere fuori da qualsiasi conflitto, a non aderire ad alleanze militari e a non ospitare sul territorio nazionale basi militari straniere. La Svezia invece, quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, era neutrale da più di un secolo, dalla fine delle guerre napoleoniche, e non prese parte al conflitto anche se nella prima fase concesse alcune facilitazioni logistiche alla Germania e in seguito, a partire dal 1944, agli Alleati.

Una posizione ribadita nel 1949 quando Stoccolma si rifiutò di entrare nella Nato. Secondo il diritto internazionale, la Svezia si è impegnata a una "neutralità convenzionale" e quindi non a una neutralità permanente. Come membro dell'Unione europea è tra i promotori di un'intensificazione della politica comunitaria di difesa e sicurezza e le truppe svedesi - assieme a quelle finlandesi, norvegesi, estoni e irlandesi - partecipano al battaglione nordico. 

A partire dal 2015, a seguito dell'attivismo militare russo, sono state aumentate le spese militari ed è stato rafforzato il dispositivo a difesa della strategica isola di Gotland, nel mar Baltico. A seguito dell'invasione russa dell'Ucraina ha ripreso quota in Svezia il dibattito sull'adesione all'Alleanza anche a seguito dell'invio di armi a Kiev.

La bozza di piano di pace in 15 punti tra Russia e Ucraina. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.  

La bozza di accordo su cui stanno lavorando Ucraina e Russia sembra promettente, ma si incrocia con forti dubbi sulle reali intenzioni del Cremlino.  Per la prima volta dall’inizio della guerra c’è un’ipotesi di accordo tra Russia e Ucraina. Un piano in 15 punti che si fonderebbe sulla neutralità dell’Ucraina e la sua già più volte ribadita rinuncia a entrare nella Nato, in cambio di garanzie sulla sua sicurezza affidata a Stati Uniti, Gran Bretagna o Turchia.

È una strada che potrebbe sembrare promettente, ma che si incrocia con i forti dubbi sulle reali intenzioni del Cremlino. Gli sforzi diplomatici, che da dicembre a oggi non sono mai cessati, hanno conosciuto un precedente pesante. Nella notte del 21 febbraio il presidente francese Macron, in una delle sue tante telefonate con Putin, riuscì a strappare l’impegno del leader russo a incontrare il capo di Stato americano Biden in un estremo tentativo di salvare la pace: tre giorni dopo Putin scatenò l’invasione dell’Ucraina.

Mentre la Russia continua a bombardare obiettivi militari e civili, come il teatro di Mariupol dove avevano trovato rifugio un migliaio di abitanti, i negoziati tra emissari ucraini e russi continuano e Mykhailo Podolyak, uno stretto consigliere del presidente ucraino Zelensky, ha svelato al Financial Times i termini di una possibile intesa: la Russia restituirebbe i territori ucraini conquistati a partire dal 24 febbraio, ovvero le regioni del Sud lungo il mare di Azov e il mar Nero e le zone settentrinali attorno a Kiev; l’Ucraina riconoscerebbe l’annessione della Crimea alla Russia e l’indipendenza delle due repubbliche del Donbass, continuerebbe ad avere un proprio esercito ma con l’obbligo di restare fuori da alleanze militari e di non ospitare basi straniere (cosa che peraltro già adesso è esclusa dalla legge ucraina).

ll portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha precisato ieri che la neutralità dell’Ucraina potrebbe seguire il modello dell’Austria o della Svezia. Sia Vienna che Stoccolma peraltro nel 1995 sono entrate a fare parte dell’Unione europea, e fanno parte del sistema europeo di difesa comune previsto dal trattato di Lisbona del 2009. Il consigliere ucraino Podolyak ha però risposto indirettamente a Peskov dicendo di preferire un «modello ucraino» a quello austriaco o svedese: la Russia confina con l’Ucraina e dopo l’invasione del 2014 e la guerra totale scatenata in queste settimane servono garanzie di sicurezza molto più rigorose. Parlando al Congresso americano il presidente Zelensky ha evocato la nascita di una nuova alleanza internazionale che potrebbe chiamarsi U24, un’«unione per la pace» composta da Paesi «che abbiano la forza e la coscienza per intervenire e fermare un conflitto immediatamente, entro 24 ore dal suo inizio».

Ieri è stata anche la giornata del primo incontro ad alto livello tra Usa e Russia dallo scoppio della guerra: il consigliere di Biden per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha detto al segretario del consiglio di sicurezza russo, Nikolaï Patrushev che «se la Russia è seria quanto alla diplomazia, lo dimostri smettendo di attaccare le città ucraine». Ma, al contrario, i bombardamenti continuano. La paura è che i negoziati servano alla Russia per prendere tempo e ri-organizzarsi, dopo le perdite sul campo dovute alla inaspettata resistenza ucraina. Salvo sorprese, è lecito aspettarsi nelle prossime settimane che le due strade continuino a scorrere parallele: da un lato gli sforzi diplomatici di Israele, Turchia e europei e i negoziati diretti per la pace tra ucraini e russi, dall’altro una guerra che non accenna a diminuire di intensità (come accadde del resto nei primi anni Settanta per il Vietnam: lunghi negoziati tra Kissinger e Le Duc Tho mentre i combattimenti continuavano).

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Nonostante la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ieri abbia intimato a Putin di «sospendere immediatamente le operazioni militari», il leader del Cremlino sembra determinato ad andare avanti — «l’operazione si svolge con successo, secondo i piani stabiliti», ha detto in tv —, e anzi ha pronunciato un violento discorso sulla necessità di «purificare la società russa» dalla «quinta colonna» del nemico, frasi che lasciano presagire la determinazione di usare la guerra per ricompattare il fronte interno. Biden qualifica Putin di «criminale di guerra» e la bandiera russa viene ammainata davanti al Consiglio d’Europa di Strasburgo. I negoziati di pace fanno sperare ma resta il dubbio se la parola del Cremlino possa valere qualcosa.

C'è un piano russo con 15 richieste: Ucraina disarmata e fuori dalla Nato. Da Kiev solo gelo. Andrea Cuomo il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il "Financial Times" anticipa le condizioni per cessate il fuoco e ritiro: esercito ridotto, sicurezza del Paese garantita da Usa, Regno Unito e Turchia (ma senza basi). Crimea a Mosca entro il 2022, ma sì agli ucraini nella Ue.

E venne il giorno della speranza. La speranza di un cessate il fuoco in Ucraina, legato a negoziati che fino a ieri non sembravano promettere nulla di buono, impantanati com'erano in una trincea fangosa. E invece ieri, in pieno quarto round dei colloqui, il traguardo è apparso finalmente lontano ma visibile. Secondo quanto rivelato dal Financial Times, esisterebbe addirittura una bozza di accordo in 17 punti, diciassette richieste che la Russia ha fatto per mettere sul tavolo il silenzio delle armi e il ritiro dall'Ucraina.

I punti in questione naturalmente rimodellerebbero il presente e il futuro della più importante nazione ex sovietica dopo la Russia, istituendo di fatto un'area cuscinetto tra il Paese più grande del mondo e la Nato. Tra le richieste russe - di cui sono garanti Stati Uniti, Regno Unito e Turchia - la neutralità dell'Ucraina, l'impegno a non presentare per 15 anni la candidatura per entrare nell'alleanza atlantica (progetto a cui il presidente ucraino Volodymyr Zelenski del resto sembra aver rinunciato) e a non ospitare basi militari o armi straniere, una drastica sforbiciata alle sue forze armate. Insomma, la nuova Ucraina sarebbe una tigre senza artigli.

Naturalmente molte ombre si allungano sul possibile accordo, che ieri comunque ha ricevuto l'endorsement delle borse mondiali, parecchio ringalluzzite. Mosca sembra accettare che l'Ucraina così depotenziata possa essere «protetta» da alleati come gli stessi Stati Uniti, il Regno Unito, la Turchia, ma è tutto da vedere in quali termini tale guarentigia possa essere resa digeribile da Mosca. La Russia chiede che vengano riconosciute le due repubbliche separatiste di Donetsk (Dnr) e Luhanks (Lnr), a cui viene richiesto di mantenere uno status neutrale. Kyiv dovrebbe impegnarsi a riconoscere l'annessione della Crimea alla Russia entro la fine del 2022, ma potrebbe diventare a pieno titolo membro della Ue.

Kiev pretende che l'armata rossa lasci «tutto il territorio dell'Ucraina», ma ieri Vladimir Putin ha ricordato come «a subire un vero genocidio» siano stati gli abitanti del Donbass per otto anni. Lo Zar è determinato a ottenere l'indipendenza (solo formale, visto che diventerebbero dei protettorati russi) di questi territori, sottraendoli al nemico. In realtà le posizioni sembrano meno distanti da quello che i due governi sostengono: Kiev sembra avere già rinunciato alla Crimea, annessa nel 2014 alla Russia con un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale, ma sa bene che la penisola è popolata da una maggioranza di etnia russa e che la Russia ha a Sebastopoli la base della sua flotta del Mar Nero. Quanto al Donbass Zelensky sarebbe pronto a rinunciare al territorio, pari al 7 per cento del totale nazionale delle autoproclamate Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, popolate da una maggioranza russofona e riconosciute da Mosca il 21 febbraio, tre giorni prima dell'offensiva in Ucraina.

Insomma, la situazione è tutt'altro che chiara. C'è anche da fare i conti con lo scetticismo sulle reali intenzioni della controparte da parte di Kiev, che continua a sospettare che gli emissari di Putin stiano solo creando una cortina di fumo per prendere tempo in attesa di una nuova recrudescenza dell'offensiva e comunque trova irricevibili alcune delle richieste del Cremlino. «La bozza del Financial Times - precisa il negoziatore ucraino Mykhailo Podolyak - rappresenta le richieste della parte russa, niente di più. La parte ucraina ha le sue posizioni. L'unica cosa che confermiamo in questa fase è un cessate il fuoco, il ritiro delle truppe russe e garanzie di sicurezza da un certo numero di Paesi».

Poi c'è la questione della neutralità, se adottare il vincolante modello austriaco o il più astratto format svedese, con Kiev che rifiuta entrambe le strade. «L'Ucraina - mette in chiaro Podolyak - è ora in uno stato di guerra diretta con la Russia. Pertanto, il modello può essere solo ucraino», ha dichiarato Podolyak, secondo cui Kiev vuole «garanzie di sicurezza assoluta» contro la Russia, con Paesi che si impegnino a intervenire a fianco dell'Ucraina in caso di aggressione.

I negoziati continuano, nella forma trilaterale che coinvolge anche la Turchia e che sembra funzionare. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrovo, ha ieri incontrato il pari grado di Ankara, Mevlut Cavusoglu, ma i due non avrebbero parlato di un incontro diretto tra Putin e Zelenski, che quest'ultimo invoca da settimane.

Toni Capuozzo, l'affondo contro Volodymyr Zelensky: "Non entra nella Nato. Perché non dirlo venti giorni fa?" Libero Quotidiano il 16 marzo 2022.

Toni Capuozzo controcorrente. L'ex vicedirettore del Tg5 non si trova d'accordo nello scomodare i paragoni con Hitler. Anche se questi sono dedicati a Vladimir Putin. "Dovremmo stare zitti, noi, sul tema. E forse, per quel che riguarda il passato, dovrebbero astenersi da quel paragone gli ucraini, per la cui sorte oggi trepido, ma che a Stepan Bandera, volenteroso collaboratore del nazismo, hanno dedicato un francobollo". Su la Zuppa di Porro, rassegna stampa quotidiana di Nicola Porro, Capuozzo se la prende con Volodymyr Zelensky. 

Il motivo? Dopo giorni dall'inizio dell'invasione il presidente dell'Ucraina ha deciso di ammettere quello che l'omologo russo voleva sentirsi dire da tempo: "Sì, lo so, non faremo mai parte della Nato". E allora, è la domanda del giornalista, "perché non farla venti giorni fa?". Il sospetto di Capuozzo è che il terminE "neutralità" sia ora visto come "vigliaccheria, untuosa equidistanza e comodo equilibrismo tra la vittima e l’aggressore". Eppure ancora una volta Capuozzo non può che interrogarsi: "È un’offesa alla libertà dell’Ucraina, alla sua democrazia, al futuro dei suoi bambini essere neutrali?". 

Forse se Zelensky avesse accettato un accordo con Putin, molti tra ucraini e russi non sarebbe morti. D'altronde venti giorni di guerra sono tanti. Per questo viene da chiedersi se "è una libertà vigilata non ospitare esercitazioni Nato come quelle dello scorso anno, e basi come quella bombardata l’altro giorno, ai confini della Nato, come sottolineano preoccupati i titoli dei giornali?". La risposta di Capuozzo non si fa attendere: "Non mi sembra, e comunque meglio che lo stillicidio di vite umane, e il massacro dell’assalto finale, pur di stare nella Nato".

Zelensky a Congresso Usa, abbiamo bisogno della no-fly zone. (ANSA il 16 marzo 2022) - "Abbiamo bisogno di una no fly-zone". Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky parlando al Congresso Usa chiedendo sistemi anti-attacchi aerei agli Stati Uniti. 

"Serve una no fly zone sopra l'Ucraina o ci servono aerei, lo sapete che esistono, ci sono. Voi dite 'I have a dream', a voi posso dire 'I have a need', quello di proteggere i nostri cieli", ha affermato Zelensky al Congresso Usa. "L'Ucraina è grata agli Stati Uniti ma vi chiedo di fare di più per fermare la macchina da guerra della Russia", aggiunge Zelensky. 

Zelensky, Biden sei il leader del mondo e della pace. (ANSA il 16 marzo 2022) - "Biden, essere il leader del mondo vuol dire essere leader della pace". Lo ha detto in inglese il presidente ucraino Volodymyr Zelensky al congresso americano. Il leader ha mostrato un video dell'Ucraina sotto le bombe. E poi si è rivolto in inglese agli americani. "Oggi non solo aiutate noi ma anche tutta l'Europa e tutto il mondo ad essere liberi".

Mosca: 'Compromesso possibile secondo il modello svedese'. Ma Zelensky rifiuta. Da ansa.it. il 16 marzo 2022.  

Dopo il 'no' dell'Ucraina alla proposta di accordo avazata da Mosca per una "neutralità sul modello dell'Austria e della Svezia", da Kiev vengono mosse pesanti accuse alla Russia. 

Secondo media nazionali come il 'Kyiv Indipendent', sarebbero stati "uccisi 10 civili in coda per il pane a nord" della capitale e sarebbero stati sparati colpi e fumogeni contro dei "manifestanti pacifici radunati nella piazza davanti al consiglio comunale per chiedere il rilascio dei leader locali detenuti nella zona occupata di Skadovsk, dell'Oblast di Kherson".

Il tutto, mentre il Congresso americano accoglie con una standing ovation il collegamento online con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dall'Ucraina che tra gli applausi dichiara: "Sono fiero di salutarvi da Kiev, vittima dei bombardamenti dei russi tutti i giorni ma noi non molliamo, come tutte le altre città". "Il nostro Paese vive l'11 settembre da tre settimane", aggiunge. 

I bombardamenti russi "hanno colpito la torre televisiva di Vinnytsia, città sulle rive del fiume Buh nell'Ucraina centrale", riferisce sempre 'The Kyiv Independent'. E secondo il governatore di Vinnytsia, Oblast Serhiy Borzov, l'attacco russo avrebbe danneggiato la torre, lasciando i residenti senza segnale Tv. Non sono segnalate vittime.

Intanto, sul fronte della diplomazia si è fatto un passo avanti e uno indietro. Un "compromesso" sull'Ucraina neutrale secondo il modello svedese o austriaco "è possibile", annuncia il Cremlino. 

"Questa è un'opzione che viene discussa ora e che può essere considerata un compromesso" dice il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Ma Zelensky punta i piedi e rifiuta il modello austriaco o svedese di neutralità del Paese chiedendo garanzie di sicurezza. 

"L'Ucraina è in uno stato di guerra diretta con la Russia. Pertanto, il modello può essere solo ucraino", spiega il capo negoziatore ucraino Mykhailo Podoliak ribadendo il rifiuto da parte di Kiev del modello svedese o austriaco di neutralità. L'Ucraina, sottolinea, vuole "garanzie di sicurezza assoluta" contro la Russia con un "accordo i cui firmatari si devono impegnare ad intervenire a fianco di Kiev in caso di aggressione".

Eppure il capo negoziatore russo ai colloqui con l'Ucraina, Vladimir Medinsky, poco prima aveva detto che Kiev sarebbe stata disponibile ad assumere uno status di "neutralità smilitarizzata, stile Austria o Svezia, con un proprio esercito".  "Sono in discussione tutta una serie di questioni relative alle dimensioni dell'esercito ucraino", aveva affermato Medinsky che aveva ricordato come l'Ucraina "ha già lo status di neutralità" nella sua Costituzione e che è stato proprio sulla base di questo principio "che si ritirò dall'Unione Sovietica nel 1991. "Chiaramente - aveva aggiunto - la questione chiave per noi è lo status della Crimea e del Donbass, così come una serie di questioni umanitarie, i diritti della popolazione russofona, lo status della lingua russa". E anche il ministro degli esteri lavrov si era detto ottimista: "I negoziati con l'Ucraina non sono facili, ma c'è la possibilità di un compromesso". 

Lavrov aveva ribadito che per la Russia i punti chiave nella trattativa con Kiev sono la sicurezza delle popolazioni russofone nell'est Ucraina e la sua smilitarizzazione. Per il ministro, alcune formulazioni di un accordo con l'Ucraina erano "vicine" a un'intesa, mentre lo status neutrale per Kiev veniva "seriamente considerato". Poi la doccia fredda del premier ucraino Zelensky che, invece, poche ore prima aveva detto che "i colloqui con la Russia continuano e sembrano più realistici".

Nelle prime ore del mattino, Mariupol è stata attaccata anche dal mare di Azov, riferisce Petro Andryushchenko, consigliere del sindaco della cittadina ucraina, precisando che gli attacchi delle navi da guerra vanno ad aggiungersi ai raid aerei. "I primi missili - spiega - sono stati lanciati da una nave vicino a Bilosaraiska Kosa, verso la città". L'ospedale regionale di Mariupol, inoltre, è sempre occupato dalle forze russe "che costringono i medici a curare i loro feriti" e "usano anche i pazienti come scudo contro i tentativi di riprendere il controllo del nosocomio da parte dei nostri soldati".

Anche la seconda città più grande dell'Ucraina, Kharkiv, è stata attaccata durante la notte, con due morti confermati e due edifici residenziali distrutti, riferisce The Guardian. Anche una scuola è stata attaccata intorno alle 3 del mattino, una parte dell'edificio è stata distrutta. 

Le navi russe presenti nel mar Nero hanno iniziato a bombardare le coste vicino alla città di Odessa, la terza più grande dell'Ucraina e principale porto del paese. Sono stati sparati razzi e colpi di artiglieria, informa sui social Anton Gerashchenko, Consigliere del Ministro degli Affari Interni dell'Ucraina. Esplosioni sentite nella notte alla periferia di Kiev.

Sono 174.597 i rifugiati ucraini arrivati in Germania dall'inizio della guerra, stando alle cifre ufficiali. Si ritiene però che il flusso che ha riguardato la repubblica federale sia maggiore. Per lo più si tratta di donne e bambini. Berlino è già in difficoltà. Secondo la senatrice con delega agli Affari sociali del governo locale, Katja Kipping, la stazione centrale della capitale è al limite e bisogna evitare che "l'accalcarsi della gente metta a rischio la sicurezza".

GIORNALISTI UCCISI - Cinque giornalisti sono stati uccisi e almeno 35 feriti annuncia la responsabile per i diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmila Denisova, su Telegram, dall'inizio della guerra in Ucraina. Tre vittime - ricorda l'agenzia Unian - sono Viktor Dudar, colpito durante i combattimenti vicino a Mykolayiv, il cameraman Yevhen Sakun ucciso in un attacco missilistico a Kiev e l'americano Brent Reno, ucciso a Irpin, nella regione di Kiev. Ucciso ieri un cameraman di Fox News: si chiamava Pierre Zakrzewski. Anche la giornalista ucraina Alexandra Kuvshinova è morta in un attacco russo nel nord ovest di Kiev in cui è rimasto ucciso Zakrzewski, riferisce l'agenzia di stampa ucraina Unian.

(ANSA il 15 marzo 2022) - "L'Ucraina si rende conto che non è nella Nato. Abbiamo sentito per anni parlare di porte aperte, ma abbiamo anche sentito dire che non possiamo entrarci, e dobbiamo riconoscerlo". 

Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso online alla Joint Expeditionary Force di Londra, citato dall'agenzia Unian.

Volodymyr Zelensky si arrende: “L'Ucraina non entrerà nella Nato”. Poi l'accusa: ipnotizzati dalla Russia. Il Tempo il 15 marzo 2022.

«Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato». L’ammissione è del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, nel suo discorso online alla Joint Expeditionary Force di Londra. «È chiaro che l’Ucraina non è un membro della Nato, lo capiamo. Per anni abbiamo sentito parlare di presunte porte aperte, ma abbiamo anche sentito dire che non possiamo entrarci, questo è vero, dobbiamo ammetterlo», ha continuato Zelensky, che ha poi chiesto ancora una volta alla Nato di chiudere i cieli dell’Ucraina.

Poco dopo è arrivata un’altra bordata alla Nato, definita come «l’alleanza più forte del mondo, ma alcuni membri di questa alleanza sono ipnotizzati dall’aggressione della Russia». Zelensky è apparso in video collegamento con il premier britannico Boris Johnson e gli altri leader dei Paesi che compongono la UK Joint Expeditionary Force (Jef), il corpo di spedizione militare guidato dal Regno Unito. «Sentiamo molti discorsi sulla Terza Guerra Mondiale che dovrebbe iniziare se la Nato chiudesse i cieli ucraini ai missili e aerei russi e quindi una no fly zone umanitaria non è stata ancora istituita - ha aggiunto il numero uno di Kiev - questo permette all’esercito russo di bombardare città pacifiche e far saltare in aria edifici civili, ospedali e scuole. Quattro edifici di diversi piani sono stati colpiti questa mattina a Kiev e ci sono state decine di morti».

Sul tema Nato è da segnalare anche l’intervento dell’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vasily Nebenzya: «Il punto è che l’Ucraina non si deve unire alla Nato, deve essere tolto dalla costituzione dell’Ucraina».

L’arte di saper perdere che nessuno conosce. Il corsivo di Toni Capuozzo: «Ci sarebbero i margini di una trattativa che consenta a entrambi di cantare vittoria e leccarsi le ferite delle rispettive sconfitte, ma non c’è nessuno che abbia l’autorità per forzarli a trattare». Toni Capuozzo su Il Dubbio il 15 marzo 2022.

Il guaio è che nessuno sa perdere. Non sa farlo Putin, e neanche Zelensky. Il primo non molla l’osso, e continua, anche se ha perso l’occasione di una guerra lampo, i leader e l’informazione occidentale lo descrivono isolato e spaesato dalla resistenza incontrata. Zelensky non cede, anche se ha finora perso la scommessa di coinvolgere l’Occidente sul campo di battaglia.

Ci sarebbero i margini di una trattativa che consenta a entrambi di cantare vittoria e leccarsi le ferite delle rispettive sconfitte, ma non c’è nessuno che abbia l’autorità per forzarli a trattare. Così, la guerra va avanti per inerzia verso lo scontro finale. Il giornalismo ama i titoli cubitali, e la guerra è perfetta, anche se fa male. Ma a ben guardare i numeri e le notizie, di guerra vera si è visto solo l’accerchiamento di Mariupol. Il resto è attesa, e spesso delle vittime si riesce a sapere il nome e il cognome, e le piazze dei collegamenti live, al calare della sera, sono ancora illuminate, l’unico grande dramma è quella dell’esodo dei profughi. Il resto è guerra di propaganda, da entrambi i lati: le armi chimiche, le centrali nucleari, il coinvolgimento della Bielorussia, i bombardamenti sui civili. Ho visto un filmato – russo – di interviste a profughi di Mariupol.

Raccontavano di essere stati impediti nell’uscire dalla città dai difensori della città, non dagli aggressori: è assurdo? Leggo i nostri giornali, sento gli interventi nei nostri talk: mi sembra strano che la Russia non sia ancora crollata su se stessa. L’unico rifugio è dubitare sempre, specie quando tutti, anche colleghi che avevano schivato la noiosa e tranquilla naja italiana, indossano l’elmetto.

Questa inerzia conduce dritta a due soluzioni: la libanizzazione – o balcanizzazione o quel che volete di stati a brandelli – con un paese spartito in ostilità permanenti (l’Occidente, quando affida alla forza e non alle idee e agli stili di vita la sua egemonia è piuttosto abile nel creare Stati falliti), Kiev salva e i carri armati che ripiegano e si accontentano di questa Kraina filorussa ingrandita. O la battaglia finale, Kiev come Mariupol. Più uomini in guerra, più armi, e armi peggiori, e alla guerra come alla guerra, senza risparmio di vite, è in gioco la democrazia, ma non mandiamo aerei, è adozione a distanza di sicurezza. Vedremo nelle prossime ore, quando qualcuno ci tratterà da vili egoisti, preoccupati solo di carburante e olio di mais, noi italiani che per cultura conosciamo l’umanissima arte di saper perdere.

La partita sul territorio europeo. Così fu sconfitto Hitler, non con le parole ma con una alleanza. Carmen Lasorella su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

Stiamo scivolando in un gorgo, che ci trascina sul fondo. E lo dobbiamo ad un uomo, ad un uomo solo con la sua rabbia, nel suo delirio di onnipotenza, impregnato di nazionalismo, che si antepone alla storia, alla ragionevolezza, al diritto, nei primi anni di un nuovo secolo, che è l’inizio di un nuovo millennio. È già accaduto cento anni fa, ci sono delle similitudini, ma non le stesse condizioni. Allora, un altro uomo, di umili origini, con un’infanzia difficile, proprio come il Presidente della Russia di oggi, in un paese sconfitto e umiliato, diceva: «Il parlamento va eliminato, la democrazia è una sciocchezza, occorre creare un movimento di massa e cancellare gli avversari…fino al momento in cui i loro nervi crolleranno e noi vinceremo». Era il discorso su la Repubblica nata sul furto (la Germania) e lui era Hitler nel 1922. Benché in un confronto impossibile, tuttavia, siamo difronte al raccapricciante antefatto di Putin nel 2022.

Cento anni dopo, bisogna evitare che la storia si ripeta, nel rischio di una catastrofe incalcolabile, che già vede migliaia di morti nel cuore dell’Europa, ma come?

Allora, si sottovalutò la minaccia. Non possiamo permetterci di farlo oggi. Siamo sotto attacco. Putin sta sparando sull’Europa, sui cittadini europei, su quello che siamo e che rappresentiamo. Ed alza la posta. Ai suoi occhi siamo deboli, anzi debosciati per i nostri costumi. Parolai, perché con le parole ci confrontiamo nelle istituzioni democratiche. Inconcludenti, dal momento che la libera stampa può dire tutto e il contrario di tutto. Vigliacchi, perché ci imboschiamo sui sofà, invece di schierarci a difesa dei nostri sogni. Ci provoca, con la minaccia dell’atomica, ci sbalordisce, lanciando l’idea improvvisa di un nuovo mercato finanziario con lo yuan cinese (vale un sesto dell’euro) che dovrebbe sostituire il dollaro.

Nelle nostre giornate occidentali, mentre le bombe russe in Ucraina continuano a fare morti ed hanno già colpito un obiettivo a pochi chilometri da una città d’arte e di storia come Leopoli, non distante dalla Polonia, continuiamo a dibattere di ragioni e di torti. Stiamo seguendo con il fiato sospeso un negoziato voluto dagli americani a Roma con la Cina, addirittura in un hotel e non in una qualsivoglia sede istituzionale della capitale, che ne ha di abbondanza, perché ci porta una suggestione: è comunque un incontro di alto livello tra due superpotenze, dove la Russia resta oggetto. Forse non servirà, forse si aprirà uno spiraglio, tuttavia arriva dopo gli incontri sino-americani dell’ottobre scorso, ed è un passo. Potrebbe essere l’inizio di una dialettica preziosa anche su altri scenari.

Nel senso d’impotenza che ci attanaglia, ci arrampichiamo sulle analisi di contesto e sugli esiti possibili di una guerra inattesa, iniqua come ogni guerra, appellandoci al buon senso, che scoraggia un sostegno militare ad un popolo sotto attacco, che sta morendo, perché l’alternativa sarebbe un conflitto nucleare. L’Europa si propone finalmente compatta, come non lo era mai stata. Le piazze delle sue città sono piene di bandiere e di voci che chiedono la Pace. Ma, nella sostanza, come si fa a chiedere una trattativa a chi non vuole trattare? Non si possono dispiegare azioni di intelligence, che rivelano un disegno criminoso, ben oltre i confini dell’Ucraina in macerie, confidando solo su sanzioni economiche, che quand’anche portassero la Russia al default, così come già accaduto nel 1991, lascerebbero senza risposta la domanda del cessate il fuoco. Putin continua a dettare il gioco. Rilancia sul possibile uso di armi chimiche. Annuncia l’ingaggio dei peggiori tagliagole, in arrivo a migliaia dal Medioriente e dalla Cecenia. (Purtroppo sappiamo, che oltre alla morte nelle vie delle città ucraine, avranno il lasciapassare russo anche per attacchi, magari terroristici, in Europa) Arriva allo scherno cibernetico, che dopo attacchi continui – le cosiddette operazioni di ransomware, (ricatto) cominciate già nel 2014 – distorcono la realtà, cancellando i dati, introducendo artefatti, mistificando le informazioni.

Appare isolato – è vero- anche nella narrazione della sua immagine, che non si associa mai a niente e a nessuno, diversa perfino da quella degli zar del tempo degli imperi, ma resta al tavolo con le carte coperte, divertendosi a fare il gatto con il topo. Lo racconta apertamente anche un video di propaganda, diffuso da Mosca, che ironizza perfino sui cartoon americani Tom e Jerry, invertendone le parti e con le bandiere russe e ucraine a rovescio. E la provocazione continua spostando il conflitto addirittura nello spazio. La Roscosmos, l’agenzia spaziale di Mosca, minaccia di far cadere la stazione satellitare internazionale sulla testa degli occidentali. Milioni di tonnellate di materiali, alla stregua di un asteroide. Sulla stazione, al momento stanno lavorando insieme quattro americani, un tedesco e due russi. Quale sarà il loro destino? Rimarranno isolati anche nei piccoli spazi di un’astronave? E che fine faranno le tecnologie spaziali per ora comuni, se diventeranno protette nel nome di interessi particolari? Solo propaganda? Oppure contro ogni logica di futuro si va verso la fine delle tante sfide congiunte nel nome della scienza?

Il popolo ucraino, i suoi soldati e il suo presidente Zelensky stanno offrendo a tutti una testimonianza straordinaria di coraggio e di sacrificio. Se non ora, quando dovremmo parlare di eroismo? Si battono per il loro paese e per i nostri valori. E le donne, i bambini, gli anziani sono un esempio. Non hanno nulla da spartire con l’immagina putiniana di “nazisti e drogati”. Eppure, perfino la loro resistenza estrema per noi sta diventando sospetta, in tanti la vivono già con fastidio. Putin che ha dimostrato di aver sottovalutato l’Ucraina, su di noi forse non sbaglia: i nostri valori sono forti solo a parole? Come uscirne. Un passo alla volta. Intanto, sulla strada della coerenza di sostenere un popolo aggredito, in modo incondizionato, sul piano umanitario, come si sta facendo nell’emergenza, pensando anche al domani. Insieme, il dovere di non rimanere inerti dinanzi agli effetti di una possibile capitolazione in una guerra, che sta già avendo un prezzo di sangue smisurato. Inaccettabile. Sul piano politico, ogni possibile sostegno ad una trattativa che esplori qualunque ipotesi negoziabile al livello più alto, il migliore e nello spazio più breve. Nello stesso tempo però, a questo punto, non può che alzarsi la soglia della deterrenza europea, anche militare.

Non ci sono alternative. Bisogna spiegarlo meglio ai popoli, che lo stanno già comprendendo nei paesi baltici, dove è stata potenziata la difesa Nato, ma anche ai nostri, mentre i leader europei ne devono condividere la responsabilità. È l’Europa, che deve giocare questa partita, che si svolge sul suo territorio. Urge il suo protagonismo politico. Anche l’Europa deve diventare un player internazionale e sedersi al tavolo per collaborare allo scopo. Forse non ancora oggi, ma almeno domani. Alla partnership americana, deve affiancarsi l’autonomia. L’Europa, forte dei suoi valori di civiltà, straordinaria per la sua cultura, ineguagliabile per la sua bellezza, aperta all’ innovazione dell’era digitale deve esprimere ora, in modo inequivocabile, anche la volontà di difendere tutto ciò che ha saputo costruire.

Deve farlo con una sola voce, mettendo insieme in una foto di famiglia tutti i suoi capi di stato e di governo, riuniti nei giorni scorsi informalmente a Versailles, quando ci sarà il prossimo vertice europeo di fine marzo. Una nuova Unione, con meno nazionalismo, nel nome degli interessi dei popoli europei, potrebbe cominciare a muovere i suoi passi verso il futuro. È lecito lo scetticismo, ma anche la speranza. Hitler non fu sconfitto dalle parole, ma da un’alleanza militare, nel nome di valori comuni. È l’ultima cosa che possiamo augurarci, oggi, tra le macerie della Storia. Ma non dobbiamo sottovalutare la minaccia dello zar. Tutto, proprio tutto, va fatto subito per evitare il peggio. Senza indugi. Carmen Lasorella

Il decreto legge sull’Ucraina alla Camera, presenti solo nove deputati. Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2022.

Ad affrontare a Montecitorio il dl sulle disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina soltanto tre parlamentari del Pd, due di FdI, una del M5S, una di FI, una di Misto-Alternativa e uno del Maie-Psi

Iolanda Di Stasio (M5S) interviene nell’Aula praticamente vuota

Solo nove deputati presenti a Montecitorio (su 630) durante la discussione generale sul decreto legge riguardanti le disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina, dopo quello per il sostegno militare. Nell’Aula praticamente vuota erano a un certo punto seduti ai loro banchi Filippo Sensi, Alberto Losacco e Alberto Pagani del Partito democratico, Iolanda Di Stasio del M5S, Jessica Costanzo del Misto-Altenativa, Federico Mollicone e Giovanni Russo di Fratelli d’Italia, Antonio Tasso del Maie-Psi e Maria Tripodi di Forza Italia.

Sul decreto volto a mettere in campo i primi strumenti idonei ad affrontare l’emergenza internazionale, alcuni dei deputati in Aula hanno preso parola, circondati quasi da nessuno. Tripodi, che è anche capogruppo in Commissione difesa, è intervenuta dicendo: «È nostro dovere fare di tutto affinché cessi immediatamente il conflitto in Ucraina e si torni al tavolo delle trattative per arrivare al più presto a un accordo di Pace, che salvi la dignità del popolo ucraino che vuole mantenere la propria libertà, sostenendo ogni sforzo e ogni iniziativa utile ad una de-escalation militare». Mollicone ha invece detto: «Va ristabilita la completa integrità dello Stato ucraino. La lotta di Budapest del ‘56 ritorna con l’eroismo dei patrioti ucraini nel 2022: ragazzi e ragazze, donne e uomini, che lottano per la difesa della propria terra. Colleghi, ripetiamolo tutti: avanti ragazzi di Kiev, avanti ragazzi di Leopoli, avanti ragazzi di Mariupol, avanti ragazzi di Kharkiv, avanti ragazzi ucraini, avanti figli d’Europa».

Avete giocato con l'abisso. Ora ce l'avete avanti. L'AntiDiplomatico 15 Marzo 2022. Di Raoul Kirchmayr. Post Facebook del 14 marzo 2022.

A "Otto e mezzo" di stasera c'è stato un momento - durato una decina di minuti circa - in cui si è capito che un atterrito Massimo Giannini (La Stampa) ha capito. Ha capito che qualcosa non torna più, nel racconto - meglio: nella narrazione - della guerra in Ucraina. Da questa parte dello schermo lo abbiamo capito dallo sguardo sbarrato e dalle labbra serrate in una sorta di smorfia angosciata. Perfino Lilli Gruber è parsa vacillare, non sapendo più da dove e come riprendere il filo del discorso. Poi, con molto mestiere e bravura ha rimediato. L'unico che è parso non sorpreso è stato Caracciolo, il direttore di Limes, che evidentemente non si era fatto soverchie illusioni. E purtuttavia, aveva il volto parecchio tirato, e un po' scavato. 

Insomma, il gelo era sceso nello studio, dopo che - intervistata da Gruber - Iryna Vereshchuk, divisa verde e sguardo di ghiaccio, ha detto a nome del governo ucraino, da lei rappresentato nella veste di vicepremier, le seguenti cose: a) Il governo ucraino sa qual è la verità e ha il coraggio di dirla; b) la verità è una sola; c) il presidente è il popolo, il popolo si riconosce nel presidente; d) no-fly zone subito sulle centrali nucleari; e) intervento militare degli USA in Ucraina; f) garanzie internazionali occidentali, da parte di USA e GB, per l'Ucraina per il dopoguerra; g) Crimea e Donbass restituite all'Ucraina, dopo periodo di monitoraggio internazionale; h) né il riconoscimento delle repubbliche del Donbass né della Crimea né la neutralità dell'Ucraina possono costituire base di trattativa con la Russia. 

Giannini, nonostante lo sconcerto - e, immagino, il brivido lungo la schiena - è stato lucido nel far notare a Vereshchuk che, con queste premesse non ci potrà mai essere nessuna trattativa con la Russia. La risposta è stata che l'Occidente deve prendersi ora quelle responsabilità che non si è preso in passato. Caracciolo ha fatto notare alla vicepremier che questa base negoziale forse poteva andare bene nel 2014, certo non ora, con la situazione attuale sia politica sia militare. E che una trattativa realistica non poteva che avere come punto di partenza lo status ante 23 febbraio, poiché gli USA non interverranno mai in Ucraina in un confronto militare diretto, poiché questo significherebbe lo scoppio di un conflitto mondiale. La replica è stata che la Russia va fermata ora in Ucraina perché il conflitto ci sarà ugualmente. 

In precedenza, su domanda di Gruber circa le vittime odierne a Donetsk e sul rimpallo delle responsabilità del bombardamento, la risposta è stata che i russi sparano sui (loro) civili per attribuire la responsabilità agli ucraini. Gli ucraini, ha aggiunto poco dopo, sono credenti e sono per l'amore. 

Vereshchuk, che ha anche un passato come militare, è considerata esponente conservatrice e moderata nella compagine di governo.  

Ecco, lo sguardo angosciato di Giannini ha restituito l'istante dell'illuminazione, quando ha capito di non aver capito granché su chi fossero i difensori della libertà, su quali fossero i loro obiettivi e su quale fosse il "frame" psicologico - prima ancora che politico - su cui si organizzano le loro decisioni: la mistica del sacrificio. Di questa mistica è imbevuto, per esempio, il culto degli eroi di Maidan. E' uno dei tanti anacronismi del post-guerra fredda: un pezzo di medioevo partorito dai nazionalismi del dopo-URSS, ideologie di risulta nel vuoto politico della (breve) fine della storia.

La storia ha ripreso da tempo il suo cammino con questi grumi arcaici sopravvissuti chissà come e riportati alla superficie dalle correnti putride dei fascismi postmoderni. 

Almeno spero che a Giannini da oggi sia chiara una cosa: è sufficiente ricordare qual è la linea - a quanto pare ufficiale - del governo Zelensky. E la linea è: nessuna linea, diritti allo scontro, verso il sacrificio finale. Se l'Ucraina vincerà, vincerà la verità, se l'Ucraina verserà il suo tributo di sangue lo farà sacrificandosi per la verità. L'Apocalissi non fa paura quando è la verità che deve trionfare. 

Auguri, Giannini. Avete giocato agli apprendisti stregoni con l'abisso, ora ce l'avete davanti.

MANOVRE DIPLOMATICHE E MANOVRE SUL CAMPO. Le trattative Russia-Ucraina sono un bluff di Putin? DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 14 marzo 2022

Mentre diplomatici ucraini e internazionali dicono che i russi sono finalmente disposti a negoziare sul serio, i movimenti delle truppe sul campo raccontano un’altra storia.

Soldati russi si concentrano intorno a Kiev, come in preparazione ad un assalto, mentre altre forze cercano di circondare l’esercito ucraino schierato ad est.

Sono segnali che sembrano indicare la volontà di Putin di distruggere le forze armate ucraine, conquistarne la capitale e rovesciarne il governo: l’opposto di quel che assicurano i diplomatici. 

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.

Le guardie del corpo gli ordinano di seguire il soldato passo per passo. Al giornalista di Haaretz viene illustrato che ricalcare le orme è il modo più sicuro per evitare di saltare su una delle mine antiuomo nei corridoi che portano alla stanza di Zelensky. 

All'inviato del quotidiano di Tel Aviv il presidente spiega perché fin dall'inizio abbia incitato gli israeliani a condurre la mediazione tra lui e Putin: «Tra i fondatori di Israele c'erano molti ebrei ucraini che hanno portato in Medio Oriente la loro storia e il desiderio di costruire un grande Paese. Così ha senso che siate voi a provare».

Lui stesso ebreo, spera che i colloqui possano avvenire proprio a Gerusalemme (i russi sembrano non escluderlo) e attraverso l'ambasciatore ucraino - scrive Walla - ha chiesto di poter intervenire via schermo dalle sale di Yad Vashem. Per ora Dani Dayan, presidente del memoriale dell'Olocausto, si è rifiutato perché teme che «l'evento diventi politico» e «vengano fatti paralleli tra l'invasione dell'Ucraina e la Shoah».

Dayan ha tagliato i rapporti (e il flusso di milioni in beneficenza) con Roman Abramovich, l'oligarca colpito dalle sanzioni internazionali. All'interno del governo israeliano il ruolo di poliziotto cattivo (per il despota Putin) è ricoperto da Yair Lapid, il ministro degli Esteri. Che dalla Romania ripete: «L'attacco russo è senza giustificazione».

E spinge per accogliere un numero maggiore di ucraini anche non di origine ebraica: «Abbiamo il dovere morale». Pure gli Usa pretendono di più da Naftali Bennett, che tiene aperti i canali con Zelensky: hanno parlato dell'ipotesi Gerusalemme. Il tentativo di mediazione non è ritenuto sufficiente, soprattutto se accompagnato dalla necessità strategica di non irritare Putin e perdere il suo via libera alle incursioni contro le postazioni iraniane in Siria.

Washington vuole che il governo imponga le punizioni economiche agli oligarchi con doppia cittadinanza volati in Israele. «Non diventate l'ultimo paradiso protetto per i soldi sporchi che finanziano le guerre di Putin», avverte Victoria Nuland, sottosegretaria di Stato.

Rutte e gli altri. Quelli che l’Ucraina appartiene alla famiglia europea, ma non c’è fretta di farla entrare. Olivier Dupuis, Carmelo Palma su L'Inkiesta il 15 Marzo 2022.

Toglierla dal no man’s land geopolitico in cui è stata confinata finora è nell’interesse strategico dell’Unione, ma ci sono resistenze che si annidano tra gli stessi Paesi fondatori, spinte anche dalle quinte colonne putiniane che puntano a ristabilire quanto prima i rapporti di sempre con la Russia.

La politica della Nato di forte sostegno politico, ampio supporto logistico e militare e moderazione strategica, non è certo perfetta. È infatti sorprendente che l’organizzazione atlantica non abbia previsto, fornendo per tempo sistemi di difesa missilistica e aerea, che il clamoroso fallimento dell’operazione speciale avrebbe portato il presidente della Federazione Russa a sostituire la guerra lampo con una strategia del terrore, cioè con una “cecenizzazione” della guerra, prendendo di mira i civili e creando milioni di rifugiati, anche al fine di destabilizzare l’Europa e accrescere per essa i costi della solidarietà con l’Ucraina. La stessa strategia usata in Siria. Kiev e le altre città ucraine come Grozny o come Aleppo. Nondimeno, la tenuta dell’organizzazione atlantica e la sua compattezza hanno dimostrato l’errore della diagnosi frettolosa, secondo cui la Nato era cerebralmente morta. La Nato è viva e il suo cervello pure. 

Lo stesso non si può dire dell’Unione Europea. Anche la decisione presa a Versailles nel corso del recente Consiglio europeo informale non è ancora una vera risposta alla richiesta urgente del presidente ucraino di risolvere una volta per tutte la questione dell’adesione dell’Ucraina all’Unione. Questo è un segno, se non di morte cerebrale, almeno di coma profondo dell’organizzazione europea.

I lavori preparatori del vertice di Versailles avevano palesato le resistenze annidate proprio tra i Paesi fondatori. Il documento di uscita, che riconosce l’appartenenza dell’Ucraina alla famiglia europea, ma non dà tempi sul processo di questo necessario “ricongiungimento familiare”, dimostra che le strategie dilatorie nascono da un fraintendimento profondo sia delle opportunità che dei rischi che si legano a questo passaggio. L’Ucraina non è più da tempo un Paese che si possa decidere se convenga o meno accogliere nell’Ue, perché è già diventato oggettivamente la frontiera dello scontro tra l’Ue e i disegni espansionisti della Federazione Russa.

Una vittoria di Putin in Ucraina non sarebbe solo una vittoria contro il governo di Kiev, ma anche contro quelli di Berlino, Roma, Parigi e contro le istituzioni dell’Unione. Qualsiasi accordo futuro tra la Russia e l’Ucraina deve essere anche un accordo sulla sicurezza dell’Europa.

La questione dell’adesione dell’Ucraina all’Unione è per i paesi membri qualcosa di molto più centrale e “esistenziale” della risoluzione di una crisi regionale nel vicinato orientale. Insieme alla questione militare – la creazione di un quadro che assicuri la sicurezza futura dell’Ucraina, attraverso il ritiro o il congelamento della domanda di adesione dell’Ucraina alla NATO, attraverso uno status di neutralità o qualsiasi altra proposta accettata dagli ucraini – il processo di adesione costituisce una potente garanzia contro qualsiasi futuro tentativo di Mosca di destabilizzare Kiev e interferire negli affari interni dell’Ucraina e, allo stesso tempo, uno strumento per rafforzare lo stato di diritto e la democrazia in Ucraina.

Non si tratta quindi di un gesto dovuto dall’Unione al presidente Zelensky, una sorta di compensazione che il presidente ucraino potrebbe offrire al suo popolo per i sacrifici fatti e gli affronti patiti. Domani non avrà bisogno di essere perdonato di nulla. Oggi incarna la volontà di resistenza e di libertà di tutto il suo popolo e guida, insieme al suo governo e al suo esercito, questa resistenza.

Tre volte negli ultimi due decenni – nel 2004 con la Rivoluzione Arancione, nel 2014 con la Rivoluzione della Dignità e ora nella resistenza contro l’aggressione russa – il popolo ucraino ha mostrato al mondo e all’Europa addormentata un’indomabile volontà di libertà e un’immensa aspirazione alla democrazia e allo stato di diritto. È nell’interesse strategico dell’Unione toglierla dal no man’s land geopolitico in cui è stata confinata finora e integrarla nel concerto delle democrazie europee.

Sarebbe anche una manifestazione tangibile della volontà dell’Europa di iniziare risolutamente un processo di sradicamento della potente quinta colonna europea al servizio del Cremlino. Impregnato dall’ideologia revanscista, sciovinista e fondamentalmente violenta del presidente della Federazione Russa, il putinismo da esportazione ha fatto proseliti in ampi settori dell’opinione pubblica e in parti molto importanti delle classi dirigenti europee: politiche, militari, accademiche e mediatiche.

Queste forze considerevoli sono ancora all’opera. Stanno lavorando oggi per silurare l’apertura del processo di adesione dell’Ucraina all’Unione. Il loro obiettivo: riprendere il più presto possibile il business as usual con Mosca. Ora hanno il loro alfiere nella persona di Mark Rutte, il primo ministro olandese. In una completa rottura con lo spirito e la lettera del consenso raggiunto al vertice di Versailles, ha dichiarato alla fine del vertice che la valutazione della Commissione avrebbe richiesto tempo: mesi, forse anni, prima di ottenere qualcosa.

In tempo di pace questa dichiarazione sarebbe una grave violazione delle regole formali e informali con cui opera l’Unione. In tempi di guerra, come quelli attuali, non è altro che un sabotaggio.

Un atteggiamento assai sorprendente da parte di un capo di governo che ancora recentemente si era espresso a favore dell’abolizione della regola dell’unanimità in materia di politica estera. Meno sorprendente quando si conosce la capacità dilatoria del personaggio. Era già primo ministro quando il suo paese ha organizzato un grottesco referendum sull’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione, facendo perdere due anni all’Ucraina e agli altri stati membri dell’Unione. 

L’accordo di Versailles prevede la concessione dello status di paese candidato all’Ucraina come prerequisito per l’apertura formale dei negoziati di adesione. Spetta quindi alle istituzioni interessate prendere i necessari provvedimenti: la Commissione il parere nei prossimi giorni e il Consiglio dei ministri la sua decisione nella prossima riunione del 21 marzo. Qualunque ritardo rappresenterebbe un messaggio di disimpegno chiarissimo sia agli occhi di Kiev, che di Mosca.

Per quanto riguarda la corsia preferenziale, menzionata più volte dal presidente Zelensky e che sembra essere di grande preoccupazione per Mark Rutte, non è destinata a creare un regime preferenziale per l’Ucraina. Significa semplicemente rendere l’adesione dell’Ucraina una priorità politica dell’Unione.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 14 marzo 2022.

Stavolta il calcio, la partita, la classifica viene dopo. Qualcuno - oltretutto firmandosi - ha deciso di oltrepassare un limite che ritenevamo invalicabile, quello del male assoluto. Per cui penso che la cosa non possa essere risolta con la classica parentesi di web-indignazione o con una multa del giudice sportivo: che prezzo, quale valore economico potrà mai attribuire allo striscione esposto nella notte tra sabato e domenica all’esterno del Bentegodi? Non faccio il moralista professionista, Dio me ne scampi, e con gli anni ho maturato una preoccupante forma di disillusione, che non significa resa però: credo di interpretare l’irritazione non solo di una città, ma di un Paese nel quale non tutto può essere permesso. Non oggi, non con i bombardamenti e i profughi alle porte di casa.

Non è stato semplice passare sopra “Lavali col fuoco” o “terroni, puzzate di merda”, alcuni dei messaggi più infami esposti dalle nostre curve. Anche cori come “devi morire” rivolti all’avversario a terra sono entrati purtroppo nella penosa treccani degli sfottò da stadio, ma tra “Lavali col fuoco”, che ebbe in risposta “Giulietta è una zoccola”, e le coordinate per bombardare Napoli corre una differenza sostanziale che non può essere ignorata neppure dal più demente dei tifosi.

Perché non si tratta più di tifo, ma di estremismo. E l’estremismo non sollecita la risata, anche la più idiota. È benzina sul fuoco della violenza. È violenza chiamata, cercata. Se poi aggiungo che si tratta di estremismo idiota non pensate che intenda fornire attenuanti tipo “infermità mentale”, come vorrebbe il giurista, o accolga il suggerimento di certi maestri dei social che ricorrono al paradosso o alla satira per giustificare gli eccessi. No. Trovo invece imbarazzante per i veronesi “normali” il confronto con lo humour partenopeo ormai diventato leggenda.

Gli ultrà del Bentegodi continuano a sparare idiozie e nessuno di loro, in decennali battibecchi, ha mai pensato a difendere Giulietta. La poverina è rimasta una zoccola e come tale è stata arruolata. E con Romeo, come la mettiamo? 

PS. La presa di distanza del Verona è stata tanto opportuna quanto debole poiché generica. Questo il testo del tweet postato nel pomeriggio sul profilo ufficiale: «Hellas Verona FC si fa portavoce, oggi come sempre, di un messaggio di pace, condannando qualsiasi atto, gesto ed esternazione che possano generare - in qualsiasi forma e misura - incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione».

Nessun riferimento allo striscione e a chi se l’è attribuito. Conosco il presidente Maurizio Setti da molti anni, lo considero un amico, ma conosco anche il nostro calcio, le relazioni spesso non volute, subite, che lo complicano e lo insudiciano: so che è un mondo governato dalla paura e la paura è la camera oscura dove si sviluppa il negativo.

Maurizio De Giovanni per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.

Bisogna resistere alla solita tentazione, quella di ignorare. Perché le ragioni di voltarsi dall'altra parte sarebbero tante, e tutte buone: non dare rilevanza, non regalare pubblicità, non alimentare risentimenti anche se giustificati, non farci andare di mezzo i tanti, tantissimi (sperabilmente la stragrande maggioranza) che non condividono. Tutto giusto, per carità. 

Però a volte la creatività malata degli imbecilli si sposta talmente in là da richiamare inevitabilmente l'attenzione. E si scopre, una volta di più, che stare in silenzio con un condiscendente sorrisetto di superiorità può diventare autolesionista in maniera irreparabile. Lo striscione comparso nella notte a Verona appartiene alla categoria dei messaggi che allargano il territorio dell'idiozia. Non facile, a dire il vero: bisogna avere una certa dose di fantasia, ed essere pronti ad applicarla con pertinace faccia tosta. In sintesi, sullo striscione compaiono le bandiere di Russia e Ucraina, nobilmente affiancate sopra le coordinate geografiche della città di Napoli, come a indicare un opportuno bersaglio missilistico. 

 La firma «Curva sud» è esplicita, e chiude questa interessante breve narrativa per immagini. Ora, è un fatto che da molti anni la città di Napoli è il bersaglio preferito dell'imbecille ottusità delle peggiori curve d'Italia. Non è necessario che sia in campo la squadra azzurra, né che sia in ballo un risultato sportivo di particolare importanza. Non di rado addirittura le due tifoserie coinvolte si uniscono in beceri cori ostili, che invocano eruzioni vulcaniche, terremoti e malattie epidemiche che possano finalmente cancellare un popolo dalla faccia della terra. In alternativa e più bonariamente, si fa riferimento chissà perché all'igiene personale e al cattivo odore che noi napoletani emaneremmo, da far scappare perfino i cani. Questo malcostume è avallato dalle istituzioni sportive, che arrivano al massimo a comminare una multa di una decina di migliaia di euro alla società ospitante: meno che per un fumogeno, assai meno che per un ululato razzista che pure ha esattamente gli stessi contenuti.

Figurarsi poi lo Stato, sempre così pronto a voltarsi dall'altra parte in territori di altrui stretta competenza. Così, di domenica in domenica, la pancia razzista e vigliacca di questo Paese erutta i propri miasmi senza che nessuno alzi un dito. Tanto, si sa, i napoletani sono abituati a essere insultati da sempre. Goliardia, si dice con un'alzata di spalle. Simpatici sfottò, qualche volta appena sopra le righe. Perfino importanti esponenti di forze politiche, che adesso si propongono come nazionali, tendono a rubricare così questi insulti e questi auguri di sterminio. A noi, francamente, sfugge l'ironia: colpa nostra, evidentemente. Adesso però i limiti della cosiddetta goliardia sono stati frantumati. Con ammirevole precisione, e un aggiornamento invidiabile rispetto alla stretta attualità, chi ha redatto quello striscione scomoda una guerra in corso. Morti, feriti. Bambini straziati, donne incinte sanguinanti.

Colonne di persone in fuga verso l'ignoto, e dietro di loro colonne di carri armati all'inseguimento. Tutto documentato con rigore da televisioni, siti web e radio. La guerra, quella vera. Perché non sfruttarla per questa meravigliosa occasione, avranno pensato gli allegri burloni della curva sud. Conosciamo e amiamo Verona, una delle città più belle e colte d'Italia. Una città che ospita templi dell'arte e della musica, piena di storia. Non possiamo credere che si accetti, in quel luogo splendido, che il nome amato da Shakespeare sia insozzato da questi imbecilli. La guerra è l'apoteosi della stupidità umana. Si combatte in genere per i confini. State tranquilli, ragazzi, voi non correte questo rischio. La vostra stupidità di confini non ne possiede.

Striscione contro Napoli da bombardare. Tutta la Serie A condanna la mossa degli ultrà del Verona. Redazione domenica 13 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

Condanna unanime del mondo sportivo e politico per lo striscione degli ultrà del Verona in cui sono riportate le coordinate di Napoli quale target da colpire da parte dei missili russi o ucraini.   

Il post di De Giovanni sullo striscione degli ultrà del Verona

Lo scrittore napoletano Maurizio de Giovanni ha dedicato allo striscione un post di condanna. “Il raffinato, intelligente e geografico striscione della curva veronese, che dà ai missili russo ucraini la corretta localizzazione dell’obbiettivo. Per chi non lo sapesse, sono le coordinate della mia città. Sempre ammirevolmente pronti a cogliere elementi di stretta attualità per rinnovare la propria profonda idiozia razzista”.

“Solo per farci capire con un plastico esempio – continua De Giovanni – a che punto può arrivare l’imbecillità (sub)umana, e come in un cervello troppo angusto possano mescolarsi cose molto serie e fesserie”. Gli ultrà del Verona hanno affisso lo striscione vicino al Bentegodi. Dove il Napoli ha sconfitto il Verona 2 a 1.

La condanna della lega Serie A

L’amministratore delegato della Lega Serie A, Luigi De Siervo, ha condannato lo striscione con durezza: “Esprimo totale condanna, a nome dell’intera Lega Serie A, contro lo striscione apparso questa mattina a Verona. In un momento tragico per l’invasione dell’Ucraina solo degli idioti possono immaginare un tale striscione, e bene ha fatto l’Hellas Verona a censurare tale atto. Oggi, in Italia e nel mondo intero, dobbiamo veicolare, con la nostra attività, un messaggio di pace”.

Salvini: sulla guerra non si scherza

Matteo Salvini, infine, ha parlato di iniziativa grave e ingiustificabile. “Sulla guerra non si scherza e la rivalità tra tifoserie deve avere dei limiti. Lo striscione visto a Verona è grave e ingiustificabile”.

Striscione choc a Verona contro gli avversari dopo la partita. Ispirata alla guerra la frase che invita ad attaccare la città: “Coordinate Napoli”. La Stampa il 13 marzo 2022. Ucraina: a stadio Verona striscione con coordinate di Napoli. Non bastavano più le ingiurie, i cori razzisti, le espressioni o le scritte discriminatorie. La guerra scatenata dalla Russia ha dato un nuovo, drammatico spunto ai tifosi del Verona per esprimere il loro odio nei confronti di Napoli a poche ore dalla partita al Bentegodi tra le due squadre: uno striscione esposto nella notte fuori dallo stadio e firmato 'Curva Sud' con le bandiere di Russia e Ucraina e una serie di numeri che rappresentano le coordinate di Napoli, una sorta di indicazione a 'colpire' la città. Un gesto "vergognoso e ripugnante" per il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, "grave e ingiustificabile" per il leader della Lega, Matteo Salvini - ma reazioni unanimi di condanna sono arrivate da tutte le forze politiche - e respinto con forza dall'ad della Lega Serie A, Luigi De Siervo, e anche dal club gialloblù. Da più parti sono stati chiesti provvedimenti contro i responsabili, da individuare, ma sul caso ha le mani legate la Procura federale della Figc, che invece agirà per i cori razzisti sentiti allo stadio durante la partita tra Hellas e Napoli. Gli investigatori della Figc - si fa presente da via Allegri - nulla possono fare per la scritta della vergogna, apparsa in una zona dove non si può applicare il codice di giustizia sportiva per eventuali sanzioni perchè lontana dalle pertinenze dello stadio. Tra i primi, e i più acuti, a commentare, lo scrittore Maurizio De Giovanni, che su Fb ha sottolineato "il raffinato, intelligente e geografico striscione della curva veronese, che dà ai missili russo ucraini la localizzazione dell'obiettivo. Per chi non lo sapesse, sono le coordinate della mia città. Sempre ammirevolmente pronti a cogliere elementi di stretta attualità per rinnovare la propria profonda idiozia razzista. Solo per farci capire con un plastico esempio a che punto può arrivare l'imbecillità (sub) umana, e come, in un cervello troppo angusto possano mescolarsi cose molto serie e fesserie", conclude De Giovanni. Il silenzio da Verona è stato rotto solo a ridosso della partita, quando il club ha diffuso una nota di condanna contro "qualsiasi atto, gesto ed esternazione che possano generare, in qualsiasi forma e misura, incitamento all'odio, alla violenza e alla discriminazione". Nel frattempo, a intervenire era stato anche Di Maio, chiedendo a tutti di condannare, "senza distinguo e giustificazioni", tale "messaggio ripugnante". "Questa guerra è reale, non è finzione, non è un gioco. Non c'è ironia, ma solo idiozia dietro questo striscione di pseudo tifosi". D'accordo col titolare della Farnesina anche Salvini: "Sulla guerra non si scherza e la rivalità tra tifoserie deve avere dei limiti. Lo striscione visto a Verona è grave e ingiustificabile". Il sindaco scaligero, Federico Sboarina, ha ammonito a non ironizzare sulla guerra: "Lo striscione esposto non ha il sapore della goliardia perché tira in ballo una tragedia su cui non si può scherzare", e il presidente del Veneto, Luca Zaia ha affermato: 'C'è da vergognarsi a lanciare simili messaggi, altro che goliardia.

"Ecco le coordinate, bombardate Napoli". Lo striscione dei tifosi del Verona scatena un putiferio. Il Tempo il 13 marzo 2022.

Quando si incontrano Hellas Verona e Napoli non si può mai stare tranquilli. E le cose sembrano peggiorare di anno in anno. Lontani i tempi in cui i tifosi campani sfottevano i rivali con il celebre striscione "Giulietta è 'na zocc***". Se quello, alla fine, ha strappato una risata ai più, stavolta la trovata dei veronesi ha scatenato un putiferio vero e proprio tra reazioni social di tifosi napoletani più o meno conosciuti e dichiarazioni politiche.

Fuori dallo stadio Bentegodi, dove il Napoli ha battuto il Verona 2-1 in una partita condita dai "soliti" cori di discriminazione razziale e di stampo razzista rivolti a Koulibaly, nella notte è comparso uno striscione con le coordinate del capoluogo campano e le bandiere di Russia e Ucraina. "Bombardate Napoli" vogliono intendere gli ultras scaligeri che si firmano "Curva Sud". 

«È inimmaginabile che nel contesto della crisi attuale il tifo da stadio non sappia contenere i suoi bassi istinti. Le bombe di questi giorni in Ucraina non possono essere il pretesto per fare del basso umorismo, peraltro a sfondo razzista. Riguardo allo striscione di Verona che invita a bombardare Napoli, mi auguro che i competenti organi sportivi applichino il codice di giustizia sportiva e che venga impartito il Daspo di gruppo ai responsabili» dice Vittoria Casa del Movimento Cinque Stelle, presidente della commissione Cultura Scienza e Istruzione alla Camera. 

«La Lega Calcio intervenga urgentemente e con sanzioni straordinarie ed esemplari per punire il Verona e la sua tifoseria che si è resa nuovamente protagonista di gravissimi atti di razzismo territoriale contro Napoli e i napoletani e di incitazione alla guerra». È quanto afferma la dirigente nazionale per le Politiche per il Sud di FdI, Gabriella Peluso. «Lo striscione con il quale si invitano Russia ed Ucraina a bombardare Napoli, oltre che razzista, è demenziale e costituisce un’incitazione alla guerra e, pertanto, non può restare impunito. Ricordo che i tifosi del Verona, anche quando giocano contro altre squadre, non perdono occasione per urlare slogan razzisti contro il Napoli. Occorre un’azione immediata contro il Verona se davvero si vuole arginare il razzismo negli stadi: la retrocessione in serie B».

Da gazzetta.it il 13 marzo 2022.

Uno striscione inqualificabile è apparso nella notte nei pressi del Bentegodi, con tanto di firma, per vantarsi del gesto: Curva Sud Hellas Verona, la frangia estrema del tifo gialloblù, non nuovo a episodi simili. Sullo striscione appaiono le bandiere di Russia e Ucraina e poi una serie di numeri che rappresentano le coordinate di Napoli, chiaro riferimento a un luogo da bombardare. 

Proprio mentre il mondo intero si mobilita per aiutare un popolo che sta soffrendo pene orribili per l'invasione russa, un gesto doppiamente vile. Il tutto ovviamente alla vigilia della sfida tra Hellas e la squadra di Spalletti, in campo alle ore 15. Peraltro gli ultrà veronesi non sono nuovi a "imprese del genere". Lo scorso maggio era comparso un altro striscione, con la scritta "Napoli luame", ovvero "Napoli letame". Immediata e unanime la reazione di condanna sui social.

Diventato immediatamente virale sui social, lo striscione ha spinto anche lo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, a commentare l'accaduto su Facebook: "Il raffinato, intelligente e geografico striscione della curva veronese, che dà ai missili russo ucraini la corretta localizzazione dell'obiettivo.

Per chi non lo sapesse, sono le coordinate della mia città. Sempre ammirevolmente pronti a cogliere elementi di stretta attualità per rinnovare la propria profonda idiozia razzista. Solo per farci capire, con un plastico esempio, a che punto può arrivare l'imbecillità (sub) umana, e come, in un cervello troppo angusto possano mescolarsi cose molto serie e fesserie".

Bombe su Napoli: lo striscione choc degli ultras del Verona. Samuele Finetti il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.

I tifosi della Curva Sud usano il conflitto tra Ucraina e Russia per attaccare i tifosi del Napoli. È l'ultimo episodio di una rivalità che spesso degenera in pesanti insulti.

Le coordinate di Napoli, le bandiere della Russia e dell'Ucraina e un "suggerimento" implicito alle forze militare dei due Paesi a bombardare il capoluogo campano. È diventata virale sul web la foto di uno striscione appeso dagli ultras del Verona su una cancellata del settore ospiti dello stadio Bentegodi.

L'Hellas Verona e il Napoli si sfideranno oggi alle 15.00 in casa della squadra scaligera. Questa notte i tifosi gialloblu della curva sud hanno pensato bene di "sfruttare" la guerra che si sta combattendo in Ucraina per confezionare l'ultimo di una serie di striscioni offensivi contro i sostenitori dell'undici partenopeo. La scorsa stagione, in occasione della stessa partita, i veronesi avevano esposto un altro striscione denigratorio con la scritta "Napoli luame", ovvero "Napoli letame" in veronese. Oggi, l'ultimo episodio di una lunga rivalità tra due tifoserie che troppo spesso è ha travalicato i limiti ed è degenerata in offese gravi.

Immediata la reazione sui social di decine di tifosi di ogni parte d'Italia. Anche lo scrittore Maurizio De Giovanni è intervenuto sul caso e ha commentato con un post sulla propria bacheca Facebook: "Per chi non lo sapesse - ha scritto sotto l'immagine - sono le coordinate della mia città. Sempre ammirevolmente pronti a cogliere elementi di stretta attualità per rinnovare la propria profonda idiozia razzista. Solo per farci capire con un plastico esempio a che punto può arrivare l’imbecillità (sub)umana, e come in un cervello troppo angusto possano mescolarsi cose molto serie e fesserie".

A colpire è anche il fatto che lo striscione usi la guerra in Ucraina mentre la società scaligera ha messo in campo una serie di iniziative per sostenere i rifugiati e tutte le persone che sono state colpite dai combattimenti. Questo pomeriggio, fuori dal Bentegodi, sarà presente un gazebo per raccogliere generi alimentari e altri prodotti (ad esempio medicine) da inviare nelle zone dove si combatte; i giocatori scenderanno in campo nel prepartita con una maglietta speciale. Le maglie da gioco verranno vendute all'asta, e quanto raccolto sarà devoluto alle associazioni che si occupano di accoglienza delle famiglie ucraine.

La provocazione andata troppo oltre. Lo striscione vergognoso dei tifosi del Verona: il ‘suggerimento’ a Russia e Ucraina di bombardare Napoli. Redazione Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

L’odio tra le tifoserie di Verona e Napoli, due club che si affronteranno oggi alle 15, è cosa nota nel calcio e le sfide tra le due squadre sono storicamente “calde” sugli spalti del Bentegodi e del San Paolo (ora Maradona). Dagli sfottò storici come lo striscione “Benvenuti in Italia” esposto all’arrivo della squadra partenopea alla replica “Giulietta è na zoccola”, le due tifoserie hanno sempre mostrato come non si amino particolarmente.

Quanto accaduto però questa notte davanti allo stadio di Verona ha travalicato lo sfottò o gli insulti territoriali, quei “Vesuvio lavali col fuoco” che in realtà si sentono spesso anche in altri stadi d’Italia all’arrivo del tifo napoletano.

Fuori lo stadio è infatti apparso, con la firma della Curva Sud scaligera, uno striscione con le bandiere di Russia e Ucraina e delle coordinate geografiche (40°50′ N 14°15′ E) che corrispondono a quelle di Napoli: di fatto una indicazione ai due Paesi, mentre infuria la guerra, a colpire la città.

Durissimo il commento dello scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, affidato a Facebook: “Il raffinato, intelligente e geografico striscione della curva veronese, che dà ai missili russo ucraini la corretta localizzazione dell’obbiettivo – è l’interpretazione che ne fa lo scrittore – Per chi non lo sapesse, sono le coordinate della mia città. Sempre ammirevolmente pronti a cogliere elementi di stretta attualità per rinnovare la propria profonda idiozia razzista. Solo per farci capire con un plastico esempio a che punto può arrivare l’imbecillità (sub)umana, e come in un cervello troppo angusto possano mescolarsi cose molto serie e fesserie”.

La società scaligera, che in un primo momento non aveva commentato l’episodio, si è poi espressa su Twitter con un messaggio contro l’incitamento all’odio, pur non facendo riferimento all’episodio dello striscione contro Napoli: “Hellas Verona FC si fa portavoce, oggi come sempre, di un messaggio di pace, condannando qualsiasi atto, gesto ed esternazione che possano generare – in qualsiasi forma e misura – incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione” ha scritto il club scaligero.

L’Hellas Verona tra l’altro si è resa protagonista in questi giorni di iniziative di solidarietà per il popolo ucraino, allestendo un gazebo per la raccolta di generi alimentari, e prodotti necessari anche per le medicazioni, da inviare alle popolazioni ucraine.

Caressa: «Vergognoso lo striscione di Verona. Vanno trovati i responsabili, sono persone cattive». Il Napolista il 14 marzo 2022. A Sky Sport: «Va loro dato il Daspo a vita in tutto il mondo. Non so come abbiano fatto a guardarsi in faccia senza sputarsi».  Fabio Caressa, su Sky, prende posizione contro lo striscione esposto a Verona: «Voglio dire una cosa a proposito di quello striscione e sapete bene a cosa mi riferisco. Lo striscione con le coordinate di una città. È una roba vergognosa. E dico che non bisogna generalizzare, bisogna trovare i responsabili, dare a queste persone il Daspo a vita da tutti gli stadi dl mondo. Sappiamo che allo stadio spesso ci sono episodi di cretineria, ma quelli che hanno fatto una cosa del genere sono persone cattive. È una cosa che non si può accettare, non so come abbiano fatto a guardarsi in faccia oggi senza sputarsi». 

Verona, Criscitiello su striscione anti-Napoli: "Ora basta! La colpa non è solo di teppisti".  Redazione il 14 marzo 2022 su areanapoli.it. "Quattro deficienti non rappresentano Verona, vero, ma tutta la città, la politica e la società devono prendere seriamente le distanze", ha scritto il giornalista.

Michele Criscitiello si è soffermato sui temi più caldi del campionato italiano nel suo editoriale per il portale TMW. Ve ne riportiamo un estratto relativo a Verona-Napoli e lo striscione esposto dai tifosi scaligeri: "[...] Ora, davvero, basta. Verona si assuma le proprie responsabilità. Le colpe non sono solo dei teppisti terroristi che pensano, preparano ed espongono uno striscione di quel tipo. Indecente, alla luce di quello che sta accadendo in Ucraina. Cosa volete dimostrare? Cosa volete augurare? Che in una città come Napoli bisogna attaccare la gente di Napoli per vedere le stesse immagini di Kiev con donne e bambini morti in strada e gente senza una casa? Quattro deficienti non rappresentano Verona, vero, ma tutta la città, la politica e la società devono prendere seriamente le distanze. Oggi, non domani".

"Anche perché - ha proseguito il giornalista - nel 2022, al tempo dei social chi ride e chi pubblica quelle cose significa che la pensa come i terroristi che quello striscione l'hanno scritto. Deve intervenire la Procura federale ma anche la Procura della Repubblica. Nelle città siamo pieni di telecamere è impossibile non risalire a questi delinquenti. Le liti in campo, gli sfottò, i cori, ci stanno. Non siamo Santi e neanche finti preti.

Lasciamoci l'essenza del calcio ma peccato che questo non sia calcio ma solo uno schifo al quale assistiamo troppo spesso in una città bella come Verona. Peccato che alcuni veronesi siano ancora in circolazione a piede libero. Poi, però, siate coerenti e non prenotate le vostre vacanze a Ischia e Capri".

LA RUSSIFICAZIONE.

Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2022.

Nel futuro del Donbass ci sono i gemellaggi. Le principali città dell'Ucraina orientale dovranno essere ricostruite e per farlo serviranno rubli russi. Miliardi di rubli. Così in Russia sono già stati avviati programmi di gemellaggi tra le grandi città russe e realtà devastate come Mariupol (gemellata con San Pietroburgo) dove il mese scorso le Nazioni Unite hanno stimato che i combattimenti abbiano danneggiato il 90% degli edifici della città. 

Nel teatro bombardato a marzo, ad esempio, il sindaco della città natale di Vladimir Putin ha provveduto a consegnare tablet ai bambini e a promettere il finanziamento della ricostruzione di case, scuole e asili grazie all'ausilio di intere squadre di imprese edili. Effettivamente, le autorità russe hanno lanciato in patria una campagna di reclutamento di lavoratori essenziali per la ricostruzione dei territori occupati, che i russi definiscono «liberati». 

Al momento, ai cittadini più poveri e patriottici della Russia viene offerta la possibilità di lavorare in Ucraina orientale con stipendi superiori alla media oltre a una serie di benefit.

Gli annunci online per muratori, meccanici, imbianchini e saldatori si sprecano. Ai lavoratori di regioni periferiche vengono offerti stipendi iniziali due o tre volte superiori alle medie regionali oltre a vitto, alloggio, ferie pagate, opportunità di «crescita professionale» e persino un bonus di 60 dollari in contanti per la segnalazione di un amico fidato. Gli annunci sono pubblicati da appaltatori privati ma il progetto è sponsorizzato dal Ministero delle costruzioni russo e gli annunci sono accompagnati da slogan motivazionali come: «Ricostruiamo insieme il Donbass».

Il centro nevralgico di questo programma è il gemellaggio con le città russe. In totale, più di 40 regioni della Federazione hanno annunciato di voler assumere il patrocinio delle aree dell'Ucraina orientale. 

L'idea del programma è quella di sfruttare l'attuale spinta emotiva dei russi che vogliono aiutare gli ucraini «liberati» e allo stesso tempo provare a creare nel lungo periodo un "paradiso" di stile di vita da contrapporre a coloro che restano dall'altra parte del fronte, così da ingolosirli come accadde, a parti inverse, ai cittadini della Germania Est.

L'idea di gemellare città russe e ucraine pare sia stata concepita da Putin in persona ma è stata affidata al suo vice capo di gabinetto, Sergei Kiriyenko, che per il Cremlino supervisiona il territorio ucraino occupato. Al momento il programma è limitato al territorio ricompreso nelle regioni di Lugansk e Donetsk, anche se quest' ultima non è stata ancora completamente conquistata. 

Nonostante la lunga lista di città e regioni russe che annunceranno nuove affiliazioni, non si sa molto riguardo al budget che verrà impegnato esattamente, o da dove proverrà. Secondo alcuni media russi, il denaro sarà stanziato direttamente dai bilanci regionali, mentre altri sostengono che Mosca fornirà una compensazione.

Fonti vicine al Ministero della Difesa sostengono che per evitare episodi di corruzione ai governatori delle regioni verrà affidata la gestione degli appalti di natura privata, visto che solo alcuni distretti delle singole amministrazioni pubbliche parteciperanno alla ricostruzione. Gli altri bandi saranno assegnati tramite gare di appalto che verranno filtrate in tre diverse occasioni: dalle autorità locali, da quelle federali e infine dagli Oblast del Donbass.

Il piano al momento biennale prevede che le regioni russe saranno chiamate ad investire più di 34 miliardi di dollari. I funzionari della Repubblica Popolare di Lugansk hanno stimato che la ricostruzione solo del loro territorio richiederà 26 miliardi. Nel frattempo, la Russia sta provvedendo ad avviare anche programmi di "rieducazione" dei prigionieri di guerra ucraini, ai quali nelle strutture detentive viene assegnato lo studio di classici della letteratura russa, da Tolstoj a Dostoevskij, programmi di lingua e persino attività ricreative. 

Noi di Libero siamo venuti in possesso in uno dei mazzi di carte da gioco che vengono diffusi tra i prigionieri che nel tempo libero, giocando, imparano ad utilizzare il russo. Una sorta di mercante in fiera pedagogico, con l'educazione russa alla base di tutto.

Putin accelera nel processo di annessione del Donbass. E a breve partiranno i referendum nelle città occupate di Zaporizzja, Melitopol e Kherson. Mosca potrebbe ridare a Mariupol il vecchio nome sovietico. La Repubblica il 9 Giugno 2022.

La Repubblica popolare e autonoma di Donetsk ha un nuovo primo ministro, ed è un "russo". Meglio, Vitali Khotsenko è un giovane ucraino di Dnipro che si è formato nell'Università statale di Mosca (la Limonosov) e ha prestato la sua opera al ministero dell'Industria e del Commercio della Federazione russa. Sui territori conquistati in Ucraina Vladimir Putin, che ha riconosciuto le due repubbliche separatiste di Donetsk e di Lugansk alla vigilia dell'invasione, vuole fare in fretta. Come ha detto un suo "autorevole membro" di governo al quotidiano Izvestjia, per Mosca la Crimea e le due regioni del Donbass sono una questione chiusa. L'esercito invasore sente vicina anche la vittoria sul campo e così il processo di annessione viene messo in moto adesso per esser completato a settembre con un referendum (controllato dal Cremlino).

Il cambio di governo, formalizzato ieri, avviene sotto la regia di Denis Pushilin, dal 2018 presidente e capo delle forze armate della Repubblica popolare di Donetsk (Rpd). Figlio di operai metallurgici, entrò in politica successivamente all'organizzazione di una truffa piramidale e al fallimento dell'azienda per cui aveva lavorato. Pushilin progetta l'annessione a Mosca di tutta l'Ucraina orientale dal 2014, quando ideò una potenziale federazione tra le sei regioni alla destra del Fiume Dnipro: dovette accantonare l'ipotesi per l'esplosione della guerra nel Donbass. A Repubblica il 6 marzo scorso il presidente della Rpd ha detto: "Non ci siamo mai considerati parte dell'Ucraina".     

Il nuovo primo ministro, Vitali Khotsenko, ha 36 annI e, conseguita la laurea a Mosca in Sociologia, si è specializzato in Economia (a Singapore), quindi in Legge e Pubblica amministrazione. La breve carriera militare lo ha portato al grado di luogotenente e, successivamente, a un ingresso nella politica russa e nell'amministrazione di territori della larga Federazione. L'incarico più importante, fin qui, è stato quello di direttore del Dipartimento delle politiche industrali del ministero dell'Industria e del Commercio, a Mosca. Il suo incontro con il Donbass è avvenuto nel 2020, quando ha affiancato il presidente del Consiglio popolare Volodymyr Bidyovka. Ora, nominato premier mentre nelle strade e nelle campagne infuria la guerra, dovrà formare un nuovo governo apprezzato da Putin.

Il cambio si consuma senza apparente dolore. Al primo ministro uscente, e dimissionario, Alexander Ananchenko, lui nativo della regione, Pushilin ha offerto la presidenza della Donetsk Technologies State Corporation.

Prosegue, si vede, il percorso di annessione-riconoscimento dell'Est Ucraina da parte del Cremlino e, ovviamente, il prossimo esecutivo continueranno a non essere riconosciuti né dal governo di Volodymyr Zelensky né dai Paesi occidentali. La Federazione russa vuole avviare un processo amministrativo-costituzionale simile per la regione del Lugansk oggi guidata da Leonid Pasechnik, ma qui, probabilmente, si attende l'esito della decisiva battaglia .di Severodonetsk.

D'altro canto, "l'autorevole membro" del governo russo citato da Izvestija ha parlato, oltre che del Donbass e della Crimea, anche delle regioni di Zaporizzja e di Kherson dicendo: "Sono fuori da ogni trattativa". Mosca, dopo averli occupati nella prima fase del conflitto, vuole annettere anche questi due oblast del Sud. Gli attuali sindaci imposti con i carri armati annunciano a breve referendum in questa direzione nelle città di Zaporizzja, Melitopol (regione di Zaporizzja) e Kherson. Dopo che Lugansk per un giorno - il 9 maggio, il ricordo della liberazione dell'Europa dai nazisti - è tornata Voroshilovgrad per decreto, era il vecchio nome sotto l'Unione sovietica, nelle scorse ore l'esercito invasore ha smantellato la scritta Mariupol all'ingresso della città: il Cremlino potrebbe reimporle il toponimo Zdanov, indossato dopo la Seconda guerra mondiale in onore del presidente del Soviet dell'Unione e fino al 1989. 

A proposito della città di Severodonetsk, il responsabile militare (ucraino) del Lugansk, Serhiy Gaidai, ha detto che ieri pomeriggio i russi hanno ripreso il controllo del centro della città e le forze armate di casa si sono dovute ridislocare in periferia. L'esercito ucraino ancora controlla la città gemella di Lysychansk, sulla sponda ovest del Fiume Siverskyi Donetsk. La situazione, tuttavia, è in continuo cambiamento. Il portavoce del ministero della Difesa, Alexandr Motuzyanyk, ha detto che in alcune zone di Severodonetsk l'Armata russa ha dieci volte le armi degli ucraini e se i nemici sfonderanno le linee la situazione potrebbe diventare difficile per l'intero Paese: "Devono arrivare al fronte, e presto, i nuovi lanciarazzi americani".

C.Gu. per “il Messaggero” il 28 maggio 2022. 

Per distruggere un popolo ci sono due possibilità: lanciare missili o cancellare la sua memoria storica. Il presidente russo Vladimir Putin sta attuando entrambe le strategie. La russificazione dell'Ucraina, nelle zone conquistate dall'esercito del Cremlino, procede a tappe forzate e i bambini sono le vittime principali. Dopo la caduta di Mariupol, il cui assedio è costato la vita a 240 minori, 230 mila piccoli sono stati deportati, molti a centinaia di miglia di chilometri dalla loro casa: secondo il consigliere del sindaco Peter Andryushchenko, 90 sono stati inviati a Vladivostok, nell'estremo oriente russo, vicino al Nord Corea e la Cina.

 E chi resta, deve dimenticarsi l'Ucraina. Le forze di occupazione hanno revocato le vacanze estive per gli studenti che, nei prossimi mesi, dovranno seguire corsi di lingua, letteratura e storia russa, oltre che matematica nella lingua degli invasori. Questo per essere pronti, alla ripresa delle lezioni il primo settembre, a iniziare i nuovi programmi introdotti nelle scuole ucraine.

I piani didattici saranno uniformati a quelli degli istituti della Federazione russa, è stato annunciato ieri. L'obiettivo è «rimuovere l'Ucraina dai programmi di studio per preparare i ragazzi alla scuola russa», ribadisce Andryushchenko. «Gli occupanti hanno intenzione di aprire nove scuole. Tuttavia - sottolinea - finora sono riusciti a trovare solo 53 insegnanti, meno di sei per ciascuna». La resistenza educativa è tanto eroica quanto disperata.

Dalle biblioteche (le poche non distrutte) dei territori conquistati sono stati eliminati i libri considerati non allineati da Mosca, a Mariupol sono stati installati dieci maxischermi che trasmettono giorno e notte i programmi delle grandi emittenti della propaganda russa, Perviy Kanal e Rossiya 24. «Hanno piazzato 12 televisori da 75 pollici in tutti i luoghi di raduno di massa e nei punti di accesso all'acqua, dove le sciocchezze sul miglioramento della vita circolano costantemente», segnala il consigliere. 

I cartoni animati sono lo strumento preferito per plasmare i bambini e trasformarli in russi. Il più famoso racconta la storia di Vanya e Nikola: «Erano amici. Vanya proteggeva Nikola, perché era più forte, ma poi Nikola ha avuto nuovi amici che gli hanno insegnato come ferire gli altri. Vanya ha dovuto prendere il bastone da Nikola perché nessuno si facesse male». E poi ci sono i giocattoli distribuiti dai soldati di Mosca: hanno stampati simboli e messaggi dei conquistatori, per convincere i bambini che l'Ucraina non esiste. 

Intanto le aree di Zaporizhia e Kherson stanno passando al prefisso telefonico della Russia +7, come riferisce Ria Novosti citando Oleg Kryuchkov, consigliere del capo della Crimea per la politica dell'informazione. «Secondo le notizie in mio possesso - afferma - i nuovi operatori di telecomunicazioni stanno già lavorando lì. Il prefisso ucraino +380 sarà presto una cosa del passato». Secondo la commissaria per i diritti umani del parlamento di Kiev, Lyudmila Denisova, «queste azioni violano la Convenzione dell'Aja per la protezione dei beni culturali nei conflitti armati. È un altro crimine di guerra che dovrà essere perseguito». 

Anna Zafesova per “la Stampa” il 28 maggio 2022.

Nelle scuole della Crimea non si studierà più inglese. «Non serve a niente se uno non andrà mai a Londra», è il giudizio del presidente del parlamento Vladimir Konstantinov. Le malelingue dicono che il suo odio per l'inglese sia dovuto al fatto che non è mai riuscito a impararlo, e sicuramente non potrebbe praticarlo nella patria di Shakespeare perché si trova sotto sanzioni, come esponente della dirigenza prorussa della penisola annessa. 

Ma sicuramente l'idea di cancellare ogni possibilità di comunicare con l'odiato Occidente fa tendenza oggi a Mosca, dove l'indietro tutta verso una nuova Unione Sovietica prosegue con ritmi rapidissimi. Mentre in piazza Rossa si tengono cerimonie di consacrazione dei giovani pionieri, con bandiere rosse, falci e martello e bambine con i fiocchi bianchi nei capelli, in una riproduzione stilisticamente impeccabile della liturgia comunista degli Anni 70, la Russia ha deciso di abbandonare il sistema universitario occidentale.  

Si torna al «modello di istruzione nazionale tradizionale, il migliore al mondo», come l'ha definito Nikolay Patrushev, il potente segretario del Consiglio di Sicurezza ed ex capo de servizi segreti, che in un'intervista si è scagliato contro il sistema di Bologna, cioè la divisione dello studio universitario in laurea triennale, master e dottorato. Al suo posto tornerà la laurea unica quinquennale sovietica: in altre parole, le università russe emetteranno diplomi non riconosciuti nel resto del mondo.

Una dichiarazione, quella di Patrushev, che sul momento era apparsa una delle tante esternazioni nostalgiche di cui la propaganda del Cremlino riempie tv e giornali tutti i giorni. Se non fosse che già il giorno dopo la proposta è stata discussa alla Duma, con il presidente della camera Vyacheslav Volodin che ha dichiarato la cancellazione dell'università europea come «urgente» e decisa da tutti i partiti.  

Il ministro dell'Istruzione Valeriy Falkov ha annunciato la creazione di una scuola «unicamente russa», sostenuto dall'83enne rettore dell'università di Mosca Viktor Sadovnichiy, in carica da 30 anni, che ha dichiarato di «essere sempre stato contrario al sistema di Bologna». Cosa che non aveva potuto esprimere all'epoca della sua introduzione, nel 2003, perché a volerlo era all'epoca il presidente Vladimir Putin, ansioso di integrare la scuola russa in quella internazionale.

Ora, l'orologio della storia sta girando all'indietro, e il vicepresidente della Duma Pyotr Tolstoy (pronipote del grande scrittore) dice che «rischiamo di vincere al fronte, ma di venire sconfitto sul piano ideologico, perdendo una generazione di studenti». Un'idea appoggiata anche dalla capa della propaganda del Cremlino Margarita Simonyan: «Un giorno ci ringrazierete», ha detto durante un talk show ai genitori preoccupati per il futuro dei loro figli, «perché dopo due anni di quella università non riconoscereste i vostri ragazzi».

Una dichiarazione che rende esplicito l'obiettivo di quella che molti hanno interpretato come una offensiva dei falchi sul fronte interno: Patrushev, che alcuni esponenti dell'intelligence occidentale ritengono essere il più probabile successore di Putin, sostiene anche che il coronavirus sia stato prodotto nei laboratori Usa, e che l'Occidente abbia un piano per distruggere la Russia. Il problema non sono ovviamente i contenuti dei programmi universitari - decisi comunque dal ministero - ma l'esistenza di un sistema che permette agli studenti russi di farsi riconoscere le lauree a livello internazionale, di poter studiare, e cercare lavoro, all'estero, e attingere dalla ricerca globale.

 Lo scontro politico in Russia era in buona parte uno scontro generazionale già prima dell'invasione dell'Ucraina, ma ora la guerra dei vecchi nostalgici sovietici contro i loro figli ha assunto la stessa brutalità dei bombardamenti nel Donbass. Il sostegno a Putin e alla sua guerra tra i giovani non supera il 30% perfino secondo i sondaggi ufficiali, le proteste nelle università sono sempre più frequenti, e dunque l'obiettivo diventa quello di togliere ai giovani russi un futuro alternativo.

E così, mentre nelle scuole russe da settembre arriveranno manuali di storia nei quali la Rus' di Kyiv viene ribattezzata semplicemente «Rus'», la promessa del Cremlino agli studenti universitari diventa quella di una laurea che non varrà nulla fuori da una Russia che sogna di nascondersi dietro un nuovo Muro.

Kherson e le altre città occupate dai russi. «Impongono il rublo e rubano: è l’incubo annessione». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 22 maggio 2022.  

«Presto Kherson farà parte della Crimea». Lo aveva già detto nelle scorse settimane. Poi, venerdì, il nuovo sindaco della città, nominato dai russi, Volodymyr Saldo, è tornato alla carica.

Oblast di Kherson. Di un milione che erano gli abitanti, ne restano 500 mila, la metà esatta. Chi poteva ormai è scappato. Da cinque giorni — fa sapere il governatore ucraino Hennadii Lahuta — Mosca sta impedendo ogni tipo di evacuazione. Martedì a Davydiv Brid i russi hanno sparato contro un convoglio di auto uccidendo tre persone, gli abitanti di Nova Kakhovka denunciano come i russi abbiano aperto la diga e stiano allagando la regione. E, da settimana scorsa, serve un permesso rilasciato dai russi. «Prima ti fanno spogliare per vedere se hai tatuaggi, poi ti sequestrano il telefono», racconta Anton, 65 anni. È appena arrivato sul piazzale di Zelenodolsk, con due buste di plastica appese al manubrio della bicicletta. Per passare dalla zona russa a quella ucraina ha attraversato 63 checkpoint. «Li ho contati, sono a un chilometro e mezzo di distanza l’uno dall’altro».

Una morsa da cui ormai è difficile sfuggire. «I russi hanno saccheggiato alimentari e farmacie. Le merci ucraine vengono esportate in Crimea e Russia mentre loro distribuiscono come aiuti umanitari prodotti di 5 anni fa e medicinali scaduti», ha denunciato nei giorni scorsi la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmila Denisova. «Una grave crisi umanitaria», secondo il vice capo del consiglio regionale, Yurii Sobolevskyi. Parole che per Anton, però, non bastano. «Non solo non c’è più cibo», si accalora. «Il prezzo del pane è triplicato, non pagano più gli stipendi. Me lo dite voi come facciamo a mangiare?», si agita. È la vita sotto i nuovi padroni. Che faticano, però, a conquistare cuori e menti. «Stanno organizzando un press tour per un gruppo di giornalisti russi di Rostov. Vogliono mostrare come Kherson sia parte della Crimea», avverte qualcuno nelle chat su Telegram. Comunicare però sta diventando sempre più difficile, mentre Internet viene allacciata alla Crimea. A raccontare, su TikTok, la vita di Kherson in versione russa è il giornalista Konstantin Ryzhenko, rapito dai militari di Mosca per alcuni giorni in aprile, e poi liberato. Camuffato con baffi e occhiali finti, si presenta in un negozio. Paga con la grivna, la valuta ucraina di carta, come resto riceve alcuni copechi, di metallo. «Non potrò più cambiarli coi rubli», spiega. Poco più a est, nella regione di Zaporizhzhia, Mosca prova anche qui — a fatica — a imporre la propria moneta con minacce e ricatti. «Gli occupanti hanno iniziato a distribuire 10 mila rubli in cambio di dati personali dei residenti», si legge su Telegram. A Vasylivka, agli imprenditori e commercianti che si rifiutano di pagare in rubli è stato annunciato un «colloquio preventivo». A Melitopol, il sindaco collaborazionista Balytsky ha ordinato di utilizzare sia la grivna che i rubli, ma solo per le transazioni in carta. Per le digitali si va con la valuta di Mosca. Il tasso di cambio: 2 rubli per una grivna.

Sul Dnipro, di fronte a Nikopol, nella foschia spunta un impianto. «La vedi, lì dall’altra parte del fiume? È la centrale nucleare più grande di Ucraina». Più potente di Chernobyl, l’anno scorso ha prodotto più del 20 per cento dell’energia elettrica di tutto il Paese. I russi se ne sono impadroniti all’inizio dell’invasione e ora provano a usarla come arma di ricatto. «Se l’Ucraina non pagherà le forniture energetiche, la Russia è pronta a utilizzare la centrale per i suoi scopi», ha intimato venerdì il vicepremier di Mosca, Marat Khusnullin. Nel suo ufficio, Alexander Sayuk, sindaco di Nikopol, ha la faccia stanca. Dall’inizio della guerra, ha dovuto fare i conti con la paura di fughe radioattive. «Non posso fornire cifre esatte sui livelli di radioattività ma non oso immaginare cosa significherebbe un’esplosione della centrale», spiega mentre la sirena anti-aerea riprende a urlare.

Sulla stessa riva del Dnipro, Sasha, capitano della brigata di fanteria dell’esercito ucraino di stanza sotto Kryvyj Rih, mostra i denti mentre sorride. «Dietro quel palazzo, tre chilometri più in là ci sono i russi, qui se vuoi attraversare la strada devi correre veloce». Linea del fronte ucraino, sotto Novovorontoska. È come se il tempo si fosse fermato a Osokorivka. «I russi non avanzano più ormai». Il villaggio è stato ripreso ai primi di maggio. Ma è tutto in rovina. Compresa la scuola usata come caserma. «Buon anno, buon 2022», recita un cartellone appeso fuori dalla farmacia. Sull’asfalto si intravedono i disegni fatti coi gessetti dai bambini. Più a nord, vicino alla diga, sospira Anton. «Io non mi rassegno, io sono ucraino». Poi si gira un’ultima volta. «Ma chi ci verrà a liberare? Gira voce che a Kiev vogliano riconoscere la Crimea in cambio della pace. Ma sarebbe un tradimento, questo», dice mentre risale in sella.

Il sole inizia a calare. Sasha e i suoi uomini si ritirano nelle trincee. «Presto ci sarà una grande controffensiva per liberare Kherson. Ma ci servono altre armi».

Nella Melitopol "russa" tra prezzi in rubli e vecchi eroi stalinisti. Gian Micalessin il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Ritorno al passato nella città occupata. "L'integrazione con Mosca è l'unica strada".

«Lui sapeva come liquidare i banderisti». Il gigantesco manifesto con l'immagine di Pavel Anatolevic Sudoplatov accompagnata da quel monito fin troppo esplicito domina l'ingresso della città e i suoi viali. Il generale sovietico Sudoplatov non era un agnellino. Nato in Ucraina, reclutato dalla polizia segreta sovietica a soli 14 anni, giocò un ruolo da protagonista in tutte le operazioni più sporche dell'era stalinista. E guidò in prima persona la repressione dei compatrioti anticomunisti. A cominciare da Jehven Konovalec, il leader nazionalista a cui consegnò di persona, nel maggio 1938, l'ordigno, celato in una scatola di cioccolatini, destinato a farlo a pezzi. Il messaggio è chiaro. A Melitopol, una città di 150mila abitanti, occupata dai russi fin dal 24 febbraio, non saranno tollerati compromessi. Qui il territorio ucraino sarà Russia o non sarà. Per capirlo basta guardarsi attorno.

Sull'onda delle celebrazioni del 9 maggio la nuova amministrazione ha rispolverato non solo l'immagine di Sudoplatov, ma anche quelle di decine di altri eroi della cosiddetta «guerra patriottica» trasformati in gigantesche icone dell'imminente ritorno al passato. E assieme agli «eroi» sulla piazza del Municipio è tornata a sventolare la «bandiera della vittoria», ovvero la replica del vessillo rosso con falce e martello issato sulle rovine del Reichstag di Berlino nel maggio 1945. Ma il cambio di passo non è solo immagine. Per capirlo basta entrare nel municipio e scambiare quattro chiacchiere con Galina Danilchenko, il consigliere municipale che ha preso il posto di Ivan Fedorov, l'ex sindaco arrestato dai russi dopo il 24 febbraio e liberato in seguito a uno scambio di prigionieri. «Fedorov - ci tiene a chiarire la signora Danilchenko - è stato arrestato perché finanziava un gruppo legato al nazionalismo ucraino e continuava a mantenere i contatti con Kiev, una condotta per noi inammissibile. Il nostro sogno, a differenza di Fedorov, è vedere questi territori integrati nella Federazione russa. E non solo perché i russi sono nostri fratelli, ma anche perché i rapporti e gli scambi economici con loro sono fondamentali per il nostro benessere. Per questo abbiamo già dato il via all'integrazione. Qui il rublo si prepara a prendere il posto della moneta ucraina mentre attendiamo a giorni l'apertura delle banche di Mosca che renderanno più facile il lavoro dei nostri uomini d'affari».

Una trasformazione già evidente nei pochi supermercati della città che hanno riaperto i battenti. Sugli scaffali i prezzi sono esposti sia in grivnie sia in rubli. «È il nuovo corso - spiega una cassiera del Mepa Market - da qualche settimana abbiamo ricevuto istruzioni di accettare entrambi i pagamenti». Ma non è solo una questione di soldi. La russificazione procede veloce anche nelle strade. «Kiev - spiega la sindaca - ha chiuso tutti gli uffici statali compresi quelli del registro automobilistico. Quindi tutte le immatricolazioni avvengono collegando i nostri uffici con quelli russi». Il segno più evidente di questo cambiamento sono le targhe automobilistiche. In attesa dell'apertura del nuovo registro vengono distribuite con parsimonia negli uffici della polizia locale, ma la trasformazione è quanto mai esplicita. Il tridente giallo in campo azzurro simbolo dell'Ucraina è stato cancellato per lasciar posto a nuovi simboli e nuove denominazioni legate alla storia russa. «Quel tridente era una creazione dei nazionalisti ucraini e non ha nulla a che vedere con la nostra tradizione. Per questo - spiega il capo della polizia di Melitopol Alexey Selivanov - abbiamo deciso di sostituirlo con i colori e gli stemmi dell'antico governatorato della Tauria istituito da Caterina la Grande quando conquistò queste terre». E altrettanto evidente è la caratterizzazione conferita alla distribuzione degli aiuti in arrivo dalla Federazione russa. A consegnarli alle famiglie più bisognose sono i cosacchi di Igor Lisenko «grande atamano» di Melitopol. «Perché - spiega l'atamano - Melitopol rappresenta la nuova frontiera e il nuovo popolo russo. E da sempre nella storia spetta a noi difenderli e proteggerli». 

"Caccia a cellule ucraine dormienti prima o poi li prenderemo tutti". Gian Micalessin il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il vicecapo della polizia di Zaparova: "Un po' di gente è andata via ma la maggioranza resta vicino a noi filorussi".

«Qui l'Ucraina e i suoi servizi restano una minaccia. L'ultimo complotto l'abbiamo sventato prima della parata del 9 maggio scorso. Abbiamo scoperto una cellula dormiente pronta a mettere una bomba lungo il tragitto del Reggimento degli immortali. Progettavano una strage, ma per fortuna li abbiamo presi in tempo. Tuttavia questi sono casi estremi perché, come vede, la città è tranquilla».

Alexei Livanov, 40 anni, numero due della polizia del governatorato di Zaporizhzhia e capo di quella di Melitopol, sa bene cosa pensiamo mentre ci accompagna per le strade della sua città, nell'Ucraina sud-orientale, su una delle sue auto. Sa bene che in Italia ed Europa circolano le stime secondo cui buona parte della popolazione avrebbe lasciato la città per fuggire l'invasione russa. Sa bene che sbirciando dai finestrini Melitopol sembra più addormentata che tranquilla. Anche perché sui vialoni non c'è un filo di traffico. E sui marciapiedi i passanti sembrano quelli di Ferragosto in una grande città italiana.

«È vero - ammette - un po' di gente è sicuramente andata via, ma credetemi i numeri diffusi dalla propaganda di Kiev sono assurdi. Molti uomini sono stati mobilitati fin da prima del 24 febbraio dagli stessi ucraini e quindi sono stati costretti a servire nelle loro forze armate. Altri erano parte dell'amministrazione nazionalista e quindi sono fuggiti. Altri certamente se ne sono andati con le famiglie dopo il 24 febbraio. Però la maggioranza della popolazione resta comunque vicina a noi e ai russi. Un'altra parte rilevante vuole semplicemente vivere senza problemi. Poi ovviamente c'è chi odia i soldati di Mosca e quelli come me che si considerano parte del popolo russo. Ma questo è naturale. Per otto anni qui la propaganda dei nazionalisti e della televisione di Kiev è stata martellante. Ci hanno dipinto come dei mostri. Per questo cerchiamo di rassicurare chi è rimasto e garantire il rientro di chi vuole tornare».

Però lei stesso ammette che ci sono ancora cellule dormienti pronte a opporsi alla presenza russa...

«Sì, ma sono gruppi piccolissimi. Sono formazioni create dai servizi segreti di Kiev che hanno distribuito le armi a individui particolarmente fidati selezionati durante il servizio militare nel loro esercito. Ma i più pericolosi erano i gruppi criminali. Kiev li pagava per controllare la popolazione di questa zona e per usarli contro di noi. Quelli però li abbiamo sgominati. Sono stati tutti arrestati nelle prime settimane. Ora ci troviamo a fronteggiare una minaccia veramente assai ridotta. Comunque abbiamo i nomi di quasi tutti quelli che hanno ricevuto armi da Kiev. Prima o dopo li prenderemo».

In passato qui è stato arrestato anche il sindaco Ivan Fedorov. Di cosa lo accusavate?

«Ivan Fedorov era un sindaco per modo di dire. Voi in Europa lo avete trasformato in una sorta di eroe, ma non è così. Lui è un esponente di quella nuova guardia venuta alla ribalta dopo il colpo di stato del 2014. Personaggi senza grandi capacità a cui sono state affidate cariche e posti di potere solo perché erano legati ai gruppi nazionalisti. Ma il signor Fedorov ha fatto anche di peggio. Oltre a non occuparsi dei problemi della città ha finanziato i gruppi dell'estremismo nazionalista. Ed ha lavorato per i servizi segreti di Kiev. Non a caso oggi continua a fare propaganda per loro».

Vi accusano di reprimere e perseguitare chi non accetta il controllo russo...

«Guardi, io e la mia famiglia siamo di Kiev. Nel 2014 sono stato massacrato di botte e ridotto in coma dai nazionalisti. Sono uscito dall'ospedale dopo due mesi e mi sono rifugiato a Lugansk. Oggi sono qui, ma la mia famiglia è dovuta fuggire in Europa per non venir ammazzata. Questa guerra non l'ha certo iniziata l'esercito russo. In questi territori vivono tantissimi ucraini come me. Siamo tutti fuggiti dalle violenze dei nazionalisti. E sogniamo tutti di tornare alle nostre case e rivedere i nostri cari».

Mauro Evangelisti per “Il Messaggero” il 3 maggio 2022.

Kherson non era una città di frontiera. Lo è diventata da quando è iniziata l'aggressione dell'esercito di Putin. A una novantina di chilometri in linea d'aria da Mykolaiv e a 200 da Odessa, ormai lungo la costa sud è il primo (o l'ultimo a seconda del punto di osservazione) grande centro (290mila abitanti) finito sotto il controllo russo.

Di fatto, se la situazione futura sarà una fotografia di quella attuale, Kherson sarà la città più a Ovest sotto il giogo di Mosca. Ed è proprio qui che è diventata più opprimente la russificazione voluta dal Cremlino. Con una strategia già vista in passato in Crimea, si stanno tagliando i legami con Kiev e si sta imponendo lo stile di vita russo. 

Addio internet, quanto meno come utilizzato fino ad oggi. In tutta l'area da ieri sono saltate le comunicazioni in rete - mobile o fissa - come ha confermato al Kyev Indipendent un deputato del consiglio regionale, Serhiy Khlan.

Per ora le cause del black out non sono ufficiali, ma appare evidente il doppio disegno: da una parte si punta a isolare la zona, a bloccare il flusso di informazioni che non passino al vaglio della propaganda russa; dall'altra si teme che l'obiettivo sia imporre il servizio di compagnie telefoniche fedeli al Cremlino.

Va anche detto che i russi invece accusano gli ucraini di avere causato lo stop alla rete internet. Una analisi del Washington Post riporta la posizione del governo di Kiev: le connessioni internet e le reti di telefonia mobile sono interrotte in tutta la regione di Kherson, ma anche in parte di quella di Zaporizhzhia, si tratta di un atto deliberato «volto a lasciare gli ucraini senza accesso alle informazioni reali sugli sviluppi della guerra».

Di fatto i collegamenti internet nelle prossime ore dall'area saranno possibili solo passando attraverso provider controllati dai russi. Lo stesso vale per le reti di telefonia mobile.

Ma la russificazione di Kherson si sta attuando anche con altri metodi e pure in questo caso si usano strumenti che si erano già visti a Est dell'Ucraina, quando i russi, dopo avere imposto con la forza il controllo delle città, hanno iniziato a versare a parte della popolazione delle sovvenzioni, ma in Rubli. 

Lo stesso sta avvenendo in maniera organizzata a Kherson, la città in cui, non a caso, Mosca aveva previsto un referendum farsa che formalizzasse l'addio all'Ucraina. Per ora questa consultazione dalla dubbia validità, per usare un eufemismo, non si è svolta, ma si stanno surrettiziamente abituando le persone ad accettare l'occupazione del territorio.

In che modo? Sancendo l'addio alla Grivnia, la valuta ucraina, e introducendo nell'uso quotidiano il Rublo. Il primo passo è stato il pagamento delle pensioni: i media statali, voci del Cremlino, hanno fatto sapere che il passaggio da una valuta all'altra è ufficiale dal primo maggio, mentre Kirill Stremousov, vice presidente dell'amministrazione civile militare della Regione - fedele a Mosca - ha dichiarato che la transizione durerà quattro mesi, durante i quali sarà possibile utilizzare sia il Rublo sia la Grivna.

L'altro giorno i servizi di intelligence britannici hanno diffuso questa analisi: «Un controllo duraturo di Kherson e dei suoi collegamenti di trasporto aumenterà la capacità russa di sostenere l'avanzata verso Nord e verso Ovest. E di migliorare la sicurezza del controllo russo della Crimea. L'entrata in circolazione del Rublo a Kherson rappresenta un tentativo di esercitare una forte influenza politica ed economica nel lungo periodo».

Lo stesso vale per i media: l'obiettivo di Mosca è di diffondere il segnale delle tv russe in questa area, con un sistema informativo sensibile alla propaganda del Cremlino. 

Dal punto di vista teorico si tratta di una operazione non complicata, visto che in queste aree si parla e si comprende il russo. Molti osservatori però fanno notare: russofono non significa russofilo e proprio a Kherson, da quando è iniziata la occupazione, ci sono state alcune delle proteste più coraggiose da parte della popolazione.

In sintesi: a Kherson i russi stanno attuando un sistema che va ad annientare il mondo precedente per imporne un altro, telecomandato da Mosca, in modo da fare accettare alla popolazione l'occupazione.

Per raggiungere questo obiettivo sono stati anche sostituiti tutti gli amministratori locali, rimpiazzati da figure di collaborazionisti. Di fatto, quando i negoziati ricominceranno, quando si dovrà decidere un compromesso per una tregua, Mosca punterà quanto meno a presentare l'area di Kherson come una regione russa de facto, dove ormai sventolano le bandiere della Federazione.

Il presidente ucraino Zelensky però da giorni ripete che non è disponibile ad accettare la perdita di fette di territorio che facevano parte del Paese prima dell'occupazione. Secondo quanto riportato dalla Cnn in molti stanno tentando di scappare da Kherson. 

Una donna ha raccontato: «Sono fuggita il prima possibile con i miei figli, ormai la regione è completamente occupata. Non abbiamo più nulla. I russi tenteranno di arruolare i nostri figli di 18 anni». Tutto questo però non comparirà nella nuova realtà virtuale descritta dai media imposti da Mosca. Anche questa, come l'imposizione del Rublo e dei sindaci, è russificazione.

 Roberto Fabbri per “il Giornale” il 26 aprile 2022.

Da Mariupol a Vladivostok, sola andata, inganno compreso nel biglietto. Dalla città martire sul mar d'Azov al remotissimo porto russo affacciato sul mar del Giappone, sette fusi orari più a Est. Se n'è già parlato sul Giornale in questi giorni di questa incredibile deportazione di oltre 300 civili ucraini, ma è arrivato il momento di superare l'aspetto emotivo e l'incredulità: perché qui non si sta parlando di «strani» episodi in cui le persone vengono trasferite in Russia contro la loro volontà, ma di una strategia precisa di Vladimir Putin per trasformare intere province dell'Ucraina conquistata in parti integranti dell'impero russo.

Una strategia che somiglia maledettamente a quella adottata negli anni Novanta in Jugoslavia dall'allora leader serbo Slobodan Milosevic, e che aveva il nome di pulizia etnica. Quella definizione asettica nascondeva un livello di violenza estremo, che fu applicato in molte località della Bosnia-Erzegovina e che raggiunse il suo tragico apice nella strage di Srebrenica del luglio 1995 in cui morirono oltre ottomila civili inermi che avevano il torto di appartenere all'etnia sbagliata. Il disegno finale di Milosevic era quello di sradicare - sterminandoli o trasferendoli a forza i cosiddetti bosgnacchi (musulmani per lo più di origini turche) dalle regioni in cui vivevano per far diventare quelle aree etnicamente omogenee, ovvero solo serbe.

Era in fondo la stessa visione razzista di Adolf Hitler in versione balcanica: eliminare le «razze inferiori» e ripopolare i territori in cui vivevano con lo Herrenvolk, il popolo padrone. Questa visione piace molto anche a Putin, che ha già stabilito - lo ha messo per iscritto in un suo inquietante saggio storico dell'estate scorsa - che gli ucraini non hanno nemmeno il diritto di considerarsi un popolo: a suo indiscutibile avviso, essi sono soltanto dei «piccoli russi», sorta di cugini minori del grande popolo russo, e il loro Paese nient' altro che una creazione arbitraria dei nemici di questo grande popolo, che ha tutto il diritto di riprendersi con la forza ciò che è suo.

Gli ucraini non sono affatto d'accordo, com' è noto, tanto che presto, simbolicamente, a Kiev verrà smantellato un monumento di epoca sovietica che celebra «la cosiddetta amicizia russo-ucraina», come ha detto il sindaco Vitali Klitschko. Non è tempo di compromessi, nemmeno la strategia di Putin la prevede. Il suo obiettivo è semmai la conquista della più ampia porzione possibile di territorio ucraino (meglio se tutto, ma al momento pare impossibile) per annetterlo alla Grande Russia: come già fatto, del resto, nel 2014 con la Crimea.

Il meccanismo è molto simile: conquista militare, sostituzione delle autorità ucraine regolarmente elette con un'amministrazione russa imposta dall'alto, successivo referendum farsa in cui la popolazione non può decidere tra Russia e Ucraina, ma solo tra diverse modalità di assorbimento nella Federazione russa. È il destino che attende i territori già conquistati dopo lo scorso 24 febbraio: parte delle province di Donetsk e Lugansk (Mariupol inclusa), costa del mar d'Azov, province di Melitopol e Kherson. Un destino che nella visione di Putin è definitivo e irreversibile.

E alla popolazione locale cosa succederà? Tutto previsto.

Dopo i referendum, diventano di fatto cittadini russi. A quel punto, cominciano le pressioni perché si dimostrino patrioti, preferibilmente arruolandosi da «volontari» nelle milizie che combattono contro i «nazisti», cioè l'esercito regolare ucraino. Chi non gradisce, e magari chiede di andarsene, può finire giustiziato o spedito in remote province della Russia per la necessaria rieducazione. Questi irriducibili nazionalisti di un popolo che non deve esistere verranno in seguito rimpiazzati da russi veri, fatti venire per trasformare quelle terre nella Nuova Russia di zarista memoria.

Pulizia etnica. Lo hanno fatto Milosevic in Bosnia, Tito in Istria e Dalmazia, Hitler nel Lebensraum tedesco dell'Europa orientale. Lo farà anche Putin in Ucraina. Lo sta già facendo, mentre noi pensiamo ai condizionatori.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

L'editoriale spiega la 'road map' del Cremlino. Denazificare l’Ucraina, RIA Novosti svela il piano in 25 anni del Cremlino: “Paese dovrà cambiare nome, popolazione è complice”. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

“Cosa deve fare la Russia dell’Ucraina”. Si intitola così un articolo pubblicato dall’agenzia stampa russa RIA Novosti, firmato dall’editorialista Timofey Sergeytsev, che stila una sorta di ‘road map’ del processo di denazificazione del Paese invaso ormai 40 giorni fa dalle forze armate russe, in quella che a Cremlino continuano a definire “operazione militare speciale”.

RIA Novosti che è la stessa agenzia di stretta fede putiniana che il 27 febbraio, tre giorni dopo l’invasione, pubblicò per errore (e poi cancellò) un commento in cui si salutava la vittoria russa in Ucraina come la nascita di una “nuova era”.

Oggi, dopo che i propositi di una guerra lampo si sono scontrati contro la resistenza delle truppe di Volodymyr Zelensky, l’articolo di Sergeytsev punta ad altro, a descrivere cosa vuol dire per Mosca il processo di denazificazione più volte evocato da Vladimir Putin e dai suoi sodali.

Un processo lungo, che dovrà durate almeno 25 anni, di fatto una generazione. Secondo Sergeytsev, e dunque Putin, “la denazificazione è un insieme di misure rivolte alla massa nazificata della popolazione, che tecnicamente non può essere soggetta a punizioni dirette come criminali di guerra”. Tuttavia, aggiunge l’editorialista, “oltre all’élite, una parte significativa delle masse popolari, che sono naziste passive, sono complici del nazismo. Hanno sostenuto le autorità naziste e le hanno assecondate. La giusta punizione per questa parte della popolazione è possibile solo come sopportazione delle inevitabili difficoltà di una guerra giusta contro il sistema nazista”. 

Ma il processo di denazificazione, secondo il Cremlino, dove portare alla cancellazione vera e propria dell’Ucraina. Non a caso Sergeytsev usa un altro termine per spiegare questo processo, ovvero “deucrainizzazione”.

Il nome Ucraina “non può essere mantenuto come titolo di una formazione statale completamente denazificata sul territorio liberato dal regime nazista”, si legge infatti sull’editoriale pubblicato su RIA Novosti. Una “deucrainizzazione” che è “un rifiuto l’inflazione artificiale e su larga scala dell’elemento etnico di auto identificazione della popolazione dei territori storici della Malorossiya (la piccola Russia, storicamente una regione nel sud dell’Ucraina attuale) e Novorossiya (la nuova Russia conquistata da Mosca nel Settecento) iniziato dalle autorità sovietiche”.

L’Ucraina, aggiunge ancora Sergeytsev, “a differenza della Georgia o dei Paesi Baltici, non può funzionare come nazionale e tenta di ‘costruire’ uno che porti logicamente al nazismo”. Quindi un riferimento, altra ossessione russa sin dall’annessione della Crimea nel 2014 e alla guerra civile nel Donbass, ovvero a quel Stepan Bandera che in Ucraina è ‘venerato’ come un eroe ma che è anche noto per esser stato un collaboratore della Germania nazista.

“L’élite di banderiti(i seguaci di Bandera) deve essere liquidata. La sua rieducazione è impossibile. La palude sociale che la sostiene attivamente e passivamente deve sottostare alle durezze della guerra e digerire l’esperienza di una lezione ed espiazione storica“, si legge ancora nel testo.

Un messaggio durissimo pubblicato nella giornata di domenica, mentre infuocava la polemica a livello internazionale sul massacro compiuto dalle forze armate russe durante l’occupazione di Bucha, la città alla periferia nord di Kiev, dove i militari hanno ucciso cittadini inermi.

Praga ‘69, la Primavera è finita: code per carne e benzina, soldati in strada. Egisto Corradi su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

L’inviato di guerra scriveva: «Il ricordo del giovane martire Jan Palach è forte, la sua tomba meta di un pellegrinaggio esile ma continuo. Il regime comunista impone una cappa d’intimidazione greve: “Non resterà impunito chiunque cercherà di paralizzare i trasporti, la produzione di energia e l’apparato di distribuzione”. Ma l’economia è in caduta libera, tra nascita del mercato nero e inflazione al galoppo». 

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dal numero di «7» in edicola il 1 aprile, vi proponiamo questa corrispondenza di Egisto Corradi, che apparve sul quotidiano nell’agosto del 1969. Buona lettura

17 agosto 1969

L’ordine regna a Praga, per il momento; né sono percepibili segni ed indici esterni e notevoli di tensione. Pattuglie accoppiate di poliziotti e soldati armati circolano un po’ più numerose del normale: le strade sono deserte per le vacanze e il sabato; i negozi chiusi. Dall’alto, continuano a scendere duri ammonimenti perché quest’ordine sia mantenuto, perché nessuno osi levare un grido o sventolare una bandiera o dare l’avvio ad un corteo di protesta. Ai minacciosi avvertimenti dei giorni scorsi, altri se ne sono aggiunti ieri e oggi. La cappa dell’intimidazione è greve, totale.

«Sia in patria sia all’estero, nessuno – ha proclamato Husak – deve nutrire la illusione che la situazione politica attuale del nostro paese possa essere cambiata. Noi non tollereremo assolutamente nessun atto ostile contro il paese e contro il socialismo». L’ammonimento è stato espresso dal primo segretario del partito comunista cecoslovacco davanti a millecinquecento funzionari del partito della Moravia meridionale. Nello stesso convegno Husak ha affermato che «nel processo della primavera scorsa erano presenti illusioni piccolo-borghesi, ma si erano anche inserite certe volontà politiche che erano state sconfitte nel febbraio del 1948», vale a dire all’avvento del comunismo. «Ogni cittadino – ha ancora detto Husak – deve scegliere la parte della barricata sulla quale schierarsi»; in tal modo sottintendendo che il regime non tollererà posizioni neutrali e imponendo così il dilemma del «chi non è con noi è contro di noi», il segretario del partito comunista cecoslovacco ha poi espresso la speranza che sia «destinata a scomparire presto la tensione sociale esistente».

Frattura insanabile

Più che di tensione sociale, come dichiarato da Husak, si dovrebbe parlare di una tensione politica che appare caratterizzata, per infiniti segni, da una frattura insanabile fra dirigenti e popolazione.

Un intervento forse ancora più duro è stato compiuto da Piller, uno tra i più importanti membri del praesidium. «Dobbiamo essere in grado – ha detto tra l’altro Piller – di garantire il funzionamento della nostra economia. Non rimarrà impunito chiunque cercherà di paralizzare i trasporti, la produzione di energia, l’apparato di distribuzione».

L’ammonimento di Piller costituisce una irrefutabile ammissione della critica china verso la quale l’economia cecoslovacca scivola a velocità sempre maggiore da qualche mese a questa parte. Ne sono segni tangibili una deficiente produttività (cinquanta per cento della produzione rispetto ai piani, nel primo semestre di quest’anno), un fenomeno di inflazione monetaria che, se si guarda all’aumento dei prezzi, può essere definito quasi galoppante, la nascita del mercato nero di alcuni generi di prima necessità, l’aggravarsi degli scompensi nella distribuzione.

Per due giorni, tra la fine della scorsa settimana e l’inizio di quella corrente, in varie zone della Cecoslovacchia fra cui quella della capitale, la benzina è risultata introvabile. Da qualche tempo, altro esempio, la carne scarseggia al punto che, per assicurarsene una razione non basta disporsi in coda anche tre ore prima dell’apertura delle macellerie: servite poche decine di clienti, la merce viene esaurita. Anche la distribuzione del carbone per uso casalingo lascia molto a desiderare.

Potere e popolo

In margine agli interventi duri sopra citati, un discorso moderato e invitante alla concordia è stato fatto dal primo ministro Cernik a Brno. Ma troverà una reazione positiva un richiamo come quello di Cernik, ossia di un esponente politico del quale, ormai da settimane, si dice che sia prossima e inevitabile la messa in disparte? Qualsiasi dubbio in proposito sembra essere più che lecito. II solco apertosi fra il gruppo al potere e la maggioranza della popolazione sembra essere incolmabile. Particolarmente profonda è la frattura fra dirigenti e masse operaie, nonché fra dirigenti e studenti.

Il commissario politico capo delle forze armate sovietiche Lepiscev, ha visitato ieri i reparti di unità carriste cecoslovacche di stanza nella Boemia meridionale. Circa le manovre militari, che forze cecoslovacche dovrebbero svolgere unitamente a forze sovietiche iniziandole il 18, nulla si sa di preciso. Le unità sovietiche, in Cecoslovacchia continuano frattanto a mantenere dislocazioni piuttosto appartate. In nessuna città cecoslovacca, Praga compresa, si vedono uniformi sovietiche in circolazione.

Onore al coraggio

La tomba di Jan Palach nel cimitero praghese di Olsany è meta di un esile ma continuo pellegrinaggio di visitatori. Qualsiasi segno di ricordo è scomparso attorno al monumento a San Venceslao, nell’omonima piazza centrale della capitale. Sulla scura facciata del museo che delimita il lato più alto della piazza sono ancora visibili, bianchissimi, le centinaia e centinaia di allori causati dalle scariche di fucileria e di mitragliatrici dell’agosto scorso. Finora non si è voluto o potuto effettuare alcun restauro.

Egisto Corradi. Giornalista, scrittore e sottotenente degli alpini, con cui partecipò alla campagna di Russia della seconda guerra mondiale, Egisto Corradi nacque a Parma nel 1914 e morì a Milano nel 1990 tre giorni dopo il 76° compleanno. Nel 1941 fu correttore di bozze alla Gazzetta di Parma e in breve tempo divenne giornalista. Dal 1945 cominciò a scrivere sul Corriere d’Informazione e nel 1946 approdò al Corriere della Sera, dove fu inviato su molte guerre e che lasciò nel 1974 per seguire Indro Montanelli al Giornale.

“Dirigenti russi a Mariupol”. Ma gli ucraini non cedono e chiedono 10 miliardi di danni. Corrado Zunino su La Repubblica l'1 Aprile 2022.

Ogni parola resa pubblica da Putin, o dai suoi uomini al fronte, va nella direzione temuta dal governo ucraino: la Russia sembra voler trattenere tutti i territori conquistati e la differenza la farà la battaglia sul campo. Il segnale peggiore per il prosieguo della guerra e per l'assedio di Mariupol. Ieri il leader degli indipendentisti del Donetsk, Denis Pushilin, ha detto alle agenzie russe di aver firmato un decreto per l'insediamento di una nuova classe dirigente nella città martire, che è la seconda realtà urbana del Donetsk, all'interno del conteso Donbass.

Zelensky, alcuni dei sindaci rapiti da russi trovati morti. ANSA il 28 marzo 2022.

Alcuni dei sindaci che erano stati rapiti dalle forze russe sono stati ritrovati morti. Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyi in un'intervista all'Economist.

"Stanno rapendo i sindaci delle nostre città. Ne hanno uccisi alcuni. Alcuni di loro non li troviamo. Alcuni li abbiamo già trovati e sono morti", ha detto il presidente ucraino. Nei giorni scorsi i media ucraini avevano sottolineato che erano almeno 14 i sindaci sequestrati. (ANSA).

Quei sindaci ucraini rapiti, torturati e «usati come merce di scambio». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Alcuni li hanno portati via dai loro uffici comunali, altri li hanno presi mentre camminavano per strada, altri ancora sono spariti ai checkpoint. Sono gli amministratori locali. Sindaci, vicesindaci, presidenti di piccole comunità. Da quando è cominciata la guerra, e in particolare in queste ultime due settimane, ne sono spariti a decine. A cominciare dall’ormai noto sindaco di Melitopol, , che è stato portato via di forza da un commando di nove russi con un sacchetto di plastica in testa ed è stato poi rilasciato nei giorni successivi con un’operazione delle forze speciali.

«Al momento sono 14 i funzionari locali rapiti dall’esercito russo» ha annunciato tre giorni fa la vicepremier Irina Vereshchuk. Ma fra il suo annuncio e oggi altri nomi si sono aggiunti alla lista e qualcuno di quei 14 è stato rilasciato (in tutto dovrebbero essere 16). «L’Ucraina insiste sul fatto che la cattura di civili è una violazione del diritto umanitario internazionale e ne chiediamo il rilascio immediato», ha detto la vicepresidente. Ma per i russi quelle persone sono merce preziosa per eventuali scambi di prigionieri ed è per questo che è crescente il timore che i rapimenti si moltiplichino. Tanto che il sindaco di Enerhodar nell’annunciare il rapimento a un checkpoint del suo vice, Ivan Samoidjuc, ha chiesto a tutti gli «operatori di attività pubbliche» di «stare estremamente attenti», di «non rispondere a numeri di telefono sconosciuti» e non dichiarare pubblicamente spostamenti o posizioni.

Il Centro per la Difesa Strategica in un rapporto di due giorni fa ha contato, come la vicepremier, 14 amministratori locali sequestrati dai russi e ha scritto — testuale — che «l’Ucraina sta cercando di farli rilasciare attraverso uno scambio». Di tutti i nomi noti fin qui uno soltanto appartiene a una donna, Tetyana Bezlyudna, vicecapo della comunità locale di Andriyivka, nel regione di Chernihiv. Nessun incarico importante, nessuna visibilità sulle attività locali di cui si fa carico (impossibile trovare una sua fotografia online). È bastato essere il numero due di una piccolissima comunità per finire nel mirino dei russi. Irina Vereshchuk sostiene che alcuni dei rilasciati hanno raccontato di aver subito torture. «Sappiate che vi troveremo e vi assicureremo alla giustizia» ha giurato ai rapitori, «non permetteremo a nessuno di sfuggire alla punizione».

Il punto militare degli ultimi giorni

22 marzo - La «rivoluzionaria» guerra d’intelligence: così gli Usa guidano le mosse degli ucraini (con i satelliti) 21 marzo - L’assedio di Mariupol riassume il dilemma di Putin e Zelensky 20 marzo - I missili russi dal fronte del mare, a terra trincee e bombe sulle città 19 marzo - Putin manda messaggi politici con i missili 18 marzo - I russi colpiscono a Leopoli, la battaglia si combatte sui rifornimenti di armi 17 marzo - L’avanzata russa è in stallo, il peso di armi e training americani 16 marzo - Russi a corto di uomini e tattiche, Putin sta cercando una via d’uscita? Decisivi i prossimi 10 giorni

È quel che spera Lyudmila Vasilyeva, moglie di Dmitry Vasiliev, segretario del consiglio comunale di Novokakhovka, nella regione di Kherson (una delle aree dove i rapimenti sono più frequenti). Dal giorno in cui non è tornato a casa lei si è convinta che sia tenuto prigioniero nei seminterrati dove si trovano le celle di detenzione temporanea della polizia locale. Nessuno ha idea di dove si trovi invece Volodymyr Karaberov, capo della comunità territoriale di Mangush, regione di Donetsk. E poi Oleksiy Kartsan, capo della comunità locale di Gremyach (Kharkiv); Serhiy Pryima, Presidente del Consiglio distrettuale di Melitopol (Zaporizhia); Volodymyr Tyurin, vice capo dell’amministrazione militare-civile della città di Shchastyn, regione di Donetsk; Yuriy Palyukh, segretario del consiglio comunale di Skadovsk (Kherson)... come loro tanti altri. Tutti in qualche luogo in attesa di accordi: la loro libertà in cambio di quella dei soldati russi.

Daniele Dell'Orco per “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2022.

Coperto ormai da una sorta di delirio di onnipotenza biblica, Vladimir Putin ha lanciato strali ideologici di fronte a tutti i rappresentati delle Repubbliche della Russia, le unità amministrative di primo livello che compongono la Federazione, quasi a voler chiedere: chi di voi mi tradirà? 

L'arcipelago russo è composto da 22 entità, ognuna con poteri speciali. Alcuni governatori, ad esempio, vengono eletti, altri nominati. Al di fuori dei 6 o 7 davvero intimi del cerchio magico di Putin, loro sono i principali depositari del sostegno al potere politico del Cremlino.

Sono anche una delle cartine al tornasole del reale sentimento interno della Russia rispetto alla guerra. Alcuni di loro infatti guidano repubbliche tanto sconosciute quanto popolose, come il Tatarstan (4 milioni di abitanti), la Baschiria (4,1 milioni) o il Daghestan (3,1 milioni). 

Tutti insieme, rappresentano almeno 20 milioni di russi. Da principi di zone profonde, sono gli interlocutori perfetti per comprendere appieno ciò che intende Putin quando dice: «Non sto qui a criticare quelli che possiedono ville a Miami o in Costa Azzurra, che non possono fare a meno del foie gras o delle ostriche o delle cosiddette libertà di genere. Queste persone con la mente sono altrove, e non qui, non con il nostro popolo, non con la Russia».

Ce l'ha con gli oligarchi, Putin. Ma non con gli oligarchi in quanto tali, visto che anche il baschiro Radiy Khabirov o il ceceno Ramzan Kadyrov sono ricchi, ricchissimi e di certo appassionati di lusso e stravizio. 

Ma non fanno parte per il loro modo di vivere e di pensare della "quinta colonna" identificata dal leader del Cremlino, quella composta dai «traditori nazionali» che di fronte alle sanzioni occidentali potrebbero cospirare contro la Russia pur di non perdere i loro lauti patrimoni.

Così, alzando una sorta di cortina di ferro valoriale, Putin intende rispolverare i principi marxisti-leninisti che hanno permesso a un popolo intero, a tre generazioni di persone (compresa la sua), di temprarsi col «valore della rinuncia», col «disprezzo dell'agiatezza». 

Ai cittadini sovietici infatti non interessava essere ricchi, ma potenti, temuti e rispettati nel mondo quello sì. Magari facevano voto di mangiare zuppa di cipolle per una vita intera, pur di riuscire però a spedire per primi un uomo nello spazio. 

Sentendosi accerchiato, Putin attacca così chi vive all'occidentale e si tiene stretto chi è diventato grande, ricco e potente grazie a lui e grazie alle ceneri dell'Urss. Loro sono gli oligarchi di Stato, e solo da loro potrebbe partire una vera rivolta interna.

Perché come hanno spiegato bene super-ricchi come Oleg Deripaska, proprietario di uno dei più grandi gruppi industriali della Russia, o Mikhail Fridman, co-fondatore di una società di investimento internazionale multimiliardaria, se l'Occidente spera che la loro insofferenza (sono stati tra i primi a chiedere un «rapido processo di pace») e quella dei tantissimi oligarchi "occidentalizzati" possa esercitare pressione sul Cremlino, forse è il contrario: «Se le persone in Ue credono che a causa delle sanzioni potrei avvicinarmi al signor Putin e dirgli di fermare la guerra, e funzionerà, allora ho paura che siamo tutti in grossi guai», ha detto Fridman a Bloomberg.

Insomma, gli oligarchi russi sono di tre tipi: gli irriducibili, che potrebbero anzi sentirsi cementificati e addirittura inorgogliti dalle sanzioni occidentali (come Alexei Miller, ad del colosso Gazprom, che reagì con una pernacchia al suo ingresso nella black list occidentale nel 2016), i fedelissimi (i governatori degli Stati federali) e i mazziati, come Fridman, Deripaska o lo stesso Roman Abramovich.

Ricchi grazie alla Russia, ma divi grazie all'Occidente. Per loro al momento sono chiuse a doppia mandata sia le porte dell'Ovest dorato che quelle del Cremlino. Per questo, anziché rispondere all'appello autarchico di Putin («i russi hanno capito che per essere al sicuro bisogna investire in Russia») o a quello rivoluzionario di Joe Biden stanno provando la terza via: la fuga verso altri lidi.

Emirati Arabi, Arabia Saudita, Egitto sono tutti Paesi che hanno mantenuto le relazioni con Mosca pur essendo partner degli Usa, offrendo salvacondotti ai magnati coi conti bloccati e gli yatch confiscati. Nell'attesa di essere riabilitati nel resto del mondo, magari, potranno iniziare a fare affari anche lì.

(ANSA il 14 marzo 2022) - "Adattatevi alla nuova realtà". E' il messaggio del nuovo sindaco di Melitopol, Galina Danilchenko, insediata dalle forze russe dopo che il sindaco eletto è stato rapito ed è al momento detenuto. Simpatizzante russa, Danilchenko ha annunciato in un video - citato da diversi media americani - che nella città inizieranno le trasmissioni di canali televisivi russi in seguito al "grande deficit di informazioni attendibili in circolazione".

 (ANSA il 14 marzo 2022) - Un'inchiesta per tradimento è stata avviata contro il nuovo sindaco di Melitopol, la città occupata dai russi che hanno insediato Galina Danilchenko come primo cittadino dopo aver rapito il sindaco eletto. Lo riporta Cnn, sottolineando che ad avviare l'inchiesta sono state le autorità di Kiev su richiesta dei componenti del consiglio comunale della città.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 14 marzo 2022.  

Rapiscono i sindaci e li sostituiscono con politici che vanno davanti alle telecamere, non senza un certo imbarazzo, a leggere testi scritti in cui spiegano: «Bisogna accettare il nuovo sistema». I soldati dell'esercito di occupazione sparano per disperdere la folla che protesta e urla contro i russi: «Fascisti». 

L'operazione di russificazione prova a estendere la mano di Mosca nel sud dell'Ucraina, in modo da allargare l'area controllata a sud, tenendo conto che la Crimea era già stata presa nel 2014. Ma si sta rivelando meno semplice del previsto: malgrado i bombardamenti di scuole, fabbriche, ospedali e abitazioni, la città di Mykolaiv sta resistendo e blocca l'avanzata dell'esercito occupante, salvando, almeno per ora, Odessa, che si trova 60 chilometri dopo, verso Ovest, il porto più importante dell'Ucraina. 

Non solo: anche nelle città prese, come Kherson, i cittadini ucraini scendono per strada a manifestare pacificamente con i colori nazionali giallo blu.

Il primo sequestro di un sindaco è avvenuto l'altro giorno a Melitopol: si tratta di Ivan Fedorov, 33 anni, portato via con la forza da dieci uomini russi perché, si legge sul profilo Twitter del parlamento ucraino, «si è rifiutato di collaborare con il nemico». 

Secondo Zelensky c'è il rischio che il giovane sindaco sia sottoposto a torture. Aveva detto alla Bbc prima del rapimento: «Noi non collaboriamo con i russi in nessun modo, loro non vogliono aiutarci, noi non vogliamo il loro aiuto». Fedorov rischia di essere perseguito per terrorismo dai funzionari di Luhansk, vale a dire una repubblica fantoccio separatista riconosciuta solo dalla Russia.

Ieri l'esercito invasore ha messo al suo posto Galina Danilichenko, un tempo esponente dell'opposizione del consiglio comunale in un partito pro Putin, che ha rilasciato una dichiarazione in un video in cui sembra leggere, non proprio in modo disinvolto, un testo scritto: ordina ai cittadini di Melitopol di adattarsi alla «nuova realtà, il più rapidamente possibile, per vivere in un modo nuovo, saranno prese tutte le misure necessarie per riportare la città alla normalità».

Secondo Galina Danilichenko chi si oppone ai russi è un provocatore e avverte, sempre leggendo un testo, che «non si deve cedere a queste provocazioni». Sui social però è stata definita da molti cittadini «traditrice» mentre in 2.000 hanno protestato davanti al Municipi. 

I russi hanno rapito anche l'organizzatrice della manifestazione. Melitopol è una città di 150mila abitanti, 200 chilometri a ovest di Mariupol. A nord ovest c'è Dnirporudne, un grosso centro dove ieri i russi hanno utilizzato lo stesso copione e rapito un altro sindaco, Yevhen Matveyev.

La fonte di questa notizia è di parte, visto che è stata diffusa dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, che parla di «tattica del terrore», ma visto il precedente di Melitopol, con l'imposizione della sindaca filo Putin, non ci sono molti dubbi che sia vera. Anche qui è prevedibile l'epilogo: nelle prossime ore apparirà in un video un nuovo sindaco filo russo che leggerà, imbarazzato, un testo scritto.

Proseguendo a Ovest, sempre a Sud lungo la costa prima del Mar d'Azov, poi del Mar Nero, si arriva a Kherson, città a 65 chilometri proprio da Mykolaiv, dove i russi invece stanno trovando strenua opposizione nel loro tentativo di raggiungere Odessa. Bene, Kherson (289mila abitanti) è stata presa dall'esercito di Putin. Secondo il cronista locale Konstantin Ryzhenko, «le forze di sicurezza vanno casa per casa a cercare attivisti, giornalisti ed ex-militari». 

Proprio a Kherson i russi stanno mostrando il modello di occupazione che hanno progettato: organizzare un referendum farsa che sancisca l'addio all'Ucraina, facendo nascere un'altra repubblica satellite fedele a Putin. Eppure, nonostante la presenza dell'esercito occupante ieri migliaia di cittadini sono scesi in piazza a protestare con bandiere giallo blu, gridando: «Kherson è Ucraina». I soldati russi hanno sparato in aria per disperdere la folla che camminava vicino ai blindati gridando fascisti agli invasori.

La russificazione di Putin nelle città occupate: una dottrina coloniale che va dall'antica Roma all'Urss.  Gianluca Di Feo La Repubblica il 13 Marzo 2022. 

Sin dai tempi di Stalin intere comunità sono state spostate da una parte all'altra dell'Unione Sovietica, con criteri etnici che coincidevano con idee politiche. 

C’è una matrice sovietica anche nell’operazione di russificazione che Putin sta avviando nelle città ucraine occupate tra il Donbass e il Mar Nero. Sin dai tempi di Stalin intere comunità sono state spostate da un capo all’altro dell’Urss, seguendo criteri etnici che coincidevano con idee politiche: i cosacchi rimasti fedeli allo Zar finivano in Siberia; quelli schierati con l’Armata Rossa invece ottenevano terre fertili sul Don. 

"Andatevene via": coppia di anziani caccia soldati russi dal giardino di casa. La Repubblica l'11 Marzo 2022.

Non si sono fatti intimorire dai soldati russi che si sono presentati davanti al cancello della loro abitazione con tanto di fucili in mano, forse in cerca di cibo. Una coppia di anziani di Voznesensk, nella regione ucraina di Mikolaiv, ha affrontato tre militari russi senza alcun timore. Gli anziani disarmati hanno iniziato ad insultare i soldati che si erano introdotti nel loro giardino. "Chi siete? Andatevene via" ha urlato la padrona di casa. Dopo una breve e concitata discussione, i militari russi hanno preferito andarsene permettendo alla coppia di richiudere il cancello del loro giardino.

Ucraina, i russi nei territori occupati puntano a repubbliche fantoccio. Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.

A Kherson la giunta provinciale ha respinto all’unanimità la richiesta degli occupanti. Due sindaci rapiti: a Melitopol portata via una donna che aveva organizzato le proteste per la loro liberazione. Uno degli obiettivi dell’invasione russa dell’Ucraina è stato sin dal primo momento quello di creare un governo fantoccio filo russo a Kiev. Nei territori occupati militarmente, la Russia cerca ora di imporre quel controllo politico che avrebbe voluto per tutta l’Ucraina. A Melitopol, Dniprorudne e Kherson l’esercito di Putin cerca di formare amministrazioni favorevoli a Mosca. A Kherson la giunta provinciale è stata convocata via zoom e il comandante russo ha chiesto di approvare la convocazione di un referendum. Sulla scheda l’istituzione della Repubblica nazionale di Kherson, in sostanza una replica delle due mini repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk riconosciute ufficialmente da Mosca proprio all’inizio di questo conflitto. La giunta provinciale di 44 membri ha respinto la richiesta del comando russo all’unanimità. La loro risposta è stata che Kherson è e resterà Ucraina.

Sotto l’occhio delle telecamere

Per il momento non sembrano esserci state ritorsioni contro gli assessori provinciali. Chi invece sta già pagando cara l’opposizione ai diktat dell’esercito occupante sono due sindaci: quello di Melitopol rapito venerdì sotto l’occhio delle telecamere fisse poste sulla piazza del municipio e quello di Dinoprudne rapito nella notte tra sabato e domenica. Dniprorudne è una cittadina non lontano dalla centrale nucleare di Zaporizhye, già da giorni sotto controllo russo. Oggi da Melitopol sono arrivate delle immagini, riprese con i telefonini, che mostrano camion e gipponi russi con montate sul tetto degli altoparlanti percorrere a passo d’uomo le strade per annunciare le nuove disposizioni comunali: ogni corteo è vietato, vietato anche portare armi e vietato riprendere le formazioni militari russe. Almeno quest’ultimo ordine è stato già disatteso.

Maniestazioni e proteste

I servizi segreti ucraini assicurano di essere al lavoro, anche in territorio occupato, per individuare il luogo in cui i due sindaci rapiti sono tenuti prigionieri. Sabato, più di 2.000 persone sono scese in piazza a Melitopol per chiedere la liberazione del loro primo cittadino.. I soldati russi alla fine del corteo sono andati a casa di una delle organizzatrici e l’hanno portata via. Il conto dei rapiti è salito così a tre. Chi si oppone al nuovo corso filoputinino, uomo o donna, rischia la vita. Il messaggio è sempre più chiaro ed esplicito per tutti gli altri amministratori che vorranno opporsi agli occupanti. Mosca non intende rinunciare alla vittoria ed è disposta a fare qualunque cosa, violare qualunque regola, per ottenerlo.

L'offensiva di Mosca. Rapito un secondo sindaco in Ucraina, blitz russo a Dniprorudne: a Melitopol governo fantoccio filo-Putin. Carmine Di Niro Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

Le forze armate russe hanno sequestrato un secondo sindaco ucraino. A riportarlo è il Kyiv Independent, che cita l’allarme lanciato dal capo dell’amministrazione statale regionale di Zaporizhia, Oleksandr Starukh.

Militari fedeli al Cremlino hanno infatti sequestrato il primo cittadino di Dniprorudne, centro di circa 20mila abitanti della regione di Zaporizhzhia, occupato dalle forze armate.

Yevhen Matveyev sarebbe ora in mano ai militari russi ma non è chiaro dove sia stato condotto. “I crimini di guerra stanno diventando sistemici”, ha denunciato il governatore della regione di Zaporizhzhia Olexandr Starukh.

Il precedente di Melitopol 

Si tratta del secondo sindaco ucraino rapito dalle forze armate russe dall’inizio del conflitto: il primo è Ivan Fedorov, il primo cittadino di Melitopol accusato di “terrorismo” dall’ufficio del procuratore per la regione separatista di Luhansk e ancora in mano ai militari russi.

Sindaco che, secondo quanto affermato sabato dal presidente ucraino Volodymyr Zelenski n un incontro con la stampa straniera, sarebbe “vivo, ma lo stanno torturando” perché dichiari il suo sostegno alla Russia in un video.

Ieri a Melitopol centinaia di persone sono scese in strada per protestare e chiedere il rilascio del sindaco, che i militari russi hanno rapito e portato via con la testa coperta da una busta di plastica, come mostrano anche le immagini di una telecamera di sicurezza che sembrano proprio mostrare la scena in cui Fedorov viene portato via da una decina di soldati russi.

Il governo fantoccio in città

Ma nella città occupata dai militari russi, il Cremlino starebbe già lavorando per instaurare un governo fantoccio. Sarebbe infatti entrata in carica un nuovo sindaco, Galina Danilchenko, ex consigliere comunale della città, non eletta dal popolo e presentata come primo cittadino ad interim da una tv locale.

Danilchenko ha sostenuto nel filmato che è stato formato un “comitato del popolo” per amministrare la città, chiedendo alla popolazione di adeguarsi a questa nuova condizione. La nuova ‘sindaca’ ha inoltre definito “estremisti” i manifestanti che sabato hanno protestato nella piazza principale di Melitopol, chiedendo la liberazione di Fedorov. 

Danilchenko ha inoltre affermato che il suo compito principale è “prendere tutte le misure necessarie per riportare la città alla normalità“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia