Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

      

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

L’ACCOGLIENZA

TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

La guerra ed i contemporanei.

Noi, ieri, abbiamo studiato la storia. Oggi la viviamo.

Per questo non bisogna guardare gli eventi bellici periodici con gli occhi di piccoli menti, ma annotare gli eventi per poterli raccontare in modo imparziale ai posteri.

Di personaggi come Putin è subissata la storia e solo loro sono ricordati.

La malvagia ambizione è insita negli esseri normali e di questo bisogna prenderne atto.

Carlo Buti: Questo per capire il perché della guerra per procura, con un prestanome, in Ucraina...

L' ambasciata cinese ha pubblicato un elenco di stati che sono stati bombardati dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale:

• Corea e Cina 1950-53

• Guatemala 1954

• Indonesia (1958)

• Cuba (1959-1961)

•Guatemala (1960)

•Congo (1964)

• Laos (1964-1973)

•Vietnam (1961-1973)

• Cambogia (1969-1970)

• Guatemala (1967-1969)

• Grenada (1983)

• Libano (1983, 1984) (colpisce obiettivi nei territori del Libano e della Siria)

• Libia (1986)

• Salvatore (1980)

• Nicaragua (1980)

• Iran (1987)

• Panamá (1989)

• Iraq (1991)

• Kuwait (1991)

• Somalia (1993)

• Bosnia (1994, 1995)

• Sudan (1998)

• Afghanistan (1998)

• Jugoslavia (1999)

• Yemen (2002)

• Iraq (1991-2003) (truppe congiunte statunitensi e britanniche)

• Iraq (2003-2015)

• Afghanistan (2001-2015)

• Pakistan (2007-2015)

• Somalia (2007-2008, 2011)

• Yemen (2009, 2011)

• Libia (2011, 2015)

• Siria (2014-2015)

Ci sono più di 20 stati nell'elenco. La Cina ha esortato a "non dimenticare mai chi è la vera minaccia per il mondo". (tramite GENA CHANNEL)

Ingerenze degli Stati Uniti in politica estera. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Mappa delle ingerenze degli Stati Uniti d'America

Azione in colpi di stato e cambi di regime

Interferenza elettorale

Annessioni a seguito di azione in cambi di regime e invasione

Le ingerenze degli Stati Uniti in politica estera hanno compreso azioni sia esplicite sia segrete volte a modificare, sostituire o preservare governi stranieri. Gli Stati Uniti hanno eseguito almeno 81 interventi noti, tra espliciti o sotto copertura, in politica internazionale durante il periodo 1946-2000. Successivamente alla seconda guerra mondiale, il governo degli Stati Uniti ha organizzato operazioni per favorire cambi di regime, nel contesto della guerra fredda, per contendersi l'influenza e la leadership a livello globale con l'Unione Sovietica.

Operazioni significative comprendono il colpo di Stato iraniano del 1953 (operazione Ajax) orchestrato da Stati Uniti e Regno Unito, l'invasione della baia dei Porci del 1961 contro Cuba, il favoreggiamento del genocidio indonesiano e il sostegno alla "guerra sporca" argentina, oltre all'area tradizionale delle operazioni degli Stati Uniti, quali l'America centrale e i Caraibi. Inoltre, gli Stati Uniti hanno interferito nelle elezioni nazionali di molti paesi, tra cui il Giappone negli anni '50 e '60 per mantenere al potere il Partito Liberal Democratico di centro-destra utilizzando fondi segreti, nelle Filippine organizzando la campagna per la presidenza di Ramón Magsaysay nel 1953, in Libano per aiutare i partiti cristiani nelle elezioni del 1957 usando finanziamenti segreti, in Italia per favorire la Democrazia Cristiana in funzione anticomunista durante le elezioni politiche del 1948.

Verso la fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti nel 1945 ratificarono la Carta delle Nazioni Unite, la quale vincolava legalmente il governo degli Stati Uniti alle disposizioni della carta, compreso l'articolo 2 (paragrafo 4), che proibisce la minaccia o l'uso della forza nelle relazioni internazionali, tranne in circostanze molto limitate, pertanto qualsiasi rivendicazione legale avanzata per giustificare il cambio di regime da parte di una potenza straniera comporta un onere particolarmente pesante.

Interventi del XIX secolo

1846: Messico

Territorio ceduto agli Stati Uniti a seguito del trattato di Guadalupe Hidalgo

La guerra messicana-americana fu un conflitto armato tra gli Stati Uniti d'America e il Messico dal 1846 al 1848 sulla scia dell'annessione americana del 1845 del Texas, che il Messico considerava parte del suo territorio nonostante la rivoluzione del Texas del 1836.

Le forze statunitensi occuparono il Nuovo Messico e la California, poi invasero parti del Messico nord-orientale e del Messico nord-occidentale; Un'altra armata statunitense conquistò Città del Messico e la guerra finì con la vittoria degli Stati Uniti. Il trattato di Guadalupe Hidalgo specificò la principale conseguenza della guerra: la forzata cessione messicana dei territori di Alta California e Nuovo Messico agli Stati Uniti in cambio di 18 milioni di dollari. Il Messico accettò la perdita del Texas e in seguito definì il Rio Grande come confine nazionale.

1887-1889: Samoa

La crisi samoana fu uno scontro tra Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna dal 1887 al 1889, con le potenze che sostenevano i rivali al trono delle Isole Samoa durante la guerra civile samoana. La seconda guerra civile di Samoa seguì nel 1898, coinvolgendo gli Stati Uniti (che appoggiarono il re in carica) e la Germania, che si concluse, attraverso la Convenzione tripartita del 1899, con la divisione delle Isole Samoa nelle Samoa Americane e Samoa tedesche.

1893-1917: impero ed espansionismo degli Stati Uniti

1890

1893: Regno delle Hawaii

Elementi anti-monarchici, per lo più statunitensi, progettarono il rovesciamento del Regno delle Hawaii. Il 17 gennaio 1893, la regina nativa Liliuokalani fu deposta. Le Hawaii furono inizialmente ricostituite come repubblica indipendente, ma il fine ultimo dell'azione fu l'annessione delle isole agli Stati Uniti, che fu infine completata nel 1898.

1898: Cuba e Porto Rico

Come parte della guerra ispano-americana, gli Stati Uniti invasero e occuparono la Cuba e Porto Rico nel 1898, entrambe governate dalla Spagna. Cuba fu occupata dagli Stati Uniti dal 1898 al 1902 sotto il governatore militare Leonard Wood, e ancora dal 1906 al 1909, nel 1912 e dal 1917 al 1922; governata dai termini dell'emendamento Platt fino al 1934.

La campagna portoricana fu un'operazione militare e marittima statunitense nell'isola di Porto Rico durante la guerra ispano-americana. La Marina degli Stati Uniti ha attaccato la capitale coloniale dell'arcipelago, San Juan. Sebbene il danno inflitto alla città fosse minimo, gli statunitensi furono in grado di stabilire un blocco nel porto della città, la Baia di San Juan. L'offensiva di terra iniziò il 25 luglio con 1.300 soldati di fanteria. Tutte le azioni militari a Porto Rico sono state sospese il 13 agosto, dopo che il presidente degli Stati Uniti William McKinley e l'ambasciatore francese Jules Cambon, agendo per conto del governo spagnolo, firmarono un armistizio con cui la Spagna rinunciava alla sovranità sui territori di Porto Rico, Cuba, le Filippine e Guam.

1899: Filippine

La guerra filippino-americana faceva parte di una serie di conflitti nella lotta filippina per l'indipendenza contro l'occupazione degli Stati Uniti. I combattimenti scoppiarono tra le forze rivoluzionarie filippine e le truppe statunitensi il 4 febbraio 1899 e rapidamente degenerarono nella battaglia di Manila del 1899. Il 2 giugno 1899, la Prima Repubblica delle Filippine dichiarò ufficialmente guerra agli Stati Uniti. La guerra terminò ufficialmente il 4 luglio 1902. Questo intervento degli Stati Uniti aveva lo scopo di prevenire il cambio di regime e mantenere il controllo degli Stati Uniti sulle Filippine.

1898-1901: Cina

La ribellione dei Boxer fu un movimento proto-nazionalista in Cina tra il 1898 e il 1901, così chiamato perché era guidato da combattenti, definiti "pugili della giustizia e della concordia". Gli Stati Uniti facevano parte dell'Alleanza delle otto nazioni che portò 20.000 soldati armati in Cina, sconfisse l'esercito imperiale cinese e catturò Pechino. L'Alleanza delle otto nazioni era una coalizione militare formata per sconfiggere la ribellione, e le otto nazioni, oltre agli Stati Uniti, erano Giappone, Impero russo, Gran Bretagna, Francia, Germania, Regno d'Italia e Impero austro-ungarico. Il protocollo dei Boxer del 7 settembre 1901 pose fine alla rivolta. Questo intervento non ha comportato un cambio di regime in Cina.

1900

1903: Panama

Nel 1903, gli Stati Uniti aiutarono la secessione di Panama dalla Repubblica di Colombia. La secessione fu progettata da una fazione panamense sostenuta dalla Panama Canal Company, una società franco-americana il cui scopo era la costruzione di un corso d'acqua attraverso l'Istmo di Panama, per collegare così l'Oceano Atlantico e Pacifico. Nel 1903, gli Stati Uniti firmarono il trattato di Hay-Herrán con la Colombia, concedendo agli Stati Uniti l'uso dell'Istmo di Panama in cambio di un compenso economico. tra la guerra dei mille giorni. Il Canale di Panama era già in costruzione e la Zona del Canale di Panama fu scavata e posta sotto la sovranità degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno riconsegnato la zona a Panama solo nel 2000.

1900-1920: Honduras

In quella che divenne nota come "guerre della banana", tra la fine della guerra ispano-americana nel 1898 e l'inizio della politica di buon vicinato nel 1934, gli Stati Uniti organizzarono molte invasioni e interventi militari in America centrale e nei Caraibi. I Marines statunitensi, che più spesso combatterono queste guerre, nel 1921 svilupparono un manuale intitolato "Small Wars Manual" basato sulle sue esperienze. Occasionalmente, la Marina statunitense ha fornito supporto di fuoco e venivano impiegate truppe dell'esercito. La United Fruit Company e la Standard Fruit Company dominavano nel settore dell'esportazione delle banane in Honduras e avevano i maggiori possedimenti di terra e ferrovie associate. Gli Stati Uniti organizzarono invasioni e incursioni di truppe statunitensi nel 1903 (sostenendo un colpo di Stato di Manuel Bonilla), nel 1907 (sostenendo Bonilla contro un colpo di Stato appoggiato dal Nicaragua), nel 1911 e nel 1912 (difendendo il regime di Miguel R. Davila da una rivolta), nel 1919 (per mantenere la pace durante la guerra civile e installare il governo provvisorio di Francisco Bográn), nel 1920 (in difesa del regime di Bográn da uno sciopero generale), nel 1924 (in difesa del regime di Rafael López Gutiérrez da una rivolta) e nel 1925 (in difesa del governo eletto di Miguel Paz Barahona) per difendere gli interessi degli Stati Uniti. Lo scrittore O. Henry coniò l'espressione "repubblica delle banane" nel 1904 per descrivere l'Honduras.

1910

1912-1933: Nicaragua

Il governo degli Stati Uniti ha invaso il Nicaragua nel 1912 dopo atterraggi militari statunitensi e bombardamenti navali nei decenni precedenti. Gli Stati Uniti hanno fornito supporto politico alle forze a guida conservatrice che si ribellavano contro il presidente José Santos Zelaya, di orientamento liberale. I motivi dell'intervento degli Stati Uniti includevano il disaccordo con il progetto del Canale del Nicaragua proposto, dal momento che gli Stati Uniti controllavano la Zona del Canale di Panama, che comprendeva il Canale di Panama, e i tentativi del presidente Zelaya di regolamentare l'accesso degli stranieri alle risorse naturali del Nicaragua. Il 17 novembre 1909, due statunitensi furono giustiziati per ordine di Zelaya dopo che confessarono di aver posato una mina nel fiume San Juan con l'intenzione di far esplodere il Diamante. Gli Stati Uniti hanno giustificato l'intervento sostenendo di voler proteggere vite e le proprietà statunitensi. Zelaya si dimise più tardi quello stesso anno. Gli Stati Uniti occuparono il paese quasi ininterrottamente dal 1912 al 1933.

1914: Messico

Le truppe statunitensi invasero Veracruz in Messico nel 1914 in seguito al caso Tampico. Gli Stati Uniti occuparono la città per sei mesi.

1915-1934: Haiti

L'occupazione statunitense di Haiti si verifica dal 1915 al 1934. Le banche statunitensi avevano prestato denaro ad Haiti e richiesto l'intervento del governo degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti installarono un governo fantoccio nel 1917 e dettarono i termini di una nuova costituzione haitiana nel 1917 che istituì cambiamenti che includevano la fine del divieto precedente di proprietà terriera da parte di non haitiani. I Cacos (gruppo militare) erano originariamente milizie armate di persone precedentemente schiavizzate che si ribellarono e presero il controllo delle aree montuose dopo la rivoluzione haitiana nel 1804. Tali gruppi combatterono una guerriglia contro l'occupazione statunitense in quelle che sono conosciute come le "guerre dei Cacos".

1916-1924: Repubblica Dominicana

I marines statunitensi invasero la Repubblica Dominicana e la occuparono dal 1916 al 1924, e questo fu preceduto da interventi militari statunitensi nel 1903, 1904 e 1914. La Marina degli Stati Uniti installò il suo personale in tutte le posizioni chiave nel governo e controllò l'esercito e la polizia dominicani. Dopo due giorni, il presidente costituzionale, Juan Isidro Jimenes, si dimise.

La prima guerra mondiale e il periodo tra le due guerre

1918: Russia

Dopo la Rivoluzione d'ottobre e il ritiro dalla prima guerra mondiale del nuovo governo bolscevico, l'esercito statunitense insieme alle forze armate dei suoi alleati invase la Russia nel 1918. Circa 250.000 soldati, tra cui truppe dall'Europa, dagli Stati Uniti e dall'Impero giapponese invasero la Russia per aiutare l'Armata Bianca contro l'Armata Rossa del nuovo governo sovietico nella guerra civile russa. Le truppe occuparono parte della Russia del Nord da Arcangelo e occuparono parte della Siberia da Vladivostok. Le forze d'invasione includevano 13.000 truppe statunitensi la cui missione, dopo la fine della prima guerra mondiale, era il rovesciamento del nuovo governo sovietico e il ripristino del precedente regime zarista. Gli Stati Uniti e altre forze occidentali non riuscirono nel loro intento e si ritirarono nel 1920, anche se i militari giapponesi continuarono a occupare parte della Siberia fino al 1922 e la metà settentrionale di Sachalin fino al 1925.

1941: Panama

Il governo degli Stati Uniti utilizzò i propri contatti con la Guardia nazionale di Panama, che gli Stati Uniti avevano precedentemente addestrato, per orchestrare un colpo di Stato contro il governo di Panama nell'ottobre 1941. Gli Stati Uniti avevano chiesto di costruire oltre 130 nuove installazioni militari all'interno e all'esterno della Zona del Canale di Panama, ma il governo di Panama rifiutò questa richiesta al prezzo offerto. Il presidente Arnulfo Arias fuggì dal paese e Ricardo Adolfo de la Guardia Arango, autore del colpo di Stato e amico del governo degli Stati Uniti, divenne presidente.

Periodo della guerra fredda

1940

1945-1950: Corea del Sud

Mentre l'Impero del Giappone si arrese nell'agosto del 1945, sotto la guida dei comitati di Lyuh Woon-Hyung in tutta la Corea si organizzava la transizione per l'indipendenza coreana. Il 28 agosto 1945 questi comitati formarono il governo nazionale provvisorio della Corea, rinominandola Repubblica popolare di Corea (PRK) un paio di settimane più tardi. L'8 settembre 1945, il governo degli Stati Uniti invase la Corea e successivamente stabilì il Governo militare dell'esercito degli Stati Uniti in Corea (USAMGK) per governare la Corea a sud del 38º parallelo Nord. L'USAMGK era un'amministrazione governativa insieme ai governatori giapponesi e molti altri funzionari giapponesi che avevano fatto parte del brutale governo coloniale imperiale giapponese e con i coreani che avevano collaborato con esso (Chinilpa), cosa che rese il governo impopolare e generò una forte resistenza popolare. L'USAMGK rifiutò di riconoscere il governo PRK, che era stato costituito per autogestire il paese, e il governo provvisorio della Repubblica di Corea, che aveva sede in Cina durante la seconda guerra mondiale e aveva combattuto contro i giapponesi, infine l'USAMGK dichiarò fuorilegge il governo della PRK. Nell'ottobre del 1948, il presidente e dittatore della Corea del Sud Syngman Rhee inviò unità militari per attaccare i comunisti o presunti tali che si opponevano alla divisione della Corea, e compì diverse atrocità di massa, tra cui l'uccisione di decine di migliaia di civili coreani sull'Isola di Jeju, sospettati di supportare la resistenza.

Nel 1952, il Joint Chiefs of Staff condussero il generale Mark Clark a formulare un piano per rovesciare il presidente sudcoreano Syngman Rhee, temendo che la crisi politica derivante dal suo comportamento autoritario avrebbe messo a repentaglio gli obiettivi militari. L'operazione Everready, come fu chiamato il piano, fu accantonata una volta che Rhee cedette alle pressioni statunitensi e liberò i leader dell'opposizione arrestati. Il piano fu ripreso in considerazione nel 1953 quando si temeva che Rhee non avrebbe accettato l'Armistizio di Panmunjeom.

1946-1949: Cina

Il governo degli Stati Uniti fornì aiuti militari, logistici e di altro tipo al Kuomintang (KMT), l'armata del partito nazionalista cinese di destra guidata da Chiang Kai-shek, nella guerra civile cinese contro le forze del Partito Comunista Cinese. Gli Stati Uniti trasportarono via aerea molte truppe del KMT dalla Cina centrale alla Manciuria. Circa 50.000 soldati statunitensi furono inviati per proteggere i siti strategici di Hupeh e Shandong. Le truppe del KMT addestrate e equipaggiate negli Stati Uniti trasportano truppe coreane e persino le truppe giapponesi imperiali nemiche per aiutare le forze del KMT ad occupare zone cinesi e contenere l'avanzata dei comunisti. Il presidente Harry Truman spiegò: «Era perfettamente chiaro per noi che se avessimo detto ai giapponesi di deporre le armi immediatamente e marciare verso la costa, l'intero paese sarebbe stato preso dai comunisti. Dovevamo quindi prendere l'insolita mossa di usare il nemico come presidio finché non avremmo potuto trasportare le truppe nazionali cinesi nella Cina meridionale e inviare marines per proteggere i porti marittimi». A meno di due anni dalla guerra sino-giapponese, il KMT aveva ricevuto 4,43 miliardi di dollari dagli Stati Uniti, la maggior parte dei quali erano aiuti militari.

1946-1949: Grecia

I militari britannici insieme alle forze greche sotto il controllo del governo greco combatterono per il controllo del paese nella guerra civile greca contro l'Esercito Democratico Greco (EDC). L'EDC era composto principalmente da partigiani comunisti che, come parte dell'Esercito popolare greco di liberazione (EPGL) nell'estate del 1944, aveva liberato quasi tutto il paese dall'occupazione militare della Germania nazista. All'inizio del 1947, il governo britannico non poteva più permettersi l'enorme costo di finanziare la guerra contro l'EDC e, in base all'accordo delle percentuali dell'ottobre 1944 tra Winston Churchill e Iosif Stalin, la Grecia doveva rimanere parte della sfera d'influenza occidentale. Di conseguenza, gli inglesi chiesero al governo degli Stati Uniti di intervenire e questi ultimi fornirono il paese di attrezzature militari, consiglieri militari e armi. Con l'aumento degli aiuti militari statunitensi, nel settembre del 1949 il governo greco alla fine riuscì a vincere contro i comunisti

1946-1954: Filippine

Gli Stati Uniti aiutarono a sconfiggere la rivolta contadina filocomunista chiamata ribellione Hukbalahap o ribellione Huk.

1952: Egitto

Il progetto FF ("Fat Fucker") fu un programma della Central Intelligence Agency inizialmente progettato per modernizzare il Regno d'Egitto sotto Fārūq I, portando il paese nella sfera anti-sovietica, tuttavia, la riluttanza del re a conformarsi ha portato Kermit Roosevelt Jr. a sostenere gli sforzi per sostituire completamente il regime. Dopo aver sentito voci di malcontento all'interno dell'esercito egiziano, Roosevelt incontrò i leader del movimento nazionalista anticomunista degli Ufficiali Liberi, in particolare il futuro presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, e li informò del sostegno statunitense al loro imminente colpo di Stato. Il 23 luglio 1952, il movimento degli Ufficiali Liberi rovesciò la monarchia con la rivoluzione egiziana e stabilì la Repubblica araba d'Egitto.

1947-1970: Italia

Nel 1947 la Democrazia Cristiana (DC) guidata da Alcide De Gasperi, sostenuta dagli Stati Uniti, perdeva popolarità e il Partito Comunista Italiano (PCI) cresceva con forza grazie al suo sostegno alle lotte dei contadini di Sicilia, Toscana e Umbria, movimenti sostenuti dalle riforme di Fausto Gullo, comunista e ministro dell'Agricoltura. La DC tramò l'espulsione di tutti i ministri comunisti dal governo il 31 maggio: il PCI non avrebbe più avuto rappresentanza nazionale nel governo per almeno vent'anni. De Gasperi agì sotto la pressione del segretario di Stato statunitense George Marshall, che lo avvertì che l'anticomunismo era uno dei requisiti per ricevere aiuti statunitensi, e l'ambasciatore James Clement Dunn chiese direttamente al presidente del Consiglio di sciogliere il parlamento e bandire il PCI.

Alcuni documenti statunitensi declassificati testimoniano come la Central Intelligence Agency (CIA) abbia fornito supporto economico ed equipaggiamento militare ai partiti centristi italiani per le elezioni politiche italiane del 1948, come testimonia anche F. Mark Wyatt, ex agente della CIA. In caso di vittoria dei comunisti alle elezioni, la CIA indicava di impedirgli l'accesso al potere tramite la falsificazione dei risultati elettorali o con la forza. La CIA pubblicò anche lettere false per screditare i leader del Partito Comunista Italiano. Le agenzie degli Stati Uniti intrapresero una campagna di scrittura di almeno dieci milioni di lettere, fecero numerose trasmissioni radiofoniche a onde corte e finanziarono la pubblicazione di libri e articoli, che mettevano in guardia gli italiani dalle conseguenze di una vittoria comunista. La rivista Time sostenne la medesima campagna, ma per il pubblico statunitense, con il leader del Partito della Democrazia Cristiana e primo ministro Alcide De Gasperi in copertina il 19 aprile 1948

Nel frattempo gli Stati Uniti convinsero segretamente il Partito Laburista inglese a fare pressioni sui socialdemocratici per porre fine al loro sostegno al PCI e promuovere una spaccatura devastante nel Partito Socialista Italiano.

La CIA spese almeno 65 milioni di dollari per aiutare a eleggere politici italiani, tra cui ogni politico della DC che abbia mai vinto un'elezione nazionale in Italia. I servizi segreti statunitensi si oppongono alla desecretazione completa di tutti i documenti segreti sull'influenzamento delle elezioni italiane del 1948.

Gli Stati Uniti ebbero un ruolo chiave anche nel corso del cosiddetto golpe Borghese del 1970, durante il quale formazioni di estrema destra facenti capo al Fronte Nazionale programmarono un colpo di Stato che fu tuttavia annullato dallo stesso Junio Valerio Borghese mentre era in corso di esecuzione, per motivi mai chiariti. Borghese in seguitò riparò in Spagna dove morì quattro anni dopo. Analisi successive sostennero che il golpe sarebbe stato ideato come pretesto per consentire al governo democristiano di emanare leggi speciali nel contesto della cosiddetta strategia della tensione.

1949: Siria

Il governo democraticamente eletto di Shukri al-Quwwatli fu rovesciato da una giunta guidata dal capo dello stato maggiore dell'esercito siriano all'epoca, Husni al-Za'im, che divenne presidente della Siria l'11 aprile 1949. La CIA organizzò una campagna per delegittimare il governo e giustificare il colpo di Stato. Quattro giorni dopo il governo siriano ratificò l'accordo per il progetto del gasdotto Trans-Arabian Pipeline

1950

1953: Iran

Il colpo di Stato iraniano del 1953 fu il rovesciamento del governo democraticamente eletto del primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq il 19 agosto 1953, orchestrato dalle agenzie di intelligence del Regno Unito (sotto il nome di "operazione Boot") e dagli Stati Uniti ("operazione Ajax"). Il colpo di Stato vide la transizione di Mohammad Reza Pahlavi da monarca costituzionale ad autoritario che molto si affidò al sostegno degli Stati Uniti per restare al potere fino alla caduta nel febbraio 1979, con la rivoluzione iraniana.

1954: Guatemala

Con l'operazione PBSUCCESS della CIA, il governo statunitense eseguì un colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto del presidente Jacobo Árbenz e installò Carlos Castillo Armas, il primo di una serie di brutali dittatori di destra. Il successo dell'operazione ne fece un modello per le future operazioni della CIA.

1955-1960: Laos

Il governo degli Stati Uniti finanziò il bilancio militare del governo del Royal Lao nella guerra civile contro il movimento comunista Pathet Lao, che aveva preso il controllo di una parte del paese. Gli Stati Uniti pagarono il 100% del bilancio militare del governo e nel 1957 pagarono gli stipendi dell'Armée royale du Laos. Gli Stati Uniti schierarono personale civile statunitense con esperienza militare nonostante avesse firmato un trattato che vietava espressamente l'impiego di consulenti militari statunitensi. Nel luglio 1959, gli Stati Uniti inviarono dei commando vestiti da civili per addestrare l'Armée royale du Laos, questi interventi non comportarono cambiamenti di regime.

1956-1957: Siria

1956 operazione Straggle: fallito colpo di Stato in Siria. La CIA pianificò un colpo di Stato per la fine di ottobre 1956 per rovesciare il governo siriano. Il piano prevedeva l'occupazione da parte dell'esercito siriano di città chiave e valichi di frontiera. Esso fu rinviato quando Israele invase l'Egitto nell'ottobre del 1956 e gli statunitensi pensarono che la loro operazione non avrebbe avuto successo in un momento in cui il mondo arabo stava combattendo Israele. L'operazione fu scoperta e i cospiratori statunitensi dovettero fuggire dal paese.

1957 operazione Wappen: fallito colpo di Stato in Siria. Un secondo tentativo di colpo di Stato, orchestrato l'anno seguente, prevedeva l'assassinio di alti funzionari siriani, la messa in scena di incidenti militari sul confine siriano per incolpare la Siria e poi essere usati come pretesto per l'invasione da parte delle truppe irachene e giordane, un'intensa campagna di propaganda statunitense indirizzata verso la popolazione siriana, sabotaggi e azioni per poi incolpare il governo siriano. Questa operazione fallì quando gli ufficiali militari siriani, collegati col piano, pagarono con milioni di dollari in tangenti per effettuare il colpo di Stato, rivelando così la trama all'intelligence siriana. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America negò l'accusa di aver tramato il tentativo di colpo di Stato e insieme ai media statunitensi accusò la Siria di essere un "satellite" dell'Unione Sovietica.

1957-1959: Indonesia

Come membro fondatore del Movimento dei paesi non allineati e ospite della conferenza di Bandung dell'aprile 1955, l'Indonesia si avviava verso una politica estera indipendente, non impegnata militarmente in nessuna delle due parti nella guerra fredda. A partire dal 1957, la CIA organizzò un golpe da parte di ufficiali militari indonesiani ribelli, fallendo. I piloti della CIA, come Allen Lawrence Pope, guidarono aerei della Civil Air Transport (CAT), una compagnia aerea manovrata segretamente dalla CIA, i quali bombardarono obiettivi civili e militari in Indonesia. La CIA ordinò ai piloti CAT di prendere di mira le navi mercantili al fine di spaventare quelle straniere lontane dalle acque indonesiane, indebolendo così l'economia indonesiana e quindi destabilizzando il governo democraticamente eletto dell'Indonesia. Il bombardamento aereo della CIA provocò l'affondamento di diverse navi commerciali e il bombardamento di un mercato, in cui rimasero uccisi molti civili. Il tentativo di colpo di Stato fallì in quel momento e il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower negò qualsiasi coinvolgimento del suo paese.

1958: Libano

Gli Stati Uniti lanciarono l'operazione Blue Bat nel luglio 1958 per intervenire nella crisi libanese del 1958: fu la prima applicazione della dottrina Eisenhower, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano intervenire per proteggere i regimi considerati minacciati dal comunismo internazionale. L'obiettivo dell'operazione era di impedire il rovesciamento del governo libanese filo-occidentale del presidente Camille Chamoun da parte dell'opposizione comunista. Le forze armate statunitensi furono dispiegate sul territorio e i ribelli cessarono le attività. Chamoun venne comunque deposto e venne eletto il Fu'ad Shihab, alla nomina di un governo di riconciliazione nazionale.

1960

1960: Repubblica Democratica del Congo

Nel gennaio del 1961, il primo primo ministro della Repubblica del Congo Patrice Lumumba, democraticamente eletto e filocomunista, finì nel mirino della CIA, la quale orchestrò un piano per assassinarlo. L'amministrazione Eisenhower si impegnò per l'elezione di forze politiche anticomuniste e fedeli agli Stati Uniti, convogliandogli finanziamenti segreti e organizzando manifestazioni di massa che avrebbero portato alla fine Mobutu Sese Seko a compiere un colpo di Stato nel 1960 per spodestare Lumumba, il quale venne arrestato dalle truppe golpiste, poi fucilato, fatto a pezzi e sciolto nell'acido con il supporto di agenti statunitensi e militari belgi. Nel 1965 la CIA appoggiò anche il successivo colpo di Stato di Mobutu contro il presidente Joseph Kasa-Vubu, il quale instaurò un regime totalitario durato fino al 1997.

1960: Laos

Il 9 agosto 1960, il capitano Kong Le con il suo battaglione paracadutista prese controllo della capitale amministrativa di Vientiane, con l'intento di porre fine alla guerra civile in Laos, alle interferenze straniere nel paese, alla corruzione causata dagli aiuti stranieri e per migliorare trattamento per i soldati. Con il sostegno della CIA, il maresciallo di campo Sarit Thanarat, primo ministro della Thailandia, istituì un gruppo consultivo militare segreto tailandese chiamato Kaw Taw (KT), che insieme alla CIA orchestrò un contro colpo di Stato nel novembre 1960 contro il nuovo governo a Vientiane, fornendo artiglieria, artiglieri e consulenti al generale Phoumi Nosavan, cugino di primo grado di Sarit. Gli Stati Uniti schierarono anche il Police Aerial Reinforcement Unit (PARU), sponsorizzato dalla CIA, durante le operazioni all'interno del Laos. Con gli aiuti militari di vario tipo, trasportati per via aerea dalla CIA, le forze del generale Phoumi Nosavan catturarono Vientiane nel novembre del 1960.

1961: Repubblica Dominicana

Trujillo su un francobollo del 1933

Nel maggio del 1961, il dittatore della Repubblica Dominicana Rafael Leónidas Trujillo fu assassinato con armi fornite dalla Central Intelligence Agency (CIA) degli Stati Uniti. Un memorandum interno della CIA afferma che un'indagine dell'Ufficio generale ispettore del 1973 sull'omicidio rivelò "un ampio coinvolgimento dell'agenzia con i cospiratori". La CIA descrisse il proprio ruolo nel "cambiare" il governo della Repubblica Dominicana come un "successo", in quanto ha contribuito a trasformare la Repubblica Dominicana da una dittatura totalitaria a una democrazia di stampo occidentale". Juan Bosch, uno dei primi beneficiari dei finanziamenti della CIA, fu eletto presidente della Repubblica Dominicana nel 1962 e fu deposto nel 1963.

1961: Cuba, Baia dei Porci

La CIA organizzò e addestrò le forze controrivoluzionarie composte da esuli cubani per invadere Cuba con il sostegno e l'equipaggiamento delle forze armate statunitensi, nel tentativo di rovesciare il governo cubano di Fidel Castro. L'invasione della baia dei Porci fu lanciata nell'aprile del 1961, tre mesi dopo l'insediamento di John Fitzgerald Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti. Le forze armate cubane, addestrate e equipaggiate dalle nazioni del blocco sovietico, sconfissero i combattenti invasori in tre giorni.

1960: Cuba

L'operazione Mongoose fu un programma di lunga durata del governo degli Stati Uniti per rovesciare il governo di Cuba. L'operazione comprendeva la guerra economica, l'embargo, affinché il governo comunista non riuscisse a fornire beni alla popolazione, un'iniziativa diplomatica per isolare Cuba e guerra psicologica "per trasformare il risentimento della popolazione sempre più contro il regime". La guerra economica dell'operazione includeva anche l'infiltrazione di agenti della CIA per compiere atti di sabotaggio contro obiettivi civili, come per esempio ponti ferroviari, un deposito di melassa, una centrale elettrica o il raccolto di zucchero, nonostante le ripetute richieste di Cuba al governo degli Stati Uniti di cessare le sue operazioni armate. Inoltre, la CIA ha orchestrato numerosi tentativi di assassinio contro Fidel Castro, compresi alcuni in collaborazione tra CIA e Cosa nostra statunitense.

1961-1964: Brasile

Alla dimissione del presidente del Brasile nell'agosto 1961, fu succeduto da João Belchior Marques Goulart, il vicepresidente del paese eletto democraticamente, sostenitore dei diritti democratici, della legalizzazione del Partito comunista e a favore delle riforme economiche e agrarie, ma il governo degli Stati Uniti insistette affinché imponesse un programma di austerità economica. Il governo degli Stati Uniti organizzò l'operazione Fratello Sam per la destabilizzazione del Brasile, tagliando gli aiuti al governo brasiliano, fornendo aiuti ai governatori statali del Brasile che si opponevano al nuovo presidente e incoraggiando alti ufficiali militari brasiliani a prendere il potere e sostenere il capo dello stato maggiore generale Humberto de Alencar Castelo Branco. Il generale Branco guidò il rovesciamento del governo costituzionale del presidente João Goulart nell'aprile del 1964 e fu installato come primo presidente del regime militare, dichiarando immediatamente uno stato di assedio e arrestando oltre 50.000 oppositori politici nel primo mese di presa del potere, mentre il governo degli Stati Uniti espresse approvazione verso il nuovo governo e reintrodusse aiuti e investimenti in Brasile.

1963: Iraq

Dopo il colpo di Stato in Iraq del febbraio 1963, che portò alla formazione di un governo baathista gli Stati Uniti offrirono sostegno materiale al nuovo governo, nonostante la sanguinosa epurazione anticomunista e le atrocità irachene contro ribelli e civili curdi. Per questo, afferma Nathan Citino: «Sebbene gli Stati Uniti non abbiano dato il via al colpo di Stato, nel migliore dei casi lo hanno avallato e nel peggiore dei casi ha contribuito alla violenza che ne è seguita». Il governo baathista crollò nel novembre 1963 sulla questione dell'unificazione con la Siria (dove un ramo rivale del partito Baath aveva preso il potere a marzo). Ci fu una grande discussione accademica sulle accuse del re Husayn di Giordania che indicava nella CIA (o altre agenzie statunitensi) chi fornì al governo baathista elenchi di comunisti e di altri esponenti di sinistra, che sono furono poi arrestati o uccisi dai milizia del partito Ba'ath, la guardia nazionale. Citino considera le accuse plausibili perché l'ambasciata USA in Iraq aveva effettivamente compilato tali elenchi e perché i membri della Guardia Nazionale irachena coinvolti nella purga erano stati addestrati negli Stati Uniti.

1963: Vietnam

Sebbene gli Stati Uniti fossero alleati del Vietnam del Sud durante la guerra del Vietnam, l'amministrazione Kennedy tramava contro il presidente Ngô Đình Diệm, alla luce del suo rifiuto di adottare alcune riforme politiche. Gli Stati Uniti ordinarono quindi al proprio ambasciatore nel Vietnam del Sud, Henry Cabot Lodge Jr., di "esaminare le possibili alternative di leadership e fare piani dettagliati su come poter sostituire Diem". Lodge e Lucien Conein, stabilirono contatti con i membri dell'Esercito della Repubblica del Vietnam e li incitarono a rovesciare Diem. Questi sforzi culminarono in un colpo di Stato il 2 novembre 1963, durante il quale Diem e suo fratello furono assassinati.

I Pentagon Papers riportano: «Dall'agosto del 1963 abbiamo autorizzato, sanzionato e incoraggiato in modo diverso gli sforzi per il colpo di Stato dei generali vietnamiti e offerto pieno sostegno a un governo successore. A ottobre abbiamo tagliato gli aiuti a Diem con un rifiuto diretto, dando luce verde ai generali. Abbiamo mantenuto contatti clandestini con loro durante la pianificazione e l'esecuzione del colpo di Stato e abbiamo cercato di rivedere i loro piani operativi e proposto un nuovo governo».

1965-66: Repubblica Dominicana

Nella guerra civile dominicana, una giunta guidata dal presidente Joseph Donald Reid Cabral stava combattendo le forze "costituzionaliste" o "ribelli" che sostenevano il ripristino del potere del primo presidente democraticamente eletto della Repubblica Dominicana, il presidente Juan Bosch, il cui mandato era interrotto da un colpo di Stato. Gli Stati Uniti lanciarono la "Operation Power Pack", un'operazione militare per interporre l'esercito USA tra i ribelli e le forze della giunta in modo da impedire l'avanzata dei ribelli e la loro vittoria. La maggior parte dei consulenti statunitensi aveva sconsigliato l'intervento militare, nella speranza che la giunta potesse porre fine alla guerra civile, ma il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson ritenne di ascoltare il consiglio del suo ambasciatore in Santo Domingo, William Tapley Bennett, il quale suggerì l'intervento statunitense. Il capo di stato maggiore, il generale Wheeler disse ad un subordinato: «La tua missione è impedire che la Repubblica Dominicana diventi comunista». Una flotta di 41 navi statunitensi fu inviata per bloccare l'isola mentre gli Stati Uniti procedevano con l'invasione. Un totale di 42.000 soldati e marines statunitensi occuparono la Repubblica Dominicana.

1965-1967: Indonesia

Diversi ufficiali dell'esercito e il comandante della guardia del palazzo del presidente Sukarno accusarono un capo militare indonesiano di pianificare un colpo di Stato appoggiato dalla CIA contro il presidente Sukarno e uccisero sei generali il 1º ottobre 1965. Il generale Suharto e altri alti ufficiali dell'esercito attaccarono gli ufficiali lo stesso giorno e accusarono il Partito Comunista Indonesiano (PKI) di aver orchestrato l'uccisione dei sei generali. L'esercito lanciò una campagna di propaganda basata su menzogne, scatenando i civili contro coloro che - a loro dire - sostenevano il PKI e altri oppositori politici. Le forze governative indonesiane, con la collaborazione di alcuni civili, hanno perpetrato uccisioni di massa per molti mesi. La CIA ha riconosciuto che "in termini di numero di persone uccise, i massacri anti-PCI in Indonesia sono considerati uno dei peggiori omicidi di massa del XX secolo". Le stime sul numero di civili uccisi vanno da mezzo milione a 1 milione ma stime più recenti riportano la cifra a 2-3 milioni. L'ambasciatore statunitense Marshall Green incoraggiò i leader militari ad agire con forza contro gli oppositori politici. Nel 2017, documenti declassificati dall'ambasciata statunitense a Giacarta hanno confermato che gli Stati Uniti avevano una conoscenza approfondita e dettagliata delle uccisioni di massa e le hanno attivamente facilitate e incoraggiate per i propri interessi nel paese. I diplomatici statunitensi hanno ammesso alla giornalista Kathy Kadane nel 1990 di aver fornito all'esercito indonesiano migliaia di nomi di presunti sostenitori del PKI e di altre persone presunte di sinistra, e che i funzionari degli Stati Uniti hanno quindi spuntato dai loro elenchi coloro che erano stati assassinati. La base di appoggio del presidente Sukarno fu in gran parte annientata, imprigionata e il resto terrorizzata, e così fu costretto a lasciare il potere nel 1967, sostituito da un regime militare autoritario guidato dal generale Suharto. Diversi studiosi definiscono le uccisioni di massa di questo periodo come genocidio indonesiano

1967: Grecia

Il 21 aprile 1967, poche settimane prima delle elezioni programmate, un gruppo di ufficiali dell'esercito di destra guidati dal generale di brigata Stylianos Pattakos e dai colonnelli Geōrgios Papadopoulos e Nikolaos Makarezos presero il potere in un colpo di Stato. I leader del colpo di Stato collocarono carri armati in posizioni strategiche ad Atene, ottenendo il controllo completo della città.

Allo stesso tempo, un gran numero di piccole unità militari sono state inviate per arrestare politici di primo piano, figure di spicco e cittadini comuni sospettati di simpatie di sinistra, secondo elenchi preparati in anticipo. Uno dei primi ad essere arrestato fu il tenente generale Grigorios Spandidakis, comandante in capo dell'esercito greco. I colonnelli convinsero Spandidakis a unirsi a loro, facendolo attivare in un piano d'azione per portare avanti il golpe. Alle prime ore del mattino, tutta la Grecia era nelle mani dei colonnelli. Tutti i principali politici, incluso il primo ministro in carica Panagiōtīs Kanellopoulos, erano stati arrestati dai cospiratori. Alle 6:00, Papadopoulos annunciò che erano stati sospesi undici articoli della costituzione greca.

La sinistra del fondatore del partito centrista Centre Union, Geōrgios Papandreou, fu arrestato dopo un'incursione notturna nella sua villa a Kastri, nell'Attica. Andreas Papandreou fu arrestato all'incirca nello stesso momento, dopo che sette soldati armati di baionette e una mitragliatrice entrarono con la forza nella sua casa. Papandreou fuggì dal tetto di casa sua, ma si arrese dopo che uno dei soldati mise la pistola alla testa del suo figlio quattordicenne George Papandreou. Gust Avrakotos, un ufficiale della CIA di alto rango in Grecia, che era vicino ai colonnelli, avrebbe consigliato loro di sparare "al figlio di puttana".

I critici statunitensi del colpo di Stato accusarono l'amministrazione Johnson di aver fornito aiuto a un "regime militare di collaboratori e simpatizzanti nazisti". Phillips Talbot, ambasciatore degli Stati Uniti ad Atene, disapprovò il colpo di Stato, lamentando che ciò rappresentava "uno stupro della democrazia", al quale John M. Maury, il capo della stazione della CIA ad Atene, rispose: "Come puoi stuprare una puttana?".

1970

1971: Bolivia

Il governo degli Stati Uniti sostenne il golpe del 1971 in Bolivia guidato dal generale Hugo Banzer, il quale rovesciò il presidente Juan José Torres. Torres aveva indispettito gli Stati Uniti d'America per aver convocato una "Asamblea del Pueblo" (Assemblea del Popolo), in cui persone di specifici settori proletari della società erano rappresentati (minatori, insegnanti sindacalizzati, studenti, contadini), e più in generale per aver messo il paese in quella che era percepita come una direzione di sinistra. Il 18 agosto 1971, Banzer con una sanguinosa insurrezione militare riuscì a prendere il controllo del paese il 22 agosto 1971. A quel punto gli Stati Uniti fornirono ampi aiuti, militari e di altro tipo, alla dittatura di Banzer mentre quest'ultimo reprimeva la libertà di dissenso, torturava migliaia di oppositori, uccideva e faceva sparire centinaia di persone, chiudeva sindacati e università. L'ex presidente Torres, che era fuggito dalla Bolivia, fu rapito e assassinato nel 1976 durante l'operazione Condor, la campagna di repressione politica e di terrorismo di stato dei dittatori di destra sudamericani, sostenuta dagli Stati Uniti.

1972-1975: Iraq

Gli Stati Uniti hanno fornito segretamente milioni di dollari per l'insurrezione curda sostenuta dall'Iran contro il governo iracheno. Il ruolo degli Stati Uniti era così segreto che persino il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America e il gruppo NSC 5412/2 degli Stati Uniti, creato per sorvegliare le operazioni segrete, non erano stati informati. Le truppe del Partito Democratico del Kurdistan erano guidate da Mustafa Barzani. In particolare, all'insaputa dei curdi, si trattava di un'azione segreta di cambio di regime che gli Stati Uniti volevano far fallire, intesa solo per logorare le risorse del paese. Gli Stati Uniti cessarono bruscamente il sostegno ai curdi nel 1975 e, nonostante le richieste di aiuto curde, rifiutarono di estendere persino gli aiuti umanitari alle migliaia di rifugiati curdi creati a seguito del crollo dell'insurrezione.

1973: Cile

Il presidente democraticamente eletto Salvador Allende venne rovesciato dalle forze armate cilene e dalla polizia nazionale. A seguito si verificò un lungo periodo di disordini sociali e politici tra il Congresso del Cile - dominato dalla destra - e Allende, così come la guerra economica condotta dal governo degli Stati Uniti. Come preludio al colpo di Stato, il capo dello staff dell'esercito cileno René Schneider, un generale dedito a preservare l'ordine costituzionale, fu assassinato nel 1970 durante un tentativo di rapimento fallito sostenuto dalla CIA. Il regime di Augusto Pinochet, salito al potere con il colpo di Stato, è noto per avere, secondo stime prudenti, fatto sparire almeno 3200 dissidenti politici (desaparecidos), imprigionati 30.000 (molti dei quali torturati) e costretto all'esilio circa 200.000 cileni. La CIA, attraverso il progetto FUBELT (noto anche come Track II), ha lavorato in segreto per progettare il colpo di Stato. Gli Stati Uniti inizialmente negarono qualsiasi coinvolgimento, tuttavia molti documenti rilevanti sono stati declassificati nei decenni successivi.

1979-1989: Afghanistan

Durante l'operazione Cyclone, il governo degli Stati Uniti fornì segretamente armi e finanziamenti a diversi signori della guerra e fazioni di guerriglieri jihadisti conosciuti come i Mujaheddin dell'Afghanistan che combattevano per rovesciare il governo della Repubblica Democratica dell'Afghanistan e le forze militari sovietiche che lo sostenevano. Attraverso l'Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan, gli Stati Uniti hanno addestrameto, armato e finanziato i combattenti afghani, compresi jihadisti che in seguito divennero noti come "talebani", e reclutato almeno 35.000 combattenti stranieri arabi per un costo stimato di 800 milioni di dollari. Anche gli arabi afghani "hanno beneficiato indirettamente dei finanziamenti della CIA, attraverso l'ISI e le organizzazioni della resistenza". Alcuni dei maggiori beneficiari afghani della CIA erano comandanti arabi come Jalaluddin Haqqani e Gulbuddin Hekmatyar che furono alleati chiave di Osama Bin Laden per molti anni. I militanti finanziati dalla CIA probabilmente ingrossarono le fila di Al Qaida in seguito, anche se alcuni giornalisti non ritengono veritiera questa asserzione. L'operazione Cyclone terminò ufficialmente nel 1989 con il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, il finanziamento per i Mujahideen, da parte del governo degli Stati Uniti, continuò comunque fino al 1992, fino a quando i Mujahideen invasero il governo afgano a Kabul.

1980

1980-1989: Polonia

A differenza dell'amministrazione Carter, la dottrina Reagan sosteneva il sindacato cattolico Solidarność in Polonia e, grazie all'intelligence della CIA, intraprese una campagna di pubbliche relazioni per scoraggiare ciò che l'amministrazione Carter riteneva essere "una mossa imminente da parte delle grandi forze militari sovietiche in Polonia". Il colonnello Ryszard Kukliński, alto funzionario dello stato maggiore polacco inviava segretamente rapporti alla CIA.

La CIA trasferì circa 2 milioni di dollari all'anno in contanti al Solidarność, per un totale di 10 milioni di dollari in cinque anni. Il sostegno della CIA al Solidarnosc comprendeva denaro, attrezzature e addestramento, assistenza tecnica per i giornali clandestini, per le trasmissioni, per la produzione di propaganda, aiuto organizzativo e consulenze. Il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato il National Endowment for Democracy (NED) a stanziare altri 10 milioni di dollari al Solidarnosc.

Con un progressivo incremento dei fondi per le operazioni segrete che miravano al rovesciamento del governo presieduto da comunisti e socialisti, la CIA infiltrò con successo l'opposizione polacca nel 1985.

1980-1992: El Salvador

Il governo di El Salvador ha combattuto una sanguinosa guerra civile contro il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN), un fronte composto da diversi gruppi di sinistra all'opposizione, e contro i leader delle cooperative agricole, leader sindacali e altri sostenitori della riforma agraria e delle condizioni migliori per "campesinos" (contadini senza terra e altri lavoratori agricoli) che sostenevano il FMLN. L'esercito salvadoregno organizzò squadroni della morte militari per terrorizzare la popolazione civile rurale, per spingerli a cessare il loro sostegno al FMLN. Le forze governative hanno ucciso più di 75.000 civili durante la guerra dal 1980-1992. Il governo degli Stati Uniti ha fornito addestramento militare e armi all'esercito salvadoregno. Il Battaglione Atlacatl, un battaglione anti-insurrezione, fu organizzato nel 1980 all'Istituto dell'emisfero occidentale per la cooperazione alla sicurezza ed ebbe un ruolo di primo piano nella strategia militare della "terra bruciata" contro il FLMN e i villaggi rurali che lo sostenevano, ad esempio nel maggio 1980 circa 600 civili furono uccisi nel Rio Sumpul al confine con l'Honduras. I soldati di Atlacatl erano equipaggiati e diretti da consiglieri militari statunitensi che operavano ad El Salvador. Il battaglione Atlacatl partecipò anche al Massacro di El Mozote l'11 dicembre del 1981, nel quale più di 1000 abitanti vennero dapprima rinchiusi nelle case e il giorno dopo assassinati - prima gli uomini poi le donne e infine i bambini - proseguendo poi al vicino villaggio Los Toriles. Nel maggio del 1983, gli ufficiali statunitensi presero posizione fra i livelli più alti delle forze armate salvadoregne, prendendo decisioni critiche e conducendo la guerra. Una commissione d'inchiesta del Congresso degli Stati Uniti ha scoperto che la politica di repressione esercitata dall'esercito salvadoregno comportava l'eliminazione di "interi villaggi dalla mappa, di isolare i guerriglieri e di negare loro qualsiasi base rurale in cui possano nutrirsi". La strategia di "prosciugare l'oceano" o "terra bruciata" era basata su tattiche simili a quelle utilizzate dalle unità anti-insurrezione della giunta nel vicino Guatemala e derivavano principalmente dalla strategia statunitense impiegata durante la guerra del Vietnam e insegnate dai consiglieri militari statunitensi.

1982-1989: Nicaragua

Il governo degli Stati Uniti ha tentato di rovesciare il governo del Nicaragua, armando, addestrando e finanziando segretamente i Contras, un gruppo militare con sede in Honduras creato per destabilizzare il governo del Nicaragua. Come parte dell'addestramento, la CIA distribuì un dettagliato "manuale del terrore" intitolato "Operazioni psicologiche nella guerra di guerriglia", che istruiva i Contras, tra le altre cose, su come far saltare in aria edifici pubblici, assassinare giudici, creare martiri, e ricattare i cittadini. Oltre a manovrare i Contras, il governo degli Stati Uniti ha anche fatto saltare ponti e minato il porto di Corinto, causando morti civili e l'affondamento di navi civili nicaraguensi e straniere. Dopo che l'"Emendamento Boland" rese illegale per il governo degli Stati Uniti il finanziamento delle attività dei Contras, l'amministrazione del presidente Reagan segretamente vendette armi al governo iraniano per finanziare un apparato segreto del governo USA che continuava illegalmente a finanziare i Contras, in quello che divenne noto come "Irangate".Gli Stati Uniti hanno continuato ad armare e addestrare i Contras anche dopo che la vittoria alle elezioni nicaraguensi del 1984 da parte del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.

1983: Grenada

Durante l'amministrazione Reagan, con l'operazione Urgent Fury, l'esercito statunitense ha invaso la piccola isola di Grenada per rimuovere il governo marxista. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha definito l'invasione degli Stati Uniti "una flagrante violazione del diritto internazionale" ma la risoluzione di condanna, ampiamente sostenuta nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è stata bloccata dal veto degli Stati Uniti.

1989: Panama

Nel dicembre del 1989, in un'operazione militare chiamata Operazione Just Cause, gli Stati Uniti invasero Panama. Il presidente George H. W. Bush lanciò l'aggressione dieci anni dopo la ratifica dei trattati Torrijos-Carter, che sancivano il trasferimento del controllo del Canale di Panama dagli Stati Uniti a Panama entro il 2000. Gli Stati Uniti destituirono il leader panamense, il generale Manuel Noriega e lo portarono negli Stati Uniti. Il presidente eletto Guillermo Endara prestò giuramento e le forze armate panamensi furono sciolte.

Dopo la guerra fredda

1990

1991: Kuwait

Dopo l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq nell'agosto del 1990, il governo degli Stati Uniti fece pressioni sui governi rappresentati nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per sostenere una risoluzione che autorizzava gli stati membri dell'ONU a usare "tutti i mezzi necessari" per rimuovere le forze irachene dal Kuwait. La risoluzione 678 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite fu approvata e gli Stati Uniti riunirono una forza di coalizione di 34 stati per la guerra. L'operazione venne lanciata nel gennaio 1991 e aveva il nome in codice "Operation Desert Storm". La coalizione guidata dagli Stati Uniti respinse le forze irachene dal Kuwait e tornò al potere l'emiro, sceicco Jabir III al-Ahmad al-Jabir Al Sabah.

1991: Haiti

Otto mesi dopo le elezioni ad Haiti, il neoeletto presidente Jean-Bertrand Aristide fu deposto dall'esercito haitiano. Secondo alcuni, la CIA avrebbe "pagato i membri chiave delle forze del colpo di Stato, identificati come trafficanti di droga, per informazioni dalla metà degli anni '80, almeno fino al colpo di Stato". I dirigenti di colpi di stato Cédras e François avevano ricevuto addestramento militare negli Stati Uniti.

1991-2003: Iraq

Dopo la guerra del Golfo nel 1991, il governo degli Stati Uniti volle appesantire le sanzioni prebelliche contro l'Iraq, le quali furono adottate poi dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nell'aprile 1991 con la "Risoluzione 687". Successivamente alle sanzioni più severe, i funzionari statunitensi dichiararono nel maggio 1991 - quando era ampiamente previsto che il governo iracheno di Saddam Hussein sarebbe collassato— che le sanzioni non sarebbero state revocate a meno che Saddam non fosse rovesciato.

1994-2000: Iraq

La CIA lanciò "DBACHILLES", un'operazione che aveva come finalità un colpo di Stato contro il governo iracheno, reclutando Iyad Allawi, il quale era a capo dell'"accordo nazionale iracheno", una rete di iracheni che si opponevano al governo di Saddam Hussein. La rete comprendeva ufficiali militari e figure dell'intelligence irachena, ma era infiltrata da persone fedeli al governo iracheno. Usando anche Ayad Allawi e la sua rete, la CIA diresse una campagna dinamitarda e di sabotaggio a Baghdad tra il 1992 e il 1995, contro obiettivi che, secondo il governo iracheno dell'epoca, uccisero molti civili tra cui persone in un cinema affollato. La campagna dinamitarda della CIA potrebbe essere stata solo una prova della capacità operativa della sua rete sul campo, senza essere essa correlata strettamente al piano del colpo di Stato. Il colpo di Stato non ebbe successo, ma Ayad Allawi fu successivamente installato come primo ministro iracheno dal Consiglio di governo iracheno, che era stato creato dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti dopo l'invasione e l'occupazione dell'Iraq del marzo 2003. Gli Stati Uniti nel 1998 promulgarono l'"Iraq Liberation Act", il quale afferma, in parte, che la politica degli Stati Uniti deve sostenere gli sforzi per rimuovere Saddam Hussein dall'Iraq e deve stanziare fondi per aiutare le organizzazioni dell'opposizione democratica irachena.

1997: Indonesia

L'amministrazione Clinton vide un'opportunità per spodestare il presidente indonesiano Suharto, quando il suo dominio sull'Indonesia era diventato sempre più precario all'indomani della crisi finanziaria asiatica del 1997. I funzionari americani cercarono di inasprire la crisi monetaria dell'Indonesia facendo sì che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si opponesse agli sforzi di Suharto di istituire un comitato valutario per stabilizzare la rupia, provocando così scontento fra la popolazione. Il direttore del FMI Michel Camdessus affermò che fu proprio il fondo a creare le condizioni per obbligare Suharto ad abbandonare il progetto. L'ex segretario di stato americano Lawrence Eagleburger in seguito confermò il coinvolgimento statunitense nel supportare la manovra del FMI. La crisi economica che ne conseguì fece esplodere una rivolta nella quale morirono più di un migliaio di persone.

Anni 2000

2000: Jugoslavia

Nel periodo che va dal 1998 al 2000, poco più di 100 milioni di dollari sono stati convogliati dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America attraverso i Quangos ai partiti dell'opposizione al fine di determinare un cambio di regime in Jugoslavia. A seguito dei problemi relativi ai risultati delle elezioni presidenziali in Jugoslavia del 2000, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti sostenne i gruppi dell'opposizione come Otpor! attraverso la fornitura di materiale promozionale e anche di servizi di consulenza tramite Quangos. Il coinvolgimento degli Stati Uniti è servito ad allargare e organizzare il dissenso attraverso l'esposizione mediatica, le risorse, l'incoraggiamento morale e materiale, l'aiuto tecnologico e la consulenza professionale. Questa campagna è stata uno dei fattori che hanno contribuito al rovesciamento del presidente Slobodan Milošević il 5 ottobre 2000.

2003: Iraq

2005: Iran

Secondo fonti di intelligence pakistane e statunitensi, a partire dal 2005 il governo degli Stati Uniti ha segretamente incoraggiato e consigliato un gruppo militante pakistano della popolazione Beluci denominato Jundullah, responsabile di una serie di raid di guerriglia mortali in Iran. Jundullah, guidato da Abdolmalek Rigi (a volte scritto come Abd el Malik Regi), noto anche come "Regi", è stato sospettato di essere associato ad Al Qaida, accusa che il gruppo ha negato. ABC News ha appreso da fonti tribali che i soldi per Jundullah sono stati inviati al gruppo attraverso gli esuli iraniani. La CIA sostiene che a manovrare Jundallah ci fosse, in realtà, il Mossad con un'operazione di false flag per far risultare che dietro ci fosse l'intelligence statunitense.

2006-07: Territori palestinesi

Territori palestinesi occupati

Il governo degli Stati Uniti ha fatto pressione sulla fazione Fatah della leadership palestinese per rovesciare il governo di Hamas del primo ministro Ismail Haniyeh. L'amministrazione Bush non scontenta del fatto che la maggioranza del popolo palestinese avesse partecipato alle elezioni legislative in Palestina del 2006. Il governo degli Stati Uniti istituì un programma segreto di addestramento e armamenti che ricevette decine di milioni di dollari dai finanziamenti congressuali, ma anche, come nello scandalo Irangate, da una fonte segreta di finanziamenti per spingere Fatah a avviare una guerra contro il governo di Haniyeh. La guerra fu brutale, con molte vittime. Fatah rapì e torturò i leader civili di Hamas, a volte di fronte alle proprie famiglie, e ha dato fuoco a un'università a Gaza. Quando il governo dell'Arabia Saudita tentò di negoziare una tregua tra le parti in modo da evitare una guerra civile palestinese su larga scala, il governo degli Stati Uniti fece pressione su Fatah per respingere il piano saudita e per continuare lo sforzo nel rovesciare il governo di Haniyeh. Alla fine, al governo di Haniyeh è stato impedito di governare su tutti i territori palestinesi, con Hamas che si ritirava nella striscia di Gaza e Fatah che si ritirava in Cisgiordania.

2005-Oggi: Siria

Dal 2006, il Dipartimento di Stato ha convogliato almeno 6 milioni di dollari per il canale satellitare anti-governativo Barada TV, associato al gruppo in esilio "Movimento per la giustizia e lo sviluppo in Siria". Questo sostegno segreto è continuato sotto l'amministrazione Obama, anche se gli Stati Uniti ricostruivano pubblicamente le relazioni con Bashar al-Assad.

Dopo lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, il governo degli Stati Uniti ha invitato il presidente siriano Bashar Al Assad a "farsi da parte" e ha imposto un embargo petrolifero contro il governo siriano per metterlo in ginocchio. Dal 2012, con l'avvio dell'operazione Timber Sycamore, un programma segreto di fornitura armi e addestramento gestito dalla CIA e sostenuto da altri servizi di intelligence come quello dell'Arabia Saudita, venne fornito denaro, armi e addestramento alle forze ribelli. Secondo i funzionari statunitensi, il programma ha addestrato migliaia di ribelli

Una conseguenza non voluta del programma è stata la proliferazione di armi nel mercato nero del Medio Oriente, come fucili d'assalto, mortai e lanciatori di granate a propulsione (RPG), dopo esser state rubate dai servizi segreti giordani, e finite perlopiù nelle mani dello Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS) e di diverse formazioni fondamentaliste islamiche come Ahrar al-Sham e Fronte al-Nusra, affiliato con Al Qaida.

Nel luglio 2017, i funzionari statunitensi hanno dichiarato che il Timber Sycamore sarebbe stato eliminato gradualmente, con fondi reindirizzati alla lotta contro l'ISIS, o per offrire capacità difensive alle forze ribelli anti-Assad.

2010

2011: Libia

Gli Stati Uniti facevano parte di una coalizione multinazionale che ha intrapreso l'intervento militare in Libia del 2011 per attuare la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che è stata presa in risposta agli eventi durante la guerra civile libica. Le operazioni militari iniziarono con le forze navali statunitensi e britanniche che spararono su 110 missili BGM-109 Tomahawk, le forze aeree francesi e britanniche colpirono tutta la Libia e un blocco navale venne effettuato da parte delle forze della coalizione.

2013: Ucraina

Dalla dichiarazione di indipendenza dell'Ucraina nel 1991, gli Stati Uniti investirono 5 miliardi di dollari in quello che la diplomatica statunitense Victoria Nuland definisce, "sviluppo di istituzioni democratiche" nel paese. Il 21 novembre il presidente ucraino Viktor Janukovyč sospese un accordo tra Ucraina e Unione europea, che prevedeva la realizzazione di un'Area Approfondita e Globale di Libero Scambio. Nei giorni seguenti cominciarono delle proteste contro il governo, da parte di coloro che chiedevano una integrazione maggiore con l'Unione europea. I manifestanti, accampati per giorni nel centro di Kiev, vennero incitati da personaggi di spicco statunitensi quali il senatore John McCain e la Nuland. I tumulti terminarono con la fuga dal paese del presidente Janukovyč.

La Nuland, intercettata in una discussione con Geoffrey Pyatt, ambasciatore statunitense in Ucraina, discuteva della futura formazione del governo post-Janukovyč, e indicava Arsenij Jacenjuk come l'uomo da mettere a capo del nuovo governo. Il 23 febbraio 2014 Jacenjuk viene effettivamente nominato primo ministro ad interim del governo e a seguito delle elezioni parlamentari in Ucraina del 2014 viene riconfermato primo ministro della Verchovna Rada. A seguito dell'insurrezione e del conseguente cambio di governo, i rapporti con la Federazione russa precipitarono e di li a poco si verificarono la crisi della Crimea del 2014 e la guerra del Donbass.

I governi successivi all'insurrezione si sono adoperati in politiche di stampo nazionalistico. Per quanto riguarda l'ambito culturale, con la legge sull'istruzione del 2017 viene imposto l'uso della sola lingua ucraina nell'insegnamento, nonostante la profonda diversità etnico-culturale della popolazione ucraina. Vengono introdotte riforme di stampo liberista, come la privatizzazione della sanità e di buona parte del settore produttivo. Inoltre vengono approvate leggi anticomuniste che hanno comportato il bando del Partito Comunista dell'Ucraina - il quale alle elezioni politiche del 2012, le ultime prima dell'insurrezione, ottenne il 13,2% dei voti - e la rimozione di tutti i simboli dell'era sovietica come i monumenti e i nomi delle strade.

2015-Oggi: Yemen

Gli Stati Uniti hanno sostenuto l'intervento dell'Arabia Saudita nella guerra civile dello Yemen. La guerra civile yemenita è iniziata nel 2015 tra due fazioni, ciascuna delle quali riteneva di sostenere il governo legittimo dello Yemen: Forze Huthi, che controllano la capitale Sana'a e hanno sostenuto l'ex presidente 'Ali 'Abd Allah Saleh, combattono contro le forze situate ad Aden, fedeli al governo di 'Abd Rabbih Mansur Hadi. L'offensiva guidata dai sauditi ha lo scopo di ripristinare Hadi al potere ed è alleata con varie fazioni locali. L'intervento guidato dall'Arabia Saudita è stato ampiamente condannato a causa dell'uso ampiop di bombardamenti di aree urbane e di altre aree civili, tra cui scuole e ospedali. Le forze armate statunitensi forniscono assistenza per quanto riguarda le informazioni sui siti da colpire e danno supporto logistico per la campagna di bombardamenti a guida saudita, incluso il rifornimento aereo. Gli Stati Uniti forniscono anche armi e bombe, incluse, secondo un rapporto di Human Rights Watch (HRW), bombe a grappolo fuorilegge in gran parte del mondo e usate dall'Arabia Saudita nel conflitto. Gli Stati Uniti sono stati criticati per aver fornito armi e bombe sapendo che i bombardamenti sauditi hanno bersagliato indiscriminatamente civili, violando le leggi del diritto bellico. È stato suggerito che il governo degli Stati Uniti sia legalmente un "co-belligerante" nel conflitto, nel qual caso il personale militare degli Stati Uniti potrebbe essere perseguito per crimini di guerra, e un senatore degli Stati Uniti ha accusato gli Stati Uniti di complicità nella catastrofe umanitaria dello Yemen, con una carestia che coinvolge milioni di persone. A partire da maggio 2018, la guerra civile è in stallo e 13 milioni di civili yemeniti rischiano la fame, secondo l'ONU.

2015-Oggi: Venezuela

Sotto l'amministrazione Obama, il 10 marzo 2015 il Venezuela è stato dichiarato una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha risposto che "il presidente Barack Obama, in rappresentanza dell'élite imperialista degli Stati Uniti, ha personalmente deciso assumere il compito di sconfiggere il mio governo e intervenire in Venezuela per controllarlo". Alcuni giorni prima che il presidente Obama lasciasse l'incarico, ha rinnovato l'emergenza nazionale riguardante il Venezuela il 17 gennaio 2017 e le sanzioni mirate contro il paese.

L'11 agosto 2017, il presidente Donald Trump ha dichiarato che non escluderà un'opzione militare per affrontare il governo di Nicolás Maduro e l'aggravarsi della crisi in Venezuela. I consulenti statunitensi di Trump ritengono che non sia saggio nemmeno discutere di una soluzione militare a causa della lunga storia di interventi impopolari in America Latina da parte degli Stati Uniti. I rappresentanti degli Stati Uniti che erano in contatto con ufficiali militari venezuelani dissidenti durante il 2017 e il 2018, hanno rifiutato di collaborare con loro o di fornire loro assistenza.

L'11 gennaio, l'Assemblea nazionale ha annunciato che Juan Guaidó aveva assunto i poteri e le funzioni del presidente del Venezuela. Guaidó viene riconosciuto nei giorni successivi da alcuni stati dell'America Latina e di altri stati. Il 23 gennaio, Guaidó ha prestato giuramento come presidente ad interim, che è stato immediatamente riconosciuto da diversi stati stranieri. inclusi gli Stati Uniti alcuni minuti dopo. Il 26 gennaio, Elliott Abrams, un diplomatico neoconservatore coinvolto in molteplici operazioni all'estero di destabilizzazione è stato designato come inviato speciale in Venezuela.

Mike Pompeo ha affermato che alcune cellule militanti di Hezbollah sarebbero attive in Venezuela e che gli Stati Uniti d'America hanno l'obbligo di eliminare questo rischio per il proprio paese. Alfred de Zayas, ex funzionario dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, ha anche detto che gli Stati Uniti starebbero violando la legge internazionale tentando un colpo di Stato contro il governo venezuelano.

La storia insegna: chi toglie la libertà è sempre comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022.

Si può fare una statistica ormai quasi secolare delle libertà violentate nel mondo. E da quella statistica spicca una verità senza rendiconto: vale a dire che quando c'è massacro di libertà, praticamente sempre c'è un comunista che lo compie, o lo nasconde, o lo giustifica. E mai, quando nel mondo le libertà sono state aggredite, mai il comunista si è posto a difenderle. Mai nel mondo il comunista ha combattuto il potere che di volta in volta reprimeva quelle libertà, se non per sostituirvisi impiantando un potere che a sua volta ne faceva sacrificio.

Sul grosso delle libertà sopraffatte nel mondo c'è la grinfia del comunista. C'è la censura del comunista a rendere impunita quella sopraffazione. C'è la propaganda del comunista a giustificarla. Non c'è solo l'aguzzino che a migliaia di chilometri da qui fa rogo di una iurta mongola piena di bambini: c'è anche il comunista di qui che contestualizza. Non ci sono solo i milioni di bambini denutriti nei paradisi del socialismo asiatico: c'è anche il comunista di qui che li oppone ai senzatetto di New York. Non c'è solo l'omosessuale con i testicoli spappolati nel carcere cubano: c'è anche il comunista di qui, con appeso il ritratto del "Che", che si leva a difesa dei diritti civili minacciati dal neoliberismo. Non c'è solo il male assoluto perpetrato in mezzo mondo da decenni di violenza comunista: c'è anche di chi quel male è patrono, procuratore, avvocato.

L'eterno ritorno degli Imperi. Mentre i destini del mondo sono decisi tra Pechino e Washington, quattro potenze continuano la loro politica come se la Storia non fosse mai davvero cambiata. Nel libro "Imperi (in)finiti", Lorenzo Vita descrive questa lotta degli antichi imperi contro il destino. Andrea Muratore il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Turchia, Russia, Francia, Gran Bretagna: quattro nazioni che nel corso della storia si sono pensate come imperi e che anche oggi non fanno eccezione nella loro condotta. Quattro potenze che dipingono con retorica missionaria, slancio ideale e grandi parole le loro strategie geopolitiche, richiamandosi, in ogni modo, al passato. Proiettarsi nella gloria passata per sognare rilanci futuri e svincolarsi da un presente che le vede soci di minoranza, per quanto depositari di quote tutt'altro che ininfluenti, dei grandi scenari globali. Questo il filo conduttore dell'analisi di Lorenzo Vita nel saggio Imperi (in)finiti, edito da Historica - Giubilei Regnani, che nel sottotitolo già presenta la chiave di lettura interpretativa: "Russia, Turchia, Francia e Regno Unito in lotta contro il destino".

Già, perché è il destino che vuole queste quattro nazioni pensarsi, inevitabilmente, come imperi. Ce ne rendiamo drammaticamente conto quando guardiamo all'aggressione russa all'Ucraina. La Russia, impero a trazione militare, ha usato la retorica dell'era zarista per giustificare l'invasione della nazione-sorella, parlando di una comunità di destino. Ma non solo nell'atto di Vladimir Putin si può percepire la forza del richiamo dell'epopea imperiale del passato verso gli Stati di oggi. Essi "hanno partecipato da sempre ai destini dell'Europa" e "non si sono mai definitivamente disinteressati al conflitto". Vita ricorda Russia, Turchia, Regno Unito e Francia come "potenze sopravvissute allo scorrere dei secoli" e che mai hanno cessato di "disegnare delle aree su cui imporre la propria autorità, stabilire alleanze e ledere altri governi, intessere trame diplomatiche e combattere", più o meno direttamente, "guerre nei diversi angoli del mondo" accomuna le potenze in questione.

Non sembri, in quest'ottica, esagerata la comparazione tra la Russia che ha portato questo concetto alle più estreme conseguenze lanciando con mezzi del XXI secolo una guerra da XX secolo con obiettivi da XIX, ovvero la mera espansione territoriale. Mosca è stata coinvolta anche nel conflitto siriano alimentato dalla Turchia contro Bashar al-Assad e su cui, oltre ovviamente agli Usa, hanno messo le mani anche Francia e Regno Unito, protagoniste nel 2011 dell'avventura libica che fu il ritorno degli imperi europei in Nordafrica dopo lo schiaffo di Suez del 1956.

Il vecchio bipolarismo, quello Usa-Urss, ha messo all'angolo i tre imperi alleati della Nato, Turchia, Regno Unito e Francia; quello nuovo, imperfetto e incompleto, tra Washington e Pechino lascia attorno ai due imperi universali, la talassocrazia a stelle e strisce e la potenza geoeconomica cinese, spazi di manovra importanti. La politica, si sa, ha orrore del vuoto, specie quella internazionale. Nel mondo "multipolare" (ma sarebbe meglio dire "apolare") la Russia, dopo aver giocato a lungo in contropiede, è alla piena offensiva per legittimarsi come potenza imperiale e, con spinta metternichiana, tornare alla pari nella percezione con Cina e Usa. Obiettivo perseguito a fronte di qualsiasi realistica dinamica dettata da peso economico, demografia, sviluppo tecnologico.

La Turchia di Erdogan, invece, usa strumentalmente, a targhe alternate, il richiamo all'Impero ottomano, il panturchismo di cui fu alfiere Mustafa Kemal Ataturk e la spinta sull'Islam politico, visioni del mondo non complementari pienamente tra loro, per legittimare una grand strategy che la vede ovunque. Attiva tra la Libia e il Corno d'Africa, intenta a inserirsi nei Balcani, proiettata nell'Asia centrale, capace di strizzare l'occhio anche all'Afghanistan, importante per la Nato, per le rotte del gas russo e le Vie della Seta cinesi, la Turchia, pur perennemente indebitata e in bolletta, pensa da grande potenza nelle pieghe del disordine globale.

La Francia non cessa di pensarsi attore globale, e Vita lo sottolinea. Emmanuel Macron, presidente-filosofo con una malcelata ammirazione per Charles de Gaulle e Napoleone Bonaparte, tratta con Vladimir Putin prima della guerra in Ucraina "da imperatore a imperatore", immagina l'egemonia europea con l'autonomia strategica, proietta Parigi tra l'Africa e l'Indo-Pacifico, punta sull'uso politico del capitalismo transalpino. Mentre, scrive Vita, "il suo impero sta regredendo, dall'Europa al Medio Oriente fino all'Africa" la Francia "ha bisogno di non cedere: non può ammettere di perdere", la France eternelle che ha fatto della missione civilizzatrice e della grandeur la giustificazione della sua strategia. E nonostante picchi di velleitarismo, anche la presidenza Macron è, nei limiti del possibile, imperiale: tra potenziamenti delle forze armate, richiami universalistici e obiettivi ambiziosi per Parigi è di questa visione che la Francia e la sua burocrazia dominante continuano a vivere.

Il Regno Unito vive, nell'era post-Brexit, del richiamo alla strategia della Global Britain come versione contemporanea e in scala ridotta dell'area di influenza mondiale di Londra. Il suo architetto, l'ex premier Boris Johnson, ha ammesso già nel 2016, da Ministro degli Esteri, l'avvenuta traslatio imperii nell'Anglosfera da Roma (Londra) a Costantinopoli (Washington), accelerata dalla decisione di Winston Churchill di firmare, in piena Seconda guerra mondiale, la Carta Atlantica con gli Usa che di fatto apriva la strada alla consegna a Washington delle chiavi dell'egemonia mondiale e alla decolonizzazione in cambio della sconfitta delle potenze dell'Asse. Ma ha anche messo in campo visioni prospettiche degne di nota. Dopo aver vinto le elezioni a valanga nel 2019, Johnson ha rivolto un appello alla nazione e al suo governo per costruire negli anni a venire un Regno Unito “veramente globale nella sua portata e nelle sue ambizioni”.

La pandemia di Covid-19 ha sicuramente scombinato i piani ma non ha frenato l’elaborazione strategica del governo di Sua Maestà che sono stati plasmati dalla guerra in Ucraina. Oggi "impero" per Londra significa accordi commerciali privilegiati con le ex colonie; significa armare l'Ucraina per fermare Mosca in una riedizione del "Grande Gioco" ottocentesco; significa valorizzare Londra come centro finanziario e attrarre le migliori menti per rendere il Regno Unito superpotenza tecnologica e scientifica; significa, in ultima istanza, permettere agli inglesi di plasmare a loro misura l'impero interno a scapito delle volontà centrifughe di nordirlandesi e scozzesi.

Per Londra il vero metro del successo sarà capire se potrà scampare al trend declinista che contraddistingue l'Europa continentale. Per Parigi la capacità di mettere in campo l'autonomia strategica europea sotto l'ombrello atomico francese sganciandola dalle strutture atlantiche. Per la Turchia la conquista di uno spazio d'influenza certo e di un ruolo di crocevia tra Medio Oriente, Asia profonda e Mediterraneo. Per la Russia evitare di morire di consunzione di fronte allo scorrere inesorabile del tempo.

Tutte e quattro le nazioni studiate da Vita, che con la freschezza dell'approccio giornalistico divulga concetti dalla grande profondità storiografica, vivono in bilico sul pericoloso crinale tra realismo e velleitarismo, tra destino e costrizioni del presente. In passato hanno già dovuto rompere ambiguità di questo tipo. Londra e la Turchia scelsero di "tuffarsi" negli Oceani e nel Mediterraneo diventando potenze navali. La Francia giocò due volte, con Luigi XIV e Napoleone, una grande strategia ambiziosa a livello europeo. La Russia si è "europeizzata" con Pietro il Grande e ha provato la carta dell'egemonia europea con lo Zar Alessandro dopo le guerre napoleoniche e con Stalin dopo la Seconda guerra mondiale. A volte questi calcoli sono stati ben ponderati, a volte no. Ma anche di fronte ai fallimenti più grandi gli imperi, oggi diventati repubbliche o monarchie costituzionali, sono rimasti tali. Il saggio di Vita insegna a pensare storicamente il presente. A leggere i grandi trend storici dietro le decisioni politiche cogenti. A ricordarci che l'idea di destino non è assente dai calcoli delle potenze. E spesso finisce, paradossalmente, per non fare il loro vero interesse, specie quando i protagonisti sono gli imperi (in)finiti nelle ambizioni pur essendo finiti, o perlomeno enormemente vincolati, nella potenza e nelle risorse a disposizione.

La storia dei due giganti dell'Asia getta ombre di paura sul mondo. Una crescita vertiginosa e il sogno di tornare alla potenza del passato spingono la politica espansionistica di Cina e India. Con molti rischi. Matteo Sacchi il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Gli equilibri del mondo cambiano e sono cambiati decine di volte nel corso della Storia. I due ombelichi del mondo, se torniamo indietro nel tempo solo di un quarantennio, erano identificabili in Washington e Mosca. Ora le superpotenze sono almeno tre: Stati Uniti d'America, Repubblica popolare cinese e India. Mosca? È scivolata in una posizione molto più complessa che mischia debolezza economica e produttiva a potenza atomica, con i risultati di una pericolosa instabilità che tutti vediamo.

L'enorme forza militare ed economica di Pechino e Nuova Delhi è la novità del XXI secolo che porta verso un mondo tripolare, un mondo il cui centro potrebbe spostarsi dall'Occidente all'Oriente. Un bilanciamento tutto da trovare e dove, anche se Stati Uniti ed Europa pensano fondamentalmente al loro rapporto con le nuove controparti, le tensioni più forti potrebbero essere proprio tra le superpotenze in ascesa. Tensioni che già si misurano sul fronte himalayano.

Che il centro dell'equilibrio planetario si sposti a Oriente, in realtà, non è affatto una novità. Anzi, se ragionassimo sul lunghissimo periodo l'anomalia è lo spostamento del baricentro planetario nel continente più giovane, le Americhe. Per rendersene conto bastano due volumi appena pubblicati: Storia dell'India di Stanley Wolpert e Breve storia della Cina di Linda Jaivin (entrambi pubblicati per i tipi di Bompiani). Arrivano a chiudere una pattuglia di volumi che segnano una (tardiva) presa di coscienza non tanto dell'ascesa indo-cinese, quanto del fatto che India e Cina considerino questo fenomeno come una sorta di necessario ed inevitabile ritorno.

Vediamo allora il Mondo dall'altro lato della geopolitica. Cioè dalla Cina in ascesa. Da Pechino c'è chi guarda il dispiegarsi delle linee di faglia del conflitto di civiltà non con la logica del gioco degli scacchi, ma con quella, molto più avvolgente, del gioco del «go». È questa l'ottica che fornisce al lettore, ad esempio, il saggio pubblicato dalla Leg L'arco dell'impero a firma del generale Qiao Liang. Liang immagina un mondo multipolare dove, dopo il crollo dell'ultimo impero che secondo lui è quello statunitense, ci sarà un equilibrio nuovo in cui la Cina dovrebbe esercitare un potere morbido che non cerchi la supremazia. Ma a Pechino c'è chi, molto più del generale, rimpiange i tempi del Celeste Impero.

Il tutto in questo caso molto ben spiegato in un altro saggio, L'Impero interrotto (Utet) di Michael Schuman. Quale impero sognino i cinesi è difficile dirlo, ma rischia di essere un impero fortemente autoritario ed aggressivo. Negli ultimi anni, del resto, anche la gestione della politica interna è molto cambiata. Come spiega la Jaivin, negli ultimi anni la dirigenza cinese ha cambiato le sue linee guida diventando molto più repressiva. Nelle scuole superiori cinesi, negli anni Sessanta si leggeva la biografia di Chén Shèng scritta da Sima Qian, il ribelle contro l'antica dinastia imperiale Qin. Nel 2019 questa storia è sparita dai libri di testo. Al posto dell'eroe contestatore è comparso il generale Zhou Yafu (199 - 143 a.C.). Il militare della dinastia Han è famoso per la sua osservanza dei precetti e delle regole. È un caso? In Cina a stretto giro di posta è diventato illegale parlare di femminismo, di molestie sessuali... Col Covid sono state silenziate anche le voci dei medici e i lockdown si sono trasformati in strumenti di controllo sociale. Così un Paese che ha un potenziale umano e culturale quasi illimitato si ritrova socialmente bloccato, proprio mentre la crescita economica segna il passo. Se si somma tutto questo alle tensioni con Taiwan, che garantisce ai suoi cittadini libertà molto più ampie, si capisce quanto sia complessa questa partita.

Altrettanto complesso è lo sviluppo dell'altra grande e antica potenza: l'India. Come ha recentemente ben raccontato in Anarchia (Adelphi) lo storico William Dalrymple. A partire da quattrocento anni fa un'audace start-up privata londinese si lanciò, letteralmente, alla conquista del continente indiano. La Compagnia Britannica delle Indie Orientali, una delle prime società per azioni, avviò l'attività con trentacinque dipendenti e una patente regia che le consentiva di «muovere guerra». Duecento anni più tardi, gli immensi profitti del commercio con le Indie - e un uso spregiudicato della forza e della diplomazia - avevano cambiato la storia e spazzato via l'Impero Maratha e le altre entità politiche autoctone.

Tutto questo era stato reso possibile da una miglior tecnologia militare ma, con evidenza, l'India era stata occupata proprio per la sua immensa ricchezza che ne faceva il più grande polo produttivo del mondo. Quel ruolo l'India contemporanea lo sta riacquistando e rivendicando. E a differenza della Cina non si può dire che il Paese non porti avanti istanze democratiche. Ma sono le stesse dinamiche della crescita economica a sviluppare enormi spaccature interne. Un Paese con una storia antichissima che deve demolire una tradizione millenaria legata alle caste, dove 400 milioni di persone possono ormai vivere con standard di benessere pari a quelli occidentali ma 300 milioni sono poverissime.

Quale possa essere il livello di tensione, raccontato ad esempio in un film come La tigre bianca scritto e diretto da Ramin Bahrani, è evidente. Come nel film le tensioni sociali possono portare esiti feroci.

Queste sfide al momento restano nascoste sotto l'esplosione della crisi geopolitica ucraina. Ma sono enormi e dureranno a lungo.

Armi e malattie: ecco cosa decide la storia dei popoli. "Armi, acciaio e malattie" è un sorprendente saggio di Jared Diamond che mostra le determinanti più importanti nell'ascesa e nel declino delle civiltà nella storia umana. Andrea Muratore il 23 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'evoluzione delle civiltà? Viene dettato dagli equilibri politici e militari; si plasma sulla scia della capacità dei popoli di accedere a materie prime e risorse; soprattutto, si informa sulla scia della resistenza dei popoli ai cambiamenti sistemici dettati dalla natura.

La concentrazione dell'influenza delle varie aree del mondo nella storia è, a detta dello studioso, etologo e sociologo Jared Diamond, combinato disposto tra tre fattori: la capacità tecnica di padroneggiare le armi economiche, industriali e militari per creare e preservare lo sviluppo; l'accesso a materie prime funzionali ad alimentare tale tecnica, con i metalli e l'acciaio capaci per molto tempo di fare la differenza; la resistenza ai patogeni e la capacità di utilizzare le malattie, volutamente o meno, per colpire i popoli ostili. Questa la traccia di Armi, acciaio, malattie, saggio vincitore del Premio Pulitzer nel 1998 con cui Diamond ha presentato una teoria evolutiva della specie umana sulla base di queste precise determinanti.

Diamond, nel libro, parte da una domanda ambiziosa. "Tutti sappiamo che i popoli delle varie parti del mondo hanno avuto storie assai diverse. Nei 13.000 anni trascorsi dalla fine dell’ultima glaciazione, in alcuni casi sono sorte società industriali vere e proprie, in altri società agricole prive di cultura scritta, mentre in altri ancora ci si è fermati a tribù di cacciatori-raccoglitori dotate di soli utensili di pietra". "Tali disuguaglianze hanno avuto un’importanza fondamentale nelle vicende del pianeta, per il semplice fatto che i popoli industrializzati in possesso di una cultura scritta hanno conquistato o sterminato tutti gli altri" continua, "queste diversità sono la base più evidente dell’intera storia del mondo, ma le loro cause rimangono tutt'altro che chiare. Come si sono originate, dunque?".

La risposta sta, per l'autore, nel trittico armi-acciaio-malattie a partire dalla prima determinazione storica del progresso umano: la rivoluzione agricola e dell'allevamento che, nelle grandi masse continentali, portò alla fine del Neolitico allo stanziamento progressivo dei popoli nelle aree fertili dell'Anatolia, della Mesopotamia, dell'India, dell'Egitto, della Cina, delle Americhe.

La geografia e l'ambiente hanno plasmato la velocità di diffusione dell'agricoltura e, assieme ad essa, l'avvicinamento tra animali e uomo: "Solo un numero sorprendentemente piccolo di mammiferi erbivori terrestri sono stati addomesticati nella storia dell’uomo", nota Diamond. Per l’esattezza, quattordici: "Cinque si sono diffusi in tutto il mondo (pecore, capre, buoi, maiali, e cavalli) e nove hanno raggiunto una certa importanza solo nella zona d’origine", dai cammelli ai lama. L’era dei grandi mammiferi domestici "iniziò con pecore, capre e maiali 8000 anni fa e terminò con i cammelli 2500 anni fa, poi più nulla. Quasi tutti i successi in questo campo si sono concentrati nel continente eurasiatico, e questo ha rappresentato un fatto di importanza capitale nella storia dell’umanità". L'agricoltura e l'allevamento hanno trainato le prime comunità, hanno aiutato le comunità umane nei secoli a gestire i processi di zoonosi, cioè la trasmissione virale di patogeni dall'animale all'uomo, rendendo i popoli europei mediamente più resistenti rispetto a quelli latinoamericani.

La geografia ha giocato un ruolo determinante anche nella diffusione della conoscenza tecnologica. Va sottolineato che i popoli del mondo possono ricevere le invenzioni dei vicini con maggiore o minore facilità in maniera direttamente proporzionale al loro collegamento terrestre con essi. Le società agricole stanziali diedero origine alle prime comunità organizzate. La complessità degli Stati nacque proprio a partire dalla necessità di organizzare gli output produttivi e si evolse fino a creare istituzioni, obiettivi strategici, prospettive espansionistiche.

Diamond dà alla geografia il ruolo chiave nel determinare i processi storici. "Perché in Australia non si produssero attrezzi di metallo, non arrivò la scrittura e non si giunse a società complesse?", si chiede per esempio nel saggio. "Fondamentalmente perché questi progressi sono riservati a poche popolazioni numerose di agricoltori, mentre gli aborigeni rimasero sempre cacciatori-raccoglitori" non avendo trovato spazio per sviluppare una cultura agricola in una terra ove "l’aridità, la sterilità e l’incertezza climatica limitarono il numero degli abitanti a poche centinaia di migliaia, in contrasto con le decine di milioni presenti ad esempio in Cina". Il caso più estremo fu rappresentato dai tasmaniani che, nota Diamond, furono isolati per 10mila anni dall'innalzamento del Mare di Bass dopo la glaciazione: "Quando arrivarono gli europei nel 1642, i tasmaniani erano in possesso della cultura materiale più elementare del mondo", privi di tecnologia, pressoché inadatti all'uso delle armi e esposti ai patogeni europei. La popolazione si estinse al primo contatto coi morbi dei colonizzatori.

La miscela di armi-acciaio-malattie, ovvero la somma tra superiorità militare, maggiore efficienza tecnologica e massima capacità di resistere ai patogeni fu per Diamond la chiave di volta per l'espansione coloniale degli europei tra XV e XIX secolo. Anzi, a questi tre elementi Diamond dà un'importanza crescente indicando nelle malattie il vero game-changer: "Morbillo, vaiolo, influenza, tifo, peste e altre malattie decimarono i popoli di interi continenti e furono potenti alleati degli europei", spiega l'autore. Non solo nelle Americhe, perché anche i boscimani del Sudafrica subirono le conseguenze terribile di un'epidemia di vaiolo nel Settecento e lo stesso destino toccò ad alcune popolazioni del Pacifico o di isole dell'Oceania.

Questo significa che il determinismo geografico e le sue conseguenze governano il mondo lasciando poco spazio alle mosse politiche? Tutt'altro, dice Diamond. Imperi come quello di Roma seppero gestire al meglio il rapporto tra spazio, dimensione del potere e gestione delle risorse; altre civiltà, come quella cinese, scelsero di condannarsi all'isolamento perdendo, a cavallo tra il XV e il XVII secolo, importanti vantaggi tecnologici.

Diamond non costruisce una teoria che ha la pretesa di valere erga omnes in ogni periodo della storia, ma prova a tracciare delle rotte ideali nel quadro del contesto storico che ha portato l'umanità al suo percorso attuale. Il merito dell'opera sta soprattutto nella scelta di sottolineare la forza dei contatti e dei conflitti umani nell'essere motori di sviluppo e crescita per le collettività in un contesto in cui sfide, progressi e, molto spesso, anche grandi tragedie storiche si possono inquadrare nel contesto di un viaggio agitato della specie umana, unica nella storia del mondo a spingersi in ogni punto del pianeta per colonizzarlo. E diffusasi nella sua diversità e nella sua complessità convivendo e spesso utilizzando come arma di scontro il trittico armi-acciaio-malattie. Senza che alcuno spazio sia lasciato a qualsiasi pretesa di superiorità morale, culturale o etnica da parte di un singolo popolo. A cui nel libro di Diamond è precluso ogni spazio.

Storia da focus.it. Discorso all'Umanità del Grande Dittatore: il testo integrale. Nel Grande dittatore, film del 1940, parodia satirica di una dittatura e un dittatore (all'epoca, Hitler), Charlie Chaplin recita un memorabile Discorso all'Umanità: ecco il testo integrale.

Il testo completo del Discorso all'Umanità pronunciato da Charlie Chaplin nel finale del film Il Grande Dittatore del 1940.

«Mi dispiace, ma io non voglio fare l'imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l'un l'altro. In questo mondo c'è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l'abbiamo dimenticato. L'avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell'odio, condotti a passo d'oca verso le cose più abiette.

Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell'abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l'abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto. L'aviazione e la radio hanno avvicinato la gente, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell'uomo, reclama la fratellanza universale. L'unione dell'umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone.

Milioni di uomini, donne, bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di segregare, umiliare e torturare gente innocente. A coloro che ci odiano io dico: non disperate! Perché l'avidità che ci comanda è soltanto un male passeggero, come la pochezza di uomini che temono le meraviglie del progresso umano. L'odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, al popolo tornerà. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un'anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore.

Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l'amore dell'umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell'Uomo». Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera.

Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo.

Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l'avidità e l'odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!» 3 marzo 2022

Gli imperi più potenti della storia. Da Focus.it. La storia dei grandi imperi del passato è sempre molto affascinante ed è naturale provare a fare dei confronti. Ci ha provato anche Just The Flight. Abbiamo preso la loro infografica, l'abbiamo controllata, corretta dove necessario, ampliata e rielaborata. Ecco il risultato.

Impero britannico. È stato in assoluto il più vasto impero della storia dell'uomo. Governato dal Regno Unito, comprendeva colonie e territori in tutti e 5 i continenti. È stato anche il penultimo impero a cadere, nel 1997, con la restituzione della colonia di Hong Kong alla Cina.

Impero mongolo. Il più grande impero di tutti i tempi (se lo consideriamo compreso in un unico, lunghissimo, confine) fu creato a colpi di frecce e lance da un’armata di cavalieri nomadi. Gente che ai palazzi sontuosi preferiva le tende e che si inebriava di latte di giumenta fermentato. A guidarli era - inizialmente - Gengis Khan, uno dei più grandi conquistatori di tutti i tempi, diventato uno degli uomini più ricchi della storia. Grazie al suo genio militare riunì diverse tribù e fondò un impero immenso, dalla Cina, alla Russia, fino al Medio Oriente e all’Europa orientale.

Impero persiano. I Persiani, con la dinastia degli Achemenidi, furono la prima superpotenza dell’antichità. Per niente sanguinari - come voleva la leggenda nera voluta dai Greci - hanno basato la loro supremazia su alcuni capisaldi: un esercito organizzato, la libertà religiosa e le infrastrutture, ovvero le strade. L’impero di Alessandro Magno non sarebbe mai diventato tanto vasto se il Macedone non avesse invaso e conquistato il regno persiano, ampliandolo con l'aggiunta della Grecia e della Macedonia, da cui era partito, e da una serie di avamposti nell'Asia più profonda.

Impero romano. Nato con Augusto 2 mila anni fa, dominò l’Occidente per quattro secoli, raggiungendo la sua massima espansione con Traiano.

Califfato omayyade. Grazie alla dinastia omayyade, il califfato si espanse fino alla Spagna a ovest e al Caucaso a est. Al suo interno la libertà religiosa era quasi sempre permessa. Nella penisola iberica il periodo del Califfato lasciò grandi vestigia: come l’Alhambra di Granada, la Grande Moschea di Cordova e l’Alcázar di Siviglia.

Impero carolingio (sacro romano impero). Nato dalle ceneri di quello romano è stato il primo nucleo del Scaro Romano Impero. Fondato da Carlo Magno, incoronato imperatore nella notte di Natale dell’800 a San Pietro, prese a frammentarsi fino a spezzarsi del tutto con la morte di Carlo il Grosso, l’ultimo carolingio, nell’888. Da quel momento Francia, Germania e Italia prenderanno strade diverse. La formula del Sacro romano impero, invece, si ripresenterà sotto altre dinastie come gli Ottoni, gli Hohenstaufen e si protrarrà, con gli Asburgo, fino al 1806. Tuttavia non sarà mai più né per estensione di territori (dal momento che la Francia ne rimarrà sempre separata) né per ambizione politica, paragonabile al progetto di Carlo Magno.

Impero spagnolo. Ha inizio con la scoperta dell'America di Cristoforo Colombo. Inizialmente i regni che finanziarono le spedizioni in America non lo fecero per dominare nuovi mondi, come poi avvenne. Lo scopo era scoprire rotte marittime che permettessero lo scambio commerciale diretto con l’Oriente, senza l’intermediazione di Turchi e Veneziani. Tuttavia con il tempo non mancò da parte dei due maggiori azionisti delle spedizioni esplorative, Spagna e Portogallo, neppure la volontà di insediarsi in nuovi territori. E proprio la necessità di spartirsi l’oceano e le terre li portò a disegnare nel 1494 una linea immaginaria (raya) tra i rispettivi territori di conquista (anche potenziale) con il Trattato di Tordesillas. Al Portogallo (concentrato su Oriente e Africa) andò soltanto l’attuale Brasile.

Impero portoghese. Con il trasferimento della sovranità di Macao alla Cina, nel 1999 l'impero portoghese è stato l'ultimo a cadere. A differenza dell'impero spagnolo che accumulò ingenti ricchezze depredando gli imperi precolombiani, quello portoghese fondò la sua fortuna sulle rotte commerciali verso l'Oriente.

Impero ottomano. È stato uno dei più estesi e duraturi imperi della storia: durò 623 anni e al suo apogeo, sotto il regno di Solimano il Magnifico, era uno dei più potenti Stati del mondo, un impero multietnico, multiculturale e multi linguistico che si estendeva dai confini meridionali del Sacro Romano Impero, alle periferie di Vienna e della Polonia a nord fino allo Yemen e all'Eritrea a sud; dall'Algeria a ovest fino all'Azerbaigian a est. Per 5 secoli ebbe un grande controllo sul Mediterraneo e fu al centro dei rapporti tra Oriente e Occidente.

Impero russo. L'espansione della Russia inizia nel 1462, quando Ivan III sale al trono della Moscovia. Ma è nel ’700, con Pietro il Grande, che la Russia diventa un impero, aprendo la frontiera occidentale. Arginate le ambizioni della Svezia e rosicchiati territori caucasici agli ottomani, la Russia (la cui capitale era diventata San Pietroburgo) prese il controllo della Polonia e dell’Ucraina. Il culmine dell’espansione territoriale si raggiunse nel 1866, l’anno prima della cessione dell’Alaska agli Stati Uniti. Gran parte del territorio dell’impero, nel 1917, passò infine (dopo una sanguinosa guerra civile) all’Urss.

Impero egizio. Non certo il più vasto, sicuramente il più longevo (3.000 anni) impero della storia. Leggi anche: 10 cose che (forse) non sai su Cleopatra. 

Impero azteco. Deve soprattutto la sua notorietà ai sacrifici umani ed è una delle tre principali civiltà precolombiane insieme a Maya e Incas.

L'impero di Facebook. Chiudiamo questa rassegna con una provocazione: un confronto con un impero moderno, quello di Facebook, che non chiede tasse, non detta leggi, non esercita la giustizia, ma che pervade l'esistenza di una grandissima fetta del mondo. Non è un caso: il social network più diffuso del mondo è stato spesso paragonato a un enorme Stato, con una popolazione (attiva) enorme, e profitti altissimi, paragonabili al prodotto interno lordo di un Paese reale.

Re e imperatori: i peggiori d'Europa. Da Focus.it. Pigrizia, incompetenza, eccesso di ambizione, dissolutezza: i motivi per cui alcuni regnanti hanno lasciato un pessimo ricordo di sé nella Storia sono molti e dei più disparati. Il principe Giovanni, ad esempio, detto "senza terra" perché alla morte del padre non ereditò alcun feudo, non gode di buona fama. Anche se ad alimentare la sua "leggenda nera" hanno sicuramente contribuito i popolari racconti su Robin Hood, non sempre attendibili storicamente. Luigi XVI, re di Francia, ha invece ha fatto tutto da solo: prima di finire ghigliottinato si rivelò inadatto a gestire una situazione tanto complessa com'era quella francese nei mesi che precedettero la rivoluzione. Lo stesso fu per lo zar Nicola II di Russia. Nessuno raggiunse però il cinismo di Leopoldo II del Belgio, che per creare il suo impero coloniale lasciò morire in Congo milioni di indigeni. Ecco alcuni dei sovrani peggiori della Storia.

Caligola (12-41), eccentrico imperatore di Roma dopo Tiberio, deve il suo nome alla calzatura militare (calǐga) che indossò fin da bambino. Salito al potere instaurò un governo assoluto, entrando in rotta di collisione con il Senato e con le classi dirigenti. Molto amato dal popolo, ebbe una vita privata dissoluta, a tratti sadica, e introdusse nella corte un fasto di tipo orientale. Fece uccidere gli oppositori interni, umiliò più volte i senatori e visse nel lusso sfrenato dando vita a numerosi aneddoti sul suo conto: è diventata proverbiale la leggenda secondo cui avrebbe nominato senatore Incitatus, il suo cavallo. Secondo le fonti avrebbe in realtà voluto dargli la carica di console, ma fu assassinato prima. Guarda anche tutto quello che fece grande l'impero romano. eopoldo II (1835-1909), re del Belgio dal 1865 al 1909, difese con la diplomazia l'integrità del suo Paese contro le mire espansionistiche di Napoleone III di Francia (1866-69). In Africa, in compenso, commise crimini atroci: negli anni dell'espansione coloniale amministrò l'area congolese in modo crudele e assolutamente privatistico. Trasformò interi villaggi in luoghi per la lavorazione della gomma e fece morire quasi 10 milioni di congolesi su un totale di 25 milioni. Vedi altri 12 personaggi spietati della Storia.

L'ultimo zar: Nicola II (1868-1918). Sotto il suo regno finì l'impero russo. Sarebbe potuta andare diversamente la storia? Di certo sappiamo che lo "zar di tutte le Russie" si dimostrò inadeguato e non concesse le riforme democratiche di cui il Paese aveva bisogno. Pur favorendo lo sviluppo industriale e sostenendo alcune riforme economiche, difese il sistema di potere russo e si oppose ai tentativi proposti di riforma agraria. Le sconfitte subite dalla Russia durante la Prima guerra mondiale e l'aumentare dei conflitti sociali fecero così precipitare la situazione, che sfociò nella rivoluzione del febbraio 1917. Nicola abdicò il 4 marzo. Imprigionato, fu trasferito a Ekaterinburg dove venne ucciso dai bolscevichi, insieme con la sua famiglia, il 16 luglio 1918.

Giorgio IV del Regno Unito (1762-1830), alcolista, pigro e probabilmente dipendente dall'oppio, è passato alla storia per essere stato un re egoista, inaffidabile e irresponsabile. Sempre rappresentato come un re "dandy", fu noto soprattutto per le sue disavventure amorose e per il carattere dissoluto della sua corte. Alla sua morte la reputazione della monarchia inglese era arrivata ai minimi storici, tanto nel Regno Unito, quanto all'estero.

Eliogabalo (203-222), di origine siriana, apparteneva alla dinastia dei Severi. Tentò di importare a Roma il culto del Sole sovvertendo le tradizioni religiose romane e sostituendo, a Giove, la divinità solare del Sol Invictus. La sua politica religiosa e i suoi eccessi sessuali (ebbe cinque mogli e due mariti) fecero montare il malumore nei suoi confronti, fino al suo assassinio. Alla morte fu colpito dalla damnatio memoriae: la pena consisteva nella cancellazione di una persona dalla memoria collettiva, eliminando qualsiasi traccia che potesse ricordarla ai posteri.

Giovanni Senza Terra (1166-1216) fu soprannominato così per essere rimasto, ultimo dei fratelli, senza appannaggi, ovvero senza feudi. Quando suo fratello, re Riccardo detto Cuor di Leone, partì per la terza crociata, gli affidò la reggenza. In sua assenza Giovanni cercò di farsi eleggere re d'Inghilterra al suo posto: non ebbe successo e quando il legittimo re tornò fu costretto a farsi da parte. Alla morte del fratello, divenne re ma entrò in lotta con i baroni e fu costretto a firmare nel 1215 la Magna Charta libertatum, in cui si riconoscevano alla nobiltà laica ed ecclesiastica alcuni privilegi. Entrò nella leggenda di Robin Hood come il malvagio principe Giovanni.

Ferdinando VII di Borbone (1785-1833), re di Spagna dal 1808 al 1833, dopo il declino di Napoleone (1814) divenne il campione della Restaurazione: abolì la costituzione di Cadice che era stata promulgata nel 1812 e reintrodusse l'Inquisizione e i privilegi della nobiltà e del clero. Per favorire l'ascesa al trono della figlia Isabella II, unica erede, fece regole ad personam, abrogando la legge salica, che vietava alle figlie di ereditare le terre dei genitori.

Luigi XVI di Borbone (1754-1793), re di Francia. Nonostante volesse proporsi come un "buon re", il pigro e non troppo acuto sovrano portò la Francia a una grave crisi economica: incapace di dare al regno le riforme di cui aveva bisogno, contribuì a creare le premesse della Rivoluzione. Nel pieno della rivolta, il 25 giugno del 1791, non riuscendo a prendere una posizione coraggiosa, optò per la fuga anche nella speranza di agevolare l'ala moderata dei rivoluzionari. Costretto a giurare sulla Costituzione il settembre successivo, riprese le sue funzioni, ma solo nominalmente: finirà ghigliottinato due anni dopo. Vedi anche 11 cose che forse non sai sulla Rivoluzione Francese.

Tito Flavio Domiziano (51-96), ultimo dei Flavi, di costumi viziosi e dissoluti, non si fermò davanti a niente. Salito al trono si rivelò un imperatore spietato, sanguinario, molto temuto. Divenne tristemente famoso per le persecuzioni cristiane, ma anche per la sua discussa gestione del potere: amava farsi chiamare dominus et deus («signore e dio») e governò con il pugno di ferro, escludendo il Senato da qualsiasi decisione. Alla fine del suo regno l'impero si troverà sull'orlo del baratro.

Così l’Urss stroncò la Primavera di Praga. Il titolo eclatante della Gazzetta del Mezzogiorno. «Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno» nel 1968: repressione simile all’invasione nazista. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Agosto 2022.

«Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno». Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici sono entrati nella capitale cecoslovacca e hanno messo fine alla Primavera di Praga.  Le truppe del patto di Varsavia, dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, stroncano il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista.

«La Cecoslovacchia vive il secondo grande dramma della sua storia. Fu Goebbels che ne annunciò l’invasione nel 1939 quando il nazismo decise di incorporarla nel Terzo Reich di Hitler. Ora è la volta dei Russi che credono di scorgere una nuova minaccia all’ordine in Cecoslovacchia, in un territorio in cui anche essi sono vitalmente interessati», scrive W. Rehaki sul quotidiano.

«Sin da quando Radio Praga, interrompendo la notte scorsa un normale notiziario, ha dato all’intero Paese la drammatica notizia che truppe sovietiche, tedesco orientali, polacche, ungheresi e bulgare avevano, senza alcun preavviso violato le frontiere per occuparlo, da parte responsabile ci si è resi subito conto che l’unica cosa da fare era invitare tutti alla calma ed evitare a qualsiasi costo un confronto violento con le forze di invasione che non avrebbe avuto purtroppo alcun risultato, come a Budapest nel lontano 1956».

Nella notte le truppe sono avanzate in città, infatti, quasi senza incontrare resistenza: la popolazione ha reagito in modo non violento, tuttavia non sono mancati morti e feriti tra i civili. All’alba il primo ministro Dubcek e gli altri membri del governo sono stati arrestati: i sovietici, però, non riescono a dar vita subito a un governo collaborazionista. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek portava avanti un programma di moderate riforme, basato sul decentramento economico e politico, sulla rinascita dei sindacati e sulla libertà di stampa. I Russi però temono che l’esempio della Cecoslovacchia possa diffondersi nel resto dell’Europa Orientale. In un pezzo di Adam Kennett-Long, corrispondente da Mosca per l’agenzia Reuter, si apprende che la Tass, agenzia di stampa dell’Urss, ha dichiarato che proprio i dirigenti cecoslovacchi avrebbero richiesto l’intervento delle truppe per porre fine alla «contro-rivoluzione».

In pochi mesi le riforme messe in atto dal governo Dubcek saranno annullate. Nel gennaio 1969, il giovanissimo Jan Palach si darà fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, in segno di protesta. 

Il racconto. La lezione della storia: il caso Sarajevo nell’Europa dei “sonnambuli”. Corrado Augias La Repubblica il 30 aprile 2022.  

L’ arciduca Francesco Ferdinando con la moglie nel momento dell’attentato per mano di Gavrilo Princip in una stampa d’ epoca. L’attentato del 28 giugno 1914, come tutti sappiamo, fu la miccia che generò la Grande guerra. Ma a renderla inevitabile fu la colpevole cecità dei Paesi del continente.

Il 28 giugno 1914 era domenica. L'arciduca Francesco Ferdinando - erede al trono d'Austria-Ungheria - e sua moglie Sofia arrivarono in treno a Sarajevo. Venivano da tre giorni di vacanza in una cittadina termale, l'accoglienza era stata impeccabile. Dalla stazione si diressero in auto al municipio. Ebbero poi il tempo di visitare il pittoresco bazar senza particolari misure di sicurezza.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.

«Il mondo non è più diviso tra destra e sinistra ma tra democrazie e regimi autoritari. Cina e Russia sono il motore del secondo fronte. Putin è da anni al centro di questo network antidemocratico e manda truppe ovunque, dalla Siria al Venezuela. Ora cerca di schiacciare l’Ucraina. 

Sono convinto, e lo dico dal 2014, che qui si combatte la battaglia decisiva tra Paesi liberi e regimi autoritari. L’esito è molto più importante dello stesso destino dell’Ucraina perché darà una spinta poderosa alle democrazie o ai totalitarismi, a seconda di chi prevarrà». 

Dopo la caduta del muro di Berlino e del regime sovietico, lo storico Francis Fukuyama affascinò e illuse l’Occidente col suo La fine della Storia : un saggio nel quale descriveva la liberaldemocrazia come il «capolinea dell’evoluzione ideologica dell’umanità».

Trent’anni dopo — e dopo diverse correzioni di rotta — Fukuyama rimane convinto del valore assoluto degli ideali liberaldemocratici, ma prende anche atto che per difenderli bisogna salire sulle barricate. Lo intervisto mentre, tornato brevemente a Stanford, in California, dopo una missione nei Balcani, sta ripartendo per Londra dove presenta il suo nuovo libro, Liberalism and Its Discontentents.

Nei suoi interventi più recenti, lei definisce l’attacco di Putin una grande tragedia, una minaccia potenzialmente mortale, ma anche una grande occasione di riscossa delle democrazie liberali che si risvegliano dal loro torpore, ritrovano compattezza e il senso profondo di un’identità comune.

«Putin ha commesso un grave errore di valutazione. Pensava di prendersi l’Ucraina in due giorni e, invece, la fiera resistenza di quel popolo sta mostrando al mondo, e soprattutto ai giovani, poco interessati agli ideali di libertà e democrazia che danno per scontati, l’importanza di questi valori e, soprattutto, l’importanza di difenderli da dittatori pronti a tutto per soffocarli.

Il risveglio dell’Occidente gli costerà caro, ma Putin può ancora ottenere una vittoria, sia pure parziale: se riesce a rovesciare il governo democratico di Zelensky, mostrerà che si possono ottenere grandi risultati politici con la forza militare: un apripista per altri regimi tentati di seguire la stessa strada». 

Quanto si può fare affidamento sulla compattezza della Nato, dall’Ungheria di Orbán alla Turchia che dice no alle sanzioni?

«La Nato ha ritrovato un’unità straordinaria, che nessuno si aspettava. È un bene prezioso. Certo non c’è da fidarsi di Orbán, sempre pronto ai giochi più spregiudicati e non mancano altri problemi, ad esempio con la Polonia che stava per essere sanzionata dalla Ue.

Ora che Varsavia è la frontiera avanzata dell’Alleanza e accoglie milioni di profughi quel dossier verrà accantonato. I problemi, però, restano. Ma è lo spirito complessivo dei governi europei che oggi è diverso. Pesa soprattutto il cambiamento radicale e rapidissimo della Germania: il capovolgimento di 40 anni di Ostpolitik, il raddoppio delle spese militari, le armi date all’Ucraina.

Questa guerra può creare le condizioni per rifondare la Nato e l’Europa su nuove basi. Diventano possibili cose fino a ieri impensabili. Se Macron verrà rieletto, Francia e Germania potranno promuovere davvero la cosiddetta Iniziativa europea di difesa indipendente».

Per essere credibile una difesa europea non dovrebbe avere anche un deterrente nucleare? Germania con l’atomica?

«Il deterrente nucleare è importante, ma in Europa già lo hanno due Paesi e può bastare. Poi ci sarà sempre l’ombrello americano della Nato. Non credo che la Germania voglia diventare una potenza nucleare. Quello che conta è dotarsi di una forza militare convenzionale sufficiente per difendersi autonomamente e per missioni come quella nei Balcani».

Non teme che lo sforzo di isolare, anche militarmente ed economicamente, Putin, possa essere vanificato dalla Cina?

«Dopo aver promesso con una certa leggerezza a Putin alleanze senza limiti, la Cina sta avendo ripensamenti. Non vedo prove concrete di una vera risposta positiva alla richiesta russa di assistenza militare. 

Saranno cauti: le sanzioni contro la Russia freneranno anche le loro mire su Taiwan e gli insuccessi delle truppe di Mosca faranno riflettere anche loro. La Cina ha investito molto in campo militare, dispone di tecnologie avanzatissime, ma questo non significa che le sue forze armate abbiano capacità operative adeguate».

Non teme nemmeno che attorno a Russia e Cina possa coagularsi, magari solo sul terreno economico, un fronte antioccidentale di Paesi emergenti contrari a sanzioni che hanno un costo per tutti?

«C’è insoddisfazione nei confronti dell’Occidente in molte parti del mondo, ma questo dipende soprattutto da errori come l’invasione dell’Iraq o anche solo frizioni di tipo diplomatico.

Vengo dalla Macedonia del Nord: lì il forte risentimento nei confronti dell’Europa dipende non da un rifiuto dei valori liberaldemocratici, ma dal fatto che Skopje ha chiesto di entrare nella Ue 17 anni fa e da allora si è vista chiudere la porta in faccia più volte. Credo poco alla nascita di un blocco commerciale indipendente da Usa ed Europa: il sistema dei pagamenti è tuttora fatto quasi solo di dollari ed euro. E non è così facile per la Cina sostituire una rete finanziaria planetaria come Swift. Può farlo, ma non in tempi brevi».

La Nato non ha errori da rimproverarsi?

«Aver offerto nel 2008 l’ingresso nell’Alleanza a Georgia e Ucraina fu un grave errore, ma non sono tra quelli, come il politologo John Mearsheimer, che attribuiscono l’aggressione russa all’allargamento Nato. L’origine va cercata nella potente narrativa storica che è stata diffusa da Putin e nella sua volontà di disfare l’ordine europeo formato dopo la Guerra Fredda. Non solo in Ucraina ma in tutto l’Europa orientale».

Timori di escalation fino all’uso dell’atomica?

«Non credo che la minaccia nucleare sia molto credibile. Tutti, compreso Putin, si rendono conto che l’atomica non è un’arma utile per raggiungere obiettivi politici. Temo il ricorso ad armi chimiche come reazione disperata di un Cremlino chiuso in un angolo». 

La Turchia è divenuta una potenza regionale grazie anche ai suoi droni usati in vari conflitti. Ora arma l’Ucraina ma negozia con Putin e non lo sanziona. Che gioco fa?

«La Turchia pensa di avere una relazione speciale con Mosca. Relazione speciale ma non buona, da quando la Turchia abbatté un jet russo in Siria. Erdogan è contrariato perché Putin l’ha consultato e poi non ha seguito i suoi consigli lanciando l’attacco. Non credo gli dispiaccia vedere Mosca in difficoltà. Anche grazie ai micidiali droni turchi usati dagli ucraini che adesso tutti vogliono comprare».

Domenico Quirico per “la Stampa” il 25 marzo 2022.

Questa guerra in Europa ci sconvolge per l'impotenza dell'uomo davanti al destino, per quell'ammazzarsi meccanico e tecnologico con il suo gigantesco arsenale di missili artiglieria carri armati, a cui nessuno sembra poter porre rimedio. Questo potere del destino apparenta questo conflitto alla Prima guerra mondiale. La fragilità del corpo umano di fronte al metallo e alla tecnologia, la morte meccanica e l'alto numero di vittime nelle città che assomigliano sempre più alle trincee delle Fiandre legano l'oggi alle atrocità dell'avvio del Novecento.

Questa guerra che è insieme ipermoderna e antica scopre le sue carte e porrà fine, per la seconda volta, alle illusioni progressiste e umanitarie. Nel 1914 andarono in pezzi i sogni ottocenteschi che il destino dell'uomo sarebbe stato obbligatoriamente migliore, oggi uscirà in briciole la propaganda di un mondo aperto e globale, dove merci idee e uomini avrebbero camminato e progredito insieme.

Sappiamo per averlo provato nel Novecento su di noi europei che le civiltà possiedono la stessa fragilità di una vita. Colano a picco con i loro uomini e le loro macchine, con gli dèi e le leggi, le accademie e le scienze. L'abisso della irrilevanza storica è abbastanza grande per tutti. Fino a un mese fa l'Europa era ancora piena di cose, personaggi, progetti, utopie. Adesso è diventata, al di là di una sgonfia retorica consolatoria, qualcosa di astratto, nebbioso, ha solo problemi, paure, dipendenze, sospetti, vive ogni giorno nell'angoscia di diventare un grande campo di battaglia.

Il problema diventa di nuovo: quale ragione ha l'Europa di farsi? Con quale contenuto e diritto? Che cosa rappresenta? È un personaggio con qualcosa che la distingue dagli altri che si fanno così brutalmente sentire sulla scena del mondo? O solo un "collage", fatto di attaccamento e disamore, come si dice in francese, di iscritti all'Alleanza militare atlantica? Prima ancora di unità, che la necessità di sopravvivenza all'istinto di preda putiniano sembra aver frettolosamente abborracciato, un problema di identità.

Come nel 1918 temo che stiamo per assistere, sgomenti, alla seconda morte d'Europa. È quello che ne uscirà, qualunque sia l'esito del conflitto, sia che la furia russa di ridefinire equilibri che non considera più definitivi e che sono eredità imperfetta dalla caduta del Muro abbia successo o sia che venga respinta o contenuta. Il mondo che ne uscirà vedrà consolidarsi gli Stati Uniti da una parte, rimasti al riparo del loro splendido isolamento transoceanico, abili nell'attizzare la guerra affidata alla pena di alleati e famigli che hanno trovato una occasione di mettere un po' di belletto a una inevitabile decadenza imperiale.

Dall'altra parte due potenze asiatiche, la Cina che consoliderà con il suo astuto attendismo il passaggio imperialistico da potenza economica a gigante militare; e la Russia che rinnegherà, nella ferocia dello scontro e per le cicatrici lasciate dall'isolamento e dalle sanzioni, la sua vocazione europea per volgersi dall'altra parte. 

A quella tentazione asiatica a cui il forcipe di Pietro il grande l'aveva sottratta costringendola a guardare a ovest restando sotto il marchio autocratico. Sconfitta questa che sarebbe di portata gigantesca per gli europei e l'Occidente. Perché la Russia è sempre stata occidente anche quando la separava il Muro di Paese del socialismo reale e del marxismo burocratico e autoritario. Persino in quello sviluppo restava europea perché parlava una lingua ideologica a noi domestica e nota.

Le tre potenze che sopravviveranno si daranno battaglia nel Terzo mondo. Sempre che approfittando dei nostri errori e delle nostre baruffe fratricide il progetto totalitario dell'islam non trovi linfa e occasioni per sedersi al tavolo come quarto, pericoloso incomodo. Nel 1914 l'Europa che era ancora presidiata da grandi potenze, Inghilterra, Francia con i loro imperi, il blocco continentale delle autocrazie, Germania, Austria-Ungheria e Russia (lo chiamavano il concerto europeo, litigioso gonfio di livori ma con un collaudato meccanismo che garantiva l'uscita di sicurezza diplomatica), corse con cieca indifferenza al fratricidio della guerra civile.

Colpa di una generazione particolarmente feconda di politici molto bravi a metter tutto in subbuglio e repentaglio, attentissimi a non introdurvi ordine, misura, pazienza. Questa abilità di complicare i conflitti fu pari solo alla impotenza, una volta scoppiati, di chiarirli, limitarli risolverli. 

Non vi ricorda questa generazione di profeti sovvertitori quella che posta di fronte all'incendio ucraino e agli ultimatum prepotenti di Putin invece di far appello al proprio ruolo di mediatore forte che la geografia e la convenienza loro imponeva si è messa ad attizzare come artificieri pirotecnici fuochi che altri gli gettavano davanti incitandoli a innescarli? 

Così che si è assistito allo scandalo di una guerra tra nazioni europee e cristiane in cui chi cerca di bagnare le polveri e strappare un armistizio sono un musulmano dalla fama assai dubbia, un ebreo che ha saggiamente conservato voce nei due campi in lotta, e forse ma, con subdole reticenze, un comunista confuciano.

Noi europei che avevamo appena finito di congratularci con noi stessi per esserci dato appoggio reciproco nella bufera della pandemia, siamo scivolati in questo nuovo problema continuando come ciechi e sordi a confortarci l'un l'altro: una guerra qui tra noi è del tutto irragionevole, quindi impossibile. E non è tutto. La scottante lezione è ancora più completa. L'Europa ha sentito che rischiava di fronte a questo pericolo «impossibile» di non riconoscersi più, che cessava di assomigliare a se stessa, che stava per perdere una coscienza acquisita dopo un lungo periodo di disgrazie sopportabili. 

Non si può accettare l'aggressione si è detto. Ed era giusto, anche se molte altre ne ha accettate in altre parti del mondo. Ma poi ha abdicato a quella che l'ha fatta grande ovvero questa sua straordinaria e forse unica capacità di trasmissione unita a una intensa capacità di assorbimento. Forse è la sua vera ricchezza, la forma originale della sua intelligenza, la sua ragione di durare. Qualunque chiusura di gioco le sarebbe funesta rendendola superflua.

Il ritratto di Lenin «piccolo borghese». E il «Margherita» a Bari diventò un cinema. Annabella De Robertis  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.

«Un piccolo borghese dall’aspetto placido, benigno, dalle mani bianche»: così inizia la descrizione di Lenin sulle pagine del «Corriere delle Puglie» del 28 aprile 1922. A comporre il ritratto è Giuseppe Alberto Pugliese, insigne avvocato, nato a Toritto, deputato per diverse legislature.

La vita del leader sovietico è piena di mistero: da molto tempo nessuno lo vede, non firma gli atti del governo, non si sa dove sia. Sospettano persino che si aggiri travestito alla Conferenza di Genova. È un teorico, come lo era Robespierre, un mistico, il dogmatico della rivoluzione che ha voluto sovrapporre un’idea astratta al popolo russo, a qualunque costo. Mite di natura, come tutti i dominatori assoluti, una volta al potere, non ha scrupoli sentimentali, sostiene il giurista: «si è gettato dentro la rivoluzione per soddisfare la sua sete di potenza e di vendetta».

Zarismo e bolscevismo sono due estremi che si toccano: «l’anima russa ignora il giusto mezzo, ha la vertigine degli estremi, non ha paura, le incognite lo attirano come calamita il ferro».

Per Pugliese la rivoluzione teorica di Lenin può dirsi, nell’aprile 1922, fallita: territorialmente la Russia è tornata quella che era prima di Pietro il Grande, il popolo muore di fame e Lenin chiede aiuto all’Europa, la cui civiltà voleva distruggere. E l’occidente deve affrettarsi a salvare la Russia.

Pochi mesi dopo si costituirà, invece, l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss): Lenin, colpito da paralisi nel maggio 1922, continuerà a seguire dal soggiorno di cura a Gorki, nelle vicinanze di Mosca, gli sviluppi dello Stato sovietico, fino alla morte sopraggiunta nel ‘24.

Les Dieux s’en vont. Il Margherita non sarà più né teatro di varietà, né teatro di prosa e di operette e tanto meno per stagione lirica, è trasformato in un grandioso e moderno cinematografo»: questa è una grande novità annunciata sul «Corriere». Lo scenario barese è ormai completo: vi è il Petruzzelli per la stagione lirica, il Piccinni per la prosa e il Margherita potrà essere ora «il cinematografo ideale». Eretto su solide palafitte sul mare, inaugurato nel 1914 con il nome di «Kursaal Margherita», ospita nelle sue sale anche il Museo storico della città. Finalmente gli spettatori non dovranno più accalcarsi in salette anguste: nell’ex teatro potranno prendere comodamente posto ben duemila persone e godere della musica di una vera orchestra. Qui, nel gennaio 1931 i baresi assisteranno alla proiezione del primo film sonoro italiano: «La canzone dell’amore».

Nella storia l’origine delle ossessioni di Mosca. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.  

Il nucleo originario dello Stato non aveva un confine geografico preciso e ancora oggi nella Federazione convivono 200 etnie diverse: da questo la convinzione sulla necessità di un accentramento assoluto del potere, il bisogno rassicurante del governo forte.  

La Russia è uno Stato formatosi in un modo che in Europa non ha eguali, sicché solo se si conosce questo singolare processo, la sua storia, si può arrivare a capire anche la psicologia e il comportamento dei suoi governanti. A cominciare dalla loro secolare ossessione per la sicurezza con il tipico esito paranoico di sentirsi di continuo accerchiati e minacciati e di conseguenza predisposti alla più risoluta aggressività. Un modello che Putin incarna alla perfezione. 

La Russia è innanzi tutto un problema geografico. Collocata per gran parte fuori dal nostro continente, è l’unica statualità europea che si è costituita con operazioni di conquista di tipo coloniale. Infatti, da un lato nel Sei-Settecento ha incorporato una parte enorme (e ricchissima di risorse minerarie) dell’Asia settentrionale allora abitata da sparuti gruppi di popolazioni indigene, la Siberia, e più o meno contemporaneamente ha strappato al dominio tartaro la grande regione che dal basso Volga e dalla Crimea arriva fino al Caucaso; dall’altro lato nell’Ottocento si annetté gli sterminati territori dell’Asia centrale islamica (Kazakistan, Uzbekistan, ecc.) fino alle pendici del Karakorum. 

Tutte operazioni bellico-espansionistiche — e di tipo colonialistico, ripeto — favorite da due dati fondamentali: il fatto che il nucleo originario slavo dello Stato russo (costituito dal triangolo Kiew, Mosca, Novgorod) mancava di qualunque confine geografico preciso, e la superiorità militare che le davano gli armamenti moderni di cui era in possesso. 

Questo singolarissimo dato storico-geografico ha voluto dire innanzi tutto uno Stato con una formazione per aggregazioni successive di parti tra loro diversissime e multietnico come nessun altro Stato europeo: si pensi che tutt’oggi — vale a dire anche dopo le secessioni seguite alla fine dell’Unione sovietica — nella Federazione russa esistono circa duecento (dicesi duecento) differenti gruppi etnici. Ma proprio perciò ne è venuta fuori una statualità che ha introiettato nel proprio modo d’essere e in quello dei suoi gruppi dirigenti due disposizioni patologiche: da un lato la perenne paura della disintegrazione, del disfacimento dall’interno, il perenne sospetto che qualche potere straniero trami per favorire tale disfacimento; e dall’altro — precisamente al fine di esorcizzare una simile paura — la convinzione ossessiva circa la necessità di un accentramento assoluto del potere, il bisogno rassicurante del governo forte, del pugno di ferro. Insomma: l’autoritarismo come requisito per l’esistenza stessa dello Stato e l’uso della forza come la sua istintiva modalità d’azione. 

Tutto pur di scongiurare quello che dopo la fine del comunismo i governanti russi avvertono come il pericolo sospeso sul capo del loro Stato per effetto della sua stessa vicenda originaria: dopo essere stati abbandonati da tutta l’Asia sovietica di un tempo, vedersi abbandonati anche dall’Ucraina e dalla Bielorussia e in questo modo ridotti alla Moscovia del XVI secolo con alle spalle solo l’enorme e spopolata Siberia confinante per oltre 4 mila chilometri con la Cina. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante. 

È per l’appunto la natura geograficamente e storicamente composita e «dispersa» dello Stato russo di cui ho appena detto, il suo carattere assai più «imperiale» che «nazionale», è questo dato che spiega il fascino che sempre ha esercitato sulla sua società, ma in specie sulle sue classi colte e politiche, il richiamo all’universalità. Il fascino, cioè, di ideologie che affidavano alla Russia missioni mondiali a sfondo di salvezza: vuoi che si trattasse dell’idea di Mosca incarnazione della Terza Roma consacrata dall’ortodossia, vuoi, più vicino a noi, che si trattasse dell’Internazionale comunista incaricata di portare la rivoluzione ai quattro angoli della Terra, vuoi della missione che oggi alcuni circoli intellettuali vicini a Putin assegnano alla Russia di rappresentare la sfida della Tradizione alla Modernità nichilistica nelle cui spire mortali si starebbe dibattendo l’Occidente. È il destino degli imperi (e delle entità che aspirano esserlo): sospesi tra autoreferenzialità e universalismo non riescono a sfuggire alla tentazione di raffigurarsi come portatori elettivi di un’Idea con l’iniziale maiuscola. 

Risulta ovvia da quanto fin qui detto la difficoltà strutturale per tutto il resto d’Europa di avere a che fare con la Russia. Per tutto il resto di un’Europa, tra l’altro, agli occhi della quale l’idea di potenza e di dominio da cui Mosca non sa né forse può distaccarsi, rappresenta ormai - almeno nell’ambito del suo continente - un residuo del passato quasi incomprensibile e però un residuo fin troppo presente, incombente. Di fronte al quale non si vede che altra prospettiva politica sia possibile adottare se non quella di un sostanziale contenimento. Che per essere tale, cioè efficace, non può che essere sostenuto, tuttavia, da un adeguato strumento militare. È verosimile però che oggi l’Europa possa attuare un tale contenimento e disporre di un tale strumento militare a prescindere dalla Nato, cioè dagli Stati Uniti? Questa è la domanda chiave. E se amassero ragionare sui dati della realtà invece che sciorinare i loro buoni sentimenti (che peraltro sono anche i nostri, glielo assicuriamo) è a questa domanda che i pacifisti dovrebbero cercare di rispondere.

Così Xi Jinping aveva previsto la guerra russa in Ucraina. BRANKO MILANOVI, Ceconomista, su Il Domani il 18 agosto 2022

Un amico mi ha recentemente mandato una versione abbreviata del discorso del gennaio 2013 di Xi Jinping ai membri del Comitato centrale del Pcc. È piuttosto provvidenziale il fatto che l’abbia letto ora, quasi dieci anni dopo la sua pronuncia, perché getta luce sul problema molto attuale della guerra russa in Ucraina.

Secondo Xi Jinping, quando un partito perde il controllo dell’ideologia cade preda del “nichilismo ideologico”. E se al vuoto creatosi si sostituisce il desiderio cinico di dominio, si apre la strada a politiche pericolose. 

Il testo fa parte del numero di Scenari: “Alla corte di Xi Jinping”, in edicola e in digitale dal 12 agosto.

Monito di Putin. "Finito il mondo unipolare. L'islam alleato". Redazione su Il Giornale il 30 agosto 2022.

Il mondo unipolare è ormai «obsoleto» e sarà presto sostituito da un nuovo ordine globale «basato sui principi fondamentali della giustizia e dell'uguaglianza e sul riconoscimento del diritto di ogni Paese o popolo a seguire il suo percorso sovrano di sviluppo». È la visione del presidente russo Vladimir Putin che lo ha affermato in un messaggio inviato ieri, in occasione dell'apertura del Forum sugli investimenti nell'Estremo Oriente russo, a Vladivostok. Secondo Putin: «È nella regione Asia-Pacifico che si stanno formando potenti centri politici ed economici, che fungono da forza trainante di questo processo irreversibile».

Mentre in un saluto inviato ai partecipanti e agli ospiti del Summit mondiale della gioventù di Kazan, il capo del Cremlino ha osservato che l'elezione di Kazan a capitale giovanile dell'Organizzazione per la cooperazione islamica conferma l'alto livello delle relazioni della Russia con questa struttura internazionale. «Centinaia di delegati da decine di Paesi sono arrivati a Kazan, rappresentanti di varie organizzazioni pubbliche e studentesche, di centri di esperti e di dipartimenti governativi responsabili delle politiche giovanili». E ha aggiunto, nel suo messaggio: «Gli stati del mondo islamico sono i nostri partner tradizionali nella risoluzione di molte questioni di attualità dell'agenda regionale e globale, negli sforzi per costruire un ordine mondiale più giusto e democratico. È importante che i giovani siano sempre più coinvolti in tale interazione costruttiva e sfaccettata». Kazan è la capitale della repubblica russa del Tatarstan è la sesta città della Russia per popolazione. Si tratta di un importante centro di commercio, industria e cultura, ed è il più importante sito della cultura tatara. Si trova alla confluenza del Volga con la Kazanka, nella Russia europea centrale. L'11 maggio 2021 la città è stata scenario di una strage. Imbracciando armi da fuoco, un ex studente è entrato in un istituto scolastico coinvolgendo diversi ragazzi e facendo vittime e feriti. In seguito a questo evento, il Cremlino ha deciso di riaprire il confronto politico sull'uso privato delle armi nel Paese.

Putin e il Mediterraneo: perché lo Zar vuole il nostro mare. Il Corriere della Sera il 25 Agosto 2022

È dal tempo dell’Impero che la Russia cerca un passaggio verso le calde acque del Sud. Oggi nel Mare Nostrum concentra mezzi e armi. Rotte pericolose di guerra, traffici e cavi che connettono il mondo di Maria Serena Natale / CorriereTv

Non solo Caspio, Mar Nero e gelidi mari del Nord. Dal tempo degli zar la Russia cerca un passaggio permanente verso le calde acque del Sud, il Mediterraneo piattaforma di confronto con l’Europa e con l’Impero Ottomano, rivale storico che attraverso Bosforo e Dardanelli controlla l’accesso al Mare Nostrum. Oggi la Nato mantiene il predominio nell’area ma l’armata russa concentra mezzi, missili e sistemi antiaerei. La guerra di Siria è stata un’occasione per consolidare le posizioni: è del 2017 l’accordo per ampliare la base navale nel porto di Tartus. Unità della flotta di Mosca si muovono regolarmente nel Mediterraneo e dal lancio delle operazioni in Ucraina le manovre dimostrative si sono intensificate. In Africa la Russia fornisce energia e garantisce sicurezza. Stringe legami, s’inserisce nei vuoti di potere. Nella risoluzione Onu di condanna dell’aggressione all’Ucraina l’Algeria si è astenuta, il Marocco non ha votato. Dall’Algeria come dalla Tunisia passano i cavi sottomarini che portano elettricità e soprattutto Internet all’Italia e all’Europa. Acque frequentate dai sottomarini russi. Rotte pericolose, con il rischio di incidenti tra le reti in fibra che connettono il mondo.

Vladimir Putin e la Russia non riescono ad abbandonare le ambizioni imperiali. Budapest nel’56, Praga nel’68. Ora i carri armati sono in Ucraina. Finito il comunismo sovietico resta la voglia di ricreare la potenza del passato. Bernardo Valli su La Repubblica il 13 giugno 2022.

Comincia così il saggio di Milan Kundera del 1983, adesso ripubblicato da Adelphi con il titolo “Un Occidente prigioniero”. Lo scrittore ceco naturalizzato francese racconta che nel settembre del 1956 il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall’artiglieria sovietica, trasmise al mondo intero per telex un disperato messaggio sull’offensiva che poche ore prima i russi avevano lanciato contro Budapest. Il messaggio finisce con queste parole: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa». Cosa voleva dire? si chiede Kundera. Certamente che i carri armati sovietici mettevano in pericolo l’Ungheria e, insieme, l’Europa. Ma in che senso, si chiede sempre Kundera, l’Europa era in pericolo? I blindati russi erano forse sul punto di varcare le frontiere ungheresi e dirigersi a Ovest? No. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese voleva dire che in Ungheria era l’Europa a essere presa di mira. «Perché l’Ungheria restasse Europa era pronto a morire».

“Morire per l’Europa” non è uno slogan di molti in questi nostri tempi, mentre l’Ucraina si difende dall’invasione ordinata da Putin ed eseguita con grande difficoltà e tra tante incertezze, cento giorni dopo l’inizio dell’aggressione. Ho vissuto l’invasione dell’Ungheria nel ’56, come giovane cronista incaricato di accogliere i profughi che superavano i confini nazionali per rifugiarsi in Occidente. Riassumo il significato di quegli avvenimenti drammatici per il giornalista alle prime armi, trovatosi di fronte a quel che appariva una rivolta contro il comunismo imposto dalla super potenza sovietica vittoriosa della Seconda guerra mondiale. Nei partiti comunisti all’opposizione nell’Europa democratica si accesero crisi e si verificarono defezioni, in particolare tra gli intellettuali. Non furono in pochi, allora, a ripudiare l’affiliazione al Pci. Tra questi Italo Calvino che proveniva dalla Resistenza ligure. Ma oggi non sono in discussione le ideologie. Quel che ci riporta al passato non le riguarda. Le più evidenti tracce di allora sono i miliardari che hanno approfittato della smobilitazione marxista. Sono loro i resti più vistosi di un sistema che predicava, più che rispettare, l’uguaglianza sociale. Prima dell’insurrezione ungherese ci furono a Berlino i moti operai, nel ’53. La strada è stata lunga, con numerose, e spesso sanguinose, tracce.

Ho cominciato dalla mia prima esperienza, vissuta con reazioni intense da un giovane reporter. Poi ne vennero tante altre, sempre in Europa. Anzitutto la Cecoslovacchia, nel ’68. In quell’estate vivevo praticamente ai piedi dei carri armati sovietici che presidiavano piazza Venceslao a Praga. Milan Kundera li ha vissuti quei giorni nella sua Brno natale.

Viene in mente una vecchia sentenza: ha perso il pelo ma non il vizio. È il caso della Russia di Putin, non più sovietica, non più idealmente e formalmente discendente della Rivoluzione d’ottobre, e che, impero in decadenza, è ansioso di recuperare le terre perdute. Quindi il potere che esse comportano. Ho passato mesi nella Polonia insofferente all’imposto pseudo comunismo, conteso nella nazione cattolica, e ho vissuto le tragiche settimane rumene da Bucarest. Più sanguinose di quelle storiche che riunificarono Berlino, e quindi la Germania.

Il secolo passato, che ho in gran parte percorso, mi ha riservato alcuni tra i maggiori eventi della storia: la Seconda guerra mondiale, con la fine del nazismo e del fascismo; la decolonizzazione che ha fatto emergere tante nazioni di quello che un tempo fu chiamato Terzo Mondo; la fine della dittatura marxista e quindi il travolgente fallimento della rivoluzione sovietica. Non pensavo di diventare testimone, a volte diretto, di tanti mutamenti. Il nuovo secolo, anzi millennio, che mi apprestavo a vivere come ultima tappa della già lunga esistenza, ricca di grandi mutamenti, non mi avrebbe riservato sorprese tragiche come il Novecento. Ecco invece che nel paese in cui il comunismo reale (non quello immaginato e mai concretizzato) è stato sepolto senza tanti onori, risorge un regime non più comunista, ma ansioso di recuperare almeno parte delle glorie perdute. Il conflitto in Ucraina ci dirà se la Mosca di Putin ne sarà capace. Se riuscirà sarà un rimbalzo della storia.

Putin e gli zar: ambizioso come Pietro il Grande, disilluso come Alessandro I. Emanuel Pietrobon il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

Vladimir Putin è universalmente noto, perlomeno a livello giornalistico, come "lo Zar". Un appellativo che cela del vero al suo interno. Perché non si può capire a fondo la Russia contemporanea senza conoscere la Russia dei Romanov e di Alessandro I.

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto del libro Emanuel Pietrobon, Nella testa dello Zar, edito da Giubilei Regnani all'interno della collana curata da Andrea Indini, I tornanti.

Sulle orme di Pietro il Grande

Quella di Putin sembra una parabola: ha iniziato il suo percorso come Pietro il Grande, cioè come un riformatore conservatore con lo sguardo all'Europa, diffidenza e tradimenti veri o percepiti lo hanno disilluso come Alessandro I, e in seguito autocratizzato come Nicola I e Alessandro III, e una malagestione dell'involuzione autoritaria cominciata nel dopo-Euromaidan e accelerata nel dopo-guerra in Ucraina potrebbe avere come epilogo un tragico destino alla Alessandro II. Non è fantapolitica: la storia della Russia è un ciclo che si ripete all'infinito e che insegna quanto comuni siano le congiure di palazzo e le rese dei conti maturate nell'ambiente dei siloviki, cioè dello stato profondo. La storia darà ragione o torto a Putin e alla sua «guerra personale» in Ucraina. 

Ma Putin non è sempre stato un autocrate a metà tra i khan del mondo turco-turanico, gli imperatori divini dell'Estremo Oriente e i despoti illuminati europei del tempo delle monarchie assolutiste. È esistito un tempo, ai primordi della sua carriera politica, in cui Putin era un liberale convinto, un riformatore conservatore con il santino di Pietro il Grande ed un eurofilo entusiasta, seppure pragmatico, che sognava di costruire un asse con l'Unione Europea e di integrare la Russia nell'architettura securitaria euroatlantica.

Pietro, padre fondatore della Russia moderna, fu la stella polare di Putin per un decennio e, in un certo senso, il suo vissuto continua ancora ad influenzarlo. L'ossessione per la cattura del Mar d'Azov, posto sotto il controllo di Mosca durante la guerra in Ucraina del 2022, non è che un pallino ereditato da Pietro, colui che per primo provò a controllarlo per ragioni di calcolo: è la testa di ponte per una forte proiezione navale nel Mar Nero.

Ma non è per la dottrina strategico-militare che Putin guardava a Pietro all'inizio dell'era post-eltsiniana: era per la sua visione del mondo. Come Pietro, rimasto impresso nei libri di storia per la Grande ambasciata (Вели́кое посо́льство) in Europa occidentale, Putin vedeva la Russia come l'appendice estremo-orientale della civiltà europea e credeva che l'Europa, non l'Asia, fosse il suo destino.

Coerentemente con l'ambizione di unire le due Europe, nonché di normalizzare le relazioni tra Russia e Stati Uniti, Putin trascorse il primo decennio del nuovo secolo a siglare accordi di cooperazione con l'Unione Europea, a dialogare con l'Alleanza Atlantica e ad appoggiare la Guerra al Terrore delle due amministrazioni Bush Jr.

Nel 2000 la proposta informale all'uscente Bill Clinton di valutare l'entrata della Russia nell'Alleanza Atlantica. Nel 2001 l'adesione alla Guerra al Terrore, con annessa l'apertura delle basi russe nell'Asia centrale postsovietica al personale militare statunitense. Nel 2002 la creazione del Consiglio Nato-Russia, figlio della Dichiarazione di Roma e del «formato Pratica di Mare» di Silvio Berlusconi. Nel 2003 gli accordi sugli spazi comuni con l'Unione Europea. Nel 2004 la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto per accontentare i partner occidentali. Nel 2005 la trilaterale russo-franco-tedesca di Kaliningrad per trovare una posizione comune in vista del G8, apripista di un possibile asse Parigi-Berlino-Mosca. Nel 2010 la proposta di costruire un'area di libero scambio tra Unione Europea e Russia. Nel 2012 l'ingresso della Russia nell'Organizzazione mondiale del commercio reso possibile dalla fine del boicottaggio da parte europea.

La crescente disillusione

Come si suol dire, non è tutto oro quello che luccica. E il negozio della grande distensione aveva una vetrina tanto brillante quanto una bottega piena di orrori. Alla fine, il progetto di costruire la «Grande Eurasia», cioè un'unione politico-economica da Lisbona a Vladivostok, sarebbe crollato sotto il peso delle contraddizioni, dall'allargamento della Nato nell'ex Patto di Varsavia alla pioggia di rivoluzioni colorate nello spazio postsovietico. Nel 2007 il famigerato discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, un vero e proprio manifesto contro la percepita tirannia del «momento unipolare». Nell'agosto 2008 l'invasione della Georgia per impedirne la possibile entrata nell'Alleanza Atlantica, di cui gli alleati euroatlantici avevano discusso al vertice di Bucarest dell'aprile dello stesso anno. Nel 2009 la crisi del gas. Nel 2011-12 la crisi diplomatica tra Russia e Occidente per l'appoggio verbale di quest'ultimo alle massicce proteste antigovernative capitanate da un giovane, e all'epoca semisconosciuto, Aleksei Naval'nyj. E nel 2014, infine, Euromaidan, l'annessione della Crimea e l'inizio della guerra nel Donbas. Il resto è storia. Il resto ha condotto alla guerra in Ucraina del 2022.

Un sovrano con un esercito ha una sola mano, ma colui che ha anche una flotta le ha entrambe.

Pietro il Grande

L'eurofilia di Putin è andata scemando nel tempo, anno dopo anno, e di Pietro il Grande, quell'eroe idolatrato in qualità di «grande riformatore che ha plasmato il Paese», è rimasta soltanto la venerazione per la grandezza che riuscì a dare alla Russia e l'attenta analisi del suo pensiero, mai anacronistico e sempre attuale, in materia di affari militari e geostrategia. La ricostruzione della potenza navale della Federazione, utile per dominare il Mar Nero e in prospettiva il Mediterraneo, è un'idea che Putin ha mutuato da Pietro. La repressione dell'islamismo tataro inaugurata dal FSB nel dopo-2014 sembra modellata sulle campagne antitatare di Pietro. E la stessa corsa all'Artico è un'eredità pietrina, dato che il Grande zar fu il primo teorico (e costruttore) della flotta artica.

Di Pietro, in breve, non sono rimasti gli ideali, che erano comunque quelli di un autocrate interessato a un'occidentalizzazione limitata e parziale della Russia, ma soltanto le ambizioni militari e geopolitiche. E con il venire meno dell'influenza esercitata dal fascino pietrino su Putin, è cresciuta quella di alcuni dei suoi successori, in particolare di Alessandro I, Nicola I e Nicola III.

Il ricordo di Alessandro I

La trasformazione da un riformatore conservatore ispirato da Pietro il Grande ad un monarca illuminato e trasudante messianismo come Nicola I, o come Alessandro III, è avvenuta per tappe. Prima che il liberalismo e l'eurofilia venissero sostituite da un'attualizzazione dell'«Ortodossia, Autocrazia, Nazionalità», Putin ha creduto di vivere la vita di qualcun altro, ha provato un déjà-vu: si è visto tradito come Alessandro I durante l'era napoleonica.

Alessandro I, proprio come Putin, fu un moderato portato dagli eventi ad abdicare al liberalismo in favore del conservatorismo e dell'autocrazia. E come ogni imperatore, o meglio come (quasi) ogni russo, era afflitto dal complesso dell'identità troncata: un patriota che si sentiva inspiegabilmente attratto dall'Europa, una civiltà ritenuta «superiore» alla propria, e che a causa di quel sentimento ambivalente, di quell'ammirazione mista a invidia, provava frustrazione, insicurezza e rabbia. Il complesso di Alessandro I riguardava e riguarda ogni russo, perché è proprio dell'homo russicus, e scriverne è fondamentale: è uno dei motivi alla base della complessità e della conflittualità delle relazioni tra Russia ed Europa.

L'amore per l'Europa e la condivisione dei suoi valori non avrebbe salvato Alessandro I: dopo un tentativo di coesistenza con Napoleone, cominciato con la pace di Tilsit, nel 1812 fu testimone della partenza da Parigi di oltre 600mila soldati diretti a Mosca. Le concessioni non ricambiate avevano dato vita ad un rapporto asimmetrico, a beneficio di Parigi, e l'adesione maldigerita e parziale di Mosca al Blocco continentale avrebbe fatto il resto, determinando il crollo dell'asse tra Alessandro I e Napoleone e lo scoppio della Guerra patriottica (отечественная война).

Putin, similmente ad Alessandro I, ha percepito come un tradimento le rivoluzioni colorate avvenute nello spazio postsovietico dal 2000 al 2014 e l'allargamento dell'Alleanza Atlantica ad est, nonostante quel «not one inch eastward» promesso a Gorbačëv nel 1990, perché negli stessi anni aveva appoggiato l'agenda mondiale dell'Occidente, dal clima al terrorismo, credendo che ciò avrebbe portato ad un paritario equilibrio a tre, Russia-Europa-Stati Uniti, per la gestione degli affari internazionali. Speranza mai divenuta realtà. Illusione uccisa dalla storia. Sconforto seguito dalla rabbia, dalla voglia di «revisionismo».

Il ricordo di Alessandro I, e non soltanto quello di Stalin e dell'Operazione Barbarossa, spiega perché la Russia abbia una vera e propria ossessione per la messa in sicurezza dei suoi confini occidentali attraverso la salda presenza di stati-cuscinetto, come Bielorussia e Ucraina, pensati come ammortizzatori in caso di invasione da ovest. Non esistono barriere naturali che separino Mosca da Berlino, essendo tutta pianura, e la facilità con cui questi confini liquidi sono attraversabili è la ragione dell'esigenza russa di avere e volere degli stati-cuscinetto. Alessandro I ottenne una prima parete divisoria al Congresso di Vienna del 1815, ricevendo porzioni delle attuali Finlandia e Polonia, che Stalin poi amplificò durante la Seconda guerra mondiale, iniziando curiosamente dagli stessi luoghi – Finlandia e Polonia –, e dopo, alla Conferenza di Jalta.

La memoria di Alessandro I vive nelle gesta di Putin, che ha palesato sin dal 2007 la volontà di tornare alla «rassicurante» epoca alessandrina (e staliniana) delle sfere di influenza, e cioè di satelliti e stati-cuscinetto, e che perciò ha approfittato dei disordini bielorussi del 2020 per riportare Aleksandr Lukashenko all'ovile e, più di recente, ha scatenato la guerra in Ucraina. Le cosiddette garanzie di sicurezza avanzate alla Nato tra dicembre 2021 e gennaio 2022, sostanzialmente ambenti ad un indietreggiamento del dispositivo militare euroatlantico ai livelli del 1997, muovono nella stessa direzione.

Ultimo, ma non meno importante, è necessario ripercorrere l'era alessandrina anche per comprendere l'appoggio del Cremlino all'internazionale sovranista: il corteggiamento della destra conservatrice di oggi non è che una riedizione della Santa Alleanza del post-Napoleone. Riscoprire Alessandro I, in breve, è uno dei modi migliori per capire cosa si cela nella mente di Putin, dei suoi strateghi, ma anche per prevedere cosa faranno coloro che verranno dopo di lui.

"Ricostruire la grandezza perduta": cosa si cela nella mente dello Zar. Luigi Iannone l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.

Decifrare la Russia, l'immensa nazione che si estende dal Baltico al Pacifico, non è facile. Come non è facile decifrare Vladimir Putin. Ecco da dove arriva e chi ha influenzato il pensiero del capo del Cremlino.

La Russia è una nazione che appare disarticolata in mille anime, percorsa da atavici fattori ansiogeni rispetto a un’eventuale ed ennesima invasione e sempre pervasa da una sorta di missione spirituale che la innalzerebbe a scudo contro le forze apocalittiche del caos.

Nelle ultime settimane il dibattito pubblico si è però privato della comprensione di questa peculiare complessità. La maggior parte degli analisti, pur replicando con una certa insistenza un ottimo repertorio di citazioni, da Henry Kissinger (Per capire Putin si deve leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf) a Winston Churchill (La Russia è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro ad un enigma), non è mai andata oltre la scorza di questo frasario nel timore di passare per collaborazionista. 

Di questa gigantesca nazione che si estende dal Baltico al Pacifico, che si struttura su una indecifrabile mistura ideologica alimentata da pensatori poco noti in occidente ma che alla fine riesce a trovare una praticabilità politica grazie a quelle strane figure chiamate “siloviki”, ce ne racconta i viluppi Emanuel Pietrobon nel suo ultimo libro Nella testa dello Zar. I segreti di Vladimir Putin, (Giubilei-Regnani, pp.132).

Pietrobon fa una disamina innanzitutto dei pensatori che hanno esercitato una certa influenza su Putin, almeno a tener conto del numero di citazioni in interventi ufficiali: il sofiologo Vladimir Solov'ëv, il linguista ed eurasista Nikolaj Trubeckoj, il geopolitico Piotr Savitskij, il mistico Konstantin Leont'ev, poi Nikolaj Berdjaev, Ivan Il'in e Nikolaevič Gumilëv (1912–1992), menzionato financo al Forum economico mondiale di Davos.

Gumilëv, padre fondatore di una forma particolare di eurasismo, ha disegnato una morfologia della storia dei popoli basata su un processo di sviluppo lineare e progressivo in cui "le civiltà e i popoli fioriscono quando dominate dai passionari e appassiscono quando, superata la fase dell’acme, si addentrano negli stadi involutivi che le condurranno al decesso". Morfologia di cui Putin ne ha ripreso integralmente gli assunti: "Io credo nella teoria della passionarietà. La Russia non ha ancora raggiunto il suo acme. Stiamo ancora marciando".

Quello russo è un mosaico che va dunque anatomizzato con canoni interpretativi meno epidermici o solo legati alla pur tremenda cronaca di guerra perché, come scrive Fausto Biloslavo nella prefazione al volume, non abbiamo capito nulla di quel mondo:"La triade che ispira l’ex ufficiale del Kgb, “ortodossia, autocrazia, nazionalità”, come gli Zar del passato, spiega le apparenti contraddizioni del presente. Oggi, nelle città occupate, i russi alzano la bandiera sovietica della conquista di Berlino nel 1945. Al loro fianco combattono i ceceni che da tempo sono inquadrati nell’esercito. A Sebastopoli, sede della flotta del Mar Nero, rispuntavano i cosacchi sventolando lo stendardo con il volto dell’ultimo Zar Nicola II Romanov".

Un groviglio concettuale che trova uno sbocco grazie ai “siloviki”, figure capaci di far confluire sulla loro persona le incurvature di questo complesso sistema reticolare che si estende dalla Chiesa ortodossa a tutte le policrome identità che dimorano un territorio sterminato. Uomini del potere come lo stesso Putin o come tutti coloro che si sono succeduti negli ultimi quattro secoli, e capaci di mettere sempre la parola fine a drammatici periodi di interregno.

Eppure, tutto era già noto. Il manifesto politico del 30 dicembre 1999 (La Russia alla svolta del Millennio), che Pietrobon riporta per la prima volta in traduzione integrale, anticipava le strategie di fondo di Putin: ricostruzione della grandezza perduta, ritorno ai fasti imperiali, rinazionalizzazione delle masse attraverso i valori patriottici e tradizionali e realizzazione di una "democrazia dalle caratteristiche russe".

Quello che molti leader europei consideravano un liberal-conservatore che sognava di aderire all’Alleanza Atlantica e di avvicinare la Russia all’Unione europea aveva messo tutto nero su bianco. Bastava leggere!

L'esperto rivela: "Perché lo Zar sta inseguendo Caterina II". Luca Sablone il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'analisi del professor Cella: "Il piano sulla Nuova Russia di Caterina II e quell'idea di creare una zona russa sul limes fra mondo occidentale e steppe eurasiatiche".

Ormai da giorni le dinamiche sul campo di guerra hanno imposto alla Russia di cambiare strategia: ora l'obiettivo principale è il Donbass, considerato un traguardo raggiungibile con minori difficoltà rispetto alla conquista di Kiev. Il cambio del piano russo è dettato anche dalla fretta di ottenere una vittoria entro il 9 maggio: in quel giorno si tiene la Giornata della Vittoria, in cui il popolo russo ricorda la vittoria sui nazisti durante la Seconda guerra mondiale. In quell'occasione Vladimir Putin vorrebbe tenere una celebrazione simbolica per festeggiare il trionfo in Ucraina (se si limiterà solo al Donbass sarà non una vittoria completa ma l'obiettivo minimo).

Sulle orme di Caterina II

A questo punto una domanda sorge spontanea tra gli esperti: la conquista del Donbass sarebbe per il presidente della Federazione Russa un ritorno sulle orme di Caterina II? In un certo senso sì. Cosa accomuna Putin e l'imperatrice di Russia? A spiegarlo è stato il professor Giorgio Cella, studioso esperto dell'Europa orientale, il quale ha ricordato che il Donbass rientrava nel piano imperiale di Caterina II chiamato Novorossiya (Nuova Russia): "Era l'idea di creare una zona russa sul limes fra mondo occidentale e steppe eurasiatiche".

Cella, intervistato da Il Giorno, ha sottolineato che una certa retorica e il precedente della Novorossiya "indubbiamente richiamano la memoria zarista". Allo stesso tempo però ha tenuto a precisare che le operazioni vanno inquadrate anche in vista di eventuali futuri trattati di pace, "quando la situazione militare si sarà stabilizzata".

Il Donbass

Come detto in precedenza, il Donbass rappresenta l'obiettivo cruciale della Russia soprattutto se Putin dovrà esibire delle conquiste territoriali entro il 9 maggio. Cella non ha escluso una seconda offensiva oltre il Donbass: in quel caso il tentativo sarebbe conquistare "delle regioni meridionali sul mar Nero, fino a Odessa e forse alla Transnistria". Sarebbero successi di un certo peso "da spendere sul tavolo dei negoziati".

Va ricordato che nella regione del Donbass si combatte da ormai otto anni. Per Putin questo rappresenta un vero e proprio "ritorno al punto nevralgico del conflitto del 2014". Indubbiamente qui gli abitanti "sono in larga parte russofoni", ma questo non si traduce automaticamente in essere russofili. Non è di certo impossibile, anzi è probabile, ma non si può sostenere una tesi troppo generale.

Un ragionamento comunque appare evidente: se lo fossero, Putin potrebbe giustificare così l'operazione militare "con la necessità di proteggere questa parte di popolazione dagli attacchi ucraini". Ma il professor Cella ha ricordato che la resistenza ucraina ha assunto una forza notevole anche in quelle aree "dove è tradizionalmente forte l'influenza russa" (da Mariupol a Odessa passando per Mykolaiev).

Medvedev, "da Vladivostok a Lisbona". Il messaggio agghiacciante: "Un impero, il vero piano di Putin". Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.

Il vero piano di Vladimir Putin? Costruire un impero filo russo i cui confini si estendano "da Vladivostok (che si trova nella parte più orientale della Russia, ndr) a Lisbona". Queste le inquietanti parole di Dmitrij Medvedev, ex presidente russo nonché tra i fedelissimi dello zar. L'obiettivo finale della Russia, Medvedev lo rivela con un messaggio pubblicato su Telegram. 

"Cambiare la coscienza sanguinaria e piena di falsi miti di una parte degli ucraini di oggi è l'obiettivo più importante - aggiunge -. L'obiettivo è il bene della pace delle future generazioni di ucraini stessi e l'opportunità di costruire finalmente un'Eurasia aperta, da Lisbona a Vladivostok", scrive l'ex presidente. Parole terrificanti, che spaventano il mondo e che fanno supporre che l'Ucraina possa essere solo l'inizio di un progetto ben più sanguinario.

Dunque, Medevedev nega l'eccidio di Bucha, l'orrore russo contro i civili: "Un fake frutto dell'immaginazione cinica della propaganda ucraina", scrive. E ancora, aggiunge: "Un drone abbattuto con una lattina di cetrioli. Il reparto di maternità dell'ospedale di Mariupol, ora Bucha. Si tratta di falsi che sono maturati nell'immaginazione cinica della propaganda ucraina", ha ribadito Medvedev, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia. Ma le parole che fanno più rumore, e paura, sono quelle sull'impero che Putin vuole costruire. E che avrebbe già costruito nella sua mente.

Dmitri Medvedev "il più estremista di tutti": voci inquietanti sul super-falco di Putin, "cosa è pronto a fare per lo zar". Libero Quotidiano il 12 aprile 2022.

Chi è davvero Dimitri Medvedev, l'ex presidente della federazione russa, quello che fu di fatto un "prestanome" di Vladimir Putin al Cremlino negli anni in cui non poteva essere rieletto prima del cambio della Costituzione? Per certo, Medvedev è uno dei super-falchi dello zar: fedelissimo, da sempre e per sempre. Tanto da essere, in questi giorni di guerra, tra i più accesi sostenitori della linea dura nella guerra in Ucraina. O meglio, per dirla con le parole dei russi, dell'"operazione militare speciale", una delle più ridicoli perifrasi della storia moderna.  

Di Medvedev, Putin si fida ciecamente. E sarebbe rimasto uno dei pochissimi a godere della fiducia quasi incondizionata dello zar. E Medeved, secondo il Corriere della Sera, guida oggi la pattuglia dei falchi, dove la sfida sarebbe quella di mostrarsi più estremisti di tutti, ovviamente per compiacere il capo. Per il quale sarebbe pronto a tutto.

Insomma, Medvedev è uno che fiuta il vento, sempre pronto a cambiare linea e convinzioni in base a come muta le opinioni Putin. E a tal proposito, il Corsera ricorda un caso del 2008, quando Medvedev fu fatto eleggere presidente e rimase al Cremlino per quattro anni. All'epoca sembrava essere il rappresentante di punta dei riformisti e dei democratici. Tanto che diede la sua prima intervista a Novaya Gazeta, il quotidiano di opposizione costretto a chiudere qualche giorno fa, quello in cui lavorava Anna Politkovskaya. "La stabilità e una vita prospera non possono assolutamente prendere il posto dei diritti e delle libertà politiche", disse Medvedev in quell'occasione.

E ancora, solo un anno dopo tenne un discorso durissimo contro le repressioni staliniane, tanto che radio Eco di Mosca lo paragonò a quello che Krusciov tenne nel 1956 e che svelò i crimini del dittatore georgiano. Medvedev riteneva le sanzioni contro l'Iran "inefficaci ma «con un certo senso". Eppure, oggi, attacca ad ogni occasione possibile l'Occidente, bolla le sanzioni come "atto di aggressione internazionale, una forma di guerra ibrida". E ancora, ha sbandierato la minaccia nucleare. E ha parlato di quello che, a suoi dire, sarebbe il vero piano di Putin: "Ricostruire l'impero russo, un impero che vada da Vladivostock a Lisbona".

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2022.

«Ma non parliamo di Medvedev, lo sanno tutti come è conciato...». E con un gesto inequivocabile, lascia capire qual è il male che affligge l'ex presidente della Russia, autore dell'ormai celebre frase sull'odio verso l'Occidente. Tanto estroso quanto acuto, Gleb Pavlovskij si gode il terzo tempo di una vita molto intensa. Dissidente perseguitato dall'Urss, pioniere del web russo, nonché consigliere personale di Vladimir Putin dal 1996 al 2011, oggi uno dei pochi critici del Cremlino ancora su piazza, tollerato in virtù del suo passato. Non c'è nessuna strategia dietro queste continue dichiarazioni ostili al mondo intero. Piuttosto, si tratta del tentativo di riempire un vuoto ideale che esiste ormai da quasi dieci anni, eliminando un occidentalismo liberale del quale le nostre élite sono comunque impregnate».

Per sostituirlo con cosa?

«Questo è il vero problema. Una narrativa diversa al momento è assente, forse ce l'hanno solo alcuni gruppi di potere. Quindi c'è il tentativo di trasformare questa deriva periferica in un racconto mainstream, dietro al quale si nasconde però il nulla». 

Fin dove vuole arrivare il Cremlino?

«Si tratta di pura retorica, e in quanto tale non ha limiti. La si può esasperare a piacimento, e Medvedev ne è un buon esempio, con le sue invettive da piccolo commerciante al bazar».

Ieri la speaker della Camera Alta, Valentina Matviyenko, ha replicato sostenendo che la Russia non è antioccidentale. Esiste una spaccatura al vertice?

«Quando parlate di trame o complotti, fate l'errore del degustatore. Trasformate i vostri auspici in certezze, come quando esaltate la fuga di reduci del passato, come accaduto con Anatoly Chubais. Stiamo assistendo a una rappresentazione. Al Cremlino lo sanno tutti che è impossibile riconvertire un Paese che da trecento anni guarda all'Occidente». 

Le dichiarazioni sulla creazione di un nuovo ordine mondiale non vanno prese sul serio?

«Questo è un altro discorso. Perché dicendo che il bipolarismo è finito, Putin afferma una verità incontestabile. L'Occidente sorregge l'attuale sistema delle istituzioni mondiali, economiche e politiche. Ma sicuramente non può più rivendicare un monopolio». 

Come finirà?

«Sia in Ucraina che in Russia, purtroppo, è stata compromessa la stessa idea di un'intesa. Il crollo degli accordi di Minsk ha distrutto il concetto di diplomazia. Quindi, sarà difficile arrivare alla pace. E poi, più peggiora la situazione degli ucraini sul campo, più si abbassa la disponibilità di Mosca a un compromesso».

Una Russia autarchica e isolata dall'Occidente può sopravvivere?

«Questa utopia della Russia autarchica è la cosa peggiore che Putin sta facendo al suo popolo. Perché non è possibile, semplicemente. La Federazione russa è un progetto ultra-globalizzato, non potrà mai trasformarsi in una economia chiusa. In un regime di crisi, si dovranno cercare vie traverse per sostituire quella globalizzazione di cui la Russia è stata un fattore». 

Il potere di Putin è stabile?

«Sembra che comandi solo lui, ma è un errore. Un tempo andavo molto fiero del fatto che eravamo riusciti a creare la sensazione che Putin governasse tutto nel Paese. Era un teatrino politico necessario, perché il Paese era assai nostalgico di una vera leadership. La tesi "Putin decide tutto" è molto comoda perché toglie l'ansia e oscura la visione di quello che succede davvero. Ma è chiaro che ci sono anche forze indipendenti ormai dal governo, grosse corporazioni e banche, centri di potere alternativi. Sono loro a decidere della stabilità di Putin». 

Dopo di lui?

«Il fenomeno Putin è stata una eccezione nata in tempi disperati come la Russia di fine anni Novanta. Dopo, verrà un Putin collettivo, sotto forma di una direzione collegiale. Non è detto che sia un male. Periodi del genere, nel nostro Paese, sono stati pochi ma fruttuosi, come fu con Kruscev e Gorbaciov. Perché di solito sono legati a un periodo di rinnovamento». 

La verticale del potere sopravviverà a Putin?

«La Federazione russa non rappresenta un sistema formato, stabile e razionale. Con Eltsin è stato abbandonato il processo di Nation building. L'idea di costruire uno Stato nazionale normale era troppo complicata e pericolosa. E di certo Putin non l'ha raccolta». 

Quanto valgono i sondaggi sulla sua popolarità?

«Poco. Il potere vorrebbe che fossero indicatori del consenso. Ma non ne terrebbe in quantità industriali se tale consenso esistesse davvero. Il potere sovietico non faceva sondaggi, non gli serviva. È solo un problema di assuefazione. La gente non ha scelta, si dice d'accordo con quel che viene mostrato con messaggi carichi di emozioni, che quasi colpevolizzano chi non si esalta».

È sempre stato così?

«Nel primo decennio del nuovo secolo, io scrivevo messaggi ai vertici per dire che bisognava presentare le notizie e le nostre scelte in un certo modo. Allora la tivù era molto noiosa. Poi è arrivata l'Ucraina, che dal 2014 ha fornito un conflitto reale. Così è nata la propaganda di oggi, che agisce anche su chi governa. Sarà ben difficile cambiare la percezione della gente. Per questo non ci saranno bruschi cambi di potere: occorreranno decenni per avere una Russia diversa».

La pazza idea di rifare l’Impero. Putin non è pazzo, ecco realmente cosa vuole lo Zar. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Non è né malvagio né pazzo. È russo, ammalato di quella sindrome russa che rende (per quanto si può generalizzare) i russi diversi dagli altri. Per loro scelta. Prendiamo proprio il tenente colonnello Vladimir Putin: viene da una scuola che non comprende soltanto lo spionaggio – il Kgb prima e poi l’Fsb – e io ne ebbi in anticipo una descrizione dal “mio agente Sasha” (su cui scrissi un libro dopo la sua morte) ovvero Alexander Litvinenko: quando Sasha andò a bussare alla porta di Putin, suo superiore diretto lamentando che gli era stati chiesto di far parte di una squadra di assassini per ammazzare il magnate Boris Berezovsky, Putin si mostrò annoiato e tagliente: «Che cosa credete di fare qui nel Fsb, chiese. Avete degli ordini, eseguiteli. Non esistono, omicidi, ma esecuzioni di ordini ed eliminazione dei nemici della società».

In seguito, Sir Robert Owen, procuratore speciale di Sua maestà britannica emetterà una sentenza di colpevolezza nei confronti di Putin nell’omicidio dello stesso Litvinenko, morto a Londra nel giorno in cui diventò cittadino britannico col nome di Edward Carter. Tony Blair non la prese bene: «Oggi – annunciò in televisione – un cittadino britannico su suolo britannico è stato ucciso con un’arma nucleare usata da una potenza straniera su suolo britannico». L’arma era un isotopo radioattivo del polonio, la sostanza scoperta da Madame Curie e così chiamata in suo onore perché era polacca. Io fui interrogato per due giorni da Scotland Yard con scrupolo meticoloso che non avrei mai immaginato, ma la notizia fu ignorata in Italia insieme al confronto aereo nei cieli d’Europa fra gli Harrier britannici e vecchi rugginosi Tupolev che Putin fece decollare carico di vecchie bombe atomiche arrugginite.

Tutto il mondo ne parlò ma non in Italia. Putin è un esemplare perfetto di russo incomprensibile perché la caratteristica che costituisce la sindrome è una divisione di personalità: metà occidentale ed europea, e americana. E metà asiatica. Putin ha cercato di affidare lo sporco lavoro di far ammazzare donne e bambini, torturare vecchi e scannare civili ai tagliagole ceceni e a quelli siriani, essendo Siria e Cecenia due territori in cui le tecniche russe si sono fatte apprezzare nel mondo e che non hanno l’eguale in alcuna guerra successiva al 1945: distruggere prima di tutto ospedali e strutture civili, terrorizzare donne e bambini e azzerare così il morale di una nazione. Ma Putin non era così, anche se apprezzava questo genere di comportamenti. Ha conosciuto l’Europa attraverso la Germania, perché coprì a lungo un incarico delicatissimo nella stazione di Dresda, Germania comunista, dove la stazione del Kgb sovietico coordinava sia la Stasi tedesca (Le vite degli altri) che i movimenti terroristici e gruppi nazionalisti armati fra cui l’Ira irlandese, l’Eta basca, Action Directe francese, e rivoluzionari che avevano la loro sede in Ungheria, come il celebre Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos lo Sciacallo il quale, ormai vecchio e stanco, sta scontando due ergastoli a Parigi.

Con Carlos hanno lavorato molti esponenti delle Brigate Rosse, come comunicò formalmente alla Commissione parlamentare Mitrokhin il Procuratore generale di Budapest nel corso di una missione diplomatica. Putin imparò il tedesco in modo accurato e anche letterario. Eletto presidente della Federazione Russa dopo un silenzioso conclave degli alti dirigenti del Kgb (ormai diventato Fsb e Svr) stupì il parlamento tedesco, il Bundestag, con un discorso molto colto in lingua tedesca pronunciato con elegante civetteria e in quel discorso Vladimir Putin si dichiarò cittadino europeo, figlio dell’Europa che aveva dato al mondo oltre a Schiller, Kant e Goethe, anche Tolstoj, Dostoevskij, Puskin e tutta la grande letteratura russa europea. Disse con una convinzione che colpì molto i deputati tedeschi, di essere sicuro che il posto della nuova Russia fosse in Europa e cercò per molto tempo di sviluppare una linea politica – e militare – che era la stessa già accuratamente elaborata in Urss da Yuri Andropov (capo del Kgb e poi Segretario generale del Pcus) e in Europa da De Gaulle, il quale voleva sbattere gli americani fuori dall’Europa che sarebbe stata “dall’Atlantico agli Urali”.

Questa è l’idea fissa, anche se oscillante, della politica russa: catturare l’Europa occidentale capace di produrre progresso tecnologico e organizzazione, unendosi alla Russia che avrebbe provveduto ad assicurare sicurezza con una forza armata di dimensioni planetarie e l’energia fossile e i minerali. Il mio amico recentemente scomparso, Vladimir Bukovskij, scrisse uno scintillante libro intitolato Eurss per spiegare nei minimi dettagli storici il programma di una Unione che fosse insieme sia europea che sovietica o comunque russa. La divisione della personalità di Putin arriverà più tardi, quando la Russia scopre l’Occidente, ma senza mai capire quale ne fosse il motore propulsivo: quello della libera concorrenza delle idee, delle merci, dei modelli, delle cattedre, della produzione industriale ed intellettuale.

Ciò accadde quando sul corpo ormai dissolto della vecchia Unione Sovietica si avventarono gli oligarchi che avevano riciclato il tesoro russo, grandi avventurieri della finanza come Soros, in quella fase convulsa e anche divertente in cui l’Urss era in svendita nei mercatini delle strade di Mosca. Putin fu affascinato dall’Occidente opulento, ma non digerì mai gli Stati Uniti, con una reazione psicologica che lo accomuna sia a Mussolini e che a Hitler. I dittatori fascista e nazista avevano una simpatia cinematografica per gli Stati Uniti, Hitler si faceva proiettare quasi tutte le sere Biancaneve nella versione di Walt Disney, e Mussolini inviava incomprensibili comizi in inglese agli americani chiamando Roosevelt “un fascista americano”, ma ne prese subito le distanze: se guardiamo i footage in televisione vediamo un fasto da Cenerentola di Walt Disney, ori e stucchi, soldatini in costume, parate e manifestazioni militari e patriottiche, sempre sovrabbondanti di canti, inni, sinfonie tristi e piroettanti, turbini di nostalgia e di disprezzo per l’Occidente declassato al rango di un modello decadente, debole.

Il patriottismo russo, e anche sovietico è una cosa serissima e non si capirebbe Putin se non si capisse prima che in quasi ogni russo esiste un conflitto violento fra l’Occidente inteso come seduzione materiale del lusso e degli yacht e la madre Russia che invece è un sentimento unificante e spirituale. Putin è rimasto sconcertato e anzi furioso quando ha dovuto constatare che gli ucraini, che aveva bollato come “inesistenti” avevano invece sviluppato un simmetrico amor di patria, oggetto sconosciuto alle nostre latitudini. Putin non è un pazzo, ma è l’espressione di un processo mentale russo in cui c’entrano pochissimo l’economia e la geopolitica tradizionale. Putin ha sempre detto (io sono un suo follower sul canale YouTube a lui dedicato) che non vuole rifare l’Unione Sovietica, ma l’impero. E lo dice anche il presidente cinese Xi, che rivendica il suo impero cinese che affonda nella storia le sue radici da cinquemila anni e il turco Erdogan che sta ricostituendo l’impero Ottomano. Noi occidentali non abbiamo capito nulla di tutto ciò e seguitiamo a osservare il mondo attraverso le lenti a noi care del nazionalismo, mentre Putin, Xi ed Erdogan appartengono a un mondo nemico della razionalità.

Per quanto suoni ridicolo, e lo sia, siamo tornati agli imperi e a Star Wars. Putin segue ciò che il suo zeitgeist gli ordina e personalmente è vero che gli piaceva Trump perché – disse – ha l’aria di uno sulla cui testa sta bene un cappello da cowboy. Putin ha cominciato a perseguire il suo disegno imperiale dalla sua prima invasione: quella della Georgia per la quale io, personalmente e da solo, feci inutilmente fuoco e fiamme, mentre la tendenza era quella di dire lasciate perdere, sono affari interni e diatribe di confini. Non è così e adesso finalmente tutti cominciano ad accorgersene, ma si rifugiano nelle categorie psichiatriche e shakespeariane del principe pallido e crudele, fuori di testa. Non è così. Putin rappresenta la negazione estrema della democrazia e lo dice come lo dice Xi, il quale dichiara che l’umanità vuole armonia e non democrazia. Putin è pronto a morire e a uccidere per un disegno che considera immanente, divino, coincidente col destino e molto più vicino al mikado giapponese che alle nostre democrazie. Putin è un russo pronto a spararsi senza esitazione, ma che preferisce sparare ad ogni oppositore, rivendica un buon trenta per cento dell’intero pianeta in nome del supremo destino di un Paese che ha dieci fusi orari fra Kaliningrad e le isole Curili davanti al Giappone.

A lui non importa un fico secco dei pacifisti e se li mangerebbe come aperitivo perché considera noi europei una banda di codardi che non hanno voluto spendere nemmeno – lo ha detto un suo collaboratore in televisione – per comperarsi una pistola ad acqua. Infatti, chi è che gli tiene testa? Un popolo come quello ucraino che ha scelto l’Occidente ma che mantiene una linea fermissima e se necessario suicida sui valori, fino a dividersi in due, le donne e i bambini fuori e gli uomini dentro a combattere fino all’ultimo. Noi europei giudichiamo e quando non ci tornano i conti usiamo le categorie psichiatriche. Putin non è un pazzo e avrà sicuramente delle distorsioni mentali non da poco, ma si tratta di distorsioni che fanno parte di una cultura che accetta e infligge la morte senza batter ciglio, un temperamento che somiglia a quello degli spagnoli che inventarono l’uso di chiedere di poter fumare prima di essere fucilati, non per passione per la nicotina, ma per dimostrare arrotolando la cartina col tabacco, di non tremare. Una tradizione che colpì molto Stalin, il quale decise di non usare più i plotoni d’esecuzione per non consentire esibizioni di tale temerarietà, ma di uccidere con un colpo alla nuca, di spalle, o con massacri perpetrati da belve come quelle che Putin ha scagliato contro Grozny, Aleppo, Mariupol e Dio sa in quanti altri disgraziati posti di quel pezzo di mondo su cui comanda e impera.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Anna Zafesova per “la Stampa” il 10 Giugno 2022.

Vladimir Putin non ha mai nascosto di nutrire un'ammirazione speciale per Pietro il Grande, un sentimento comprensibile per chi come lui è nato nella città fondata dallo zar che odiava il Cremlino e Mosca. 

Ma finora non aveva mai osato paragonarsi direttamente al fondatore della Russia moderna, dichiarando - con un raro sorriso - che «a noi è toccato in sorte fare quello che faceva Pietro», cioè «riportare indietro le terre russe e consolidarle». 

Una interpretazione molto innovativa della storia russa, visto che finora il terzo sovrano della dinastia dei Romanov veniva immortalato in libri e monumenti proprio per aver ampliato i confini russi in guerre di conquista che hanno permesso alla Russia di aprirsi l'accesso al mare e costruire la sua prima flotta, strappando territori nel Baltico. Ma per il presidente russo, «Pietro non ha tolto nulla» agli Stati limitrofi, ma anzi ha «riportato indietro territori storici», dove accanto ai finlandesi «abitavano da sempre tribù slave».

Non sono mancati altri paralleli con l'attualità: la regione dove è stata fondata Pietroburgo «non veniva riconosciuta dall'Europa che la considerava territorio svedese», e Pietro «era pronto a guerre lunghe, incredibile come non sia cambiato niente!», ha detto Putin ai giovani imprenditori. 

Diverse persone che avevano avuto modo di dialogare con il presidente russo sostengono che lui sia molto ansioso di iscrivere il suo nome nei manuali di storia. Ma quello che ha lanciato ieri ai festeggiamenti per i 350 anni del fondatore dell'impero russo, è un messaggio esplicito quanto inquietante: Putin si colloca al fianco di Pietro I, promettendo nuove espansioni territoriali della Russia.

Il «riportare indietro le terre russe» era già stato formulato come obiettivo nella teoria putiniana del "mondo russo", in base al quale Mosca rivendicava diritto a intervenire ovunque si parlasse russo. Una equazione lingua-popolo-ideologia che in buona parte ha giustificato anche l'invasione dell'Ucraina, che Putin nel suo saggio "storico" pubblicato un anno fa dichiarava abitata dallo "stesso popolo dei russi". 

La "denazificazione" era stata utilizzata come scusa per l'Occidente, il messaggio ai russi era più esplicito: dopo la tragedia della fine dell'Urss si torna a crescere, riprendendosi territori «storicamente russi». 

Una visione quantitativa della grandezza di un Paese, che Putin ha ribadito anche ieri, sostenendo che le nazioni possono essere "o potenze, o colonie". Gli Stati che erano stati in diverse epoche sotto l'impero russo sono avvertiti: diversi politici e propagandisti russi avevano già promesso la riconquista della Polonia e della Finlandia, per non parlare delle ex repubbliche sovietiche, e Putin ora fa capire che la Crimea e il Donbass sono soltanto l'inizio.

La storia serve a giustificare il revanscismo imperiale, e anche la proposta circolata due giorni fa alla Duma, di revocare il riconoscimento dell'indipendenza della Lituania, in epoca ancora sovietica, non appare più come pura propaganda. A sostegno delle nuove teorie storiche putiniane, la mostra "Nascita di un impero" che il presidente ha visitato ieri racconta le espansioni territoriali della Russia, con gli storici presenti che facevano l'elenco dei leader russi «fedeli al paradigma della potenza»: nella lista, Ivan il Terribile, Pietro I, Alessandro III, Stalin e Putin.

Una selezione curiosa, che lascia fuori Caterina II che ha conquistato alla fine del Settecento le coste del mar Nero e la Crimea. Ma per entrare tra i sovrani migliori della Russia non basta espandere l'impero, bisogna anche essere nazionalisti e repressivi, mentre Caterina, oltre a essere tedesca di origine, scriveva a Voltaire e sognava l'Europa. 

Come del resto la sognava Pietro il Grande, che Pushkin cantava per aver «aperto la finestra sull'Europa», come ha scritto Pushkin, copiandone non solo tecnologia e costumi, ma perfino la lingua, dando alla sua capitale un nome tedesco, Peterburg. Il putinismo aveva semmai riabilitato con la sua pseudostoria ideologica il sanguinario Ivan il Terribile, e il suo modello autoritario. E Putin entrerà nella storia come il leader che la "finestra sull'Europa" l'ha chiusa e murata.

La supremazia militare è il vero scopo. Cosa vuole ottenere la Russia dalla guerra in Ucraina: l’eterno obiettivo del Cremlino. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Giugno 2022. 

Non è mai esistita una dura (ma cavalleresca) Guerra Fredda fra due ideologie, il Capitalismo e il Socialismo, a causa delle quali due mondi si sono fronteggiati per mezzo secolo con le armi al piede finché una delle due è implosa– la Russia sovietica – lasciando l’altra, l’America vincitrice unica e padrona del campo. Mai. Ci abbiamo creduto quasi tutti. Ma Enrico Berlinguer, che però non seppe sfruttare in modo vincente la sua intuizione, lo capì al volo. Fu quando gli americani fecero al Cile – in modo traumatizzante ma meno cruento – quel che la Russia oggi fa all’Ucraina.

La situazione allora era simile a quella che seguì la fine delle guerre di religione in Europa. Se sei il Cile, devi stare in campo americano e se sei Ucraina (o Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia) devi stare in campo russo, zitto e Mosca. Berlinguer vide che fine aveva fatto Salvador Allende, analoga a quella di Imre Nagy in Ungheria o di Dubcek a Praga, o dell’angosciato Gomulka a Varsavia, e scrisse una serie di articoloni su Rinascita in cui diceva più o meno così: cari democristiani, noi comunisti sappiamo che voi vorreste fare un governo con noi comunisti lasciando a secco quei maledetti socialisti che abbiamo sempre odiato. Ma gli americani non vogliono comunisti in alcun governo in cui si condividano segreti militari per la sempre imminente guerra con la Russia, e allora io ho avuto un’idea: cerchiamo di aggiustarci fra di noi dando garanzie militari al nostro referente egemonico per evitare che quello, in preda a una crisi di nervi, ci faccia fuori. All’altro referente egemonico, quello di noi comunisti, ci penso io: farò una manovra di lento distacco ideologico ma senza fratture e che dio ce la mando buona. Lo chiameremo “compromesso storico”.

La fine è nota. Il punto è: fra il 1946 e oggi abbiamo sempre vissuto un’unica lunga guerra di preludio a una possibile, imminente e mai scongiurata Terza guerra mondiale, quella che se mai scoppierà si giocherà con missili intercontinentali nucleari. Controprova: lo stesso Berlinguer – fallito il grande disegno di escamotage politico con la micidiale liquidazione del partner Aldo Moro (che per conto degli Occidentali avrebbe dovuto fare da garante dal Quirinale, da cui fu sloggiato il Presidente della Repubblica Giovanni Leone con una campagna di stampa condotta in perfetto stile di “disinformatzija” sovietica – riallineato sul fronte strettamente militare della guerra fra Occidente e Russia, scelse la Russia, che aveva schierato contro l’Europa batterie di missili a medio raggio SS20. E lo fece mobilitando tutte le forze politiche di obbedienza moscovita a fare il diavolo a quattro affinché non fossero schierati, in risposta ai missili russi, i missili americani Pershing e Cruise adatti a riequilibrare il gap strategico.

In Italia vinsero gli euromissili grazie allo schieramento dei socialisti di Craxi e i repubblicani di Spadolini e questo evento politico si trasformò in un atto di guerra politica violentissima di cui abbiamo perso memoria. E qui siamo al dunque: chiunque abbia la curiosità e la pazienza di leggersi i verbali di tutte – tutte – le riunioni annuali dei membri del Patto Di Varsavia – l’Anti-Nato dell’Est – troverà che l’esercitazione era sempre la stessa: “Di fronte ad un vile e proditorio attacco degli eserciti al comando degli Stati Uniti contro le democrazie popolari e dell’Unione Sovietica, le forze del Patto di Varsavia respingono l’attacco e rispondono con una controffensiva che ricaccia gli invasori fino all’Atlantico e li getta in mare”. Tutta la storia della Guerra Fredda è stata un contenuto preludio ad una sempre possibile guerra calda perseguita dal Cremlino, chiunque ci fosse dentro, in vista di una strategia molto semplice che fu studiata ed attuata con particolare cura da Yuri Andropov, il più perfido e geniale capo del Kgb poi diventato segretario del Pcus e sponsor di Michail Gorbaciov. L’operazione era questa: portare l’Europa occidentale in Russia e la Russia in Europa.

Però la Russia sovietica commise l’errore di svenarsi inoltre i limiti della sua possibilità per ottenere la potenza militare utile per una operazione come quelle descritte nei verbali del Patto di Varsavia e quando il Presidente Donald Reagan dette a bere ai russi di poter varare un costosissimo piano di guerre stellari, l’ex pupillo di Andropov, l’allora giovane Michail Gorbaciov si sottomise con un piano di resa che prevedeva lo sganciamento dei Paesi satelliti che costituivano un peso insostenibile e l’accesso a un enorme prestito per salvare l’economia russa. Fu lì che avvenne il baratto fra i confini della Nato e i prestiti occidentali. Sono stato per cinque anni membro della delegazione parlamentare nella Nato e non ho sentito parlare altro a Washington che della inutilità della Nato che gli americani volevano chiudere perché oltre che inutile era ed è molto costosa, mentre gli europei insistevano perché i paesi che come la Polonia avevano assaggiato le delizie di una dominazione sovietica, volevano assolutamente una protezione americana in Europa alla quale i repubblicani – lo abbiamo ben visto con Donald Trump e la sua politica di America First – non volevano aderire.

La politica di Trump verso l’Europa era esplicita: fottetevi, cari europei. Pagatevi i vostri eserciti e difendetevi. I russi vi vogliono mangiare? E fanno bene, perché siete una massa di codardi che si arricchiscono mentre noi paghiamo per la vostra sicurezza e indipendenza. Caro Putin, per quanto mi riguarda, ti puoi prendere quell’Europa di parassiti, Noi americani non spenderemo né un dollaro né una goccia di sangue per loro. Non così la pensano i democratici che, come gli inglesi, hanno un conto eternamente aperto con la Russia per tutte le sue spericolate astuzie fin dai tempi dell’infame alleanza fra Stalin e Hitler a spese dell’Europa e degli Stati Uniti. E qui arriviamo al punto di questi giorni: i putiniani. Chi sono, se ci sono. Molto semplicemente i putiniani, per la mia esperienza giornalistica e politica, “i putiniani” sono semplicemente tutti gli anti-americani ideologici e spesso religiosi – l’America la nuova Mammona adoratrice dello sterco del demonio – che in Italia sono forse la maggioranza. Il signor Kolosov che guidò la “residentura” del Kgb a Roma per molti anni, interrogato dalla Commissione di cui ero presidente disse.

“Tutti gli antiamericani venivano a bussare alla nostra porta e chiedevano di aiutarci contro di loro e di proteggerci, persino, contro di loro. Non erano neppure i comunisti, ma specialmente i democristiani. Parlando a Tripoli con il ministro degli Esteri di Gheddafi, il signor Trekki che si esprimeva in un eloquente francese, costui disse alla delegazione della Commissione Esteri: “Il giorno in cui fu annunciata la fine dell’Unione Sovietica era qui il vostro più grande uomo politico, Giulio Andreotti, il quale pianse e disse: da oggi il mondo è cambiato in peggio: gli americani hanno vinto e saranno padroni del mondo, ci mancherà l’Unione Sovietica”.

Parole non diverse da quelle pronunciate dallo stesso Vladimir Putin quando dice che la più grande calamità della sua vita è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica, cui peraltro si sta laboriosamente dando da fare per poter rimediare l danno fatto, rincollandone i pezzi col ferro e col fuoco e col sangue. Basta accendere il televisore dopo le venti e trenta per trovare sciami di sapienti che di fronte all’invasione armata di un Paese europeo da parte della Russia gridano che è certamente colpa degli americani ed è molto più di un riflesso condizionato: è – questa è la mia opinione – la coincidenza immediata con il puntinismo, che dichiara apertamente la sua vocazione all’imperialismo nazionalista russo, che non ammette giri di valzer, non consente differenze culturali ma ha bisogno di fedeltà pronta cieca e assoluta al Cremlino, come è sempre stato e come sarà per sempre.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La polvere sotto il tappeto. Mosca, regimi e stato di diritto: il sottile filo rosso che arriva a Kiev. Otello Lupacchini su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Il Novecento è stato un secolo memorabile, denso di contraddizioni, di tragedie, di guerre, di tensioni, di lotte sociali, di scontri ideologici, di conquiste, di devastazioni, di scoperte e di invenzioni tali da provocare profondi cambiamenti dell’esistenza, della mente, dell’anima, del corpo dell’intera umanità delle sue tradizioni, della sua organizzazione socio-politica, del suo modo di pensare, di vivere e persino dei delicati equilibri del pianeta.

Eric Hobsbawm, ne ha parlato come di «secolo breve», una «definizione bella», secondo Loris Facchinetti, espressione di una «sintesi suggestiva», in cui scorge, tuttavia, un «giudizio che rischia di essere fuorviante», un’«analisi che può diventare ingannatrice»: per comprendere il senso della storia e dell’umano cammino, a suo avviso, è «indispensabile considerare il tempo e lo spazio in termini qualitativi e non solo un’alternanza di stagioni, una successione di anni senz’anima, immersi nel divenire e nella materia». Interessanti le ragioni di questa dissenting opinion, rispetto al pensiero dello storico inglese. Hobsbawm considera costitutivi del ventesimo secolo i periodi racchiusi tra l’inizio della prima guerra mondiale, 1914, e la caduta dell’impero sovietico, 1991, e nella sua versione marxiana scandisce quegli anni dividendoli in tre fasi.

La prima, dal 1914 al 1945, l’«età della catastrofe», segna la fine cruenta dei grandi imperi: uno dietro l’altro crollano, con guerre, rivoluzioni e stragi, l’impero russo, quello tedesco, l’ottomano e l’austriaco; nella vecchia Europa vanno al potere ideologie totalitarie, come il nazismo e il comunismo, nascono le aspirazioni egemoniche della Germania, vengono emanate le leggi razziali, applicate nuove strategie belliche e compiuti orrendi genocidi programmati scientificamente, come la Shoah; si scatena la seconda guerra mondiale con le sue distruzioni, con decine e decine di milioni di morti, con le sue torture, con la follia e l’angoscia seminata nella mente e nell’anima degli uomini.

La fase che va dal 1945 al 1991 viene indicata da Hobsbawm come l’«età dell’oro»: i vincitori del conflitto, Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica, nel trattato di Yalta, dividono il pianeta in sfere d’influenza; incomincia l’epoca della «guerra fredda» tra l’Oriente, in prevalenza comunista, e l’Occidente, in prevalenza capitalista; gli antagonisti, in una condizione di apparente stabilità mondiale, continuano a combattersi in una partita a scacchi fatta di rivoluzioni, colpi di stato, di guerre locali, di spionaggio, di ricatti, di corsa agli armamenti atomici, di operazioni inconfessabili e sotterranee dei servizi segreti e delle agenzie con licenza di uccidere. La terza fase, definita da Hobsbawm come «la frana», inizia con la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, la fine del socialismo realizzato e della guerra fredda; e a questo punto esplode la questione islamica.

Considerando, tuttavia, che nel grembo del Novecento è stato concepito il più grande cambiamento che l’umanità abbia mai vissuto, dal crollo dei capisaldi ideologici, religiosi e morali sui quali era stata costruita la storia millenaria dell’uomo, al travolgimento di convinzioni, abitudini, certezze, alla nascita, finalmente di nuove angosce e nuove esaltazioni, insieme a nuove prospettive di vita, nuove possibilità tecnologiche e scientifiche che aprono orizzonti colmi d’incognite, secondo Loris Facchinetti, il Novecento non è stato un «secolo breve», bensì un «secolo immenso», un «secolo immortale», un «secolo senza fine, figlio di un passato lento e conservatore e madre del terzo millennio, madre di un futuro travolgente e rivoluzionario». Di qui il titolo del suo lungo e affascinante saggio: Il secolo madre (i libri del Borghese, Pagine s.r.l., Roma 2022, pp. 160), dal sottotitolo particolarmente esplicativo: TransSovietismo-TransCapitalismo – La guerra continua.

Gli eventi narrati in quelle pagine sono accaduti dopo la fine della seconda guerra mondiale, sino alla primavera del 1980: «Anni sconvolgenti, giorni violenti e turbinosi, che hanno travolto vita e pensieri di milioni e milioni di giovani, in un’epoca bagnata di sangue, marchiata da lotte furiose, ferita da guerre crudeli, nobilitata da mistici ideali e da generosi sacrifici». Non è questa la sede in cui riassumerli: mi rifiuto di far la figura di chi voglia anticipare all’orecchio il film che stai per vedere mentre in sala hanno già spento le luci e il proiettore incomincia a ronzare, per azzittirsi soltanto allo scorrere dei titoli di testa. Condividendo, piuttosto, l’idea di Loris Facchinetti, che «ogni epoca è legata all’altra in modo organico ed indissolubile», che, dunque, «cause e conseguenze si concatenano e si perpetuano influenzate e influenzabili dal loro prima e preparatorie del loro dopo», parlerò d’altro, ma non in modo ozioso.

Non sono mai stato a Mosca, ma ero al Lido di Venezia quando, quattro anni or sono, venne presentato fuori concorso alla Biennale Cinema il film-documentario Process del regista bielorusso, cresciuto tuttavia in Ucraina, Sergei Loznitsa: la Sala grande del Palazzo del cinema, per due ore diventò la Sala delle colonne della Casa del Sindacato di Mosca. Il film di montaggio, basato su uno straordinario materiale d’archivio rimasto fino ad allora inedito, ricostruisce la storia di uno dei primi «processi farsa» architettati da Stalin, quando nell’Urss del 1930 un gruppo di economisti e ingegneri venne accusato di avere organizzato un colpo di Stato contro il governo sovietico attraverso un fantomatico «Partito dell’Industria», mai esistito. È la macchina del Terrore che inizia il suo lavoro: alla sbarra c’è l’«intelligencija tecnica» moscovita, l’élite alla quale viene addossata la colpa di aver boicottato la buona riuscita dei piani economici per distruggere il potere sovietico e restaurare il capitalismo con l’aiuto segreto delle potenze occidentali. Sono loro, quasi muti, remissivi, docili nell’offrire il capo alla sentenza dei giudici, le vittime sacrificali della difficile situazione economica e sociale dell’Unione sovietica. La tragedia era reale, ma il processo falso: Stalin aveva bisogno di dare in pasto al Paese i responsabili della sua sofferenza, quindi allestì una performance perfetta. Gli imputati, sembra che recitino.

I «sabotatori», costretti platealmente a confessare crimini mai commessi, vennero condannati, mentre fuori manifestazioni di piazza chiedevano giustizia, ma non finirono fucilati, né imprigionati, solo «riconvertiti» ad altre mansioni. Il popolo, accecato dallo slogan «La menzogna è verità», poté continuare a dormire tranquillo all’ombra del Partito. Quel processo era pubblico, le riprese mostrate a tutti, e gli atti pubblicati: fu un uso scientifico dei media per nascondere i problemi politici. Meritevole di uno sguardo il punto di vista di Michail Afanas’evič Bulgakov sulla Mosca del 1937, sede di processi politici manovrati, dietro le quinte, dall’Nkvd, precursore del Kgb, nei quali con metodo top-down si decidono le vittime da fucilare; e, al tempo stesso, città in cui si vive in uno stato di esaltazione, tra architetture oniriche, piazze e viali metafisici, futurismo monumentale. Per capire a fondo cosa fosse allora Mosca, basterà leggere in controluce alcune pagine de Il Maestro e Margherita (Einaudi, 1967; Mondadori, 1991), scritte proprio in quell’annus horribilis.

Vi trovano posto tutti i luoghi che fungono da palcoscenico per il dramma di Mosca in quel periodo: la città gloriosa e l’orrore delle abitazioni collettive; i luoghi pubblici e il loro vociare isterico; l’ambientazione dei processi farsa; il luogo delle esecuzioni; ma anche i rifugi in cui le persone cercavano un po’ di felicità, il caos estremo, il dissolversi di qualsiasi distinzione netta, le onde d’urto create dall’irruzione di forze ignote e innominate nella vita della gente comune, la paura e la disperazione; la morte distribuita con disinvoltura, morbosità e piacere. Quanto a coloro che rimangono vivi, non soltanto non lasciano sperare in alcun ravvedimento, ma non ce n’è uno con il quale ci si fermerebbe a scambiare due chiacchiere: tutta gente spregevole, meschina, feroce. Non v’è, forse, in questo un’impressionante similitudine tra il regime sanguinario stalinista, gli anni degli avvenimenti narrati da Loris Facchinetti e, quel ch’è peggio, il nostro traballante stato di diritto?

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Perché Putin rischia di fare la fine di Stalin. Le mosse del Cremlino ricordano quelle del dittatore comunista con la Finlandia. Stefano Magni su Nicolaporro.it il 15 Aprile 2022.

Russia e Finlandia sono di nuovo ai ferri corti. La causa è l’annunciata adesione della nazione scandinava, neutrale dal 1944, all’Alleanza Atlantica. Il percorso di ingresso nella Nato non è ancora partito, non è ancora stato deciso, ma già Mosca minaccia ritorsioni. La memoria, soprattutto in Finlandia, va al 1939, quando l’Unione Sovietica provò ad invadere la Finlandia, non vi riuscì, ma annesse comunque il 10% del suo territorio. Ricordare quel conflitto, combattuto agli albori della Seconda Guerra Mondiale come una vera e propria guerra nella guerra, è importante per capire anche lo scontro ancora in corso in Ucraina e i suoi possibili esiti. Le due guerre, quella del 1939-40 e quella che si sta combattendo ora, presentano analogie veramente interessanti.

Il precedente di Stalin

Nel 1939, dopo il patto nazi-sovietico del 23 agosto (il Molotov-Ribbentrop) la Finlandia rientrava nella “sfera di influenza” sovietica, assieme alla Polonia orientale e alle Repubbliche Baltiche. Subito dopo la sconfitta e la spartizione della Polonia con la Germania nazista, Stalin impose a Estonia, Lettonia e Lituania di accettare degli accordi capestro, in cui le piccole repubbliche dovevano cedere ai russi basi militari sul loro territorio e il libero passaggio dell’Armata Rossa. Quei patti, nel giro di appena otto mesi, costarono loro l’indipendenza. Stalin fece la stessa “proposta che non si può rifiutare” anche alla Finlandia.

Il governo di Helsinki, che pure era guidato da un moderato, Aimo Cajander, non poté accettare la concessione di basi e di territori, fra cui anche la penisola di Hanko da cui i sovietici avrebbero potuto minacciare direttamente la capitale. La Finlandia aveva appena assistito all’annessione di metà Polonia da parte dell’Urss (e le deportazioni dei polacchi erano iniziate praticamente subito) e all’ingresso, de facto, dei sovietici anche nei Paesi Baltici. Inoltre la Finlandia era memore della guerra civile del 1918, in cui i comunisti miravano, con l’appoggio di Mosca, ad annettere il neo-indipendente Paese alla nascente federazione sovietica.

L’invasione della Finlandia

Dopo due mesi di trattative estenuanti e di mobilitazione alle frontiere, il 30 novembre 1939 l’Urss invase la Finlandia. Qual era l’obiettivo? Due gli indizi principali: era stato già formato, a Mosca, un governo fantoccio finlandese, guidato dal comunista Otto Kuusinen (fuggito in Urss dopo la sconfitta nella guerra civile). In secondo luogo, le direttrici dell’offensiva sovietica coprivano tutto il Paese: l’area maggiormente interessata era la Carelia, oggetto principale delle trattative precedenti, ma in altri quattro punti i sovietici fecero entrare le loro divisioni, a Nord del Lago Ladoga, nella Finlandia centrale puntando verso Oulu e nell’estremo Nord verso il porto artico di Petsamo (ora Pechenega, in Russia).

La resistenza dei finlandesi

L’intento era dunque quello di prendere tutto il Paese e non solo la Carelia rivendicata dai russi come “zona cuscinetto”. Il generale Kliment Voroshilov, al comando del Fronte (gruppo d’armate) settentrionale, avrebbe voluto chiudere la campagna entro il 6 dicembre, compleanno di Stalin, una settimana dopo l’inizio delle ostilità. Andò diversamente, come molti ricordano. I finlandesi e il loro comandante in capo, Gustav Mannerheim, si rivelarono dei nemici formidabili. L’offensiva in Carelia venne fermata sulla “Linea Mannerheim”, quella a Nord del Lago Ladoga si concluse con parte dell’VIII Armata chiusa in una sacca, l’offensiva nella Finlandia centrale finì nel disastro militare di Suomussalmi e persino nell’estremo Nord, dove i finlandesi conducevano la difesa con poche compagnie di fanteria, i sovietici non raggiunsero i loro obiettivi.

Il cambio di strategia dei russi

L’opinione pubblica mondiale si svegliò condannando all’unisono l’invasore. L’Urss venne espulsa dalla Società delle Nazioni (l’Onu di allora) e da tutti i Paesi occidentali partirono aiuti in armi e volontari. Anche dall’Italia furono mandati aerei e batterie anti-aeree, benché, a causa dell’alleanza con la Germania nazista (che allora era alleata dell’Urss) non potessimo mandarle per la rotta europea più diretta. Stalin sconcertato dalle perdite sul campo e nel timore di trovarsi in guerra contro Francia e Regno Unito (che minacciavano un intervento armato diretto), il 7 gennaio 1940 sostituì il maresciallo Voroshilov con il più rodato Timoshenko e cambiò passo.

L’obiettivo non era più l’invasione del Paese intero, ma la conquista della Carelia. Dopo un mese di preparativi e dopo aver raddoppiato gli effettivi presenti in quel settore, Stalin piegò la resistenza finlandese sulla Linea Mannerheim e il 12 marzo impose la pace. Ottenne molti più territori di quanti aveva chiesto prima della guerra, la quasi totalità della Carelia compresa la capitale regionale Vyborg (ora Viipuri, in Russia), terza città finlandese per popolazione e importanza economica. Stalin poté dunque cantare vittoria. Ma fu una vittoria di Pirro, perché il suo obiettivo iniziale, la conquista del Paese era mancato.

Le successive trattative con la Germania nazista, soprattutto il colloquio fra Molotov e Hitler nel novembre 1940, si arenarono e portarono alla rottura fra le due potenze continentali fino a quel momento alleate, proprio perché Stalin voleva completare il lavoro e conquistare la Finlandia, mentre Hitler non era più disposto a concederglielo. Non appena finirono quelle trattative, il dittatore tedesco decise di invadere l’Urss: la performance pessima dell’Armata Rossa in Finlandia lo aveva anche convinto che battere i sovietici sarebbe stato molto facile.

Putin, il nuovo Stalin

Ora, sostituiamo Stalin con Putin e la Finlandia con l’Ucraina di oggi. Lo scenario è simile in modo inquietante. Non c’è una guerra mondiale, d’accordo. Ma una condizione di forte tensione internazionale. Le prime proposte di Putin all’Ucraina potevano apparire ragionevoli, ma Zelensky ha rifiutato perché forte dell’esperienza della guerra civile nel Donbass e dell’annessione della Crimea. Nella prima fase dell’offensiva sovietica (pardon! russa) in Ucraina, l’Armata entrò nel Paese lungo tutto il confine settentrionale, orientale e meridionale, quattro direttrici di offensiva che dimostravano chiaramente come l’intento fosse quello di conquistare il Paese, come traspariva dal discorso alla nazione di Putin del 24 febbraio.

L’intento era quantomeno quello di rovesciare il presidente Zelensky e il governo ucraino. I russi tentarono di prendere Kiev al primo giorno, con l’attacco aviotrasportato di Hostomel, fallito la prima notte di guerra. Poi il 25 febbraio mandarono una colonna fin dentro Kiev. Respinta anche questa manovra iniziarono il lento accerchiamento della capitale, mentre premevano su tutti gli altri fronti, senza riuscire a sfondare. Dopo un mese di guerra e dopo aver subito migliaia di perdite (le cifre sono ancora coperte da censura), Putin ha dunque cambiato passo. Ha cambiato i vertici dell’Armata, nominando al comando il più rodato generale Aleksandr Dvornikov. Ha ritirato le divisioni che accerchiavano Kiev e si sta concentrando sull’obiettivo più sensibile e importante per la Russia: il controllo del Donbass. Come per la Finlandia, l’opinione pubblica occidentale si è svegliata contro l’invasore, la Russia è stata espulsa dal Consiglio per i diritti umani e dalle democrazie occidentali continuano a partire armi e volontari per l’Ucraina.

Ricorda qualcosa? Ovviamente sì, anche se dobbiamo sempre tener presente che la storia non si ripete mai allo stesso modo. E magari stavolta può anche andare peggio. Ma è probabile che Putin, come Stalin prima di lui, possa concentrarsi su un obiettivo territoriale (e rinunciando alla conquista dell’intero Paese) così da poter cantare comunque vittoria e porre fine alla guerra. Ma anche in questo caso non vanno dimenticate le altre due lezioni della guerra finlandese: l’insoddisfazione di Mosca per la vittoria di Pirro ottenuta sul campo, può spingerla a premere di nuovo per la conquista del Paese invitto. E questo comporterebbe delle ripercussioni internazionali molto peggiori, perché gli Usa e gli alleati europei sarebbero ancor meno disposti a scendere a compromessi.

In secondo luogo, la pessima performance militare dell’Armata, benché nascosta dai propagandisti russi e dai loro numerosi amici in Occidente, è ben visibile a chi di dovere. La Nato, adesso, considererà l’esercito russo molto meno temibile di quanto si ritenesse prima della guerra. E per fortuna di Putin, stavolta dall’altra parte non c’è un Hitler che decide di invadere l’Urss. Ma ci sono Paesi di confine che chiederanno di aderire alla Nato senza aver troppa paura di una rappresaglia militare russa. Fra questi, c’è proprio la Finlandia. Stefano Magni, 15 aprile 2022

Così i dittatori finiscono vittime delle proprie illusioni. Paolo Armaroli il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

La Storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma le assonanze tra la campagna di Grecia condotta da Mussolini e la campagna di Ucraina condotta da Putin sono davvero impressionanti.

La Storia non si ripete mai allo stesso modo. Ma le assonanze tra la campagna di Grecia condotta da Mussolini e la campagna di Ucraina condotta da Putin sono davvero impressionanti. E il vecchio Carlo Marx, riflettendo sulle vicende francesi a cavallo tra il Sette e l'Ottocento, non a caso sosteneva che la Storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda volta in farsa.

Il 30 marzo 1938 Camera e Senato approvano per acclamazione la legge sul primo maresciallo dell'Impero conferito a Vittorio Emanuele III e al Duce. Con vive rimostranze del vecchio re per essere parificato al capo del governo. E quando Mussolini gli mostra il parere del presidente del Consiglio di Stato Santi Romano, una celebrità del giure, che sosteneva la piena legittimità del provvedimento legislativo, Vittorio Emanuele III resta del proprio avviso e ha parole di fuoco nei confronti dei costituzionalisti.

In quello stesso 30 marzo del 1938 Mussolini a Palazzo Madama tra gli applausi scroscianti dei senatori magnifica le nostre forze armate, che giudica tra le più potenti del mondo. Ecco, Putin non è da meno. Sa che il suo popolo ha un reddito pro capite di gran lunga inferiore a quello degli europei e degli americani. Ma in compenso s'illude di disporre di forze armate con i fiocchi. Ma il budino bisogna assaggiarlo per sapere se è buono o no. E, alla prova dei fatti, sia Mussolini sia Putin sono costretti a ricredersi. Il 28 ottobre 1940 Mussolini muove guerra alla Grecia. Ma l'offensiva si rivela presto un disastro. La Grecia va al contrattacco e arriva in Albania. Come al solito volano gli stracci. Occorrerà l'intervento delle forze germaniche per costringere la Grecia alla resa nell'aprile del 1941.

Putin si comporta, né più né meno, come Mussolini. Come a quest'ultimo era stato fatto credere che i greci fossero un popolo di pastori pronti ad arrendersi, così al dittatore russo i suoi servizi segreti e i suoi generali avevano fatto credere che l'Ucraina sarebbe stata spazzata via in quattro e quattr'otto. Insomma, la campagna contro Zelensky sarebbe stata poco più di una passeggiata. Ma così non è stato. E, seguendo le orme del Duce, Putin fa volare gli stracci. Il comandante in capo della spedizione viene rimosso sui due piedi e sostituito da un generale di maggiore esperienza. Con una fama di boia, tanto per esser chiari. E Putin si umilierà al punto di chiedere soccorso militare alla Cina, la Germania di Mussolini.

Nessuno può dire come andrà a finire. Fatto sta che la guerra lampo è clamorosamente fallita. La guerra continua con alterna fortuna. Le truppe ucraine danno filo da torcere e ottengono risultati insperati come l'affondamento della nave ammiraglia russa, il gioiello di Putin. Per il tiranno del Cremlino questa sciagurata campagna sarà l'inizio della fine. Si è messo contro Biden, considerato fino a ieri una colomba o giù di lì. Si è messo contro i Paesi dell'Unione europea, ben lieti fino al 24 febbraio scorso di intrattenere lucrosi scambi commerciali con il novello zar. E adesso la Finlandia e la Svezia, timorose dell'orso russo, si accingono a chiedere l'ombrello della Nato. Mentre l'Ucraina non vede l'ora di aderire all'Unione europea. Un suicidio in diretta, a conti fatti, quello di Putin. Che, memore delle glorie di Stalin, vorrebbe arrivare alla vittoria il 9 maggio. Quando il dittatore georgiano nel 1945 piegò la Germania alla resa. Proprio quel 9 maggio, ma del 1936, quando l'Italia conquistò un effimero impero. Corsi e ricorsi di vichiana memoria

È destino dei dittatori, si sa, rimanere vittime delle proprie illusioni.

Luciferina incoerenza. Tutti gli strafalcioni storici di Putin nel manifesto imperialista che giustifica l’invasione. Antonio Preiti su L'Inkiesta il 23 Marzo 2022.

Analisi dell’articolo con cui il dittatore ha giustificato la sua volontà di annessione di Kiev. Tanta fuffa e nel finale il peccato mortale dell’Ucraina: avere come modello da seguire l’Occidente e non la Russia.

I carri armati sono alimentati dalle idee, sono il seguito di una narrazione, per quanto aberrante, falsa e insostenibile sia. È difficile stabilire un nesso causale tra narrazione e fatti, ma è difficile capire i fatti, se spogliati dalla loro motivazione, così come non è possibile non vedere le conseguenze inevitabili di una narrazione. E talvolta le conseguenze sono un’invasione devastante di un intero paese. Allora si è obbligati a capire da dove arriva l’ideologia, il delirio, appunto la narrazione di ciò che sta succedendo in Ucraina. Allora conviene andare alla fonte della “ragione” dell’invasione dell’Ucraina; e chi meglio può spiegarla se non il suo autore? 

Putin il 12 luglio del 2021 ha scritto un lungo articolo (di oltre dieci pagine) proprio sull’Ucraina, che merita di essere letto, perché dentro c’è la costruzione ideologica dell’invasione. Nel testo c’è una teoria, un tentativo di giustificazione storica e, soprattutto, le ragioni profonde di un atto aberrante che sta sconvolgendo il mondo. C’è anche la ragione ultima, se ci potesse essere, della crudeltà dei modi e dei mezzi con cui sta avvenendo. 

Il testo di Putin è chiarissimo e spiega in maniera inequivocabile, dal suo punto di vista, il senso di questa guerra. Conviene leggerlo con attenzione e si troveranno tutte le risposte all’invasione. Tutto è reso con grande evidenza, e con luciferina coerenza, perché rivela in maniera limpida la sua concezione del mondo, e in particolare la sua concezione dell’Ucraina. Il testo è in inglese, secondo la traduzione ufficiale (dal russo) dello stesso governo russo. Perciò non ci sono dubbi sull’autenticità delle sue parole. Vediamo cosa dice.

La prima frase chiarisce già l’essenziale, che poi prova a dimostrare con un lungo excursus storico e di prospettive culturali e, diremmo, antropologiche. Scrive Putin che «i Russi e gli Ucraini sono un solo popolo, un singolo tutto» (Russians and Ukrainians were one people – a single Whole). Evitiamo di commentare se questa sia la premessa migliore per devastare le città e annichilire la popolazione. Restiamo sul testo e sul piano storico-culturale.

Aggiunge Putin che i due popoli sono «le parti di ciò che ha essenzialmente la stessa storia e lo stesso spazio spirituale». È importante notare l’uso di questi due termini: la stessa storia (poi vedremo che, secondo quanto da lui stesso scritto, la storia dell’attuale Ucraina ha avuto innumerevoli cambiamenti) e, soprattutto, «lo stesso spirito». In questo, fa riferimento ovviamente a qualcosa di metafisico, a cui vedremo che cercherà di aggiungere riscontri storici. Resta il fatto che l’unione spirituale di un popolo è difficile da definire. Lui scrive più avanti che è data dalla religione, quella ortodossa; ma andiamo con ordine.

Tutta la narrazione di Putin nasce dall’idea che esista un impero russo, che questo impero abbia un suo spirito, che si ritrova nella lingua, nella religione greco-ortodossa e in uno spazio fisico, che lui identifica nelle attuali Russia, Bielorussia e Ucraina. Tutto comincia, a suo parere, dal fatto che in passato ci fosse un «Ancient Rus» (il termine sta a indicare popolazioni che nell’Alto Medioevo vivevano nei tre Paesi citati e con appendici anche in Polonia e Slovacchia). Per Putin si trattava del più grande stato europeo. Qui commette un lapsus (diremmo) perché definisce quell’antica popolazione come europea, perciò sarebbe del tutto ovvio che oggi, a secoli di distanza, l’Ucraina rivendichi la sua appartenenza europea. C’è poi un riferimento al gesto di St. Vladimir, grande principe di Kiev, di farsi battezzare come ortodosso, e così facendo creò quell’appartenenza di fede che costituirebbe lo spirito russo.

Aggiunge che «il trono di Kiev aveva una posizione dominante nella Ancient Rus». Cita Oleg il Profeta che nel IX secolo ha dichiarato che Kiev sarebbe stata la madre di tutte le città russe. Il termine «madre» (motherland) ritorna più volte nella sua narrazione. Ammette che dopo quel tempo vi sia stata una frammentazione di stati e staterelli, dovuta anche alle invasioni dall’esterno («devastating invasions») che fanno pensare piuttosto a quella sua odierna. Aggiunge che una parte dell’attuale Ucraina «referred», faceva riferimento al Gran Ducato di Lituania e Russia.

Fino ad adesso sembra tutta una storia interna all’Ucraina, ma ecco come si inserisce (l’immedesimazione?) la Russia odierna. Scrive che a un certo punto i principi di Mosca, discendenti del Principe Alexander Nevskij, cominciano a riunificare («gathering») la terra russa. Nel frattempo accade qualcosa che lui stesso cita, ma da cui non trae le naturali conseguenze, e cioè che le popolazioni dell’Ucraina legate alla Lituania diventarono cattoliche. A questo punto, non potendo scrivere che oramai quelle popolazioni erano cattoliche e non greco-ortodosse, afferma che nel 1596 parte del clero ortodosso fu sottomesso («submitted») all’autorità del Papa di Roma.

In sostanza, considerando quanto lui stesso scrive, il richiamo allo spirito russo, che coincide con quello religioso ortodosso, già nel 1500 non aveva alcun senso, e probabilmente nessun consenso, visto che l’unica citazione storica avversa che cita si riferisce al 1649, quando lui sostiene che gli abitanti di Zaporizia, l’attuale regione tra il sud dell’Ucraina e della Russia, avevano chiesto al Commonwealth Polacco-Lituano di rispettare i diritti della popolazione russo-ortodossa. (Non pare la stessa cosa di oggi quando parla del Donbass? con le stesse parole?)

Va avanti nella storia e, usando sempre il termine Impero Russo, aggiunge che dopo lo smembramento dello stato polacco-lituano la Russia «regained», ha riguadagnato la parte occidentale delle vecchie province russe. E qui comincia una lunga accusa alla Polonia di aver utilizzato l’Ucraina per ottenerne tutte le risorse economiche, dimenticando quanto scritto da lui stesso in merito all’adesione al cattolicesimo di quella parte d’Europa. Accusa poi l’élite polacca di aver separato l’Ucraina dalla Russia.

In sostanza, l’Ucraina non avrebbe, nel suo pensiero (e l’ha detto a chiare lettere il giorno dell’invasione) una identità perché quella cattolica sarebbe stata frutto di oppressione e di coercizione. Resterebbe la questione della lingua ucraina, che esiste da secoli, a testimonianza dell’identità, ma sostiene che si tratta di un dialetto, con la stessa differenza tra Roma e Bergamo.

E veniamo alla parte sovietica della storia. Qui la vicenda si fa ancora più contorta, perché sostiene che nel 1917 la proclamazione dello stato Ucraino era concepito come uno stato dentro la Russia, anche se formalmente si trattava di una confederazione di stati indipendenti. Sostiene che secondo i principi del comunismo gli stati erano una finzione, perché c’era una concezione universalistica dell’idea comunista, e perciò il riconoscimento degli stati era solo un modo per suscitare simpatie, ma senza un valore statuale.

Dedica poi pagine a sostenere che l’identificazione dell’Ucraina con l’Europa, cresciuta dopo la caduta dell’Unione Sovietica sia frutto della manipolazione dei Polacchi in chiave anti-Russa. Questo sarebbe avvenuto contro la volontà dei popoli russo, bielorusso e, appunto, ucraino che, invece, si sentirebbero come «a triune nation», che potremmo tradurre come una «nazione trinaria», che evoca la trinità cristiana. La reazione eroica e per nulla accondiscendente degli Ucraini di questi giorni dimostra che certo questo non è il pensiero degli Ucraini, e sicuramente anche dei Bielorussi, se avessero la possibilità di dirlo.

Per altro, l’idea che un popolo si fondi su uno spirito, oltre che essere l’ingrediente delle teocrazie, è smentito proprio da altre parti del suo testo, quando afferma che in Ucraina convivono più religioni, più etnie e intrecci molteplici anche al livello familiare. O Addirittura – visto con gli occhi di oggi – afferma che ognuno è libero di determinare la sua nazionalità, particolarmente nelle famiglie miste, perché «every individual is free to make his or her choice». Allora perché l’invasione? Allora perché il richiamo a un’unità di razza, di religione che si vuole anche unità statuale?

La risposta è in quelle parole ripetute a ogni pagina dello scritto: “Impero Russo”. Tutto viene interpretato alla luce dell’esistenza, del mantenimento e dello sviluppo dell’Impero. Tutto il resto dello scritto, dedicato agli anni più recenti, è fondato su quello che chiama il «Piano anti-Russia», che sarebbe perpetrato dagli «autori occidentali», rispetto a cui il governo legittimo, e democraticamente eletto dell’Ucraina sarebbe succube e servitore. Ma il cuore della vicenda attuale Putin la rivela nella sua ultima pagina, quando scrive che all’attuale governo dell’Ucraina piace vedere nell’esperienza dell’Occidente «as a model to follow», un modello da seguire.

Perciò il peccato mortale dell’Ucraina è di vedere come modello non la Russia, ma l’Occidente.

L’ultima riga del testo suona sinistra e beffarda insieme, perché sostiene che la Russia «non è mai stata e mai sarà anti-Ucraina e quello che l’Ucraina sarà è nelle mani dei suoi cittadini deciderlo» (it is up to its citizens to decide). Ecco come la spietata chiarezza del pensiero che sta dietro i carri armati e i bombardamenti cancella i geroglifici di geo-politica, le fantasie giustificazioniste e gli equilibrismi dell’equidistanza.

Congo, il gran pasticcio della decolonizzazione. Marco Valle su Inside Over l'8 aprile 2022.

L’indipendenza congolese ricorda un cortocircuito. Un guasto all’apparenza banale, risolvibile, aggiustabile, ma se l’elettricista è un incapace o un idiota il piccolo incidente domestico può trasformarsi in un incendio. Se poi i pompieri tardano ad arrivare o si rivelano a loro volta degli incendiari, non vi è speranza. Insomma, spiegare un cortocircuito, talvolta, non è cosa semplice. Soprattutto quando non si tratta d’elettricità, di fili, contatori, contatti e altri stupidi e banali aggeggi. Soprattutto quando si tratta di donne e uomini, di popoli e nazioni. Di denaro e sangue. Tanto denaro, troppo sangue. Questo fu il destino del defunto Congo belga.

Agli occhi di molti osservatori l’ultimo decennio del sogno di Leopoldo ancor oggi rimane un enigma. Il tracollo improvviso del sistema coloniale – un regime chiuso, occhiuto ma, apparentemente, solido – sorprese e sgomentò. In quel lontano 1960, nell’arco di pochi mesi, “l’impero del silenzio” (per molti) o la colonie modèle (per pochi) implose rovinosamente. Vergognosamente. Le ragioni, ancora una volta, sono complesse e vanno ricercate non tra Matadi e il Katanga, ma nei palazzi di Bruxelles.

La questione congolese fu in primis una crisi interna al potere metropolitano. Agli inizi degli anni Cinquanta ai segmenti più avvertiti dei circoli politici e finanziari belgi l’inadeguatezza del sistema coloniale, perennemente incardinato sulla Charte coloniale, divenne evidente. Ma non solo. Inevitabilmente, anche a Bruxelles s’iniziò a ragionare sulla fine del Raj britannico nel subcontinente indiano, sulla ritirata olandese in Indonesia e le tragedie della Francia in Indocina e in Africa settentrionale. Poi Suez e il Marocco. Un susseguirsi di sconfitte, tradimenti, disfatte.

Ovunque i fortini del colonialismo franavano sotto i colpi d’ariete dei movimenti nazionalisti. Un’offensiva potente – alimentata dalle incrociate pressioni statunitensi e sovietiche, legittimata dagli intrighi dell’Onu e protetta dalle velleità dei Paesi “non allineati” – costringeva le grandi e piccole potenze europee ad ammainare le bandiere. Il tempo dell’imperialismo europeo stava finendo.

Per quanto il Congo sembrasse tranquillo e pacifico, i settori governativi meno ottusi ritennero urgente creare degli ascensori sociali per formare un primo abbozzo di borghesia locale da cui estrarre, in un non precisato futuro, un personale amministrativo e politico congolese adeguato. Da qui, trasferendo all’Equatore la polemica tutta belga tra l’insegnamento laico contro quello confessionale, l’apertura repentina di scuole superiori e di due università – una cattolica a Léopoldville e l’altra laica ad Elisabethville -. Inoltre fu riconosciuto, come ricorda Bernard Droz, “il diritto sindacale e fu istituito un Fondo per il benessere indigeno, riorganizzata l’amministrazione tramite una riforma comunale. Sostenuta da un’eccezionale crescita economica, almeno fino al 1956, la piccola borghesia nera continuò a svilupparsi e il rapido processo dell’istruzione collocava il tasso di scolarizzazione del Congo Belga tra i primi in Africa”.

Nel 1955 la visita di re Baldovino, un successo pieno. Nel suo primo viaggio africano, il giovane monarca annunciò dinnanzi a moltitudini festanti la progressiva attuazione di una comunità belgo-congolese, un’unione in seno alla quale le responsabilità di governo sarebbero state suddivise tra bianchi e neri soltanto “in base alle qualità e capacità”.

Baldovino fu sincero. La Casa Reale esperì, sino al limite estremo delle sue possibilità, una politica africana autonoma – e spesso conflittuale – dal potere politico nazionale. Per motivi di prestigio e solidi interessi. Ma non solo. Negli anni, l’occhialuto erede dei Saxe Cobourg Gotha dimostrò una visione politica più lucida e profonda dei suoi ministri. Dopo aver invano tentato di trasformare il Congo in un vicereame da affidare al padre, l’ex re Leopoldo, Baldovino cercò d’avviare un processo d’emancipazione “dolce” tramite uomini di sua fiducia – ben più solidi dei messi governativi – e quando la situazione iniziò a traballare chiese, senza successo, un intervento militare.

Al suo ritorno in patria nel ‘55, il sovrano diede nuovo impulso alla creazione della “comunità belgo-congolese” e appoggiò, con reale discrezione e l’appoggio dei centri finanziari e parte del mondo politico, il fatidico Plan de trente ans pour l’émancipation de l’Afrique belge del professor Jef van Bilsen, pubblicato sulla rivista ufficiale del Mouvement Ouvrier Chrétien, il braccio sindacale del partito cattolico. Convinto che “l’emancipazione è ineluttabile e non è necessariamente catastrofica: al contrario, può costituire una fonte di reciproco arricchimento spirituale e materiale. Sarà dolorosa soltanto se ci lasceremo sorprendere e sommergere dagli eventi”, il docente fiammingo proponeva un percorso trentennale e condiviso verso l’indipendenza della regione. Il piano – molto moderato e gradualistico – scatenò furibonde polemiche in patria e in colonia. Sorprendentemente, accanto alle scontate resistenze dei circoli coloniali, ad opporsi ed a indignarsi per le “stravaganze” di van Bilsen, furono gli ambienti progressisti. Il liberale Auguste Buisseret, ministro delle colonie, liquidò l’autore come “uno di quei strateghi irresponsabili che fissano delle date, dimostrando di non sapere niente e di non capire niente dell’Africa”. Del resto, in quegli stessi anni il socialista François Mitterrand e il Pcf erano ancora convinti partigiani dell’Algeria francese…

Nel frattempo, pressato dalle critiche dell’Onu e dalle insistenze di Baldovino, il nuovo governo brussellese – una stramba coalizione liberal-socialista che, per la prima volta nella storia belga, pose i cattolici all’opposizione – approvò l’introduzione in colonia di limitate forme di democrazia rappresentativa. Il 26 marzo 1957 un decreto reale autorizzò la riorganizzazione dei poteri urbani nelle tre principali città congolesi, introducendo i consigli municipali elettivi (con urne, seggi e rappresentanze distinti tra bianchi e neri) e aprendo – riprendendo un dimenticato progetto del 1943 – le fila dell’amministrazione ai nativi. Furono provvedimenti importanti ma tardivi che rivelarono l’imbarazzo e, soprattutto, la debolezza del potere coloniale. Non a caso, il nascente movimento nazionalista congolese accolse con inattesa freddezza le concessioni e iniziò – confusamente ma con determinazione – ad organizzarsi. Il preludio del grande incendio.

Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo. MATTEO BRESSAN su Il Domani il 20 marzo 2022

Dallo scorso agosto, a partire dal ritiro dell’occidente da Kabul per giungere all’offensiva russa di questi giorni in Ucraina, abbiamo assistito alla fine della guerra al terrore e al ritorno della guerra alle porte dell’Europa.

Se Kabul e Kiev possono rappresentare, con le loro estremità, le variegate sfaccettature della violenza organizzata, gli scenari di crisi che geograficamente si collocano tra le due capitali ci presentano un mondo che mai come in questa fase appare così insicuro.

Il libro “Da Clausewitz a Putin: la guerra nel XXI secolo”, a cura di Bressan e Cuzzelli sarà in libreria a partire dalla fine di marzo.

MATTEO BRESSAN. Analista presso il NATO Defense College Foundation, docente di Studi Strategici presso la SIOI e la LUMSA.

Il canto del cigno nero. Le tre ragioni che porteranno alla sconfitta dei tiranni nel XXI secolo (compreso Putin). Giovanni Cagnoli su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

Cuba, Corea del Nord e Russia sono esempi plastici dei luoghi dove si vive peggio al mondo. L’avvento di internet e delle comunicazioni planetarie rende impossibile la gestione della propaganda all’infinito. E la capacità repressiva dei regimi totalitari sarà sempre più ridotta.

Quella a cui stiamo assistendo oggi è la coda della lotta durata quasi duecento anni tra una visione del mondo aperta, democratica, meritocratica con la possibilità per tutti i cittadini di scalare l’ascensore sociale, iniziata con la rivoluzione francese nel 1789 e quella americana del 1776, e il totalitarismo che si è realizzato in Europa e nel mondo come difesa del privilegio di pochi rispetto alle opportunità di molti.

Il totalitarismo prima di fine Ottocento era la regola assoluta, con modeste eccezioni (Atene del IV secolo avanti Cristo, Venezia).  L’imperatore, il re, la nobiltà o il capo guerriero di turno, affermava con la forza, o con il diritto dinastico, il suo potere indiscusso. Un potere a tutto tondo economico, legislativo, militare. Il contratto sociale con la popolazione si basava sul castello e sulla difesa di cui il re e i nobili si facevano paladini con un pesantissimo tributo di risorse umane e di lavoro da parte dei non nobili.

La rivoluzione industriale e la nozione che la difesa non poteva essere più basata sul castello e sulle mura (i cannoni li smantellano facilmente), cosi come il crescere del commercio tra nazioni e gli equilibri economici che ne derivano, hanno posto fine di fatto al modello monarchico, o nel XIX secolo ne hanno molto limitato i privilegi fino ad azzerarli nel XX secolo, e hanno fatto nascere una nuova categoria di privilegiati, cioè i detentori di capitale che emergevano in ogni società sviluppata, non più sulla base della diritto di nascita ma piuttosto sulla capacità di emergere. Soprattutto le rivoluzioni liberali dell’Ottocento hanno diffuso il pensiero della possibilità dei popoli di autodeterminarsi attraverso una forma di democrazia che rifugge dalla scelta a priori dei leader. Non più il re, il capo guerriero o il dittatore, ma il primo ministro. 

Il movimento marxista nato intorno al 1860 e trasformato poi in dottrina di Stato con la rivoluzione sovietica del 1917, non a caso fertile nell’unico Stato residuo dove i privilegi della nobiltà e dello Zar erano ancora ben saldi e quasi invariati rispetto a 150 anni prima, hanno creato il residuo del totalitarismo nel XX secolo, insieme ai movimenti fascisti di Italia e Germania entrambi prosperati sulla base di una diffusa sensazione di ingiustizia per il privilegio economico del capitalismo coloniale anglosassone.

La Seconda guerra mondiale nasce da queste tensioni e in modo del tutto anacronistico, se non per la cartina geografica e le follie razziste di Hitler, vede su fronti contrapposti, i due totalitarismi (tedesco e russo). Inevitabilmente la Germania con dimensioni economiche non paragonabili agli Alleati, e in più con un fronte russo geograficamente immenso, perde rovinosamente la guerra, ma vince in modo altrettanto eclatante la pace diventando la potenza economica dominante in Europa.

Un minuto dopo la fine della guerra appare chiaro che il totalitarismo comunista russo è il vero nemico dell’occidente liberale, Germania inclusa, e per 45 anni fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989, l’Europa dell’est si vede privata di libertà, crescita economica, progresso sotto il tallone del totalitarismo comunista. Budapest nel 1956 e Praga nel 1968 rafforzano le convinzioni da una parte in Russia che l’unica risposta all’avvicinarsi di posizioni liberali sia l’invasione militare e dall’altra in Occidente che il comunismo sia non tanto una visione sociale moderna ma una efferata forma di totalitarismo ammantata e mascherata dal falso mito della filosofia ugualitaria.

Nel XX secolo il crescere dell’importanza della dimensione economica delle società svela anche con una semplice analisi che il comunismo è un totale, incontrovertibile, duraturo fallimento economico e sociale. Polonia, Cechia, paesi baltici dovranno attendere fino al 2030/40 per allinearsi all’occidente a cui appartengono per valori, cultura, istruzione e ogni altro parametro. Un anno di regime comunista ne costa due per riparare ai danni che provoca. Quarantacinque anni di regime ne costano cento per riportare quei territori a uno standard di vita simile alla media europea. Un’enormità e un costo tremendo. 

Questa è la motivazione profonda della forza del sentimento anti-comunista in quei paesi davvero estremo. Solo chi ha conosciuto il comunismo sa che è un costo sociale tremendo e lo combatte strenuamente, così come fanno oggi gli ucraini. La democrazia e il liberismo lasciano spazio all’iniziativa individuale soffocata dal comunismo e in una specie di darwinismo sociale, a costo anche di generazioni perse, il mito del comunismo finisce con il crollo del muro di Berlino. In Occidente purtroppo per anni è stata propinata solo per fini elettorali la bufala del buon comunismo, dimenticandosi gli evidenti aspetti del fallimento economico e del totalitarismo che ne erano intrinseci.

Ma il dato di fatto più interessante è un legame di continuità del comunismo o del totalitarismo in senso lato rispetto alla nobiltà del Settecento ante Rivoluzione francese. Allo stesso modo, la nomenklatura comunista gode di privilegi incredibili rispetto alle masse, quanto la nobiltà nel Settecento rispetto alla borghesia e alla plebe. Pochissime persone controllano economia, potere, media e sfruttano la promessa del comunismo o del nazionalismo, solo ed esclusivamente per proteggere in modo strenuo i propri privilegi. Gli oligarchi russi di oggi con l’ostentazione della loro ricchezza, i gerarchi fascisti o nazisti di oggi, non sono altro che piccoli uomini violenti e aggressivi, assurti a un potere enorme, a privilegi di vita altrettanto enormi, che non vogliono per nessun motivo rinunciare a questi privilegi, per loro assolutamente irraggiungibili attraverso lavoro o ingegno. 

Una volta acquisiti e “apprezzati” i privilegi, cercano di scovare una motivazione per le masse per evitare la rivolta popolare. Motivazione che alternativamente può essere la mitologia del comunismo, o la difesa della nazione, o i soprusi delle altre nazioni. 

Ogni scusa è buona pur di non mollare i privilegi. Soprattutto la minaccia di una rivoluzione liberale di successo come quella di Maidan del 2014 è terrificante. Se l’Ucraina si fosse occidentalizzata con successo come sembrava accedere, come si poteva fermare la stessa evoluzione in Russia? Da qui l’imperativo dell’invasione, non certo la Nato che, alleanza difensiva, non è una minaccia. Ciò che minacciava, e lo minaccia a maggior ragione oggi dopo la sconfitta de facto dell’esercito russo, è l’impossibilità di invadere l’Ucraina in futuro, perché avrebbe definitivamente sancito la solitudine dell’esperimento totalitario di Putin e quindi in ultima analisi il suo fallimento economico, sociale e infine la rivoluzione. Tra l’altro, geograficamente con l’adesione pregressa alla Nato dei paesi baltici, di Polonia e Romania non esiste più, a parte la piccola Moldavia, un territorio contiguo alla Russia dove fermare l’esperimento democratico.

La mia tesi è che nel mondo del XXI secolo la battaglia di questi tiranni privilegiati è senza speranza ed è l’ultimo colpo di coda nella storia.

Questo per 3 motivi fondamentali

L’avvento di internet e delle comunicazioni planetarie rende impossibile la gestione della propaganda all’infinito. Russi e cinesi prima o poi vedranno in innumerevoli video le bombe su Kiev e la catastrofe umanitaria di Mariupol. E la reazione sarà rabbiosa. Un contadino francese nel Settecento aveva molte difficoltà a vedere lo sfarzo inutile di Versailles. Forse lo intuiva, ma di certo non lo vedeva tutti i giorni con infiniti dettagli.

Ugualmente il fallimento economico del totalitarismo è sotto gli occhi di tutti. Cuba, la Corea del Nord, la stessa Russia tra pochissimo, sono esempi plastici dei luoghi dove si vive peggio al mondo e tristemente per i loro governanti anche la loro popolazione lo sa perfettamente, non fosse altro perché vede tutti i giorni quanto si vive meglio nel resto del mondo. Vale anche per la Cina i cui governanti hanno però finora molto abilmente coniugato il più feroce totalitarismo politico con un altrettanto incredibile capitalismo economico selvaggio, e soprattutto non sembrano essersi enormemente arricchiti di privilegi anche attraverso una selezione di classe politica di tutto rispetto e capacità media probabilmente superiore all’occidente.

La capacità repressiva dei regimi totalitari è fortemente ridotta in epoca internet, sempre per effetto delle comunicazioni tra i repressi, e anche per l’impopolarità della repressione. Alla fine Putin potrebbe essere costretto ad arrestare mezzo milione di persone che protestano e nemmeno lui lo può fare. Quelli che non sono arrestati scappano e le migliori energie del paese se ne vanno determinando una spirale di impoverimento drammatico. Succede alla velocità della luce in un modo dove trasporto di persone cose e idee è enormemente più facile che nel Settecento o nell’Ottocento. Cinque milioni di profughi ucraini in tre settimane e code inenarrabili alla frontiera tra Russia e Finlandia ne sono dimostrazione evidente. 

Quindi Putin ha già perso, semplicemente perché non può vincere. Non ha le motivazioni popolari, la struttura economica, la possibilità di controllo sociale per vincere. Crollerà tra 1, 2 o 5 anni ma crollerà travolto in modo violento dal suo stesso popolo e dai suoi oligarchi o dai suoi militari stanco di essere vessato, di vivere malissimo, di dovere emigrare. E chi dice che nella Russia profonda Putin è ancora popolare sottovaluta che le rivoluzioni si fanno sempre nelle città, Parigi o Bostonieri, San Pietroburgo o Berlino oggi, mai in campagna.

È altrettanto interessante il parallelismo di questa analisi con le vicende politiche occidentali dove abbiamo assistito alla creazione d un ceto politico fortemente autoreferenziale, con privilegi meno enormi ma certamente marcati rispetto alla massa della popolazione, e con qualità per lo più modeste. È molto vero in Italia, ma anche in svariati paesi occidentali, dove il politico di professione è diventato fortemente impopolare proprio per i privilegi di casta, l’impermeabilità al cambiamento e la sostanziale evidente inversione tra i presunti fini (il bene del popolo) e i mezzi praticati (l’autoconservazione del proprio potere e privilegi).

La dimensione personale dei privilegi dei politici di professione è sottovalutata. Costoro vivono in un universo parallelo, con una serie di agevolazioni e privilegi personali, pagati dai contribuenti a cui, una volta provati, non sono più disposti a rinunciare per nessun motivo. L’immagine di Luigi Di Maio al telefono con autista nell’Audi A8 che mai e poi mai potrebbe nemmeno sognare con il suo lavoro è plastica.

Così abbiamo assistito negli ultimi dieci anni a fenomeni di populismo democratico altrettanto pericolosi rispetto al totalitarismo. Chi si presenta alle elezioni dicendo «sono nuovo e diverso dai vecchi corrotti autoreferenziali» vince. Il claim elettorale è una bufala ovviamente, ma permette un giro di giostra al potere. Donald Trump, i Cinquestelle, Marine le Pen, Matteo Salvini e Boris Johnson (in una certa misura mitigato dalla centenaria tradizione democratica inglese) sono facce della stessa medaglia e cioè la proclamata vicinanza alle masse e alle istanze più becere delle masse, seguita da una gestione dissennata e pericolosa del governo del paese. 

L’aspetto sorprendente ma non troppo, considerata la natura umana, è la facilità con cui costoro conquistano le masse. Bastano promesse e slogan ridicoli nella loro pochezza («abbiamo sconfitto la povertà» o «uno vale uno» o «make America great again») per vincere le elezioni spesso con un utilizzo spregiudicato della comunicazione digitale. Le masse vogliono credere alla soluzione magica e soprattutto diffidano delle élite politiche autoreferenziali in cui hanno visto corruzione diffusa, attaccamento pervicace alla poltrona e anche discreta incompetenza.

Ma il gioco per fortuna dura poco. I Cinquestelle spariranno tra meno di un anno dal panorama politico italiano, così come Salvini. Trump proverà a ripresentarsi ma a mio avviso (e su questo sono in minoranza) ha pochissime speranze di vincere e forse nemmeno di essere il candidato repubblicano, nonostante la pochezza culturale del Midwest e delle classi non educate degli Stati Uniti. Per fortuna, in democrazia i populisti spariscono, spesso con rabbiosa reazione, quando le masse si rendono conto che le promesse sono vuote.

Il costo però è molto elevato; ad esempio, in Italia il costo dei Cinquestelle sarà alla fine di cento o duecento miliardi a causa delle scelte scellerate (dai banchi a rotelle, al reddito di cittadinanza, alla guerra al TAP e ai rigassificatori e molto altro), un prezzo enorme per un paese molto indebitato e in crisi demografica. Forse proprio pensando al Midwest americano bisognerebbe riflettere attentamente su un paese (l’Italia) che dedica risorse al welfare pari a cinque volte quelle che dedica all’istruzione, dove peraltro le risorse sono spese per difendere l’assoluto opposto della meritocrazia per chi insegna e l’inutilità per chi impara. L’istruzione e lo spirito critico sono essenziali per la democrazia e noi stiamo facendo pochissimo per difenderla.

Restano però vive e vegete, soprattutto in Italia, le élite politiche che hanno esse stesse fortemente favorito la reazione populista. In Italia la sinistra ha governato per quindici degli ultimi venti anni pur avendo quasi sempre perso le elezioni, ha un personale politico uguale a sé stesso che di professione ha sempre e solo fatto politica, che non ha alcuna prospettiva di lavoro reale fuori dal Parlamento e dai ministeri e prospera adesso solo con lo slogan “mai con Salvini” riuscendo anche a digerire l’impresentabile Giuseppe Conte e i Cinquestelle nella speranza di restare al potere anche dopo le prossime elezioni.

La guerra scompagina però le carte in modo sensibile. I distinguo della sinistra identitaria italiana e dei Cinquestelle saranno indigeribili per un Pd riformista, atlantista ed europeista e quindi il sogno di Goffredo Bettini e Massimo D’Alema (quando non è distratto dalla vendita di armi ai colombiani) del campo largo viene spazzato via dalle bombe dei russi. Le stesse dichiarazioni sulla “pace che non si fa con le armi” stridono con il buonsenso e con la realtà. Andiamolo a dire agli ucraini sotto il fuoco nemico che la pace si fa con il dialogo.

Emmanuel Macron realisticamente vincerà ancora le elezioni francesi specie se al secondo turno andasse Marine Le Pen, Boris Johnson a breve sarà spazzato via dai suoi stessi conservatori, e Olaf Scholz in Germania sta riaffermando la migliore politica europea anche dopo Angela Merkel con un sano pragmatismo calvinista attento alle ragioni del benessere germanico, ma anche lontano dagli estremismi e dal populismo (il gas russo per noi purtroppo è fondamentale e ci vorrà tempo per smarcarsi). Quindi, in sintesi, in Europa (ma anche negli Stati Uniti se la mia previsione sulla fine di Trump è corretta) la stagione del bipopulismo (di destra Le Pen/Salvini/AFD o di sinistra Cinquestelle/Linke) è sostanzialmente terminata, e avremo governi stabilmente di centro con uno spin di destra o di sinistra in funzione delle situazioni locali. Avremo, si spera, anche governi di competenti. Mario Draghi è il meglio che oggi l’Europa propone, un atout incredibilmente potente per l’Italia specie se non sarà condizionato dalla pattuglia di Cinquestelle e Lega che nel prossimo Parlamento sarà irrilevante.

L’esito delle elezioni italiane del 2023 invece è meno evidente e sarà uno spartiacque decisivo, visto che il peso dei bipopulisti (Lega e Cinquestelle) era il più alto in Europa, mentre manca un ancoraggio solido al centro che è maggioranza nel paese, ma allo stato attuale minoranza in Parlamento. 

Sarebbe importante offrire alle democrazie occidentali e all’Italia in particolare, un meccanismo efficace per evitare i populismi nel tempo, e forse il modo migliore può essere garantire la capacità a un ceto politico non autoreferenziale di salire al potere. In questo senso la limitazione nel tempo degli incarichi pubblici (la stessa proclamata con enfasi sugli altri ma poi negata su se stessi dai Cinquestelle) a me pare l’antidoto più grande.

Nessuno potrebbe concepire di fare il politico a vita e questo cambierebbe drasticamente la possibilità di invertire fini e mezzi attraverso la politica. Così come la coscienza dei valori dell’occidente di libertà, auto determinazione e espressione individuale che questa guerra provocherà di certo, forse avvicinerà alla politica persone migliori, con maggiore esperienza di gestione amministrativa e senza l’attaccamento al ruolo tipico di chi non ha alcuna prospettiva fuori dalla politica (Di Luigi Di Maio e tutti i Cinquestelle, Salvini e molti nella Lega, ma anche molti nel Pd). Ci sono segnali importanti in tal senso come Giorgio Gori, Beppe Sala, Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Carlo Calenda, Stefano Bonaccini, Giovanni Toti, e in generale una classe di amministratori locali che per vincere deve amministrare e non solo fare promesse ai delegati del partito. Le elezioni del 2023 sono uno spartiacque importante in questo senso. 

Di certo l’epilogo dei privilegi del re, del nobile, del gerarca, del politburo comunista, è molto vicino.

Si tratta di non cadere poi nel privilegio del politico di professione che vessa certamente molto meno del dittatore, ma non ha le capacità e le competenze prima di tutto morali, ma anche tecniche e professionali per gestire la complessità dello Stato. 

La transizione è in corso e, anche nel mezzo della notte più buia per della democrazia, c’è motivo di essere fiduciosi, perché da sempre la natura umana vuole migliorare la propria condizione per lasciare un mondo migliore ai propri figli. Lo ha fatto con successo per migliaia di anni e non sarà un Putin qualsiasi a cambiare il corso della storia, anzi semmai catalizzerà alcuni processi che avrebbero richiesto più tempo per realizzarsi con successo.  

Aspettiamo la sua fine con fiducia e combattiamo al meglio per difendere i nostri valori e per evitare che nuovi piccoli e grandi dittatori autoreferenziali arrivino ancora a propinarci le loro menzogne ammantate di ideali affascinanti e totalmente fasulli, irrealizzabili e costosi. Li abbiamo visti all’opera e basta così.

Il provincialismo dell'impero. Michele Serra su La Repubblica il 20 marzo 2022.  L'amaca di Michele Serra di domenica 20 marzo 2022. 

L'adunata bellica di Putin, per quanto se ne è capito da quaggiù, sembrava soprattutto molto provinciale: cosa che per una potenza con brame imperiali stona parecchio. Dava un'idea di isolamento e di fatica culturale, con quelle vice-star di un vice-rock di imitazione, quelle presentatrici e vallette televisive di regime che sembravano hostess dell'Aeroflot, con tutto il rispetto per le hostess dell'Aeroflot, molte delle quali, conoscendo il mondo, avrebbero potuto dare qualche utile suggerimento per migliorare di molto la scaletta...

La figlia di due mondi. La storia sconosciuta di com’è nata l’Aida, l’opera che unì Italia ed Egitto. Maurizio Assalto  su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.

Il Museo Egizio celebra fino al 5 giugno 2022 la genesi, il contesto storico e le relazioni che hanno accompagnato la creazione dell’opera lirica, un capolavoro frutto del dialogo fra due giganti: Giuseppe Verdi e Auguste Mariette, padre della moderna egittologia scientifica.

“Questa nazione avrà per capitale Parigi, ma non si chiamerà Francia; si chiamerà Europa. Si chiamerà Europa nel XX secolo ma nei secoli seguenti, più trasfigurata ancora, si chiamerà Umanità”. Era il 1867 e nella Paris-Guide scritta per l’Esposizione Universale ospitata nella Ville Lumière Victor Hugo, dall’esilio di Guernsey, nella Manica, dove era stato costretto da Napoleone III, così vagheggiava il futuro del mondo e di una capitale che avrebbe raccolto e fuso insieme l’eredità di Atene, Roma e Gerusalemme.

È da questo afflato universalistico e pacifista, intriso di fiducia nelle umane sorti e progressive, che bisogna partire per affrontare la nuova mostra del Museo Egizio di Torino, “Aida. Figlia di due mondi”, aperta da ieri al 5 giugno, sapientemente curata da Enrico Ferraris. Una rassegna che è soltanto la punta di un iceberg di conferenze, proiezioni e approfondimenti fruibili online partendo dal sito del museo, e che – come fanno notare Evelina Christillin e Christian Greco, la presidente e il direttore dell’Egizio, nell’eccellente catalogo con contributi internazionali edito da Franco Cosimo Panini – permette di immergersi nella storia di un secolo cruciale nei rapporti tra Europa e Oriente, riflettendo sulla complessità dei nodi che ancora avviluppano il presente. 

L’occasione sono i 150 anni del capolavoro verdiano, che stranamente nessun grande ente musicale aveva finora pensato di celebrare. Perché, allora, proprio nel museo che, primo nella storia, da quasi due secoli raccoglie le testimonianze della più antica civiltà del mondo?

Beh, intanto, ovviamente, perché lo sfondo dell’opera è l’Egitto dei faraoni. Poi perché all’origine di tutto – autore del soggetto, del progetto dei costumi e delle scene – è Auguste Mariette, un padre della moderna egittologia scientifica, che, partito come insegnante di francese, latino e (bizzarramente) disegno nella natìa Boulogne-sur-Mer, era asceso al Cairo alle massime responsabilità nella tutela e nell’organizzazione del patrimonio archeologico locale. Ma soprattutto perché l’Aida, mettendo insieme musica, documentazione materiale e iconografica, è la prima compiuta rappresentazione artistica della civiltà dei faraoni per quello che è stata, oltre le tendenziose reminiscenze bibliche e gli esotismi di maniera. Punto d’arrivo di un movimento di idee in circolo già da alcuni decenni lungo l’asse tra il Nilo e Parigi.

Tutto era cominciato con la fallita spedizione militare di Napoleone Bonaparte, tra il 1798 e il 1801, che aveva avuto però la conseguenza di liberare l’Egitto dal secolare dominio dei Mamelucchi e aprire la strada a un nuovo governatore ottomano, il viceré Mohammed Ali, che non faceva il pugile ma a modo suo, su un piano culturale, faceva a pugni con il governo centrale della Sublime Porta, per affermare l’identità del Paese e propiziarne l’ingresso nella modernità guardando all’Europa. E segnatamente alla Francia.

Seguirono anni di fitti scambi, con i futuri funzionari egiziani mandati a studiare a Parigi, mentre una spedizione franco-toscana guidata da Jean-François Champollion, il decifratore delle stele di Rosetta, produceva un rapporto per mettere in guardia il viceré dalle razzie dei collezionisti europei, ponendo per la prima volta la questione della tutela. Tutti questi passaggi sono illustrati nella mostra dalla relativa documentazione testuale, con freccette rosse a evidenziare i passaggi chiave.

E si arriva così alla metà del secolo, quando Mariette, dopo aver riempito fogli su fogli di abili caricature in stile Daumier (ampia selezione su un’intera parete), è finalmente riuscito a entrare al Louvre con un piccolo incarico di catalogatore: fin dal ’42, da quando al museo della sua città era arrivato un sarcofago con tanto di mummia, si è appassionato di antichità egizie, e tanto briga finché nel 1850, a 29 anni, trova il modo di farsi mandare in Egitto con un finanziamento di ottomila franchi per acquistare alcuni papiri copti. La missione fallisce, ma l’intraprendente Auguste si tiene i franchi e senza neppure informare il Louvre, e senza i necessari permessi, assume trenta operai e inizia uno scavo a Saqqara. 

La fortuna gli arride: seguendo la traccia di una serie di piccole sfingi affioranti dalla sabbia arriva all’ingresso del Serapeum di Menfi, la necropoli dei sacri tori Api, ricca di oltre settemila reperti tosto spediti in Francia. Per Mariette è la consacrazione. Tre anni dopo si sposta nella piana di Giza, scopre il tempio a valle della piramide di Chefren, il faraone della IV dinastia vissuto 4500 anni fa, e la celebre statua del sovrano che ora è una delle vedettes del museo del Cairo. Rientrato in Francia, nel 1854 viene nominato Conservatore aggiunto del Louvre. Ma ormai le sue mire sono altrove. 

Mariette vuole tornare in Egitto e sottopone al nuovo khedivé, il viceré Said Pascià, ultimo figlio di Mohammed Ali, un dettagliato piano per la salvaguardia del patrimonio archeologico. Come conseguenza, nel 1858 viene nominato mamur al-antiqat, direttore delle Antichità, e inizia a lavorare al progetto del museo di Balaq, al Cairo. Per quella che sarà la prima collezione egittologica in terra d’Egitto, inaugurata nel 1863, mette a punto una originale narrazione che mescola i criteri scientifici con l’intrattenimento in una moderna idea di comunicazione verso il pubblico più vasto dei non esperti. «Ho cercato una certa mise en scène», spiegherà, «che la fredda regolarità dei nostri musei d’Europa di solito esclude. È certo che, come archeologo, io sarò abbastanza propenso a criticare queste inutili esibizioni che in nessun modo giovano alla scienza; ma se il museo così organizzato piace a coloro a cui è destinato, se questi vi ritornano spesso e tornandovi si inoculano, senza saperlo, il gusto dello studio e, oserei quasi dire, l’amore per le antichità egizie, il mio scopo sarà raggiunto».

Gli stessi criteri Mariette applicò nell’allestimento del padiglione egiziano all’Expo parigina del ’67, quella che sciolse gli entusiasmi universalistici di Victor Hugo, curando ogni dettaglio dell’edificio, concepito come un pastiche di stili e di epoche differenti della trimillenaria storia egizia finalizzato a valorizzarne l’identità culturale rimarcando nel contempo la differenza rispetto al periclitante impero ottomano. Un’anticipazione in chiave architettonica di quanto avverrà di lì a pochi anni con l’operazione Aida.

Ma, appunto: e l’Aida? Ci arriviamo. Prima però bisogna passare attraverso lo scavo del Canale di Suez, avviato da Said Pascià su sollecitazione (guarda caso) di un ingegnere francese, l’amico Ferdinand de Lesseps, e completato nel 1869 dal suo successore Ismail come ulteriore e decisiva tappa nell’apertura dell’Egitto all’Europa e al mondo moderno, nonché ai primi esperimenti di turismo organizzato. Per l’inaugurazione il viceré, che due anni prima all’Opéra di Parigi aveva applaudito il Don Carlos di Verdi, vorrebbe tanto avere un inno del Maestro italiano, ma l’interessato rifiuta la pur lauta offerta perché refrattario ai componimenti d’occasione. Nondimeno, il 1° novembre di quello stesso anno, sarà un’opera verdiana, il Rigoletto, a aprire la stagione del neonato Teatro Khediviale, il primo tempio lirico del Cairo (che andrà distrutto in un incendio nel 1971).  

Le premesse del rapporto sono dunque poste. E si concretizzano nei mesi successivi, quando Ismail Pascià, che non demorde dalla sua aspirazione, incarica Mariette di scrivere un soggetto comprensivo di scene e costumi in stile «strictement égyptien»: avvalendosi all’uopo delle sue competenze maturate sul campo e delle principali fonti iconografiche dell’epoca, dalla fondamentale Déscription de l’Égypte di Denon ai lavori di Lepsius, Rosellini, Prisse d’Avennes, Lefebvre. Un progetto in cui le intenzioni politico-ideologiche si intrecciano, alimentandole, a quelle culturali. Come osserva in un saggio fuori catalogo Stefano Baia Curioni, docente alla Bocconi e studioso dei processi di produzione culturale, «l’opera d’arte prende forma come esperienza individuale e collettiva da aspirazioni, attese, conoscenze, contesti che ne determinano profondamente i modi e le forme» ma nello stesso tempo «impone o suggerisce la creazione di mondi e talvolta, con la sua suggestione narrativa, arriva a restituire ai suoi luoghi di origine imprevedibili energie di mutamento e insperabili possibilità di senso».

Ricevuto l’incarico, Mariette si mette al lavoro di buona lena, consapevole delle difficoltà – «Credetemi, per seguire le istruzioni che il viceré mi ha dato, per fare una messa in scena dotta e pittoresca, bisogna mettere in moto tutto un mondo». Ma il gioco vale la candela. Vale l’Aida. Di fronte alla tragica storia di fantasia della bella principessa etiope finita schiava a Menfi in seguito alla sconfitta militare del re Amonasro, che ama ricambiata il giovane comandante egiziano Radamès conteso anche dalla figlia del faraone, Amneris (tutti nomi attestati nelle fonti antiche, appena un po’ riadattati: per esempio Aida era in origine Aita, musicalmente più ostica), e di fronte anche a un compenso esagerato di 150 mila franchi, questa volta Verdi pronuncia il sospirato sì. È lo stesso compositore, in un documento esposto in mostra, a raccontare come infine si convinse, grazie ai buoni uffici di Camille du Locle, direttore dell’Opéra-Comique di Parigi e già autore del libretto di Don Carlos.

Nel giugno del 1870 Du Locle comincia a scrivere i dialoghi in prosa, ai primi di luglio il Maestro si mette all’opera con il poeta Antonio Ghislanzoni per tradurli in versi. Scrupoloso e professionale come sempre, attento a ogni minimo dettaglio che possa rendere più verisimile il risultato finale, Verdi si informa su come vestivano i sacerdoti di Menfi, sulla distanza esatta tra Menfi e Tebe e sul tempo necessario per percorrerla, sulla forma e il suono di quegli strani strumenti musicali che si intravedono a volte nei papiri. Gli viene proposta la “flute egiziana” fatta fabbricare da un certo Fétis, musicologo belga, che in una lettera a un amico lui liquida così: «Io detesto questo Gran Ciarlatano […] perché m’ha fatto correre un giorno al Museo Egiziano di Firenze per esaminare un Flauto antico su cui pretende nella sua Storia Musicale d’aver trovato il sistema della musica antica Egiziana. […] Figlio d’un cane! Quel famoso Flauto non è che un zuffolo a quattro buchi come hanno i nostri pecoraj! Così si fa l’istoria! E gl’imbecilli credono!». Il Maestro si placa soltanto quando gli viene messa davanti quella specie di tromba lunghissima e esile, con un unico pistone, che compare in gran numero nella Marcia trionfale (esposto un esemplare, dal Conservatorio di Torino).

In cinque mesi di lavoro alacre, e nonostante le difficoltà dovute alla guerra franco-prussiana scoppiata in quello stesso mese di luglio, con Du Locle e Mariette chiusi nella Parigi assediata e costretti a comunicare con l’esterno “par ballon”, il libretto è compiuto. Ma la data del debutto deve slittare. Verdi utilizza l’attesa per rivedere e bulinare fino all’ultimo la sua opera. Nelle vetrinette della mostra, le partiture autografe consentono di apprezzare alcuni cambiamenti dalla versione del 1870 a quella definitiva dell’anno seguente. Tra le più rilevanti, l’assenza nell’originale della celebre romanza di Aida “O cieli azzurri, o dolci aure native” e il ridimensionamento della parte di Amneris nella scena finale, che da sei versi (“Riposa in pace / Alma adorata // E perdonata / Possa morir // Sia perdonata / Chi t’ama ancor”) passa a due soli (“Pace t’imploro – martire santo / Eterno il pianto – sarà per me!”), per riequilibrare un’opera che più della principessa etiope ha per protagonista la complessa figura della figlia del faraone.

Il 24 dicembre 1871, al Teatro Khediviale, l’attesa première, assente il compositore timoroso della traversata in quella «bendèta pocia» (benedetta pozzanghera) che è il Mediterraneo. In ogni caso per lui la vera prima era quella fissata per l’8 febbraio ’72 alla Scala di Milano, davanti al suo pubblico e con un cast più prestigioso. Sciaguratamente spoilerata dal critico musicale Filippo Filippi, che aveva seguito le recite al Cairo dandone puntuale entusiastico riscontro sul quotidiano milanese La Perseveranza, con gran dispitto di Verdi che deprecò la mobilitazione di «Giornalisti, Artisti, Coristi, Direttori, Professori et. et… [sic] . Tutti devono portare la loro pietra all’edifizio della réclame, e formare così una cornice di piccole miserie, che non aggiungono nulla al merito di un’opera, anzi ne offuscano il valore reale (se ne ha)».

Come sono cambiati da allora i tempi! Il tempo perso a causa della guerra aveva consentito a Verdi di portare alla perfezione il suo capolavoro, ma l’altra faccia di quel tempo è una gigantografia che campeggia verso la dirittura d’arrivo della mostra: vi si vede Parigi devastata dalle bombe prussiane, ma il pensiero corre inevitabilmente ad altre immagini di questi giorni. Un secolo e mezzo dopo, la storia contraddice il sogno di Victor Hugo (ma ciò non toglie che avesse ragione di sognarlo).

Parenti sergenti. Gabriele Romagnoli su La Repubblica il 16 Marzo 2022.

La prima cosa bella di mercoledì 16 marzo 2022 è il momento preciso in cui chi sta combattendo una guerra si rende conto dell'assurdità che l'ha scatenata. Quale guerra è "civile" e in quale non si cerca di uccidere un simile? Semplicemente, a volte è più difficile accorgersene. Altre volte invece è lampante.

Prendi la Prima guerra mondiale, combattuta in montagna, al confine tra Italia e Austria, su quei crinali che oggi separano, invece, veneti e trentini. Spari tra gente che parlava la stessa lingua. E non solo. Considera allora questo episodio. Il trombettiere Vittorio Murer, di Laste, un paese alle pendici della Marmolada, trombettiere del battaglione Belluno, rientrò da un servizio di pattuglia sul passo Fedaia tenendo per il bavero un nemico fatto prigioniero durante la spedizione. L'uomo appariva più anziano, dimesso nella divisa che gli andava un po' larga.

Il Murer lo trascinò tra i commilitoni fino a condurlo fieramente al cospetto degli ufficiali. Soltanto a quel punto allentò la stretta e presentò ai superiori la conquista effettuata: "Signori, mio cognato!". 

"La guerra è la nostra storia. Ma l'avevamo dimenticato". Eleonora Barbieri il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore francese: "Per noi l'Europa è pace, però alle radici abbiamo i conflitti, dall'Iliade in poi".

Solo un anno fa, parlando con Mathias Enard, a proposito della letteratura aveva detto: «Scrivere è un viaggio fra la magia perduta e le nostre miserie». Quante miserie ci sono oggi, sotto i nostri occhi, e quanta magia, che sentiamo perduta, di un grande Paese dalla storia immensa quanto i suoi paesaggi. Un anno fa Enard parlava di Oriente e Occidente, il tema al centro di Parlami di battaglie, di re e di elefanti e di Bussola, il romanzo con cui ha vinto il Goncourt nel 2015. Ora è appena stato ripubblicato Zona (da e/o, suo editore italiano), romanzo che racconta di Francis Servain Mircovic, una spia, prima in Medio oriente e poi nei Balcani in guerra negli anni '90. E anche il rapporto fra Russia e Occidente è un altro dei temi cari al romanziere francese, come ben sa chi ha letto il breve (e bellissimo) L'alcol e la nostalgia. Enard si trova in Italia, a Pordenone, perché quest'anno è il protagonista del Festival Dedica (fino al 12 marzo).

Mathias Enard, il suo Zona, appena tornato in libreria, parla proprio di guerra.

«E di guerre, al plurale. Purtroppo la storia, non solo d'Europa ma di tutto il Mediterraneo, è fatta di guerre, da tremila anni a questa parte. Di guerra, di conflitti, di grande violenza».

Il conflitto in Ucraina però ci sconvolge.

«Il fatto è che, forse, l'Europa si era dimenticata della guerra, negli ultimi cinquant'anni. A parte, appunto, l'esplosione di violenza nell'ex Jugoslavia, proprio nel cuore del continente».

Anche quella guerra è stata un po' dimenticata?

«Forse sì, anche se è stata molto violenta e, soprattutto, non è ancora finita. In Bosnia esiste uno status quo, ma non è stata trovata una soluzione al conflitto. Sono ferite aperte che possono essere di nuovo squarciate».

Come è avvenuto ora in Ucraina?

«Esattamente come adesso. Putin aveva voglia di usare la forza per ottenere quello che voleva, e lui vuole un Impero sovietico, in termini attuali. Lo abbiamo visto in Georgia, in Crimea... Ma gli europei non hanno voluto vedere la possibilità di una nuova guerra».

Perché?

«Perché per noi Europa significa pace e, quindi, non abbiamo voluto vedere che invece c'era una guerra».

Del resto, il primo poema d'Europa, l'Iliade, che tanto risuona in Zona, è un poema di guerra...

«Certo, l'Iliade. Ecco, gli ottimisti vedono l'Odissea come la fonte della letteratura europea; quelli come me, purtroppo, alla sua origine vedono l'Iliade. Questi due lati ci sono sempre, anche nella letteratura europea».

Come vede la storia d'Europa?

«Io sono uno scrittore, e vedo, nella storia della letteratura, che alcuni dei grandi romanzi sono stati scritti in tempo di guerra, e la raccontano, insieme alle vittime e alle distruzioni. In Guerra e pace, Tolstoj descrive la guerra e anche la relazione del romanzo con la storia, cioè si chiede perché uno scrittore debba raccontare la guerra e la storia. Ed è, forse, la parte più importante del libro».

Lei ha raccontato anche la Russia.

«Sono stato un paio di volte, ho una grande passione per la Russia e la sua letteratura. L'alcol e la nostalgia è un piccolo romanzo russo».

Un viaggio nell'immensità del Paese.

«È anche un viaggio reale: l'ho scritto a mano, sul treno, viaggiando da Mosca a Novosibirsk. Ci si ubriaca nel suo paesaggio, fra tutti quegli alberi...».

La libertà è uno dei temi del libro. Che cosa pensa della libertà in Russia?

«Credo che la letteratura russa si possa leggere come la storia della battaglia dell'uomo contro lo Stato: gli scrittori russi e sovietici che amiamo, Dostoevskij, Grossman, sono quelli che hanno combattuto la violenza dello Stato».

Zona è ancora attuale?

«Purtroppo credo che l'esperienza del protagonista ci parli proprio del mondo di oggi: di spie, di come le guerre si combattano su più fronti che non si vedono, di quante vittime ci siano di cui non si parla, di distruzioni dimenticate, di gente abbandonata...»

L'Iliade è sempre in noi?

«Del resto, anche la storia dell'Odissea non potrebbe esistere, senza l'Iliade. Altrimenti Ulisse non uscirebbe di casa, starebbe lì con Penelope e il cane. Anche se poi, tornare a casa per trovare tutto esattamente come prima... per me è un po' triste. Credo che i viaggi come quello di Enea siano più interessanti per noi, perché cambiano le cose, ci portano verso l'altro».

Ma lei si aspettava l'invasione?

«No, sono sotto choc. Anche io, come gli altri europei, dovrò cambiare il mio paradigma».

Domenico Quirico per “la Stampa” il 17 marzo 2022.

E se quella che stiamo vivendo, quella che scuce l'Ucraina filo dopo filo, fosse una guerra coloniale, la Russia che vuole tornare impero e che si riprende una provincia perduta? Se proprio in questo carattere si pigiassero i suoi contorni, la ferocia, le tattiche? La guerra si definisce attraverso la lotta stessa che conduce. La Storia è una invenzione a cui la realtà porta i propri materiali: si tratta dunque di ritrovarne le tracce. Spesso stinte, ingiallite, alterate per nasconderle, perennemente prossime all'oblio.

La rapida disintegrazione dell'ordine Usa non sta determinando la rinascita di altri imperi che vogliono riprendersi quello che considerano storicamente loro, con i sudditi, le materie prime, il territorio che offre spazio e sicurezza? Qualcosa di anacronistico ma che non si può avviare senza ricorrere alla violenza. Alcuni hanno già iniziato, altri seguiranno, la Cina forse, quando la potenza militare si affiancherà alla potenza economica e sentirà il bisogno di controllare le risorse che le sono indispensabili e quindi coloro che le detengono?

Avrà bisogno non di fornitori ma appunto di colonie. Nella primavera del 1989 Kapuscinski, il grande giornalista polacco formato alla scuola della letteratura del reale, si lanciò in un viaggio di 60 mila km attraverso le repubbliche dell'Unione sovietica in via di decomposizione, dalla Polonia al Pacifico, dalla Kolyma al Caucaso. Scoprì pagina dopo pagina l'ultimo processo di decolonizzazione del ventesimo secolo, qualcosa che era famigliare a chi come lui conosceva bene l'Africa e l'America Latina. 

Non si fece distrarre dalla narrazione della fine del comunismo che monopolizzava l'attenzione dei suoi colleghi, stregati dall'eclissi del dio che aveva fallito. Descrisse la fiammata del nazionalismo, l'intrico etnico creato dalle emigrazioni forzate sotto lo stivale staliniano, la fuga dei russi dai nuovi Paesi che gli ricordava l'Africa bianca degli Anni 60, l'eredità di governi in mano a gran visir incrostati al potere da anni.

La decolonizzazione russa gli apparve violenta e chiara perfino nel cuore dell'«imperium» sovietico: attraversò Donetsk rudemente russificata, Leopoli dove una vecchia gli raccontò la morte dei sei figli durante «la grande fame» orchestrata da Stalin, Kiev dove abbattevano la statua di Lenin e la gente gli diceva che voleva «uno Stato trasparente, buono, democratico e umanista». 

Lo scrittore trasse allora una conclusione pessimistica. Aveva verificato di persona l'attaccamento dei russi al loro impero, la eredità difficilmente cancellabile di uno Stato autoritario e burocratico, la corruzione delle mafie, la catastrofe ecologica. Sperava nel miracolo che poteva compiere la disabitudine alla paura e nella vitalità tolstoiana del popolo russo. Trent' anni dopo la guerra in Ucraina ci offre la prova che il suo modesto ottimismo era ingiustificato.

La Russia putiniana vuole riprendersi la colonia Ucraina, perduta, anzi gettata via nei giorni convulsi della dissoluzione dell'impero sovietico. La Bielorussia tenuta in ordine dall'obbediente Lukashenko è rimasta una colonia fedele; secondo Mosca gli ucraini invece si sono ribellati, perché altri avidi imperi momentaneamente dominanti hanno fatto loro promesse, garantito il sostegno per restare indipendenti. Se le spulciamo con un'ottica coloniale le azioni di Putin che appaiono folli, esasperate, entrano in una logica minuziosa e implacabile.

Il suo ministro degli Esteri Lavrov non ci prende in giro quando dice, sfidando l'evidenza, che «la Russia non ha invaso l'Ucraina». Applica i principi della vecchia scuola imperialistica sovietica, età a cui sembra peraltro appartenere: l'Ucraina non esiste perché è una colonia, non appartiene all'Europa, alla Nato, alle democrazie. Non invadiamo, ci riprendiamo quello che era nostro, perché fate tanto chiasso? E' l'applicazione perfetta della logica (neo coloniale) di Yalta aggiornata alla ridefinizione putiniana dei rapporti di forza. 

Un piccolo mondo metterniciano da quattro soldi. Bisognerà poi provvedere, dopo averla domata, a disoccidentarla, uniformarla allo stile del nuovo impero, insediare nuovi dirigenti che la controlleranno in nome di Mosca. Il modello è la Bielorussia, non la Finlandia. Non ci sarà bisogno di mantenere truppe di occupazione, affrontare pestifere guerriglie. Troppo costoso.

Saranno gli stessi ucraini a controllare l'Ucraina. Non è una idea originale: gli inglesi per un secolo hanno controllato l'india usando gli indiani. Il dominio indiretto è più efficace e economico. Anche nel definire i contorni delle tentennanti iniziative diplomatiche si applica la logica coloniale: i dirigenti ucraini non esistono, Mosca esige brutalmente che spariscano, fuggano, si arrendano. Non sono interlocutori sono sudditi ribelli, o peggio al soldo di imperi rivali.

Discuterà ma con l'impero Usa per ridefinire il nuovo equilibrio reciproco di cui l'Ucraina è una trascurabile pedina senza volontà propria. Al congresso di Berlino o a Yalta qualcuno ha mai chiesto cosa ne pensavano gli africani o le popolazioni dell'Europa dell'Est? Secondo questo cinismo coloniale il peso della indignazione internazionale è irrilevante. Per i fuggiaschi, le vittime, i profughi la compassione è esaurita da un pezzo. Diventano subito molesti come termiti e non c'è quasi nessuno che spenderà dopo poco tempo una buona parola per loro. 

Putin accetta che ci possano essere delle contese con altri imperi nella ridefinizione delle sfere di controllo delle zone grigie del mondo. E' sempre accaduto: il Grande Gioco in passato tra Russia zarista e Inghilterra sulla Via della seta, tra Francia e Inghilterra nella corsa all'Africa. Erano litigi tra complici nello stesso delitto. Perché incallirsi e affrontarsi in modo così assoluto e rischioso?

Per queste piccole beghe di confine, per cui si possono trovare, come accadeva in tempi meno chiassosi, accomodamenti, compensazioni, scambi reciproci? E' solo con Biden che Putin vuole trattare, come ai bei vecchi tempi della Guerra fredda. Gli europei gridano ma non contano nulla, dal suo punto di vista sono dei sudditi coloniali anche loro. 

E' lo stile dei tempi. Il carattere coloniale della guerra è scritto nella sue caratteristiche belliche. Le guerre coloniali sono feroci. Con i ribelli o i primitivi si è sollevati dall'obbligo di rispettare convenzioni, bisogna dar lezioni di forza assoluta per cui sono utilissimi ascari arruolati tra le tribù dipendenti. Abbiamo già sentito il linguaggio di Mosca con gli ucraini: non è forse simile a quello degli inglesi con i Mau Mau o dei francesi con gli algerini?

Le guerre della Russia, dalla caduta dell’Urss a oggi. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.

Dalla Cecenia alla Georgia, gli interventi militari di Mosca dalla caduta dell’Unione sovietica all’invasione dell’Ucraina.

Trent’anni di storia, diciannove conflitti. Un intervento militare ogni diciotto mesi. Quando si dice che la Guerra Fredda finì con la morte dell’Unione Sovietica, bisogna aggiungere che la nascita della Russia ha comportato decine d’altre guerre congelate o al calor bianco. Dichiarate, segrete, mascherate, per procura. Ufficialmente, tutte mosse dal desiderio di restaurare l’orgoglio imperiale, di sedare scontri fra etnie, di proteggere minoranze russe, d’instaurare governi amici. 

«Abbiamo sempre un’adeguata risposta militare a qualsiasi avventurismo«, ricordò Vladimir Putin un giorno del 2015, conversando d’Ucraina con Angela Merkel . E la Cancelliera capì bene a che cosa si riferisse: che stia a simboleggiare la vittoria («Za Pobedy»), la pace («Za Mir») o il popolo («Za Nashikh»), la «Z» bianca dello Zar che oggi i soldati di Putin portano sui blindati e sulle divise è la sintesi – perfetta - delle motivazioni che hanno sempre spinto Mosca a organizzare le sue «operazioni militari speciali». Pura propaganda, naturalmente: in Georgia, i russi andarono per aiutare i fratelli osseti minacciati di genocidio, in Cecenia per difendere la cristianità dall’Islam, in Kazakistan per riportare l’ordine sociale. Ovunque, sono regolarmente corsi a chiarire che (sempre parole del leader) «nessuno deve avere l’illusione di poter ottenere una superiorità militare sulla Russia, di poterci mettere un qualche tipo di pressione». 

In principio fu la Georgia. Quando due mesi dopo la dissoluzione dell’Urss, all’alba dell’era Eltsin, comincia a rumoreggiare la regione filorussa dell’Ossezia del Sud. È l’inizio d’una guerra civile che dura tre anni, fra i sostenitori del presidente eletto e di quello imposto, coi separatisti osseti che non accettano il nuovo corso di Tbilisi e nel febbraio 1992 ottengono i primi, sporadici appoggi militari di Mosca: l’Orso s’è svegliato, le cancellerie mondiali prima si stupiscono e poi s’allarmano, e pur d’evitare uno scontro aperto con la Russia suggeriscono alla Georgia d’accettare subito una tregua, sottoscrivendo il «pattugliamento» delle truppe russe. È la prima missione all’estero del nuovo Cremlino de-sovietizzato. 

Pochi mesi, ed ecco esplodere anche l’altra regione separatista, l’Abkhazia: è una guerra in cui Eltsin si dichiara neutrale, alternando però proposte di negoziato a un vero sostegno bellico agli abkhazi. «Guerra moldo-russa» è invece il nome che, nel ’92, viene dato allo scontro in Transnistria fra le milizie cosacche armate da Mosca e il governo della neonata Repubblica di Moldova: una fulminea guerra che scoppia quasi in contemporanea con un’altra, nell’Ossezia del Nord-Alania, che farà 700 morti e spingerà la Russia a impegnare il più grande dei suoi contingenti, 1.500 uomini. Sono gli anni turbolentissimi d’un impero in frantumi. Del risveglio delle spaccature etniche, delle divisioni religiose, delle aspirazioni democratiche. E le operazioni militari del Cremlino servono, nella maggior parte dei casi, a tamponare braci d’odio che la repressione sovietica aveva tenuto sotto la cenere per più di settant’anni. Com’è nella guerra civile del Tagikistan, oggi dimenticata, ma che provoca cinque anni di devastazioni, quasi 50mila morti, l’esilio d’un tagiko su cinque: il primo conflitto aperto di Mosca, che sostiene la vecchia guardia post-sovietica, contro movimenti islamici organizzati e ispirati dal vicino Afghanistan. 

Il primo Vietnam (o Afghanistan) russo è però la Cecenia. «La vergognosa avventura», com’ebbe a definirla l’ultimo leader sovietico, Mikhail Gorbaciov. «La follia allo stato puro», secondo le parole del cancelliere tedesco Helmut Kohl. Che nel suo primo round (1994-1996) si risolve in una sonora sconfitta e nel secondo (1999-2009) si trasforma in una feroce vittoria. La Prima guerra cecena si presenta come molte altre: in tutta l’ex Urss, c’è un 70 per cento d’etnie russe che deve vedersela con un centinaio d’altre nazionalità e con una miriade di repubblichette indipendenti. In Cecenia, la sfida è alla proclamata Repubblica di Ichkeria, 1.600 chilometri a sud di Mosca, che trascina Eltsin in una campagna militare fra le più sanguinose della sua storia. Centomila civili ammazzati, diecimila guerriglieri morti, e nessuno ha mai saputo quanti soldati russi: 5.500 (fonte ufficiale) o quindicimila? Da Pietro il Grande a Stalin, la Cecenia è sempre stata la spina nel fianco russo e questa guerra non fa eccezione, quando l’ex generale sovietico Dzochar Dadaev butta giù dalla finestra il capo locale del Partito comunista e si proclama primo presidente indipendente. La fronda interna, gli attentati, i tentati avvelenamenti non danno risultati e nemmeno quelli che Eltsin spera siano solo «attacchi chirurgici»: il conflitto degenera in una bolgia di missili, prese d’ostaggi, scudi umani, diserzioni, gas, decapitazioni e crimini di guerra assortiti. I ceceni e i vicini ingusci chiamano a raccolta jihadisti da mezzo mondo, molto più motivati delle reclute russe e di un’opinione pubblica che a Mosca è sempre più contraria alla carneficina: «Sarà un bagno di sangue, un altro Afghanistan», prevede prima di dimettersi un viceministro della Difesa, Boris Gromov, e la sua si rivela una profezia facilissima. Su Grozny s’abbatte, nel 1995, la peggiore pioggia di bombe in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale e di Dresda: 35mila civili uccisi, cinquemila dei quali bambini. Le ferita cecena è l’emorragia di Eltsin. 

Mentre la repubblica indipendente precipita in un triennio d’anarchia, razzie, mafie locali, rapimenti e regolamenti di conti, a Mosca comincia il countdown. E quando uno Eltsin azzerato dall’alcol e nei consensi consegna il Cremlino a Putin, nell’estate 1999, il primo pensiero del nuovo Zar è chiudere i conti con la Cecenia, col Dagestan (la prima campagna militare di Mad Vlad, vinta in meno d’un mese), con l’Inguscezia e con quanti hanno minato l’orgoglio imperiale. La Seconda guerra cecena è un deserto che Putin, a tutt’oggi, chiama pace: una tempesta di fuoco martellante e senza sconti; una prima linea sceltissima di Spetsnaz, corpi speciali molto più preparati dei fantaccini di Eltsin; un’impotente resistenza di guerriglieri che ci provano solo con ii kamikaze e gli assassinii mirati; un nuovo attacco a Grozny, così devastante da spingere l’Onu a definirla «la città più devastata del mondo». Oggi in Cecenia c’è una dittatura zitta e Mosca, obbediente e fedele, dove sono stati aboliti sia l’incarico di primo ministro, sia i diritti civili. Qualcuno ricorda ancora che la Seconda guerra cecena cominciò nel ’99 – Putin s’era insediato da un mese - con una strana serie d’attentati a Mosca e nelle città russe. Qualcuno non dimentica che la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia Alexander Litvinenko rivelarono come ci fosse l’Fsb, l’ex Kgb, dietro quegli attentati. Anna e Alexander, li ammazzarono: e chi parla più della Cecenia, ormai? 

C’è una parola che torna sempre nei discorsi di Putin: Kosovo. L’ha pronunciata per giustificare l’intervento a sostegno delle repubbliche russofile del Donbass, come la pronunciò nel 2008 prima d’entrare in Georgia. In Kosovo, i russi c’erano: furono i primi a entrare a Pristina, più veloci degli americani a piantare bandiera su una vittoria che non era la loro. Ma il Kosovo è sempre stata l’extra-dose di sale sull’orgoglio ferito di Mosca: l’indipendenza strappata a un Paese slavo e fratello, la Serbia, un riconoscimento che l’Occidente concesse senza chiedere troppi pareri in giro, men che meno al Cremlino. «Interveniamo in Georgia a sostegno dei russofoni – dice Putin nell’estate del 2008 –, esattamente come la Nato è intervenuta in Kosovo in aiuto degli albanesi». La prima guerra del XXI secolo è rapidissima, fa seguito al bombardamento di Tbilisi sull’Ossezia del Sud (centinaia di morti) e all’accendersi delle ostilità anche in Abkhazia. Sei giorni, e la mediazione francese di Sarkozy ferma i tank russi a pochi chilometri dalla capitale georgiana. Un mese, e la Russia (unica al mondo) riconosce le repubbliche osseta e abkhaza, quel che già fece per la Transnistria: «Ho copiato la soluzione Kosovo», chiude Putin. 

Quante divisioni ha Mad Vlad? Viene da chiederselo, ripercorrendo tutti gl’interventi armati di questi decenni, dalla contesa del Batken fra kirghizi e tagiki (1999), agli scontri etnici nel sud del Kirgizistan (2010). Perché c’è stata anche la guerra all’Isis nel Caucaso settentrionale (209-2017), quasi 4mila morti e lo smantellamento dell’Emirato che voleva portare il jihad anti-russo dall’Azerbaigian alla Cabardino-Balcaria. Per non dire dell’alleanza in Siria al fianco di Assad, prima con gli attacchi aerei e poi con le truppe sul campo. Undici anni di guerra, 400mila morti, undici milioni di profughi: fu grazie a Putin che il dittatore di Damasco, ormai allo stremo, riuscì a ribaltare il fronte e a ricacciare fazioni ribelle e jihadisti. Quante divisioni ha Putin, dunque? La comparsa dei mercenari del Gruppo Wagner ha spiegato molte cose: Mosca li schiera un po’ ovunque, dalla Crimea alla Libia, dal Mali al Centrafrica, consiglieri militari senza bandiere e senza mostrine, «omini verdi» che esonerano il Cremlino dall’onere di dichiarare perdite e sconfitte, ma intanto preparano il terreno a (eventuali) interventi più massicci. Li fece esordire in Ucraina, nel 2014, quando invase Sinferopoli e Sebastopoli senza sparare un colpo, per preparare l’invasione di oggi dei soldati con la Z. Stava per mandarli in Kazakistan a gennaio, quando la folla inferocita ha cacciato il dittatore filorusso Nazarbayev. Poi ci ha ripensato: meglio usare le truppe regolari. In Kazakistan è stato un blitz, una decina di giorni, per chiudere veloci la pratica. Sbrigarsi, fu l’ordine perentorio agli omini con la «Z»: c’era solo un mese di tempo, per invadere l’Ucraina.

L'ideologo di Putin: "La Nato e gli Usa non entrino in campo o useremo l'atomica". Luigi Mascheroni il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il filosofo vicino al Cremlino difende l'attacco russo: "È un'azione militare, non un'invasione. Il presidente malato? Disinformazione, mai stato meglio".  

Aleksandr Dugin è un filosofo e politologo russo che ha stretti legami con il Cremlino, considerato «l'ideologo di Putin» e descritto come un suo consigliere e ispiratore. Molto letto dai sovranisti, pubblicato in Italia dalla casa editrice AGA di Maurizio Murelli, è un pensatore non allineato che vede la Russia con occhi completamente diversi dai nostri. La sua è una voce scomoda - non esente da parzialità e propaganda - ma utile da ascoltare.

Dugin, Lei è a Mosca ora. Qual è la situazione lì?

«Tutto molto tranquillo. La popolazione appoggia completamente Putin. Non c'è una vera opposizione. E non tanto perché c'è una censura contro chi critica le operazioni militari in Ucraina, ma perché il popolo russo è davvero solidale con il Presidente. L'opinione pubblica qui ha ben chiari gli scopi di Putin ed è preparata perché comprende che la pressione della Nato conto le nostre frontiere è inaccettabile».

Sui giornali e in tv vediamo arresti e proteste a Mosca.

«Vivo nel centro di Mosca. Non c'è nessuno che protesta, a parte piccolissimi gruppi, o singoli individui, e neppure collegati tra loro. La percezione di una protesta interna è frutto della disinformazione dei media occidentali. Si prendono immagini di manifestazioni del passato, in contesti differenti, e si fanno passare per contestazioni».

Ha avuto modo di parlate con Putin di recente?

«Questa è una domanda personale, a cui non rispondo. Parlo di geopolitica, se vuole».

Cosa sta succedendo in Ucraina?

«Per capirlo occorre risalire alle cause e leggere la dissoluzione dell'Urss dentro un contesto non solo ideologico ma geopolitico. E se la geopolitica è la scienza che considera il mondo come il campo di battaglia tra potere marittimo e potere terrestre, in questo senso la fine dell'Urss è stata la vittoria del potere del mare e il crollo del potere della terra. Dopo il 1989 la Russia ha perso autorità sulle sue zone di controllo a favore dell'occidente e l'occidente ha acquistato influenza in questo vuoto, che era la conseguenza della debolezza del potere terrestre. Si è dissolto il patto di Varsavia e si è rafforzata la Nato».

E l'Ucraina è rimasta nel mezzo.

«Quando l'Ucraina si è separata dalla Russia ed è diventata indipendente a poco a poco si è avvicinata alla Nato, ma ha potuto farlo perché negli anni Novanta quella di Gorbaciov e poi di Eltsin era una Russia debole. Ma quando è tornata forte con Putin, la pressione permanente della Nato contro i nostri confini qualcosa che nessuno può negare non è stata più accettabile. Putin è diventato più forte e con una coscienza geopolitica più sviluppata e così gli equilibri sono cambiati. E si è risposto a una situazione intollerabile: prima in Georgia, poi in Crimea, poi nel Donbass, dove l'esercito ucraino era un pericolo costante: la popolazione veniva bombardata e i civili uccisi. Il resto è venuto da sé: l'appello della Russia a non far entrare l'Ucraina nell'area di influenza dell'Occidente è stato rifiutato, e così ecco la guerra».

È una invasione.

«È un'operazione militare. Putin ha spiegato molto bene gli scopi, che sono due. Primo: denazificare un Paese il cui governo ha non solo tollerato ma appoggiato i gruppi neonazisti per dare forza a una identità nazionalista ucraina basata sull'odio contro i russi. Una identità artificiale creata attraverso una ideologia che l'Occidente ha finto di non vedere perché odiare i russi è più importante che odiare i nazisti. Secondo: cambiare il regime politico a Kiev per fare ritornare l'Ucraina nella sfera politica, militare e strategica russa. Attenzione: l'operazione militare in corso non è una guerra contro la Nato. Ma una operazione per difendere una zona di interesse vitale per la Russia, la quale zona a lungo è stata indirettamente occupata dal potere occidentale durante un momento di debolezza di Mosca».

La guerra non sembra andare bene per Putin.

«Non credo proprio. Putin sapeva che l'Ucraina ha un grande esercito e che prendere il controllo di un Paese con 40 milioni di persone non sarebbe stato semplice. Ecco perché le operazioni sul campo si prolungano. Sconfiggere un esercito di 600mila soldati, che ha dalla propria parte l'appoggio e la propaganda di tutto l'Occidente non è facile. Nessuno qui credeva in una vittoria breve. Intanto la Russia però ha il controllo totale dei cieli. La guerra durerà ancora un mese, o più, ma l'esercito russo vincerà. Non c'è alcun elemento inaspettato in questa guerra per Putin».

Gli analisti dicono che Putin è malato, poco lucido, staccato dalla realtà.

«I modelli della disinformazione in casi del genere sono sempre gli stessi: far passare l'idea che un leader politico sgradito sia pazzo, malato, che non controlla più la situazione. Invece Putin è sano, lucido e molto forte. Mai stato meglio».

Lei nei suoi libri distingue un Putin lunare e un Putin solare. Cioè?

«Il Putin solare è il Putin della Grande Eurasia, il Putin patriota e sovranista, l'uomo che rompe con la postmodernità occidentale, contro la globalizzazione. Il Putin lunare è quello invece che scende a compromessi con l'Occidente, il WTO, Davos, l'élite liberale atlantista».

Quello di oggi, che Putin è?

«Iper-solare».

Tutti abbiamo paura dell'uso dell'atomica.

«Questo è l'unico vero problema, anche per noi. Tutto dipende dagli Stati Uniti. Se Washington si limita alle sanzioni, alle pressioni politiche e agli appoggi economici all'Ucraina, insomma se l'Occidente sosterrà indirettamente Kiev tutte azioni legittime non succederà nulla. Se però ci sarà un attacco diretto della Nato, allora la Russia risponderà con mezzi simmetrici. Se ci sentiremo minacciati sul nostro territorio, useremo le armi nucleari».

Lo storico Medvedev: «Putin vuole fare tornare la Russia ai confini di Pietro il Grande». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 6 marzo 2022.  

Cosa vuole davvero Putin? Cosa pensano i russi della guerra in Ucraina? Rispondelo storico Roj Medvedev, esperto di stalinismo, che accusa l’Occidente: «Qualunque cosa succede voi fate paragoni con l’Unione sovietica e tornate in modalità Guerra Fredda».

 «Qualunque cosa succede, voi fate paragoni con l’Unione Sovietica e tornate subito in modalità guerra fredda». Più che un’intervista, è un corpo a corpo. A novantacinque anni compiuti, nella sua dacia appena fuori città, circondato dalle betulle e da quattordici gatti, Roj Medvedev, lo storico dello stalinismo, «enfant terrible» durante il regime sovietico, strenuo avversario della «americanizzazione» introdotta da Boris Eltsin, non assapora il privilegio del distacco. L’anziano professore, piglio combattivo e testa ancora lucida, ancorché fornita di idee discutibili, si dichiara «idealmente connesso» con quella Russia profonda che costituisce la base del consenso di Vladimir Putin. «Non c’è nulla di male a voler ricreare una Russia che almeno come territorio si richiami ai confini dello zar Pietro il Grande».

Non le sembra che il progetto si stia rivelando tutt’altro che innocuo?

«Forse ne teme le conseguenze economiche, ma la maggioranza dei russi è d’accordo con quel che sta accadendo. Solo che a voi occidentali non piace ammetterlo. E così definite la Russia come un regime, ignorando che alla Duma le risoluzioni vengono prese all’unanimità, anche da quel poco di opposizione che, se non fosse così, avrebbe ogni convenienza al dissenso».

Anche perché chi dissente sembra avere qualche problema.

«Esistono tanti tipi di democrazia, non una sola. Riconosco che la nostra sia molto controllata. Ma con dieci anni appena di democrazia occidentale, negli anni di Eltsin, il Paese stava saltando per aria. E neppure questo a voi faceva piacere. A parte quel periodo, i russi non hanno mai provato la “vostra” democrazia. Non ci sono abituati».

Nella storia russa, quale sarà il posto di Putin?

«È una figura assolutamente particolare. Lui è ossessionato dal confronto con il passato, vuole essere ricordato, diventare una nostra icona. In questo senso, è spinto anche dall’ambizione personale. L’Ucraina è soprattutto il suo tentativo di riscrivere la Storia, deviandone il corso. Certo non è uno zar, figura che per lui assume connotazioni mitologiche. Di sicuro non somiglia a Lenin, ci mancherebbe. Ma neppure a Stalin, al quale spesso viene paragonato con malignità».

Quel che sta succedendo cambierà il suo giudizio?

«La definiscono come un’operazione speciale. Riconosco che è una definizione vaga, ma non si tratta certo di una guerra totale. I russi non la vivono così».

E le vittime a chi le intestiamo?

«Ce ne sono già tante, purtroppo. La guerra è il più crudele degli eventi storici. Noi russi ci siamo abituati».

Cosa ha davvero in testa Putin?

«In questo caso concordo con l’interpretazione occidentale. Vuole mettere la Russia tra le grandi potenze del mondo, indipendentemente dalle posizioni della Cina e degli Usa. Lui pensa quello che dice, e ci crede davvero. Il problema è sempre il solito. Per l’Europa la Russia sarà sempre troppo grande. Per la stragrande maggioranza dei russi, no».

Cosa sarà dell’Ucraina?

«Come sfera di influenza, tornerà geograficamente ai tempi di Gogol, nostro sommo scrittore che era nato in quello che oggi è territorio ucraino, ma tutti considerano russo. La storia non passa mai invano. Neppure Putin pensa di riprendersi l’intera Ucraina. Solo quella russofona. Quanto alla minaccia nucleare, nessuno ci pensa davvero. Sono solo parole».

Cosa le è successo, professor Medvedev?

«Invecchiando si perde la pazienza. Non ne posso più della retorica occidentale. Esistono modelli di società diversi da quello americano. I primi a capirlo avreste dovuto essere voi europei. Ma vi siete sempre rifiutati di riconoscere questo fatto così evidente. Il mondo non è più bipolare, e sta andando in un’altra direzione. Putin e la Russia vi hanno aspettato a lungo. E poi hanno deciso di fare da soli».

Boni Castellane per “la Verità” il 6 marzo 2022.  

Il grottesco zelo di Beppe Sala e Gianni Riotta ci spinge a fare l'esatto opposto: riflettere. Di fronte a una guerra, con tutto il carico di morte e distruzione, non è concesso agli esseri umani pensanti di accodarsi alle narrazioni che da entrambe le parti stiamo sentendo. Quella del «Putin pazzo» serve a chiudere i discorsi, ma non a capire cosa accade. In questi giorni il filosofo Alexander Dugin, uno dei principali intellettuali russi, ha fatto una sorta di rassegna delle motivazioni russe dietro questo intervento.  

La prima cosa che notiamo è che il riferimento alla «motivazione ufficiale», e cioè la difesa dei russi del Donbass, non viene particolarmente sottolineata. Al contrario Dugin afferma che la vera motivazione consiste in una «contrapposizione con il globalismo come fenomeno esteso». Visto che la «élite liberale atlantista» ha imposto in tutta Europa dei governi pronti al Grande Reset, la Russia ne spezza l'avamposto orientale, contrastandone così il piano generale. 

Anche Putin, che si dice ascolti Dugin, nel discorso che annunciava l'inizio della guerra ha fatto spesso riferimento alle «minacce alla Russia» non soltanto in termini meramente militari. Un secondo elemento consiste nel riferimento che Dugin fa all'«esclusione della Russia dalle reti globaliste», cioè la lettura delle sanzioni come di un'occasione per creare la Grande Asia, idea tipica della dottrina duginiana, vista come una sorta di arca russa separata e indipendente dal mondo influenzato dall'atlantismo. 

Pare dunque che la saldatura con la Cina e con l'India non solo non sia momentanea ma sia stata pianificata come obiettivo. Su questo gli analisti hanno visioni differenti: se la Russia può senza dubbio vendere gas alla Cina, la Cina non può limitarsi a vendere manufatti alla Russia. Più complessi i risvolti inerenti gli assetti valutari internazionali: si affaccia un nuovo Gold standard russo-cinese in chiave di contrasto al dollaro?

 Il terzo, e più profondo, elemento di interesse avanzato dalle considerazioni di Dugin consiste nella presa di distanza dall'idea di «guerra ai valori dell'Occidente». Per secoli la cultura russa si è pensata in contrapposizione all'Occidente: anche la parentesi sovietica si è nutrita di quest' idea. Dugin fa una netta torsione affermando che «l'Occidente non è più quello della cultura mediterranea romano-greca, né il Medioevo cristiano e nemmeno il Ventesimo secolo violento e contraddittorio. L'Occidente ha tagliato le proprie radici ed oggi rappresenta l'anti-civilizzazione». 

Seguendo questa idea Dugin arriva a dire che «anche gli Stati Uniti devono seguire coloro che rifiutano il globalismo», ipotizzando una spaccatura orizzontale tra élite globaliste che detengono il potere e popoli che, nella lettura di Dugin, le subiscono senza averle democraticamente investite. Il riferimento ai «valori d'Occidente» però non scende nel dettaglio.  

Ma al di là delle inconciliabilità già evidenziate nel dibattito tra Dugin e Bernard Henri-Levy tenutosi nel 2019, l'elemento di maggior interesse sta proprio nel fatto che un pensatore così radicalmente russo usi l'argomento della dissoluzione dei valori occidentali per fare appello al loro recupero. 

La parte più debole delle considerazioni consiste nell'attribuire sbrigativamente all'invasione dell'Ucraina la funzione di necessario momento di costruzione di questo nuovo mondo panasiatico. Tuttavia questo pensiero, nazionalistico e unilaterale, insinua un interrogativo che ci mette a disagio: la libertà, il valore più sacro e fondante dell'Occidente, alla luce di ciò che è successo negli ultimi due anni, è ancora un fondamento o è diventata una funzione del «nuovo mondo»? 

FRASI SULL'IMPERO.

Impero

Con tale termine si indica un insieme di paesi o territori posti sotto il controllo di una singola entità; può comunque essere usato anche in senso figurato: "Mia sorella governa il suo impero di cosmetici con una conoscenza perfetta!". Avete mai sentito dire: "Questo è l'Impero dove non tramonta mai il sole?". Con questa frase Carlo V d'Asburgo si riferiva ai suoi possedimenti, in quanto il sacro romano impero era così vasto e radicato che si diceva, appunto, che su di esso non tramontasse mai il sole. Anche se sono esistiti molti altri imperi nel passato, come ad esempio l'impero britannico, forse quello più noto oggi viene dai popolari film di Star Wars, in cui i ribelli combattono Darth Vader e il suo malvagio Impero.

“Il Sacro Romano Impero non era né sacro, né Romano, e nemmeno era un impero...”

VOLTAIRE

Dal libro: IMPERO: VIAGGIO NELL'IMPERO DI ROMA SEGUENDO UNA MONETA

“In tutto l’Impero si pagava con una stessa moneta, c’era una sola lingua ufficiale (unita al greco in Oriente), quasi tutti sapevano leggere, scrivere e far di conto, c’era uno stesso corpo di leggi e c’era una libera circolazione delle merci.”

ALBERTO ANGELA

“Ho conquistato un impero, ma non sono stato in grado di conquistare me stesso.”

ZAR PIETRO IL GRANDE

“Un popolo, un impero, un capo.” motto della Germania Nazista

“Gli imperi si forgiano con le guerre.”

BRENDAN GLEESON - Menelao

“Il re d'Italia mi ha dichiarato la guerra. Un tradimento di cui la storia non conosce l'uguale, è stato commesso dall'Italia ai danni dei suoi alleati.”

“Nessun impero violento durò a lungo: solo quello che è moderato resiste al tempo.”

LUCIO ANNEO SENECA

“Nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all’infinito.”

“Missione mia è di difender, aiutante la divina misericordia, e all'esterno colle armi la santa Chiesa di Cristo contro ogni attacco de' pagani ed ogni guasto degli infedeli, e consolidarla nell'interno colla professione della fede cattolica.”

IMPERATORE CARLO MAGNO

“Nell'elogiare Antonio ho disprezzato Cesare.”

“Ci volle un po' di tempo prima che arrivassi a realizzare completamente che gli Stati Uniti ritengono scarsamente necessaria la diplomazia. Il potere è abbastanza. Solo i deboli confidano nella diplomazia... L'Impero Romano non aveva bisogno della diplomazia. E nemmeno gli Stati Uniti.”

BOUTROS BOUTROS-GHALI

“La libertà di culto è un’importante strategia per la stabilità dell’Impero. Lasciando libertà di culto, si evitano pericolose tensioni e rivolte. Ognuno, quindi, può credere in ciò che vuole, ma a una condizione: che faccia anche sacrificio all’imperatore. Cioè tutti devono regolarmente seguire i riti in onore dell’imperatore, riconoscendone il...” 

ALBERTO ANGELA

“Il papato non è altro che il fantasma del defunto impero romano, che siede incoronato sulla sua tomba.”

THOMAS HOBBES

“Che cosa sono i regni senza giustizia, se non delle vaste imprese brigantesche?”

SANT'AGOSTINO

“Giurò sulle mie parole tutta l'Italia.”

IMPERATORE AUGUSTO

“Senza l'impero saremmo come un tappo di sughero in balia delle correnti trasversali della politica mondiale. È al tempo stesso la nostra spada e il nostro scudo.”

BILLY HUGHES

“Invece di indagare sul perché l'Impero Romano venne distrutto, dovremmo piuttosto essere sorpresi perché ha resistito così a lungo.”

EDWARD GIBBON

“In Cesare ci sono molti Gaio Mario!”

LUCIO CORNELIO SILLA

“Bisogna che i Lombardi dimentichino di essere italiani; le mie province d'Italia non debbono essere unite fra loro che dal vincolo dell'ubbidienza all'imperatore.”

IMPERATORE FRANCESCO GIUSEPPE I D'AUSTRIA

“Un imperatore deve morire in piedi.”

IMPERATORE VESPASIANO

“Se guardiamo alla storia degli Stati Uniti, vediamo che sono stati un impero ben prima che una nazione.”

ROBERT D. KAPLAN

“Un impero è un immenso egoismo.”

RALPH WALDO EMERSON

“La provincia che fu rovinata dalla bigotteria di Giustiniano, fu la stessa attraverso la quale i Musulmani penetrarono nell'impero.”

EDWARD GIBBON

“Il suo atto di decesso fu segnato non dalla deposizione di Romolo Augustolo, ma dalla adozione del Cristianesimo come religione ufficiale dello stato.”

INDRO MONTANELLI

“Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile.”

PLUTARCO

“I milanesi stanno alzando troppo la testa, sire. E' giunto il momento di ricordare loro quanto è affilata la spada dell'Imperatore Federico Barbarossa: Bloccheremo le entrate e tutti gli accessi, li affameremo e se non si arrenderanno l'intera città diventerà una tomba.”

“Qual è il fine della spinta ad allargare l’impero? Serve ad ampliare le entrate, ad avere più risorse per alimentare il dèmo. Ecco il nesso tra consenso e politica imperialistica.”

LUCIANO CANFORA

“L'antica repubblica romana è un miracolo, mai più ripetuto, operato da una dirigenza politica di altissimo livello che ha saputo coniugare consenso e potere e dedicare la sua grande capacità di sacrificio al bene dello Stato.”

GIUSEPPE ANTONELLI

“Un impero fondato sulla guerra deve conservare sé stesso con la guerra.”

MONTESQUIEU

“Non è certo al momento della loro creazione che gli Imperi mancano di uno scopo. Quando, invece, si sono fermamente consolidati, gli scopi si smarriscono e vengono sostituiti da vaghi rituali.”

FRANK HERBERT

“Gli iniqui regni mai durano in eterno.”

LUCIO ANNEO SENECA

“D'acquistare e governare e mantenere gli Imperi sono strumenti 1° la lingua, 2° la spada, 3° il tesoro.”

TOMMASO CAMPANELLA

“Il declino di Roma fu l'effetto naturale ed inevitabile della grandezza smisurata. La prosperità fece maturare il principio di decadenza; le cause di distruzione si moltiplicarono con l'estendersi delle conquiste; e non appena il tempo o gli incidenti ebbero rimosso i supporti artificiali, il tessuto stupendo cedette sotto la pressione del...” 

EDWARD GIBBON

“Ho la consolazione di lasciare il vostro regno nel livello più alto di gloria e di reputazione.”

In una lettera scritta a Luigi XIII qualche giorno prima di morire

CARDINALE RICHELIEU

“Un vasto impero deve essere sostenuto da un raffinato sistema di oppressione politica e, al centro, da un potere assoluto, pronto all'azione e ricco di risorse; una rapida e facile comunicazione con le regioni estreme; fortificazioni per controllare il primo tentativo di ribellione, una regolare amministrazione che protegga e punisca, e un...” 

EDWARD GIBBON

“Tutti gli imperi non sono altro che potere in azione.”

DAVID HERBERT LAWRENCE

“Tale era l'infelice condizione degli imperatori romani, che, qualunque fosse il loro comportamento, il loro destino era comunemente lo stesso. Una vita di piacere o di virtù, di gravità o di mitezza, di pigrizia o di gloria, portavano comunque ad una tomba precoce, e quasi ogni regno si è chiuso con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti...” 

EDWARD GIBBON 

“Tale era l'infelice condizione degli imperatori romani, che, qualunque fosse il loro comportamento, il loro destino era comunemente lo stesso. Una vita di piacere o di virtù, di gravità o di mitezza, di pigrizia o di gloria, portavano comunque ad una tomba precoce, e quasi ogni regno si è chiuso con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti e omicidi.”

EDWARD GIBBON

DUE MILLENNI DI GUERRE TRA LA “VIA DELLA SETA” E L’AFGHANISTAN DEI GIORNI NOSTRI. 30 Giugno 2016 di Gabriele Porro su cultweek.com.

“Dragon Blade” di Daniel Lee è un racconto di troni di spade al servizio del grande vecchio Jackie Chan, che con Adrien Brody e John Cusack mette in scena lo scontro fra buoni e cattivi del Celeste Impero e di quello Romano. In “Passo falso” di Yannick Saillet un sergente francese, immobilizzato con un piede su una mina che sta per esplodere, vive la sua personale versione del conflitto di civiltà

Due millenni separano due guerre lontanissime appena approdate sugli schermi. I loro autori hanno modi opposti di raccontarle, in chiave kolossal e psicologica, collettiva e individuale, da show-business e autoriale. Non due capolavori, ma di certo prodotti abbastanza riusciti, tipici nel loro genere.

Costato 65 milioni di dollari, molti dei quali li ha messi Ali Baba, gigante cinese del commercio elettronico (170 miliardi dollari di vendite già nel 2012, più di Amazon e eBay messi insieme), Dragon Blade – La battaglia degli imperi del regista di Hong Kong Daniel Lee, anche sceneggiatore, colloca più o meno nell’anno 48 dopo Cristo, lungo la via della seta, storica arteria commerciale e culturale che univa Asia ed Europa, Occidente e Oriente, un immane conflitto tra due fazioni interne al giovanissimo impero romano: quella guidata dal crudele Tiberius (Adrien Brody, francamente inespressivo) e l’altra capitanata dal leale Lucius (John Cusack, un po’ più convinto), alleata dell’opposto esercito del celeste impero, a sua volta collegato a una serie di variegate sub-truppe locali, coloratissime e irruente. La principale delle quali combatte sotto l’illuminato comando del generale Jackie Chan, superstar del cinema cinese, qui pure produttore esecutivo, e, almeno dal punto di vista del carisma, vera ragione spettacolare del film, oltre alle scene belliche di massa e ai panorami davvero sontuosi. Più in generale, un passo importante per l’industria cinematografica cinese nell’affermarsi come importante polo mondiale dell’entertainment.

Nella città fortezza protetta dal Cancello dell’Oca Selvaggia (citazione?) il generale Huo An, di idee pacifiste, per un po’ sembra in grado, grazie all’aiuto di Lucius, di garantire una certa armonia tra le 36 nazioni ed etnie della zona. Ma l’esercito di Tiberius, in marcia da tempo, è alle porte, e non ha intenzione di fare prigionieri. Tra masse di figuranti orientali (il computer ci avrà anche messo la sua parte, ma sono tanti davvero) e qualche star hollywoodiana, Il wuxia cinese incontra il buon vecchio peplum in un progetto ambizioso, ambientato nell’affascinante deserto del Gobi dove ci sono voluti sette anni per realizzarlo. Se la verosimiglianza storica dell’insieme è tutta da dimostrare (tanto che nei titoli di testa si legge: film ricostruito su personaggi veri, e in quelli di coda appare la frase canonica: ogni riferimento a fatti e personaggi reali è del tutto casuale), è meticolosa la ricostruzione di costumi e tecniche militari. Certo, l’inno alla gloria di Roma, scritto da un musicista di Hong Kong, è cantato in latino da romani che poi parlano in inglese e chissà che ne capiscono i cinesi…, ma i valori fondanti del Jackie-Chan pensiero, sono intatti per i fan: vincono il vigore marziale, il valore dell’amicizia, l’astuzia e l’umiltà dell’uomo comune.

Duemila anni dopo, eccoci a Passo falso, film d’esordio del francese Yannick Saillet, che in passato ha diretto costosi videoclip e spot e qui esordisce nel lungometraggio, riuscendo a trasmettere quel senso di solitudine, paura e inutilità che il soldato massa sul fronte mediorientale incarna. Scampato a un’imboscata, un sergente dell’esercito francese in missione in Afghanistan mette un piede su una mina inesplosa: un altro passo e l’assenza del suo peso sull’ordigno lo farà deflagrare. Distruggendo ogni cosa si trovi nei pressi. Morti tutti gli altri commilitoni, per lui è impossibile muoversi e difficilissimo, nonostante una radio portatile, chiamare aiuto. E di fronte a lui un furgoncino carico di droga su cui giace una donna-ostaggio delle milizie talebane attirano civili e soldati, non proprio benintenzionati nei suoi riguardi. Salvo, forse, un ragazzino…

Non è il primo film recente sull’immobilità a rischio del soldato (dal balcanico No Man’s Land al danese Land of Mine), che è individuale ma anche simbolica, dell’Occidente verso un’insieme di guerre che da anni non riesce a vincere, anzi che non sa da che parte prendere e lo inchioda a una rischiosissima presenza di terra, statica e visibile. Dal punto di vista filmico Saillet gestisce bene l’inevitabile unità di spazio, e tutto sommato anche di tempo della vicenda, in una quasi soggettiva continua del soldato che spazia su panorami anche qui bellissimi (in verità non afghani, ma marocchini). Scritto insieme a Jeremie Galan, che è anche il protagonista, Passo falso non ama le sfumature, i dettagli e i personaggi minori, concentrandosi con una certa efficacia sul suo carattere principale, con non è neanche molto empatico ma trasmette bene un senso di paura e impotente resa. Se il nemico, più che mai indifferente, spietato e “altro da noi”, è quello classico dei film bellici occidentali di oggi, che non una domanda si pongono su come si è arrivati fin qui, di certo non si sfiorano entusiasmi o giustificazioni della guerra di civiltà: che resta, per chi combatte davvero, un terrore sempre subito, francamente incomprensibile, certamente indigeribile.

La battaglia degli imperi va in scena nel 48 avanti Cristo. Roberto Nepoti La Repubblica

Oggi, col genere lottizzato dai supereroi, è sempre più difficile vedere un "epic" ambientato nel passato. Una carenza cui vuol mettere rimedio questa produzione cinese, esempio paradigmatico dei rapporti sempre più stretti tra Cina e Hollywood. Dopo un prologo al presente, La battaglia degli imperi si sposta al 48 avanti Cristo e al deserto di Gobi, dove Huo An (Jackie Chan) comanda una pattuglia a guardia della Via della Seta. Vi arriva anche il generale romano Lucius (John Cusack), inseguìto dall'usurpatore dell'impero Tiberius (Adrien Brody). L'incontro tra la star cinese e i due colleghi americani è bipolare: Huo e Lucius diventano amici; mentre Tiberio si rivela il più spietato degli avversari. Diretto con perizia strategica da Daniel Lee, il film è una via di mezzo tra un peplum e un blockbuster; contiene due canzoni e non si nega neppure qualche spunto umoristico (incongruo) in stile Jackie Chan. Le sequenze sono belle e maestose; peccato che un montaggio incasinato renda il tutto piuttosto confuso. Da La Repubblica, 30 giugno 2016

La Battaglia degli Imperi – Dragon Blade. 2015. Valeria Brunori il 28/06/2016

Recensione su ecodelcinema.com.

"La Battaglia degli Imperi - Dragon Blade" - Recensione: azione, dramma e omosessualità latente.  

È sempre un dolore vedere grandi attori in parti ridicole e umilianti, all'interno di film altrettanto ridicoli e umilianti. La sofferenza più grande è certamente la presenza di Adrien Brody, vincitore di un meritatissimo Oscar e noto per la sua innegabile profondità di artista in qualsiasi ruolo intraprenda; anche qui poveretto tenta di offrire una performance forte e coinvolgente, ma viene ostacolato dalla mancanza di coerenza e logica del suo personaggio, Tiberio. Spietato assassino senza scrupoli, Tiberio pronuncia durante il film alcune frasi che, dette da chiunque altro, si sarebbero potute definire tranquillamente 'da checca isterica'; così, invece, messe sulla bocca di Adrien Brody, la sua bravura è tale che ti ci fa quasi credere, alle follie che dice.

Altro caso eclatante è John Cusack, relegato ad un'interpretazione fatta esclusivamente di frasi e sguardi malinconicamente drammatici al cui confronto una qualunque Consuelo delle telenovelas spagnole sembra un'allegra e spensierata casalinga. Il dolore regna sovrano in lui (e anche nello spettatore) e gli bastano cinque minuti di conoscenza per spiattellare tutta la sua anima ad un Jackie Chan comprensivo e zuccheroso come una nonna con la passione per il merletto. Altri personaggi casuali si susseguono - molti dei quali messi nella storia appositamente per farli morire nella battaglia finale - tutti senza un senso, senza una coerenza e senza rispetto alcuno per la dignità. Cambi di idee e di fazione avvengono in pochi minuti e senza ragioni sufficienti per giustificarli, amicizie profonde come il Grand Canyon nascono dopo due parole scambiate in un inglese stentato e il tutto è condito da una patina di omosessualità (neanche troppo) latente.

La Battaglia degli Imperi - Dragon Blade: Jackie Chan predica la pace con una mano e con l'altra fa fuori i nemici

Viene da rimpiangere fortemente i bei tempi in cui Jackie Chan poteva dare sfoggio delle sua abilità al fianco di Owen Wilson, strappando risate spassionate allo spettatore; su "La Battaglia degli Imperi - Dragon Blade" ritroviamo il celebre atleta in perfetta forma fisica, ma con gravi segni di decadenza mentale visto il continuo professare la pace, l'armonia e l'amore, tanto che al confronto Padre Pio sembra un dilettante, mentre fa fuori tutti quelli che si mettono sulla sua strada.

Scene di profonda pietà intersecano i momenti d'azione, raffazzonati e un po' patetici: pietà per gli attori che sono stati costretti a rinunciare in modo così drammatico alla loro dignità e, diciamocelo, alla loro mascolinità. Memorabile la scena in cui romani e cinesi mettono su una specie di Cina's Got Talent con i loro allenamenti di gruppo simili a balletti, che fanno rimpiangere le coreografie di "Step Up".

C'è una storia in tutto questo? Sì: i romani arrivano in Cina e creano problemi, ma i cinesi gli vogliono bene lo stesso perchè hanno passato due settimane insieme a ricostruire un muro.

C'è una morale in tutto questo? Sì: la vita dell'attore dev'essere veramente una schifezza.

Valeria Brunori 28/06/2016

Dragon Blade - La battaglia degli imperi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Trama

Anno 48 a.C.. Una compagnia di sicurezza in Cina (governata dalla dinastia Han), chiamata Squadra di Protezione della Via della Seta, è incaricata di promuovere la pace impedendo le guerre nel miglior modo possibile. Huo An, un generale della dinastia, riesce con successo ad impedire una battaglia tra Indiani e Unni. Il gruppo ritorna nella loro città natale senza nome, dove Xin Qing, la moglie di Huo An (di discendenza uigura) lavora come insegnante per orfani. Il governo, però, scopre che qualcuno del gruppo è stato corrotto, e tutti i membri della squadra vengono mandati ai lavori di ricostruzione di una fortezza in rovina, chiamata Porta delle Oche Selvatiche. Il gruppo, arrivato lì, renderà omaggio ad un generale cinese caduto, lo stesso che li aveva salvati dalla schiavitù, essendo essi schiavi di discendenza unnica.

Poco dopo, la fortezza viene minacciata da un'armata nemica, che si rivelerà essere una legione romana, in cerca di cibo e acqua, e dopo un duello tra Huo An e il generale nemico Lucius, duello terminato in parità, quest'ultimo promette di non attaccare la fortezza in cambio di ospitalità. L'incredibile capacità ingegneristica dei legionari manda avanti i lavori di costruzione ad una velocità tale da rendere contenti gli abitanti della fortezza, divisi in etnie tra cui Cinesi, Unni, Uiguri e Turchi. Huo An ricambia il favore inviando uomini ad assistere gli inviati diplomatici di Lucius che hanno intenzione di dirigersi verso l'Impero partico. Viene tenuta una celebrazione, e Huo An viene nominato centurione ad honorem (cioè onorario).

Lucio rivela che lui e Publio sono in fuga da Tiberio, fratello di Publio, un soldato corrotto che in passato assassinò loro padre, un console romano, e accecò Publio in modo che Tiberio potesse diventare console. Mentre Tiberio si avvicina, alla testa di 100'000 soldati, Huo An insiste ad aiutare Lucio, precisando che Tiberio sta minacciando la Via della Seta ad ogni modo. Poco dopo, mentre Huo An si allontana per trovare dei rinforzi, il membro del gruppo corrotto manda dei soldati cinesi per assassinare Xin Qing e attaccare la Porta delle Oche Selvatiche. La legione è imprigionata nella città commerciale di Kroran (non cinese), dove Tiberio ha scelto di accamparsi. Lo stesso Tiberio riesce ad assassinare Publio, che già era caduto in disgrazia.

Huo An e i pochi soldati cinesi rimasti fedeli s'incamminano verso Kroran; lì, dopo aver finto una resa, si infiltrano e distruggono le gabbie dove sono imprigionati i legionari romani. Huo An in persona irrompe nella cella speciale d'isolamento dove si trova Lucio, ma mentre tenta inutilmente di liberarlo, scoppia un incendio, costringendo Lucio a chiedere a Huo An di "portarlo a casa", e Huo An lo uccide con una freccia, risparmiandogli l'agonia di venire arso vivo. Huo An comanda così i suoi soldati a cui si affiancano i legionari romani per combattere quelli di Tiberio, e, durante la battaglia, le armate di molte altre nazioni arrivano a fianco di Huo An, inclusi indiani, Han, uiguri e turchi, tutti determinati a proteggere la Via della Seta, ma neanche questi rinforzi bastano a distruggere il nemico. A dare il colpo di grazia intervengono i parti, che, avendo in precedenza segnato un trattato speciale con il padre di Publio e volendo quindi vendicare la sua memoria, arrivano in soccorso di Huo An con un enorme esercito. Ben presto, i soldati di Tiberio perdono la loro volontà di combattere e vengono decimati, e Huo An uccide Tiberio in combattimento.

Saputo del coraggio della legione di Lucio, l'imperatore della Cina gli dà il diritto di stabilirsi in una città tutto loro, che verrà nominata Regum dai legionari, che scelgono Huo An come loro comandante; da parte sua Huo An onora il generale cinese Huo Qibing, morto in battaglia, riportando nella città l'altare rubato. Col passare dei secoli, la città di Regum scompare dalla memoria della gente; nel presente, però, si vede una squadra di archeologi asioamericani che scoprono il sito della città, trovandovi delle iscrizioni scritte in cinese e in latino.

Incassi

Dragon Blade è stato un successo al botteghino in Cina, con un incasso di $18.7 milioni nel suo giorno d'esordio e arrivando a $33 milioni il 22 febbraio (arrivando a un totale di $54.8 milioni), il tutto da 132,874 volte d'ingresso in tutti i cinema tutti i giorni e 8.14 milioni di spettatori. Nella sua settimana d'esordio, il film è arrivato a $72 milioni. Nel fine settimana successivo, il film ha perso il 19% dei suoi incassi, arrivando a $45.9 milioni e finendo al terzo posto nella classifica del botteghino, preceduto da From Vegas to Macau II e L'ultimo lupo. Il 15 marzo 2015, Dragon Blade ha raggiunto un totale di $120 milioni nella sola Cina.

Critica

Dragon Blade ha ricevuto un'accoglienza mista, tuttavia favorita da sequenze di battaglie su larga scala ben fatte, dal design di produzione, e dall'insieme di stili di Hollywood e del cinema asiatico orientale. Sul sito web Rotten Tomatoes, il film detiene un indice di gradimento del 34% e un voto medio di 4.3/10. Stando al consenso del sito "Dragon Blade possiede ambientazioni e coreografie davvero belle, ma il cast, pieno di talento, è superato da una storia fragile e da una sceneggiatura maldestra.".

Maggie Lee della rivista Variety ha apprezzato il film per i suoi dettagli tecnici, e lo ha considerato "un film d'intrattenimento colossale con una tecnica solida e punti intelligenti di storia". Clarence Tsui di The Hollywood Reporter ha complimentato il film per la sua qualità nella sceneggiatura per una produzione nata in Cina.

IGN lo ha votato con un 6/ 10, dichiarando: "la storia è scarna, ma Dragon Blade ha delle ottime scene di battaglia grazie alla regia d'azione di Jackie Chan." Gabriel Chong di MovieXclusive.com ha invece considerato il film "veramente orribile sotto ogni aspetto", criticando le prestazioni nel cast e l'inconsistente cambio di tono, dichiarando: "Di fatto, Dragon Blade è un disastro spettacolare, non solo dalla sua stella ma anche dal suo regista, e semmai conferma ulteriormente che le carriere un tempo promettenti delle star di Hollywood John Cusack e Adrien Brody stanno andando alla maniera di Nicolas Cage".

Anche i media indiani sono stati negativi nei confronti del film. Venky Vembu di The Hindu lo ha considerato "un film propagandistico cinese", criticandone i messaggi subliminali e disapprovandone le caratterizzazioni, scrivendo: "Ho visto il film in 3D, ma data la natura bidimensionale dei personaggi, non penso che la terza D avrebbe ulteriormente migliorato la mia esperienza visiva." IANS lo ha persino considerato come "una tortura cinese", ma l'ha apprezzato per la sua coreografica dinamica e le prestazioni di Jackie Chan nei panni del generale cinese Huo An: "Con ampi filmati in azione e scene emotive, [Huo An] è uno dei migliori personaggi che Chan ha interpretato negli ultimi anni."

Dragon Blade – La battaglia degli imperi: la storia vera del film.

Alla base di Dragon Blade c'è una storia tutta italiana antica di secoli, che ha per protagonista una legione romana. Scopritela con noi. Concetta Suriana il 22 Gennaio 2019 su cinematographe.it

Dragon Blade – La battaglia degli imperi può sembrare l’ennesimo film focalizzato sulla storia della Cina e del mondo orientale, ma non è così. La pellicola, che vede tra i protagonisti Jackie Chan, John Cusack ed Adrien Brody, nei panni rispettivamente di Huo An, Lucius e Tiberius, è infatti il risultato di una sapiente produzione cinematografica capitanata da Daniel Lee, ambientazioni da urlo ed una storia vera che proprio in questo momento sta spopolando sul web: quella della legione romana che avrebbe fondato una città in Cina.

Ebbene sì, avete capito bene. Ad ispirare la storia di Dragon Blade – La battaglia degli imperi c’è un fatto storico realmente accaduto, raccontatoci da Plinio e che adesso sta tornando alla luce. La notizia della legione fantasma ormai è conosciuta da tempo, ma rimane avvolta ancora nel mistero che forse solo nei prossimi anni sarà completamente svelato. Intanto scopriamo qualcosa di più su questa legione, che sarebbe arrivata in Cina molto prima di Marco Polo.

Dragon Blade – La battaglia degli imperi: la storia vera che ha ispirato il film

La storia vera che ha ispirato Dragon Blade – La battaglia degli Imperi inizia proprio a Roma, durante il primo Triumvirato. In quel periodo Roma era occupata a combattere i Parti e così Marco Licinio Crasso partì per una spedizione verso la Turchia.

Qui, in seguito alla sanguinosa battaglia di Carre, Crasso perse la vita e la legione di cui era il comandante venne fatta prigioniera e condotta in una zona a nord dell’attuale Afghanistan: era il 53 a.C. Qui la legione vi rimase per un tempo che oggi non sappiamo quantificare. L’unica cosa che sappiamo è che nel 20 a.C., quando venne firmata la pace tra Romani e Parti e Roma prese accordi per la restituzione dei soldati fatti prigionieri durante la battaglia di Carre, si scoprì che la legione era sparita. 

Cosa sia successo alla legione fantasma comandata da Crasso durante la battaglia di Carre è un mistero, che forse è riuscito a risolvere Bau Gau, cronista vissuto durante l’impero Han, tra il 206 ed il 220 a.C. Secondo le sue testimonianze, proprio quegli stessi soldati vennero sconfitti da un condottiero cinese nel 36 a.C. e deportati in Cina con lo scopo di difendere la provincia orientale di Gansu. Proprio qui quei soldati sarebbero rimasti fino alla fine dei loro giorni e fondando la città di Liquian, termine che ancora oggi in lingua cinese indica l’essere romani.

Quella della legione fantasma che arriva in Cina e fonda una città sembra una teoria a dir poco strana, se non fosse che gli abitanti di Liquian presentano ancora oggi tratti caucasici: stiamo parlando di capelli biondi, occhi verdi e tratti del viso decisamente più europei, decisamente diversi dal resto della popolazione cinese. Come se questo non bastasse, sembra che da ricerche fatte sul DNA degli abitanti di Liquian il 58% del loro patrimonio genetico sia di origine caucasica. 

Una bella storia quella della legione romana fantasma, tanto da poter essere usata come base per un film.

I LADRI DI NAZIONI.

Paraguay, la tragedia di una guerra dimenticata. Quando tra il 1864 e il 1870 il Paraguay combattè da solo Argentina, Brasile e Uruguay la guerra più sanguinosa della storia latinoamericana di fatto annientò ogni prospettiva di potenza storica del Paese. Andrea Muratore il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.

La guerra più sanguinosa d'America si concluse con un solo colpo di pistola sparato sulle rive solitarie dell'Aquidabán Niguí – un ruscello che scorre attraverso una fitta foresta subtropicale in quello che oggi è il parco nazionale Cerro Corá nel nord-est del Paraguay. Dopo un inseguimento attraverso il paese durato mesi, le truppe brasiliane avevano finalmente raggiunto il presidente e comandante militare del Paraguay, il maresciallo Francisco Solano López, che morì in un conflitto a fuoco con loro il primo giorno di marzo del 1870.

"Muoio con la mia patria!" disse il figlio di Carlos Antonio Lopez, ritenuto leader illuminato e costruttore dello Stato a partire dalla capitale Asuncion, e non era un'esagerazione. Sei anni di guerra con cui il Paraguay aveva dovuto affrontare le forze congiunte di Brasile, Argentina e Uruguay avevano letteralmente distrutto lo Stato, causando danni apocalittici portando alla morte circa la metà degli abitanti e alla perdita complessiva, includendo quelle dei territori ceduti, di due terzi della popolazione del Paraguay.

Lopez morì dopo che durante il conflitto circa il 90% dei suoi uomini erano morti in azione, per le ferite riportate o per malattie e fame, in quella che può essere ritenuta una vera e propria guerra totale. Una delle poche tra quelle combattute nel periodo compreso tra la fine delle Guerre Napoleoniche nel 1815 e lo scoppio della Grande Guerra nel 1914. In assoluto la più importante e sanguinosa tra le guerre mai combattute in America Latina dopo la fine del colonialismo spagnolo e portoghese.

Se lo consideriamo in termini proporzionali, non ci sono molti casi come questi nella storia moderna. Forse solo le terribili guerre balcaniche che hanno preceduto la prima guerra mondiale hanno portato in alcuni Paesi a tributi di sangue lontanamente paragonabili. E sul Novecento in complessivo viene spesso citato come esempio di mortalità catastrofica quello che la Russia ha sofferto nella seconda guerra mondiale, con circa 20 milioni di morti. Per fare un paragone, essi rappresentavano non più del 12% della popolazione russa dell'epoca.

Per il Paraguay, che contava 450mila abitanti nel 1864, la scelta del minore della famiglia Lopez di deviare dalla politica modernizzatrice del padre in senso maggiormente assertivo risultò rovinosa. Il Paraguay poteva vantare uno sbocco all'Oceano Atlantico, il controllo di diversi fiumi, reti ferroviarie e telegrafiche e un'industria moderna, ma Lopez attaccò per volontà di egemonia regionale il governo liberale uruguaiano entrando nella locale guerra civile per sostenere l'opposizione conservatrice e, tra il 1864 e il 1865, compì l'errore tragico di invadere sia il Brasile che l'Argentina.

Forte di un esercito pienamente mobilitato, il Paraguay di Lopez occupò la città di Corrientes, in Argentina, e il Mato Grosso brasiliano prima che i governi di Rio de Janeiro e Buenos Aires, alleati con l'Uruguay, formando la Triplice Alleanza gettarono nel conflitto il peso crescente della loro demografia e forza militare. Tra il 1866 e il 1869 la guerra si spostò nei confini del Paraguay e sulla formidabile linea difensiva paraguaiana dislocata nel sud del Paese, incentrata in una serie di forti sui fiumi Paraná e Paraguay, tra i quali primeggiava la fortezza di Humaitá, che resistette fino all'agosto 1868 in una partita bellica sanguinosa che costò la vita a 60mila uomini per parte. Il 5 gennaio 1869 a cadere fu la stessa capitale paraguayana, Asuncion. La sconfitta segnò tracollo e rovina di un Paese che ancora oggi nella sua minorità nell'America del Sud moderna sconta la sconfitta di allora e i successivi sei anni di occupazione militare brasiliana. Nulla più esisteva della fiorente struttura sociale e economica del Paraguay, ridotto a poco più di 150mila abitanti e spopolato della sua popolazione maschile adulta. Si stima che nel 1870 degli abitanti paraguayani solo 28.000 erano uomini adulti e il rapporto tra donne e uomini nelle città era generalmente di circa 4 a 1, ma c'erano posti in cui raggiungeva 20 a 1 e più.

La guerra ha anche lasciato un impatto duraturo fuori terra. Dopo il conflitto, tratti di terra pubblica sono stati venduti a società straniere per pagare il debito di guerra imposto al Paraguay, ha detto Ernesto Benítez, leader del movimento dei piccoli agricoltori."Dal 1870 in poi, il sistema economico dominante è stato quello delle grandi proprietà", ha detto, "questo ha fortemente escluso i piccoli agricoltori e le popolazioni indigene. È un problema storico che ci riguarda ancora".

Il Paraguay ha ancora la più alta disuguaglianza di proprietà terriera nel mondo – circa l'85% dei terreni agricoli è detenuto dal 2,5% dei proprietari – e i piccoli agricoltori e gruppi indigeni affrontano una diffusa mancanza di terra. Almeno il 14% della terra paraguaiana è nelle mani degli agricoltori brasiliani, un gruppo che esercita potere economico e politico. "La guerra ha influenzato notevolmente le nostre relazioni diplomatiche; non siamo quasi mai stati in grado di resistere ai brasiliani", ha detto al Guardian Jorge Rubiani, architetto e storico.

Un'ulteriore prova di questo squilibrio si vede nella proprietà congiunta paraguaiano-brasiliana della diga di Itaipú, l'impianto idroelettrico più produttivo del mondo. La diga, in teoria, dovrebbe fornire uguali benefici ai due paesi, ma uno studio recente ha rilevato che a causa di termini distorti nel Trattato di Itaipú, il Paraguay ha perso 75,4 miliardi di dollari a favore del Brasile dal 1985 al 2018 tra royalties e pagamenti per le forniture a causa delle condizioni dettate dalla minorità politica. Figlia di una sconfitta di 150 anni fa da cui lo Stato non si è più ripreso.

Davide Brullo per “il Giornale” il 28 agosto 2022.

L'acme dello spettacolo accadeva quando afferrava la lancia, esplodeva in un rigoglio di urla. Un tempo lo guardavano con timore, ora, ormai, lo deridevano, per via del cappello con le piume, delle smorfie, della gonnella artefatta. Anche i tatuaggi, che lo ricoprivano dalle palpebre alle caviglie, sembravano stinti, insignificanti. Il 22 settembre del 1822, a Valenciennes, il tempo prometteva pioggia. 

Joseph Kabris pareva il nome di un illusionista, ma sopra il piccolo palco un'insegna, dipinta senza gioia, annunciava Le Prince Sauvage, il principe selvaggio. Era diventato un freak, un mostro', come la donna cannone o i gemelli siamesi. Raccoglieva soldi per tornare nella sua isola, perduta nei recessi del Pacifico, diceva, su cui vantava possedimenti e una regalità per lignaggio indiretto. 

Non riuscì a realizzare i suoi sogni. Quel giorno terminò lo spettacolo con poco entusiasmo: c'era più gente del solito. Si intrattenne con un giornalista e un bibliotecario, ingolositi dalla sua storia. Diceva di aver lasciato moglie e figli laggiù, alle Marchesi: Amabile sposa, tenera amica,/ Come è possibile? Mi strappano via da te!/ A cosa mi costringe la vita! 

Non si sentiva bene, congedò i curiosi, era un po' sovrappeso: un tempo, la sua fisicità, australe, leonina, aveva stupefatto i re. Fu chiamato un medico. Joseph Kabris morì il 23 settembre, alle 5 del mattino, a 42 anni.

Era nato a Bordeuax, nel 1780 si era dimenticato il giorno, il mese, Kabris, icona della vita totale e belluina, degno personaggio di un cupo romanzo di Joseph Conrad, eroe di un tempo in cui l'ignoto era dietro l'angolo di casa, a un morso da qui. Kabris si imbarca, quattordicenne, sulla Dumouriez, che assalta una nave spagnola ed è tratta in arresto da un bastimento inglese. 

Da Portsmouth, l'8 maggio del 1795, si aggrega all'equipaggio del London, una baleniera che fa rotta verso il Pacifico. Dopo aver cacciato nella Terra del Fuoco e in Perù, la nave va alla deriva, alle Marchesi, straziata da una tempesta, venne sbattuta con violenza contro una scogliera che si trovava a pelo d'acqua, si infranse e affondò, senza darci il tempo di metterci in salvo nelle scialuppe. Mi buttai in mare e nuotai verso alcuni resti del ponte, sui quali si era già aggrappato un inglese di nome Robert. La versione dell'inglese il cui vero nome risponde a Edward Robarts è un po' diversa: pare che Kabris sia un disertore.

Scoperta dall'esploratore americano Joseph Ingraham nel 1791, Nuku Hiva è una specie di Eden: la vasta baia fungeva da porto naturale per i bastimenti giunti da Occidente. Nessuno osava sfidarne le vaste foreste, bituminose di nebbie. Si mormorava che i nativi, ricoperti da tatuaggi sacri, aggressivi, praticassero il cannibalismo. Anche Kabris e l'inglese, più vecchio di lui di dieci anni, rischiano di diventare il pasto della tribù che abita Nuku Hiva: "Avevamo di fronte ai nostri occhi la clava con cui avrebbero messo fine alla nostra misera esistenza...." 

Mossa a pietà, colpita dall'audace avvenenza di Kabris, la figlia del re implora il padre di risparmiare la vita agli stranieri. Messo alla prova, Kabris si dimostra guerriero capace; pressoché analfabeta, impara la lingua degli indigeni; naturalmente, convola a nozze con la figlia del re. La corazza tatuata sul pettorale destro testimonia il pregio del marinaio francese, ormai vice re di quest' isola, e capo delle milizie regali; il sole inciso sulle palpebre ne sancisce il rango di giudice.

L'idillio di Kabris termina nella primavera del 1804: una nave russa guidata da Adam Johann von Krusenstern, ammiraglio della Marina Imperiale Russa in esplorazione nel Pacifico, fa scalo a Nuku Hiva. Kabris viene assunto come intermediario con gli indigeni, poi imbarcato con l'inganno così dice lui verso Petropavlovsk, l'Estremo Oriente russo. 

Comincia qui l'ennesima vita di Kabris, che dopo aver attraversato la Siberia approda a Mosca e a San Pietroburgo, nel 1807, al cospetto dello zar Alessandro I. Kabris diventa l'attrazione della corte russa, viene studiato, disegnato, interrogato. Il ritratto più affascinante lo vede in posa marziale, mentre maneggia una lunga fionda, i tatuaggi riprodotti con accuratezza: Cabri français naturalisé à Noukhaïwa entra nei libri dell'epoca, ad esempio ne L'Océanie en estampes di Jules e Édouard Verreaux, edito a Parigi e a Londra nel 1832. 

Al pubblico, Kabris descriveva la sua vita tra i selvaggi, dove la superstizione governa ogni cosa, si ricorre alla stregoneria per uccidere il nemico, ci si impegna in guerre memorabili e spaventose, il cui esito garantisce la sovranità di una tribù. Intorno al 1817 non memorizzava mai le date cominciò l'esistenza raminga dell'uomo di spettacolo, di fiera in fiera, rivivendo la sua vita passata, scrive Christophe Granger in Joseph Kabris ou les possibilités d'une vie, studio biografico pubblicato da Flammarion. 

Nuku Hiva, nel frattempo, era diventata terra di conquista statunitense, poi francese: l'Eden si era infranto. Vent' anni dopo la morte di Kabris, attracca nell'isola Herman Melville. Poco più che ventenne, Melville diserta dall'Acushnet insieme a un altro marinaio, Toby Greene. 

Resterà nella foresta per un mese, è l'estate del 1842, prima di impiegarsi su una baleniera australiana, la Lucy Ann. L'uomo che riemerge dalla selva è un altro: Nuku Hiva farà da sfondo ai primi romanzi polinesiani di Melville, Typee (1846), Omoo (1847), Mardi (1849). Le edizioni Magog hanno raccolto in unico libro, specie di esotica fratellanza, la breve autobiografia di Kabris, stampata a Ginevra nel 1820, e un'antologia di passi esemplari, ritradotti, da Typee.

Neppure Melville farà ritorno a Nuku Hiva. Dimenticato da tutti, restava ancorato a quelle isole. Così testimonia la nipote, Eleanor Melville Metcalf: Nell'angolo c'era una grande poltrona dove lui si sedeva sempre quando lasciava i recessi del suo oscuro mondo privato. Gli salivo sulle ginocchia, mi raccontava delle storie fantastiche di cannibali e isole tropicali. Sarebbe morto poco dopo, soltanto un giornale ne ha riportato il necrologio, eppure quarant' anni fa la comparsa di un suo libro era un evento letterario, appunta un giornalista del New York Times, il 2 ottobre del 1891.

Ognuno ha il proprio segreto, la propria vita gemella, incompiuta, sognata a stento: quella di Melville è sepolta a Nuku Hiva. 

Da “il Giornale” il 28 agosto 2022.  - Il testo è tratto da: Joseph Kabris-Herman Melville, Nuku Hiva, Magog, 2022; la traduzione è di Luca Orlandini.

Il clamore del nostro arrivo attirò quasi subito l'intera popolazione di queste terre. I più curiosi furono gli uomini, che continuavano a pizzicarci la pelle, per stimare l'adeguatezza del nostro peso e capire se potessimo essere di loro gusto.

Da lì a poco si presentò il loro cuoco, che, dopo altre vessazioni, ci fece trasferire a Nuku Hiva, dove risiedeva il Re, per essere messi a sua disposizione. 

Arrivati al Palazzo di questo sovrano, che era edificato su un telaio di legno di bambù, canne secche e foglie di banano che lo ricoprivano, vi soggiornammo per quattro giorni. Allora venne deciso che saremmo stati sacrificati alla montagna delle Palissades. Il quinto giorno fummo condotti lì, preceduti da una folla di nukuhivani che danzavano di fronte a noi, in segno di giubilo. Giunti sul luogo, fummo legati con trecce di corteccia d'albero. 

Attendavamo che giungesse il sovrano. E infine arrivò, accompagnato dal figlio e dalla figlia, per la prima volta testimone di un simile supplizio. Questa si mostrò sensibile alle nostre suppliche, e prese a cuore il nostro terribile destino. Così volle intercedere per noi presso il padre. Fummo ricondotti al Palazzo di Nuku Hiva, con gran rammarico della folla che ci circondava, la quale vide disilluso il proposito di farci servire a un atroce banchetto. 

Due mesi dopo il nostro naufragio, Robert, l'inglese, il mio compagno di sventura, sposò una nativa del luogo; io stesso, più felice, mi sposai due mesi dopo. Mi guadagnai, senza riserve, la benevolenza di Walmaiki, la figlia del Re. Lei stessa mi confessò candidamente la passione che nutriva per me, e ne parlò al padre. Qualche tempo dopo ebbi la fortuna di diventare suo consorte. 

La cerimonia del nostro matrimonio si tenne in alta montagna. Walmaiki fu adornata da una piccola corona composta dalle più preziose conchiglie dell'Isola, da un braccialetto prodotto dal pelame della corteccia di cocco e una veste creata con la corteccia d'albero, su cui avevano fissato, con la gommaresina, delle scaglie di pesce dorate.

Il sacerdote del Sole ci seguiva, e la processione si concluse con i capi tribù e la guardia reale. La guardia reale era composta da cinquecento uomini armati di clave rivestite da denti di squalo e ossa di pesci.

Compagnia delle Indie. Navi, cannoni... ed esattori per "rubare" un continente. Eleonora Barbieri il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

William Dalrymple ci racconta affari, truffe e successi della prima mega corporation (armata) nella Storia. "Una società con soli 35 impiegati riuscì a piegare un impero".

William Dalrymple è nel giardino di casa sua, una fattoria nei pressi di Delhi, tra le frasche, le sdraio e la cagnolina che gli salta in braccio ogni tanto. Da anni vive in India, il Paese che studia dai tempi di Cambridge e che, da storico, ha raccontato in un «quartetto» a cui ha iniziato a lavorare nel 1999 e che ha terminato in vent'anni: dopo Nella terra dei Moghul bianchi (Rizzoli, 2002), L'assedio di Delhi (Rizzoli, 2007) e Il ritorno di un re (Adelphi, 2015), ora arriva in italiano Anarchia (Adelphi, pagg. 634, euro 34, traduzione di Svevo D'Onofrio). In realtà, come spiega, si tratta «del primo libro da leggere», dal punto di vista cronologico: in esso, infatti, Dalrymple tratteggia, anche con fonti inedite (cronache Moghul e scritti persiani tradotti per la prima volta da Bruce Wannell, «morto di cancro alla fine del libro») «L'inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali», ovvero di una delle prime Società per azioni della storia che, dal 1599 (anno della fondazione, con successiva «patente regia» di Elisabetta I di muovere guerra...) cresce fino a diventare «una potente multinazionale» alla quale, nella seconda metà del Settecento, riesce «un colpo di Stato aziendale senza precedenti: la conquista militare, l'assoggettamento e il saccheggio di vaste aree dell'Asia meridionale». In cinquant'anni.

William Dalrymple, come è nato il suo amore per l'India?

«Sono venuto qui per la prima volta a 19 anni e poi mi sono trasferito. Ormai vivo qui, è meraviglioso, anche se non ho mai tagliato i ponti del tutto con Londra e la Scozia: torno sempre in estate, quando ci sono i monsoni».

I Dalrymple citati in varie parti del libro sono suoi antenati?

«Sì, tutti. La mia famiglia apparteneva all'aristocrazia non di alto rango: aveva aspirazioni sociali molto superiori al proprio budget... Così i figli venivano spediti in India, generazione dopo generazione, a cercare fortuna. E poi, grazie allo sfruttamento avvenuto in India, con quelle ricchezze i miei antenati si sono trasferiti in Scozia. Anche Calasso amava molto l'India: mi manca, questo è il mio primo libro pubblicato da Adelphi senza di lui».

È dall'India che proviene anche una sua antenata, che la imparenta alla lontana a Virginia Woolf?

«Una mia bis-bis-bisnonna e la sua erano sorelle, indiane entrambe. Molti impiegati della Compagnia sposavano donne indiane».

Una delle parole chiave del libro l'ha citata poco fa: «sfruttamento». Però questa è una storia particolare di sfruttamento...

«È una storia molto bizzarra, perché lo sfruttamento non è stato portato avanti da uno Stato nazionale: la colonizzazione non è avvenuta tramite il governo, l'esercito o la marina, bensì è partita da un piccolo ufficio di broker di Londra».

Piccolo quanto?

«La Compagnia delle Indie Orientali era una società con 35 dipendenti, con sede in un edificio modesto di Londra. Nel Seicento la Gran Bretagna non era una potenza economica. Ma, attraverso l'avidità e la crudeltà, e una strategia militare efficace, in cinquant'anni, dal 1756 al 1803, quella società conquista uno stato indiano dopo l'altro e, infine, tutto l'Impero Moghul. Che all'epoca era il più ricco del mondo».

In cifre?

«Il 40 per cento del Pil mondiale proveniva dall'India e, in particolare, dal Bengala, che aveva un'industria specializzata e di altissima qualità».

La Compagnia che cosa faceva?

«Gli inglesi erano i marinai dei Moghul: trasportavano il cotone, la seta, i broccati, le spezie, la polvere da sparo... E poi l'oppio in Cina, e il tè a Boston. Ed è così che, da piccolo giro d'affari, la Compagnia divenne una gigantesca corporation globale».

Con potere militare.

«Erano così furbi che non conquistarono l'India con dei soldati inglesi, bensì con soldati locali, pagati coi soldi presi in prestito dai banchieri locali. Nel 1803, la Compagnia aveva un esercito di duecentomila uomini, il doppio di quello britannico. Una storia bizzarra, appunto».

Che legame c'era con la politica?

«Le relazioni con la politica c'erano ma, nelle sue conquiste, la Compagnia agiva da sola. Poi, nel 1770, ci fu una carestia in tutta l'India, con tre milioni di morti. A quel punto, la Compagnia iniziò ad andare male».

E che cosa accadde?

«Il governo inglese la salvò, con una operazione di bailout: come Lehman Brothers, era semplicemente too big to fail. E così, nel 1774, da privata la Compagnia diventò semi-pubblica. Fino ad allora era stata come Tesla, o Microsoft, dopo diventò al cinquanta per cento dello Stato, fino a che poi fu nazionalizzata».

Quanto è attuale questa storia?

«Molto. È interessante per noi, che siamo preoccupati dalle multinazionali e dal loro potere, perché è la storia di una società che ha più soldati di una nazione: immaginate che Musk abbia i missili, o Google i tank, o Microsoft i sottomarini... Ecco, la Compagnia era una corporation con le armi».

Era all'avanguardia anche nell'attività di lobbying.

«Nel 1693 dei membri furono scoperti a offrire soldi ai parlamentari, per corromperli; ci fu uno scandalo, e i vertici furono arrestati. Così diventarono più sottili nel fare lobby...».

Come?

«Chi tornava dall'India pieno di ricchezze si comprava un rotten burrough, uno dei borghi putridi, per essere eletto in Parlamento: così si formò una specie di partito, un po' come la lobby delle armi negli Stati Uniti oggi. Inoltre, metà dei parlamentari possedeva azioni della Compagnia, quindi essa era doppiamente protetta. Ha anticipato tutto ciò che più temiamo delle multinazionali».

Che altro?

«Nell'anno della carestia in India, mentre le persone morivano, anziché spedire cibo la Compagnia mandava soldati a raccogliere le tasse nei villaggi. E a Londra, all'assemblea annuale, i soci si aumentarono i dividendi. Ricorda qualcosa?».

Anarchia racconta questa storia come un dramma, con eroi e antieroi...

«Soprattutto con moltissimi villain...».

Robert Clive, l'uomo delle conquiste militari, è il peggiore?

«Clive è il più crudele, il più maligno e il più astuto di tutti. Vince ogni battaglia, terrorizza i nemici, è furbissimo. L'immagine che si contrappone alla sua è quella di Shah Alam, il principe Moghul, bello, affascinante, che scrive poesie in quattro lingue, ma perde ogni battaglia che combatte. Clive è ignorante, ma è uno stratega brillante. Shah Alam è il suo opposto: è l'unico eroe della vicenda, ma perde, e muore cieco. Una storia tragica».

L'India era ricchissima, ma gli inglesi vi entrarono per caso...

«Sì, perché gli olandesi avevano sconfitto gli inglesi ed erano arrivati per primi nelle isole delle spezie, in Indonesia. Così, nel 1640, come una start up la Compagnia cambiò commercio, e si rivolse ai tessuti in India, che si rivelarono poi una fonte di guadagno assai migliore, sebbene non per gli indiani».

L'anarchia del titolo ha fatto nascere anche un genere letterario, gli 'Ibrat Nama, che cita ampiamente nel libro. Di che si tratta?

«Sono i cosiddetti libri di ammonimento, nati dopo la caduta dell'Impero Moghul, che fu dovuta alle sue divisioni e alle guerre civili, e che fu vissuta dalla popolazione un po' come la fine dell'Impero Romano, un'era di anarchia appunto, di rovina, di battaglie. Tutti pensavano che il mondo fosse giunto alla fine e nacquero molti di questi libri apocalittici. Finora non erano mai stati utilizzati come fonte dagli studiosi; Bruce Wannell, un uomo dal talento straordinario, li ha tradotti per la prima volta dal persiano e ora possiamo leggerli anche noi».

Sono testi bellissimi.

«Sì. E, finalmente, la storia della colonizzazione britannica in India non viene raccontata solo da fonti britanniche, bensì dalla voce delle persone sfruttate e saccheggiate. Credo che i memoriali, le lettere e i resoconti di parte indiana siano uno dei contributi più importanti del libro».

Dice che loot, bottino, è una delle prime parole inglesi mutuate dall'hindi.

«Per dare l'idea del bottino: quando gli inglesi entrarono in India, essa rappresentava il 40 per cento del Pil mondiale, e la Gran Bretagna il 7; quando ne sono usciti, nel '47, i britannici controllavano circa il 40 per cento del commercio mondiale, e l'India una quota a una sola cifra... Questo è stato l'Impero britannico».

C'è stato solo del male?

«No. Sono state fondate città come Bombay, Madras e Calcutta; il Paese, da disunito e diviso in pezzi, ne è uscito riunito e modernizzato. Ma tutto questo non è avvenuto per amore dell'India: strade, porti e città sono stati fatti dall'Impero per sfruttare. Ogni Impero è così. E oggi anche gli inglesi si stanno accorgendo dei costi subìti e del male compiuto nel nome di esso».

Quando Cavour portò i piemontesi a combattere in Crimea. Giorgio Enrico Cavallo su Il Corriere della Sera il 15 aprile 2022.  

C’è un pezzo di Piemonte nella storia della Crimea, il territorio conteso nel sanguinoso conflitto fra l’Ucraina e la Russia di Vladimir Putin. L’obelisco di corso Fiume, a Torino, ci ricorda che nel 1855 l’esercito di Vittorio Emanuele II finì a combattere proprio in Crimea, sul lontano Mar Nero, spinto dalle ambizioni internazionali del conte di Cavour. Sono celebri le illustrazioni che ritraggono i nostri Bersaglieri sul campo di battaglia in riva al fiume Cernaia, un piccolo corso d’acqua della Crimea, di cui fa memoria l’omonima via Cernaia nel centro di Torino. I soldati piemontesi si spinsero fin là, alleati di Francia e Inghilterra contro la Russia per il possesso della penisola di Crimea, piccolo ma strategico fazzoletto di terra sul mare.

Dal tempo del matrimonio dello Zar Ivan III (1440-1505) con Sofia Paleologa, la Russia riteneva di essere investita di una grande «missione»: difendere i cristiani d’Oriente dalla minaccia musulmana. Era ovviamente un’affermazione politica, più che religiosa, ma veniva tirata fuori dal cilindro di tanto in tanto per ribadire la supremazia della Russia sul Medio Oriente. Possedere la Crimea, sul crocevia fra oriente e occidente, era un’ossessione degli Zar russi, che l’avevano annessa nel 1783.

A metà dell’Ottocento gli interessi della Russia andarono a scontrarsi con le strategie geopolitiche della Francia e dell’Inghilterra. La questione dei cristiani orientali divenne oggetto di scontro diplomatico con la Francia di Napoleone III, perché anche Parigi intendeva farsi portavoce delle istanze degli armeni e dei cristiani ortodossi nell’impero turco. Il fatto è che i turchi, tra la vicina Russia e la lontana Francia, scelsero di schierarsi con la Francia. E la Russia si irritò.

Fallita la fase diplomatica, lo Zar Nicola I di Russia ordinò al suo esercito di occupare i deboli principati danubiani (nelle attuali Romania e Moldavia), che erano vassalli dei turchi. Ieri come oggi, l’iniziativa della Russia mise in allarme gli europei: fin dove si sarebbe spinto Nicola? E quanto era potente il suo esercito, considerata la sterminata vastità e le immense risorse dell’impero russo? I turchi, spalleggiati da Francia e Inghilterra, dichiararono guerra ai Russi nell’ottobre 1853. E fu così che nel conflitto entrarono anche le potenze occidentali inviando soldati nelle regioni del Danubio e in Crimea.

La forza militare dei turchi, degli inglesi e dei francesi era superiore al pur numeroso esercito zarista. La guerra, si diceva nelle capitali d’Europa, sarebbe durata poco: giusto il tempo di dare una bastonata allo Zar. Si pensava che le armi sarebbero state deposte in fretta e che sarebbe stata convocata presto una «conferenza di pace», per ridefinire gli equilibri politici e i giochi di forza fra Europa e Medio Oriente.

Il conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, pensava che la conferenza di pace avrebbe offerto una buona occasione per ragionare, non solo sul Medio Oriente, ma sul futuro dell’Europa e dell’Italia, la penisola divisa, che i Savoia volevano unificare. Il problema era trovare il modo di sedersi al tavolo delle trattative. Si poteva fare? Sì, bastava partecipare alla guerra dalla parte dei vincitori. Cavour non aveva dubbi: i russi sarebbero stati sconfitti. Bisognava mettere in conto qualche morto e Cavour decise che ne valeva la pena: un pugno di morti fra i soldati piemontesi era il prezzo da pagare per sedersi al tavolo dei vincitori.

Prima dell’avventura in Crimea, i russi e i piemontesi si erano già incrociati su altri campi di battaglia. Nel 1799 il generale Aleksandr Vasil’evic Suvorov, grande ufficiale dell’esercito zarista, aveva cacciato i francesi dal Piemonte. Poi tanti giovani piemontesi avevano servito Napoleone, loro malgrado, partecipando alla disastrosa campagna di Russia nel 1812-1813.

Nel 1853, allo scoppio della guerra di Crimea, il ricordo della Russia in Piemonte era piuttosto fresco. A un certo punto sembrò imminente l’ingresso in guerra dell’Austria e fu allora che Cavour scese in campo. Riteneva pericolosissima una eventuale iniziativa dell’acerrima nemica: se si fosse alleata con la Francia, al piccolo Piemonte, stretto in mezzo alle due potenze, sarebbero state tarpate le ali e i sogni di una espansione sabauda nel Nord Italia sarebbero stati vanificati.

Nel gennaio 1855 Vittorio Emanuele II firmò l’accordo per inviare in Oriente un corpo di spedizione piemontese, che partì nel mese di aprile, prevalentemente su navi britanniche. Sulla pirofregata Governolo salpò il protagonista della missione sabauda, il generale Alessandro La Marmora. Si rivolse ai soldati con parole diffuse a mezzo stampa, parlando di «guerra nobile e generosa».

La partenza del contingente sabaudo avvenne in piena crisi politica. Il ministro degli Esteri Giuseppe Dabormida era contrario a un’azione militare senza garanzie per il Regno di Sardegna e si dimise in quello stesso gennaio 1855. Mentre i soldati salpavano da Genova, anche Cavour rassegnò le dimissioni da primo ministro per via della cosiddetta crisi Calabiana (un durissimo scontro tra progressisti e cattolici), ma nel giro di pochi giorni tornò al potere guidando il suo terzo Governo.

Fuori dalla retorica risorgimentale, occorre osservare che il contingente militare spedito da Cavour in Crimea era molto limitato e la spedizione venne funestata da avvenimenti luttuosi e ingloriosi. Degno di nota fu il contingente dei bersaglieri piemontesi, che si segnalò nelle poche azioni belliche: poche perché l’esercito dei Savoia si dimostrò inadeguato e per lo più i 18 mila uomini (3 mila in più di quanti richiesti dall’accordo con gli alleati) inviati da Cavour rimasero «in panchina». I subalpini non furono impiegati nemmeno nel lungo e sanguinoso assedio di Sebastopoli. Dunque, una spedizione poco dolorosa? Macché: alla fine il bilancio in termini di vite umane fu elevato, in rapporto al continente spedito al fronte. I piemontesi piansero oltre 2 mila caduti, quasi tutti per il colera.

Al tavolo delle trattative di pace, apertosi a Parigi il 25 febbraio 1856, sedettero le potenze vincitrici e la Russia sconfitta. Tra i vincitori, anche il piccolo Piemonte sabaudo, rappresentato dal conte di Cavour. Re Vittorio Emanuele, galvanizzato per la vittoria, reclamava delle acquisizioni territoriali. Napoleone III sembrava favorevole a ricompensare il Piemonte con il Ducato di Parma, ma non se ne fece nulla, anche perché, per non spiacere all’Austria, il piccolo Regno di Sardegna finì in un angolo anche nelle trattative.

Sulla guerra in Crimea, Cavour si era giocato la reputazione: doveva per forza portare a casa qualcosa dal congresso di Parigi. Qualsiasi cosa. A Parigi venne messo in discussione l’ordine europeo stabilito con il Congresso di Vienna e Cavour ebbe la soddisfazione di mettere sul tavolo anche l’Italia. Una «tornata» venne dedicata proprio al «caso Italia»: si discusse di come stabilire un nuovo equilibrio nella nostra penisola. Il Piemonte si legava sempre più alla Francia e alla Gran Bretagna gettando le basi per gli avvenimenti bellici degli anni a venire: le guerre che avrebbero portato all’unificazione nazionale.

A Torino, la partecipazione alla guerra della lontana Crimea fu celebrata con intitolazioni e monumenti, come quello di piazza Crimea al fondo di corso Fiume, l’obelisco eretto nel 1892 in gusto umbertino su disegno di Luigi Belli. L’intero quartiere attorno all’obelisco ricorda la guerra del 1855: è il Borgo Crimea, nel quale la toponomastica celebra un gran numero di battaglie risorgimentali. Corso Sebastopoli celebra la città-simbolo del conflitto, assediata per un anno dall’ottobre 1854 al settembre 1855. Ma c’è soprattutto via Cernaia, una delle vie più importanti del centro storico: ricorda la battaglia combattuta su un fiumiciattolo della Crimea, lungo 34 chilometri. Un piccolo fiume passato alla storia.

Basta con le bugie sul colonialismo italiano in Africa! Di Emanuele Beluffi il 4 Maggio 2022 su Cultutaidentita.it.

Alberto Alpozzi è un fotografo-giornalista freelance specializzato in reportage in aree di crisi e fotografia per l’architettura. E’ stato in Afghanistan come fotografo embedded per documentare la missione Isaf, in Kosovo al seguito della K-FOR, in Libano e sulla nave Zeffiro della Marina Militare Italiana nell’ambito della missione Atalanta per l’antipirateria e ha fatto parte, unico italiano, della troupe tedesca della Bilderfest per la realizzazione del documentario Ustica. Tragedia nei cieli. Ha scritto il libro di ricerca storica Il faro di Mussolini. L’Opera coloniale più controversa e il sogno dell’Impero nella Somalia Italiana. 1889-1941 e insegna Fotografia al Politecnico di Torino, oltre ad aver tenuto vari corsi sull’argomento presso altri istituti fra cui l’Ufficio Comunicazione della Regione Militare Nord e istituzioni come la Marina Militare. Insomma, Alberto Alpozzi è un ricercatore, visivo e storico, che sa il fatto suo.

Eclettica Edizioni ha appena pubblicato Bugie coloniali 2. Il colonialismo italiano tra cancel culture, censure e falsi miti (Collana Secolo Breve, 2022, 187 pagine, 17 euro, secondo capitolo di una precedente opera sull’argomento) ed è un libro che tutti dovrebbero leggere, perché molti ne avrebbero bisogno, sia coloro che pensano di sapere già (cioè la vulgata storica unica), sia coloro che non ne sanno nulla (cioè quelli che si basano sulla vulgata storica unica).

Renzo De Felice diceva che «la storia si scrive cercando di capire le ragioni del tempo. Se no, si fa moralismo»: con questa citazione nell’introduzione al saggio di Alpozzi siamo già in medias res, perché sull’argomento colonialismo occorrerebbe fare chiarezza una vota per tutte. Già, “chiarezza”…dici facile, quando la guerra si combatte prima sui giornali (dice niente l’argomento di cronaca NATO/Russia/Ucraina?) e le informazioni sugli scenari bellici o sono scarse o sono filtrate dalle rispettive propagande.

Niente di nuovo sotto il sole: se non che, quando vai a toccare certi argomenti storici e osi fare il mestiere dello storico e del giornalista (cioè dubitare, verificare, controllare) rischi il bavaglio o il ruolo del reietto. Perché, come scrive l’autore, “La Storia non si basa più sulla ricerca, sulle fonti, sugli archivi, sull’analisi critica e comparativa ma è divenuta banale marketing tesa a diffondere preconcetti consolidati dai pregiudizi […]. La Storia è stata trasformata in pettegolezzo oltre ogni decenza e serietà pur di completare un’opera integrale di denigrazione che non trova eguali in nessuna altra nazione”.

Alpozzi non usa a caso il termine “marketing” applicato alla ricerca e alla divulgazione storica, perché dimostra, dati alla mano, come sul colonialismo italiano in Africa, i cittadini e i lettori siano ormai da decenni abituati ad associare, come il cane di Pavlov, immagini di malessere, infelicità, brutture, vuoto, a un determinato periodo storico, dipinto con parole truculente votata all’immaginifico dell’ultraviolenza, cioè occupazione, invasione, aggressione, violenza, massacri, sfruttamento, razzismo. Come un film horror, il lettore-cittadino ha uno schema mentale autoindotto dall’Ufficio Sinistri (questa è sottile!) per leggere e interpretare un fatto storico, nello specifico il colonialismo italiano in Africa appunto. Ma qual è la vera verità?

Ebbene, fonti alla mano, lo sapete che non è stato affatto il fascismo ad inventare le guerre e il razzismo? Che il cosiddetto “destino africano” lo inventano Crispi, Cavour, Bixio nell’800? Che gli italiani non hanno affatto schiavizzato i somali e che anzi attraverso leggi, interventi e controlli lo Stato vigilava affinché non vi fossero abusi e le leggi emanate venissero applicate? E che l’Italia fascista in Somalia ha proceduto con l’alfabetizzazione della popolazione e la costruzione di infrastrutture, costruito ospedali e luoghi di culto per tutte le confessioni religiose, cose che nessuno prima ha fatto? Altro che schiavitù inventata dai fascisti, altro che razzismo: come scrive l’Autore, “è sufficiente non essere totalmente a digiuno di basilari nozioni storiche per sapere come in Africa la tratta degli schiavi fosse il commercio più lucrativo che ci fosse e che per secoli aveva scoraggiato qualunque altra forma di commercio”.

Alla base del colonialismo italiano in Africa, al contrario, c’è un pensiero filosofico e umanistico preconizzato da pensatori in Europa come il giurista (nato e vissuto nell’800, giova specificare) Rudolph von Jhering, alla cui base è l’idea di una solidale cooperazione di forze tutte armonicamente convergenti al benessere collettivo, sia dei colonizzatori che degli indigeni. Scrive infatti Alpozzi: “Esistono ancora oggi profonde divergenze sulla legittimità o meno del colonialismo. Ma questa incongruenza deriva da una domanda anacronistica (e tendenziosa) che non tiene per nulla conto del concetto di civiltà e della sua esatta determinazione nell’epoca delle colonizzazioni. Tuttavia ancora c’è chi si ostina a giudicare e moraleggiare con l’attuale visione del mondo eventi e azioni delle quali non si conosce, o si fa finta di non conoscere, le motivazioni culturali, sociali ed economiche in seno alla quali maturò il loro svolgersi”.

Infatti la reductio ad hitlerum di idee che si discostano dal pensiero unico è la norma, oggi come allora. Dar di “fascista” e “razzista” è la reazione che tende a mettere la mordacchia a chiunque si ponga delle domande o presenti dubbi, con l’obiettivo di mantenere il lettore/cittadino nell’ignoranza, perché “le menti istruite non si possono controllare”.

Un problema che dalle parole passa ai fatti e non solo: si ripercuote anche sulle immagini. E nel libro di Eclettica, di foto, ce ne sono tante (88 per la precisione), compresa quella di copertina, una foto colorizzata che raffigura la prima adunata delle Truppe Coloniali per il Primo Annuale dell’Impero, con i Meharisti che sfilano davanti al Vittoriano di Piazza Venezia il 9 Maggio 1937: sì, perché la cancel culture di oggi, la censura dei social (mai nella storia dell’umanità, ad esempio, è accaduto che un gruppo editoriale decidesse di togliere per sempre la parola a un Presidente degli Stati Uniti, come hanno fatto con Trump) e di giornali e tv si trasforma nell’autodafè involontario di tutti noi, cioè nell’autocensura preventiva che ci fa dubitare se mettere o no quella foto, se usare o no quella parola, se indagare o no su quel fatto storico per capire se è davvero andata come ce la raccontano. Come suggerisce l’Autore del libro, questa situazione “è la figlia illegittima di un preoccupante programma, non troppo occulto, del controllo dei pensieri delle persone”.

Chiudono il volume un’interessante sezione sulla grafia e i significati dei termini coloniali (ad esempio, si dice ascaro o ascari? E il termine indigeno è veramente dispregiativo o non lo è affatto? [spoileriamo: non lo è affatto e mai lo fu]) e una sezione conclusiva su quel pogrom dimenticato della Libia, un drammatico evento che nessuno ricorda, o vuole ricordare, quando il 4 novembre 1945 i musulmani (a proposito, si dirà musulmani o mussulmani? Lo chiarisce la succitata sezione sulla grafia e i significati dei termini coloniali) attaccarono gli ebrei di Libia, che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente per secoli con gli arabi. Anche sotto l’Italia.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

L’Onu chiede a Putin di pagare i danni in Ucraina, la Russia: “Usa e Nato paghino quelli in Jugoslavia e Vietnam”. Cia e spie di Mosca a colloquio. Redazione su Il Riformista il 14 Novembre 2022.

Da una parte i colloqui tra la Cia e l’intelligence russa in Turchia, dall’altra lo schiaffo dello Onu che chiede a Mosca di riparare i danni provocati ‘grazie’ all’invasione in Ucraina. In mezzo le parole del presidente Volodymyr Zelensky secondo cui il ritiro delle truppe russe da Kherson è “l’inizio della fine della guerra”, “siamo pronti per la pace, la pace in tutto il nostro Paese”.

Dopo nove mesi dall’inizio del conflitto, qualcosa forse inizia a muoversi per trovare un accordo tra le potenze mondiali in campo anche se l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a favore di una risoluzione che chiede la creazione di un meccanismo di rimpatrio e riparazione dei danni creato dalla Russia durante l’aggressione militare in Ucraina. La bozza di risoluzione, presentata dagli Stati appartenenti al cosiddetto “Occidente collettivo”, invita anche a condannare la Russia per le sue azioni in Ucraina. Novantaquattro paesi hanno votato a favore della risoluzione, 14 hanno votato contro e 73 si sono astenuti.

Tra i contrari, oltre alla Russia, figurano anche Cina, Cuba, Mali ed Etiopia, mentre la maggior parte dei Paesi astenuti appartengono al continente africano, ma anche Brasile, Israele o India. Questa risoluzione chiede che la Russia sia “ritenuta responsabile di qualsiasi violazione” del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite in Ucraina, e che “si assuma le conseguenze legali di tutti i suoi atti illegali a livello internazionale, in particolare riparando i danni” materiali e umani.

La risoluzione stabilisce inoltre “la necessità” di creare, “in collaborazione con l’Ucraina, un meccanismo di riparazione” e “un registro internazionale dei danni per elencare (…) le prove e le informazioni relative alle richieste di risarcimento” di persone fisiche, giuridiche e statali dell’Ucraina.

“L’Ucraina avrà il pesante compito di ricostruire il Paese e riprendersi dopo la guerra. Ma questa ripresa non sarà mai completa senza un sentimento di giustizia per le vittime della guerra della Russia”, ha precisato l’ambasciatore ucraino all’Onu, Sergiy Kyslytsya.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accolto con favore la decisione presa alle Nazioni Unite. “Dalla liberazione di Kherson alla vittoria diplomatica a New York – l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha appena dato il via libera alla creazione di un meccanismo di riparazione da parte della Russia per i crimini commessi in Ucraina”, ha affermato su Twitter. “L’aggressore pagherà per quello che ha fatto!”, ha aggiunto.

Nella sede delle Nazioni Unite a New York, il rappresentante russo ha invece denunciato la volontà dei Paesi occidentali di legittimare preventivamente l’utilizzo di “miliardi di dollari” di beni russi congelati per sanzionare Mosca, anche per l’acquisto di armi da cedere all’Ucraina.

Dure anche le parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev, che su Telegram, oltre a confermare la tesi del rappresentate russo all’Onu (“gli anglosassoni stanno chiaramente cercando di mettere insieme una base giuridica per il furto di beni russi sequestrati illegalmente”), invita gli Usa ad accettare “la stessa raccomandazione per il pieno risarcimento dei danni causati a Corea, Vietnam, Iraq, Jugoslavia e altre numerose vittime degli americani e della Nato”.

Intanto ad Ankara il direttore della Cia, Bill Burns, ha incontrato la controparte dell’intelligence russa, Sergey Naryshkin, per sottolineare le conseguenze nell’eventualità in cui Mosca dovesse usare armi nucleari in Ucraina, ha riferito un funzionario del Consiglio Usa di sicurezza nazionale, sottolineando che l’incontro in Turchia non aveva come obiettivo negoziare o discutere una possibile soluzione del conflitto in Ucraina e che le autorità ucraine erano state avvertite anticipatamente del viaggio di Burns in Turchia.

Il Cremlino – da canto suo – ha confermato che i colloqui tra responsabili statunitensi e russi si sono svolti oggi ad Ankara. Lo ha riferito l’agenzia di stampa statale russa Tass, citando il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Il Consiglio di sicurezza nazionale Usa ha dichiarato in precedenza alla Cnn che il direttore della Cia, Bill Burns, si era incontrato ad Ankara con il suo omologo dell’intelligence russa, Sergey Naryshkin, nell’ambito di uno sforzo in corso da parte degli Stati Uniti di “comunicare con la Russia sulla gestione del rischio” e per discutere i casi di “cittadini statunitensi detenuti ingiustamente”.

Quando i cattivi siamo noi. Inchiesta choc sui soldati Uk: “Uccidevano afghani disarmati”. La Bbc lancia la bomba: in Afghanistan, le forze speciali britanniche sono state protagoniste di omicidi efferati contro disarmati. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 12 Luglio 2022

Si tratta di una vera e propria bomba, quella lanciata dall’emittente televisiva britannica, Bbc, sul più importante corpo speciale militare del Regno Unito: lo Special Air Service (Sas). Dopo aver esaminato centinaia di pagine dei rapporti e dei resoconti dell’organizzazione, relativi alla guerra in Afghanistan nel biennio 2010-11, le forze britanniche avrebbero ucciso decine di prigionieri, detenuti e uomini disarmati nel corso del conflitto.

Secondo quanto riportato dallo scoop di Bbc Panorama, un solo squadrone sarebbe stato autore di ben 54 omicidi, contrari al diritto bellico, nell’arco di soli sei mesi. Addirittura, con la conoscenza dei fatti da parte anche dei più alti vertici dell’organizzazione. L’ex capo della Sas, il generale Sir Mark Carleton-Smith, infatti, sarebbe stato al corrente, sin da subito, di queste uccisioni illegali. Eppure, avrebbe deciso di lasciare impuniti i responsabili e di non inviare le relative prove alla Royal Military Police, così come stabilito da protocollo.

Lo scoop della Bbc

Le clamorose omissioni dolose del generale e dei membri di punta della Sas fanno discutere anche sotto un altro aspetto rilevante: si trattava di crimini di guerra deliberati, compiuti in modo autonomo ed indipendenti dai soldati della Regina, oppure di veri e propri comandi derivanti dall’alto? Le prime indiscrezioni sembrano indirizzarsi verso la prima strada. Non è un caso che la Bbc abbia certificato la presenza di mail interne che mostrerebbero come “gli ufficiali, ai più alti livelli delle Forze speciali, fossero consapevoli della preoccupazione per possibili uccisioni illegali”. Nonostante tutto, a distanza di oltre un decennio, le prove non sono mai state trasmesse alla polizia, anche dopo l’inizio delle indagini di quest’ultima.

Secondo il racconto di numerosi testimoni, che operavano in Afghanistan in quel biennio, le Forze Speciali agivano soprattutto attraverso raid notturni. Molti di essi facevano gara a chi ne uccidesse di più, per poi mascherare il luogo del delitto, facendo credere che si fosse trattato di uno scontro a fuoco con forze militari nemiche. La Sas, sempre secondo le testimonianze riportate, avrebbe agito attraverso la tecnica del “drop weapons”, letteralmente “armi lasciate cadere”, ovvero piazzate vicino ai corpi dei cadaveri proprio per inscenare un conflitto mai avvenuto, e quindi riuscendo a insabbiare il crimine di guerra.

Se lo scenario dovesse essere confermato definitivamente, si tratterebbe di uno dei più grandi scandali dell’organizzazione speciale. Anche se la fiducia dei vertici del governo britannico continua a rimanere immutata.

I tragici anni in Afghanistan

Le annate 2010 e 2011 sono state, forse, le più drammatiche del conflitto afghano. Nel stesso arco temporale, infatti, l’amministrazione Obama portava a compimento l’operazione di ricerca del terrorista più ricercato al mondo, Osama Bin Laden, uccidendolo in Pakistan, dopo un breve combattimento con le guardie della dimora. L’obiettivo raggiunto venne seguito anche da un polverone circa le responsabilità dello Stato ospitante del leader di Al-Qaeda, residente in un lussuosissimo edificio a più piani.

Negli stessi mesi, le forze alleate occidentali portarono avanti l’operazione “Colpo di Spada”, tra le più importanti offensive dai tempi della guerra in Vietnam. L’obiettivo fu quello di sconfiggere le forze talebane nella zona di Helmand, attacco che costò la morte di un’ottantina di soldati d’Occidente e di quasi mezzo migliaio di talebani. Matteo Milanesi, 12  luglio 2022 

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2022.

Centinaia di esecuzioni sommarie condotte in Afghanistan dai Sas, le forze speciali britanniche: è quanto emerge da un'indagine realizzata dalla Bbc, che ha portato alla luce quelli che si configurano come veri e propri crimini di guerra. 

Le uccisioni di talebani - o presunti tali - dopo la cattura erano parte di missioni notturne il cui obiettivo era «kill or capture», uccidere o catturare: ma un solo squadrone dei Sas, nel corso di sei mesi, si sarebbe reso responsabile di ben 54 esecuzioni sommarie. 

Fra i soldati britannici c'era la gara a chi ammazzava più nemici e la stessa competizione aveva luogo fra i diversi squadroni delle forze speciali.

Ciò che ha insospettito la Bbc - che si è focalizzata su fatti accaduti nella provincia afghana di Helmand fra il 2010 e il 2011 - era la frequenza anomala di uno scenario che vedeva un prigioniero tirare fuori all'improvviso una granata o un mitra da sotto un tavolo o da dietro una tenda, cosa che ne giustificava l'uccisione sul posto: una circostanza che appare poco probabile, soprattutto se si ripete troppo spesso. L'analisi dei fori di proiettile sul terreno o nei muri, successiva ai raid dei Sas, suggeriva piuttosto delle vere e proprie fucilazioni. 

Un alto ufficiale che lavorava al quartier generale delle forze speciali ha ammesso con la Bbc che «troppe persone venivano uccise durante i raid notturni e le spiegazioni non avevano senso. Una volta che qualcuno è detenuto, non dovrebbe finire ammazzato.

Era chiaro che c'era qualcosa di storto». 

Un altro alto ufficiale scrisse un memorandum segreto in cui esprimeva preoccupazione per quella che appariva come una «politica deliberata» di uccisione sommarie.

Venne avviata una inchiesta interna, che però si risolse nel nulla.

I Sas hanno potuto contare finora sull'omertà dei loro comandi: secondo la Bbc, il generale Sir Mark Carleton-Smith, ex comandante delle forze speciali, era stato messo al corrente delle uccisioni illegali, ma non aveva trasmesso le informazioni alla polizia militare. 

Anche la scelta degli obiettivi da catturare avveniva in modo sommario, senza un vero approfondimento delle informazioni di intelligence, col rischio di dare la caccia a civili innocenti. 

Il ministero della Difesa britannico ha reagito accusando la Bbc di «mettere a rischio le nostre coraggiose Forze Armate» sia sul campo che sul piano della reputazione: il programma, ha detto un portavoce, «salta a conclusioni ingiustificate sulla base di accuse che sono state già pienamente investigate».

La Bbc ha replicato che «questo è il culmine di una indagine durata quattro anni, che include nuove prove e racconti di testimoni, ed è fermamente nell'interesse pubblico. La posizione del Ministero della Difesa è pienamente ri-specchiata nel documentario». Ed è notevole da sottolineare che la Bbc è un'emittente pubblica, che non si è fatta scrupoli a mettere sotto accusa governo e Forze Armate.

Alice Zago: «Non sono magistrata ma indago sui crimini contro l’umanità». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. 

È l’unica italiana a svolgere funzioni da pm nella Corte penale internazionale dell’Aia: «Putin? Non si può processarlo in contumacia» «Ho pianto con i bambini soldato del Congo» «La giustizia? È fatta di sfumature» 

Alice Zago, unica italiana alla Corte Penale Internazionale dell’Aia

Mai lamentarsi dei tempi della giustizia italiana. La prima richiesta d’intervista ad Alice Zago, unica italiana head unified team (capo della squadra unificata) presso la Corte penale internazionale dell’Aia, risale al 28 aprile. Solo il 18 settembre le hanno concesso il nullaosta per conferire con il Corriere della Sera.

Al lavoro su dossier scomodi

Trascorsa qualche altra settimana, ha accettato di parlare, a condizione che venisse premessa la seguente formula di rito: «Qualunque opinione esprimerò è puramente personale e non riflette in alcun modo la posizione dell’International criminal court». Oltre cinque mesi di prudenza forse non guastano, essendoci di mezzo il tribunale sovranazionale che indaga sui genocidi, sui crimini di guerra e su quelli contro l’umanità. Nel frattempo, Paul Gicheru, il principale imputato perseguito da Zag o, accusato di aver corrotto e intimidito testimoni che avrebbero potuto inguaiare l’attuale presidente del Kenya, William Ruto, ha tirato le cuoia proprio il giorno prima del nostro colloquio: «Il processo era terminato a maggio. Stavo aspettando la sentenza. Dopodiché, se dichiarato colpevole, avrei formulato la richiesta della pena, come avviene nella procedura anglosassone». Quanti anni di galera? «Non mi sento di poterle rispondere. È morto. Quindi adesso è innocente».

Un ruolo equivalente a quello italiano del Pm

Abituati alla loquacità delle Procure italiche, si resta basiti di fronte al riserbo di questa donna che ha appena compiuto 48 anni e che non vuole essere chiamata magistrata, pur rivestendo nell’Icc il ruolo svolto nel nostro Paese dal pubblico ministero e, quando va in udienza, del sostituto procuratore. Eppure da lei dipendono una decina fra magistrati, investigatori, analisti ed esperti in rogatorie internazionali. Alice Zago è cresciuta a Venezia e a Mostaganem, città algerina dove i genitori Carlo e Daniela hanno lavorato come architetti. Dopo la loro separazione, ha vissuto a New York e a Santiago del Cile con la madre, per lungo tempo funzionaria dell’Onu.

Poteva diventare una toga in Italia.

«Infatti m’iscrissi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. La facoltà migliore. Lo feci per ribellarmi ai miei, simpatizzanti dell’estrema sinistra».

Lo sono ancora?

«Le etichette sbiadiscono».

Era già attratta dalla magistratura?

«Da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino. E dal processo Enimont. Ero in aula quando Antonio Di Pietro interrogò Arnaldo Forlani. Dopo un anno di studi, passai alla Statale e mi laureai in diritto greco antico con Eva Cantarella. Fui conquistata dalla professoressa sentendola parlare dello scudo di Achille. La tesi verteva su un’orazione di Demostene contro la prostituta Neera».

Un cambio di rotta mica da poco.

«Poi avrei voluto sostenere il concorso per la magistratura. Ma tre anni di attesa mi sembravano un’eternità. Così prevalse il mio desiderio di fuga dall’Italia».

Meta?

«Belgio, con l’Ong “Non c’è pace senza giustizia”. Stage a Bruxelles accanto a Emma Bonino, Marco Cappato e altri radicali del Parlamento europeo. Nel contempo, master in diritto a Lovanio».

E poi?

«In missione con le Nazioni Unite in Guatemala. Quasi tre anni fra massacri dei militari e rivolte degli indios affamati, che linciavano i latifondisti».

All’Onu la raccomandò sua madre?

«No, vinsi un concorso. In seguito raggiunsi il mio compagno a New York e tornai a lavorare da lì per l’Ong. Fornivamo assistenza giuridica e legale a Timor Est, resosi indipendente dall’Indonesia».

Quando è stata ammessa nella Corte penale internazionale?

«Nel 2004, con un bando per titoli ed esami. Fra i requisiti richiesti c’erano capacità analitiche e perfetta conoscenza dell’inglese. Entrai come investigatrice».

Che esperienza vantava in materia?

«Avevo indagato sulle violazioni dei diritti umani in Guatemala».

Quali grandi criminali ha scovato?

«Più sono grandi e meno sono noti».

Il suo primo incarico all’Aia quale fu?

«Mi spedirono in Congo, provincia di Ituri, dove la lotta fra Hema e Lendu era fomentata per il controllo delle miniere di oro e cobalto. Io mi occupavo di stupri e arruolamento di bambini soldato, altri tre colleghi di stragi etniche, omicidi, torture e mutilazioni. Alloggiavamo in un container dell’Onu. Portammo alla sbarra Thomas Lubanga Dyilo, leader dell’Union des patriotes congolais. Fu condannato a 14 anni di reclusione».

Che faceva di brutto Lubanga Dyilo?

«Reclutava i dodicenni e li drogava. Una combattente di 14 anni era incinta, quando la interrogai. Sono le situazioni in cui il mio lavoro diventa difficile».

In quei frangenti che fa?

«Eh, ogni tanto si piange. Non si dovrebbe, ma l’emozione è troppo forte».

Fu l’esperienza più drammatica?

«Sì, insieme con quella di human right officer dell’Onu nella giungla del Guatemala, dopo gli accordi di pace che avevano posto fine alla guerra civile. Avevo appena 24 anni. Con me c’erano un poliziotto, un medico forense, un genetista, un antropologo e un interprete. Il nostro compito era di scoprire le fosse comuni e dissotterrare le salme. Il lezzo della morte c’impregnava i vestiti».

Aprite i fascicoli d’ufficio o vi deve arrivare una segnalazione?

«Entrambe le eventualità. Le denunce però non possono arrivare dai privati: solo dagli Stati o dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite».

L’Icc è riconosciuta da tutti gli Stati?

«No, solo da 123. Non aderiscono 42 Paesi, fra cui Stati Uniti, Cina, Russia, India, Israele, Egitto, Iraq, Libia».

Quindi, se si ripresentasse un caso Eichmann, Israele non potrebbe chiedervi di processare il criminale nazista.

«No, finirebbe a giudizio in Germania, dove ebbero luogo i misfatti. La Corte penale internazionale interviene quando uno Stato non può o non vuole perseguire un crimine contro l’umanità».

Avete ricevuto denunce a carico di Vladimir Putin per le barbarie commesse dagli invasori russi in Ucraina?

«Non sono autorizzata a rispondere».

Non potete procedere d’ufficio?

«C’è un’indagine condotta da un nostro procuratore, aperta a marzo».

Potreste processare e condannare in contumacia il presidente russo?

«No. L’imputato dev’essere in aula».

Quale aula?

«Qui all’Aia, nella sede dell’Icc, ne abbiamo tre per celebrare i processi».

Che durano quanto?

«Compresa l’istruttoria? Dipende dalla complessità del caso e dal numero di crimini. Con Gicheru siamo arrivati a conclusione in tre-quattro mesi. Quando va per le lunghe, due anni al massimo».

Com’è possibile che fra tribunale, appello e Cassazione in Italia occorrano 1.545 giorni, cioè circa 4 anni e 3 mesi?

«Non mi faccia parlare di fatti sui quali non sono informata».

Non ha la cittadinanza italiana?

«Ce l’ho, ma non appartengo alla magistratura del mio Paese di origine. Immagino che vi siano molteplici ragioni a spiegare i ritardi, che vanno dal volume di attività alle carenze di organico».

La pena più severa inflitta dall’Icc?

«Trent’anni di reclusione. Non irroghiamo l’ergastolo».

Il condannato dove la sconta?

«Nel centro di detenzione qui all’Aia oppure nel Paese di appartenenza. Abbiamo accordi bilaterali in tal senso con molti Stati, soprattutto scandinavi».

Ha mai ricevuto minacce di morte?

«Di morte e di violenza, in Congo, da parte dell’esponente di un gruppo armato. Ma non le ho mai prese sul serio. Non mi reputo una persona importante».

Non ha mai rischiato la pelle?

«Solo una volta, in Guatemala, ma per tutt’altri motivi. Con il cibo o con l’acqua mi entrò in circolo un’ameba, che stava distruggendomi l’intestino. Fui salvata dai medici cubani. Sono molto preparati. In America Latina ne trovi sempre qualcuno nei luoghi più sperduti, quelli di cui persino Dio sembra essersi dimenticato. Fui trasportata a Città del Messico e da lì a New York, dove i sanitari dell’Onu mi tennero in cura per tre anni».

Non ha la scorta?

«No, nessuno di noi ce l’ha. Solo il procuratore capo».

C’è un magistrato al quale s’è ispirata?

«Sì, ma è poco noto. Si chiama Ben Gumpert, britannico. Era avvocato della Corte penale internazionale. Ora è giudice alla Crown Court a Londra, la Corte della Corona. Ha una capacità di controllo e un’eloquenza che soggiogano».

Da similpubblico ministero quale carriera la attende?

«Da grande mi piacerebbe diventare la direttrice di Vogue al posto di Anna Wintour. Per divertirmi un po’». (Ride).

Il diavolo veste Prada.

«Confesso di avere una smodata passione per la moda e per l’interior design, insomma per tutto ciò che è frivolo ma assolutamente necessario nella vita».

Crede che esista la giustizia terrena?

«Io credo che esista soltanto la giustizia terrena».

Quella divina no?

«Soggettivamente non penso che ci sia. Posso solo occuparmi di ciò che conosco. Anche se vorrei che esistesse una giustizia ultraterrena».

E in nome di chi va amministrata?

«Di tutti noi».

«Occhio per occhio e dente per dente», come detta l’«Esodo», è giustizia?

(Ci pensa). «No, non sempre. Anzi, direi proprio di no. Ho imparato che non esistono mai solo bianco e nero. Ci sono unicamente moltissime sfumature. La capacità di coglierle si chiama giustizia»

(ANSA-AFP il 23 settembre 2022) - In Ucraina "sono stati commessi crimini di guerra", tra cui bombardamenti di aree civili, numerose esecuzioni, torture e orribili violenze sessuali. Lo hanno stabilito gli investigatori dell'Onu. "Sulla base delle prove raccolte dalla Commissione, essa ha concluso che crimini di guerra sono stati commessi in Ucraina", ha detto il capo di una commissione d'inchiesta Onu istituita a maggio per indagare sui crimini di guerra russi in Ucraina.

Gli investigatori dell'Onu in Ucraina hanno documentato una vasta gamma di crimini contro i minori, inclusi casi di bambini "stuprati, torturati e confinati illegalmente", ha detto il capo della Commissione d'inchiesta Erik Mose al Consiglio dei diritti umani a Ginevra. "Nei casi su cui abbiamo indagato, l'età delle vittime di violenza sessuale e di genere va dai 4 agli 82 anni. Ci sono stati episodi in cui i parenti sono stati obbligati ad assistere ai crimini" commessi sui loro cari, ha aggiunto, precisando che in diversi casi è stato stabilito che gli autori erano soldati russi.

Francesco Semprini per “la Stampa” il 24 settembre 2022.

Come un velo di Maya, pian piano che la controffensiva libera territori e persone, si alza il sipario sulle atrocità dell'operazione militare speciale ordinata da Vladimir Putin. Stupri, esecuzioni, torture e violenze di ogni genere di cui abbiamo avuto modo di riferire in questi sette mesi di conflitto, e che ora sono certificate dagli osservatori delle Nazioni Unite.  

La stessa organizzazione internazionale che ha sede a New York e nella quale la Federazione Russa è membro permanente con diritto di veto del suo organo esecutivo, il Consiglio di Sicurezza. Azioni sistematiche perpetrate col fine ultimo di «liberare il popolo dal regime nazista», ma che vengono classificate dal Consiglio dei diritti umani come «crimini di guerra».

Le prove raccolte sul campo dalla Commissione d'inchiesta creata lo scorso marzo non lasciano ombra a dubbi. «Sono stati commessi crimini di guerra in Ucraina», ha denunciato il presidente della squadra d'inchiesta, il norvegese Erik Mose, in un primo resoconto verbale. Un cambio di passo inusuale perché in genere le accuse vengono formalizzate nelle aule dei tribunali. Questa volta però i tre esperti indipendenti hanno sentito il senso di urgenza della situazione, sottolineando come le atrocità commesse siano «su vasta scala e hanno evidenze chiare».

Mose, che ha guidato in passato il Tribunale internazionale per i crimini in Ruanda, ha riferito come lui e gli altri due componenti del team di indagine, la bosniaca Jasminka Dumhur e il colombiano Pablo de Greiff, sono rimasti «colpiti» dal gran numero di esecuzioni e dai frequenti «segni visibili sui cadaveri» di violenze «come le mani legate dietro la schiena, le ferite da arma da fuoco alla testa e financo le gole tagliate». Elemento questo che riporterebbe tremendamente alle mattanze dello Stato islamico.

Altrettanto brutale e tragico il quadro delle violenze sessuali, con le vittime di età compresa tra «i 4 e gli 82 anni»: in alcuni casi «sono già stati individuati i responsabili, i soldati russi». Sollevare il velo di Maya è atroce. «Abbiamo documentato un gran numero di crimini contro i bambini, alcuni sono stati stuprati, torturati e detenuti illegalmente». Alle violenze e agli abusi dei russi «talvolta erano costretti ad assistere i familiari» delle vittime.

Come se non bastasse, la Commissione ha trovato le prove dell'uso di ordigni esplosivi «da parte dei russi in zone altamente popolate», che hanno provocato stragi tra i civili. E potrebbe non essere finita qui visto che l'inchiesta è limitata solo ai crimini e agli abusi commessi nelle regioni di Kiev, Chernihiv, Kharkiv e Sumy. In tutto 27 le città e i villaggi ispezionati, 150 i testimoni intervistati, in un lavoro che ha portato gli ispettori sui luoghi delle stragi e nei centri di detenzione.

Due i casi di abusi attribuiti ai soldati ucraini ai danni di quelli russi: «C'è una enorme di differenza tra crimini di guerra su vasta scala da un lato e due casi dall'altro di cui siamo a conoscenza», ha sottolineato de Greiff. Mose ha assicurato che l'inchiesta andrà avanti, in primis con l'analisi delle fosse a Izyum scoperte dopo la riconquista della città da parte della controffensiva di Kiev. Ieri il governatore regionale ha annunciato che sono stati esumati 436 corpi, trenta dei quali «con segni di tortura».

Il rappresentante ucraino a Ginevra, Anton Korynevych, ha definito le conclusioni preliminari «un importante pietra miliare» nel percorso per incriminare la Russia e il suo leader. Il rappresentante di Mosca non ha partecipato all'incontro, né ha commentato il rapporto della Commissione. Mose ha riferito alcuni dettagli delle atrocità: «I bambini sono anche stati uccisi e feriti in attacchi indiscriminati con armi esplosive».  

Dalle testimonianze raccolte, il capo della Commissione ha detto che «gli interlocutori hanno descritto percosse, scosse elettriche e nudità forzata, oltre ad altri tipi di violazioni in questi luoghi di detenzione». Dopo essere stati trasferiti in carcere in Russia, alcune vittime sarebbero scomparse, ha aggiunto. 

A questo si aggiunge il dramma dei desaparecidos, persone scomparse e forse deportate. Tra questi i minori portati in Crimea, ragazzini dai 13 anni in su, trasferiti più o meno coattamente alla metà di agosto, con la garanzia che sarebbero tornati per l'inizio della scuola, «ai primi di settembre». Il velo di Maya nasconde ancora atrocità da scoprire. 

Il dossier dell'Onu sulle atrocità del conflitto: "Bimbi stuprati e uccisi, esecuzioni e torture". I primi risultati della commissione d'inchiesta: "Crimini su vasta scala". Andrea Cuomo il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.

Bombardamenti su civili, torture, violenze sessuali, esecuzioni. «Sulla base delle prove raccolte dalla Commissione d'inchiesta, questa ha concluso che sono stati commessi crimini di guerra in Ucraina». Lo ha dichiarato ieri, in un primo resoconto al Consiglio del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, Erik Mose, presidente della commissione istituita a maggio per investigare sui crimini di guerra commessi in Ucraina dall'inizio dell'invasione russa lo scorso 24 febbraio.

La mossa di Mose è abbastanza irrituale. Di solito le accuse vengono formalizzate in tribunale, ma la dimensione clamorosa delle malefatte russe in Ucraina hanno spinto il presidente della commissione a uno spoiler eclatante dei risultati, che non sembrerebbero dare adito a dubbi: le atrocità commesse sono «su vasta scala e chiare». E l'elenco è incompleto, per il momento l'inchiesta si occupa dei soli abusi commessi nelle regioni di Kiev, Chernihiv, Kharkiv e Sumy. Le città e i villaggi ispezionati sono stati solo 27 e 150 i testimoni intervistati nei luoghi delle stragi e nei centri di detenzione. Mose ha annunciato l'intenzione di andare avanti con l'inchiesta, a partire dall'analisi delle fosse comuni a Izyum scoperte dopo la riconquista della città da parte delle forze ucraine e dalle quali finora sono stati esumati 436 corpi, 30 dei quali «con segni di tortura».

Mose, il norvegese che ha guidato in passato il Tribunale internazionale per i crimini in Ruanda, ha riferito che lui e gli atri due componenti del team di indagine, la bosniaca Jasminka Dumhur e il colombiano Pablo de Greiff, sono rimasti «colpiti» dal gran numero di esecuzioni e dai frequenti «segni visibili sui cadaveri, come le mani legate dietro la schiena, le ferite da arma da fuoco alla testa e le gole tagliate».

Per quanto riguarda gli abusi sessuali, ne sono stati documentati moltissimi, con vittime di età compresa tra «i 4 e gli 82 anni». In alcuni casi «sono già stati individuati i responsabili, i soldati russi». Sotto attacco anche l'infanzia. «Abbiamo documentato un gran numero di crimini contro i bambini, alcuni sono stati stuprati, torturati e detenuti illegalmente», riferisce la commissione. Alle violenze e gli abusi dei russi «talvolta erano costretti ad assistere i familiari» delle vittime. Poi ci sono i bombardamenti indiscriminati, con prove evidenti dell'uso di ordigni esplosivi «da parte dei russi in zone altamente popolate», che hanno provocato stragi tra i civili.

Naturalmente la commissione si è occupata anche dei crimini di segno opposto, quelli cioè commessi dagli ucraini ai danni dei russi. Ebbene, sono solo due al momento i casi di abusi attribuiti ai soldati ucraini ai danni di quelli russi. E ieri in rete sono circolate le foto di Mykhailo Dianov, un soldato ucraino che è uscito vivo dalla prigionia russa: il primo mostra un militare sano e in piena forma, il dopo un corpo scheletrico come nelle foto scattate nel 1945 ai reduci dai campi di concentramento tedeschi. La convenzione di Ginevra? Carta straccia.

Criminali di guerra. La Russia sta deportando un gran numero di ucraini (nel silenzio generale). Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

Attraverso i campi di filtraggio creati nei territori occupati, il Cremlino ha detenuto o portato fuori dal Paese donne, uomini e bambini accusati di aver collaborato con la resistenza di Kyjiv. Secondo le stime più affidabili, ad aver subito questa violazione dei diritti umani sono state finora tra 900mila e 1,6 milioni di persone.

«Le autorità russe devono rilasciare le persone detenute e consentire ai cittadini ucraini deportati con la forza, o costretti a lasciare il loro Paese, la possibilità di tornare a casa il più presto possibile e in sicurezza. Chiediamo alla Russia di fornire a osservatori indipendenti esterni l’accesso alle cosiddette strutture di filtraggio e alle aree di trasferimento forzato in Russia». Il messaggio è firmato dal segretario di Stato americano Antony J. Blinken, in una dichiarazione che si può leggere sul sito del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Secondo stime provenienti da diverse fonti, compreso lo stesso governo russo, le autorità di Mosca hanno interrogato, detenuto o espulso con la forza un gran numero di cittadini ucraini, si pensa tra i 900mila e gli 1,6 milioni. Tra loro ci sarebbero anche 260mila bambini. Persone estromesse dalle loro case e deportate in Russia, spesso in regioni isolate dell’Estremo Oriente.

Le deportazioni della popolazione ucraina sarebbero operazioni premeditate, studiate e già testate, paragonabili ad altre già messe in atto dal Cremlino in Cecenia e in altre regioni, secondo il Dipartimento di Stato americano, che dice di aver identificato 18 campi di filtraggio allestiti lungo il confine.

«Le decisioni del presidente Putin stanno separando famiglie, confiscando passaporti ucraini e rilasciando passaporti russi nell’apparente sforzo di cambiare la composizione demografica di parti dell’Ucraina», scrive Blinken.

Il Segretario di Stato americano ha descritto i trasferimenti come «una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili» e «un crimine di guerra». Ma la stessa Russia ha riconosciuto che 1,5 milioni di ucraini si trovano ora sul suo territorio, dicendo però che sono stati evacuati per questioni di sicurezza. Mosca nega di aver costretto gli ucraini a lasciare le loro case e dice di fornire assistenza umanitaria e passaggio sicuro alle persone che vogliono lasciare il Paese: li avrebbero allontanati di migliaia di chilometri dalle loro case, nella nazione che ha attaccato la loro, per salvarli.

Già lo scorso marzo, il ministro degli Esteri britannico Liz Truss aveva denunciato il «rapimento e la deportazione» di ucraini dalla città assediata di Mariupol, paragonando le operazioni dell’armata russa a quelle della Germania nazista.

Ad aprile, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno aveva fatto lo stesso: «Le notizie che giungono dall’inferno ucraino riportano di centinaia di cittadini deportati in territorio russo, mentre la lista dei crimini contro l’umanità si allunga giorno dopo giorno. Scene di distruzione e termini orribili che pensavamo di aver rimosso dal nostro linguaggio e rilegato nelle pagine più buie della Storia».

L’Economist ha offerto una prospettiva su questa vicenda partendo dal caso di un fornaio di Bucha di nome Matviy. «Quando lo scorso marzo è iniziato l’assalto al sobborgo poco distante da Kyjiv, in cui è stato perpetrato un massacro, Matviy è rimasto ad aiutare i suoi vicini. Il 18 marzo i soldati russi hanno fatto irruzione nella sua casa e lo hanno portato via. La polizia, i pubblici ministeri e le organizzazioni per i diritti umani dell’Ucraina non sono stati in grado di aiutare», scrive l’Economist.

Ma Bucha è solo la punta dell’iceberg. I numeri delle deportazioni sono altissimi e comprendono attivisti, giornalisti e operatori umanitari. I giornalisti Serhey Tsyhipa e Oleh Baturin, ad esempio, sono stati sequestrati il 12 marzo mentre riferivano di atrocità commesse dalle forze russe. E Tsyhipa dopo giorni è apparso sulla tv di Stato russa con un aspetto malmesso e in cattive condizioni di salute, ripetendo qualcosa impostagli dalla propaganda del Cremlino.

Il 21 aprile scorso 308 rifugiati provenienti da Mariupol sono arrivati a Nachodka, una città dell’estremo oriente russo, poco distante da Vladivostok, di fronte al Giappone. Come riportava Meduza in quei giorni, prima del loro arrivo, il governo regionale ha riferito che c’erano più di 1.700 posti di lavoro vacanti per i rifugiati di Mariupol in più di 200 organizzazioni. Una settimana prima dell’arrivo dei rifugiati, l’ufficio stampa del ministero per lo Sviluppo dell’estremo oriente e dell’artico russo aveva annunciato che c’erano ben 62mila posti vacanti elencati nel database del Servizio per l’impiego di Primorsky e che gli specialisti stavano già offrendo lavoro ai rifugiati. Ma una fonte a conoscenza della situazione aveva detto che la maggior parte dei rifugiati provenienti da Mariupol non è riuscita a trovare lavoro.

«Le sparizioni in Ucraina non sono una storia nuova», si legge sull’Economist, facendo riferimento a operazioni codificate ben prima dell’invasione del 24 febbraio. «Tra il 2014 e il 2021 sono scomparse oltre 2mila persone: erano implicate sia le forze filo-russe che i servizi di sicurezza ucraini. La Russia ha dispiegato queste tattiche terroristiche per decenni. Dopo aver annesso la Crimea nel 2014, attivisti tartari di Crimea e leader della comunità sono scomparsi a frotte. Durante le due guerre russe in Cecenia negli anni ’90, le sparizioni erano così diffuse che Human Rights Watch le aveva denunciate come crimine contro l’umanità».

Alcuni deportati fuggiti da questi cosiddetti “campi di filtraggio” hanno parlato con il New York Times e altri organi di stampa fornendo descrizioni e resoconti di interrogatori, percosse e torture riservate agli ucraini, specialmente a chi ha legami con le forze armate del Paese: chi ha combattuto con l’Ucraina o ha legami con il reggimento Azov viene separato dagli altri e spesso scompare per sempre.

Diversi funzionari europei hanno denunciato l’allestimento di questi luoghi in scuole, centri sportivi e istituzioni culturali disseminati in quei territori dell’Ucraina recentemente conquistati dalle forze russe. Michael Carpenter, l’ambasciatore degli Stati Uniti all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), lo scorso maggio aveva parlato di «interrogatori brutali» e denunciato deportazioni nell’ordine di almeno decine di migliaia di persone.

Le famiglie spezzate dalla brutalità dei metodi russi stanno facendo di tutto per riavere indietro i propri cari. Kyjiv riesce a far molto poco in merito, le istituzioni internazionali ancora non hanno trovato il modo di fermare le operazioni. La denuncia di Blinken della settimana scorsa non era la prima né sarà l’ultima su questo tema. Ma al momento la risposta occidentale a questa forma di offensiva criminale è ancora troppo debole.

Dalla Cecenia all’Ucraina, venti anni di crimini impuniti. I Radicali italiani appoggiano l’iniziativa dei ceceni di Zakayev per l’incriminazione di Putin alla Corte dell’Aja. MASSIMILIANO IERVOLINO E SILVJA MANZI, SEGRETARIO E MEMBRO DIREZIONE DI RADICALI ITALIANI, su Il Dubbio il 13 luglio 2022.

La guerra nel cuore dell’Europa che da oltre 4 mesi occupa i nostri discorsi, le trasmissioni tv, le pagine dei giornali, i post sui social, per molti – analisti compresi – è stato un fulmine a ciel sereno. Non si poteva credere che Vladimir Putin avrebbe sferrato un attacco così clamoroso e feroce. Incredibile, perché, al contrario, ogni passo del tiranno russo portava esattamente dove siamo. Sarebbe bastato leggere le sue azioni senza le lenti della realpolitik e leggerle avrebbe, anche, significato poterla evitare questa guerra. Era, infatti, tutto scritto.

Oggi i libri di Anna Politkovskaja sono in cima alle classifiche di vendita. Forse leggerli all’epoca in cui furono scritti sarebbe stata una scelta saggia. Parlava, Politkovskaja, di Cecenia, della guerra che l’aveva distrutta e di come Putin, grazie a quella guerra, aveva costruito la sua fortuna politica. Parlava, Politkovskaja, di come Putin stava parallelamente costruendo un regime letteralmente fascista. Lo denunciava, inascoltata ( salvo radicali eccezioni). E per questo venne uccisa. Guarda caso nel giorno del compleanno di Putin. E siccome l’occidente democratico non voleva vedere, l’unico politico occidentale a recarsi al suo funerale fu Marco Pannella che, con i radicali, aveva visto e previsto.

La Cecenia è la chiave per capire come Putin ragiona e si muove, lo scopo delle sue azioni – per rafforzare il suo potere tanto all’interno quanto sulla scena internazionale – e il metodo con cui le ha portate avanti. Come si sa, nel 2001 l’attacco alle Torri Gemelle aveva portato a una lotta internazionale contro il terrorismo, e Putin aveva immediatamente colto la palla al balzo. I ceceni erano tutti terroristi e per questo andavano distrutti. In un ribaltamento della realtà analogo a quello che oggi dipinge gli ucraini come nazisti. Nella sua personale campagna contro i “terroristi” ceceni, Putin aveva ottenuto il sostegno dei Paesi “civili”, che si era tradotto nel silenzio. Il silenzio rispetto alle sue azioni palesemente criminali. «Perseguiteremo dappertutto terroristi, e quando li troveremo… li butteremo dritti nella tazza del cesso».

Questo diceva Putin e questo ha pervicacemente perseguito. La Cecenia è stata il suo banco di prova. Tutto quello che ha fatto allora l’ha riproposto, esattamente negli stessi termini criminali, in Georgia, in Siria, nel Donbass prima e ora in tutta l’Ucraina. Sempre la stessa strategia, sempre le stesse modalità. Stupri, fosse comuni, uccisioni a bruciapelo, obiettivi civili, distruzione totale di città. La Cecenia è stato un Paese raso al suolo e la sua leadership – l’ultima riconosciuta dalla comunità internazionale – sostituita da un governo fantoccio e tirannico. Noi radicali abbiamo, in quegli anni, imbastito una lunga e solitaria campagna per sostenere il piano di pace elaborato dal governo ceceno in esilio, che chiedeva un’amministrazione controllata delle Nazioni Unite; dicevamo che se si fosse lasciata la Cecenia al destino impostole da Putin il problema del terrorismo sarebbe esploso e non risolto. Abbiamo, allora, sollecitato tutte le cancellerie europee; organizzato conferenze di membri del governo in esilio ( in particolare Umar Khanbiev, iscritto e dirigente del Partito Radicale); fatto intervenire alla Commissione Onu Diritti umani il parlamentare ceceno Akhyad Idigov, che portava testimonianze precise dei crimini perpetrati dai russi (e per questo la Russia chiese, perdendo, l’espulsione del Partito Radicale dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite); organizzato manifestazioni, scioperi della fame iniziative parlamentari… ma i ceceni erano “terroristi” e se Putin li avesse schiacciati sarebbe stato un prezzo giusto da pagare. Il prezzo di quel cinismo sono stati 100.000 morti e la creazione di un vero e proprio laboratorio di un terrorismo da esportazione.

Di quell’ultimo gruppo dirigente ceceno democratico oggi è ancora attivo – e naturalmente sempre in esilio – Akhmed Zakayev, primo ministro della non riconosciuta Repubblica Cecena di Ichkeria, e in questa veste è stato invitato in Italia da Radicali Italiani. Intervistato anche dal Dubbio, Zakayev ha incontrato alla Farnesina il sottosegretario agli Affari Esteri Benedetto Della Vedova, ha partecipato a una conferenza alla Camera, ha incontrato numerosi giornalisti. Zakayev ha oggi ricevuto un’attenzione a cui venti anni fa non siamo mai riusciti nemmeno lontanamente ad arrivare. È stato possibile per via della guerra sferrata da Putin all’Ucraina. Perché oggi non è più possibile voltarsi dall’altra parte e anche i ceceni sono diventati degli interlocutori credibili.

Per sostenere la lotta di liberazione ucraina i ceceni di Zakayev stanno portando avanti un’iniziativa per l’incriminazione di Putin alla Corte Penale internazionale anche per i crimini commessi in Cecenia. Il nostro appello “Putin all’Aja” ( che si può firmare su www. radicali.it) va in questa direzione: Putin va al più presto incriminato e giudicato per i crimini commessi in ogni luogo dove ha portato terrore e morte. Non può esserci nessuna soluzione del conflitto senza riconoscerne giuridicamente le responsabilità. La pace per l’Ucraina arriva necessariamente da questo passaggio. E con la pace dell’Ucraina può, finalmente, arrivare pace anche per la Cecenia.

Gli italiani, la pace e i silenzi sui crimini di Mosca. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.  

Decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze russe, della deportazione di 300.000 bambini 

Ma si troverà prima o poi qualcuno in Italia disposto a spendere il proprio nome chiamando certe cose con il loro nome? Si troverà pure prima o poi qualche pensoso intellettuale, qualche celebre attore o accademico, qualche eminente prelato noto alle cronache o almeno qualche conduttore di talk show, disposto a parlare chiaro e a dire che quello che le autorità russe stanno facendo in Ucraina è qualcosa che prima di oggi solo Hitler e Stalin avevano osato fare? Magari auspicando anche un tribunale per giudicare le loro colpe? Non parlo della guerra che Putin ha scatenato il 24 febbraio. La guerra, si sa, è una sporca faccenda in cui non si va per il sottile. Sono sacrosanti i tentativi di darle qualche regola, naturalmente, ma bisogna rassegnarsi al fatto che il più delle volte queste regole lascino il tempo che trovano. Nulla e nessuno, ad esempio, riuscirà mai ad impedire ad un belligerante l’uso di un’arma cosiddetta «proibita» (tipo le bombe a grappolo che i russi infatti impiegano con la massima disinvoltura) se non il timore che pure l’avversario impieghi la medesima arma contro di lui.

Ma qui si tratta di cose diverse, di cose che con la guerra, con lo scontro tra i combattenti non c’entrano nulla. Qui si tratta di decine e decine di casi di uccisioni per rappresaglia di civili ucraini inermi al di fuori di qualunque scontro militare in atto. Di sparizioni nel nulla (quindi di presumibili soppressioni) di autorità locali delle città ucraine occupate dalle forze di Mosca.

Di un feroce e radicale tentativo di snazionalizzazione di tutti i territori occupati, a base di libri in lingua ucraina proibiti e distrutti, del divieto di istruzione nelle scuole secondo i programmi fin qui adottati, di soppressione di tutti i mezzi di comunicazione (radio, tv, telefonia) e di connessione che non siano quelli russi. E si tratta infine — fatto di una crudeltà inimmaginabile, repugnante ad ogni animo umano — della deportazione in Russia non si capisce a qual fine (semplicemente per privare di forze future il nemico? Per «rieducarli»? Per darli in adozione?) di migliaia e migliaia (c’è chi dice trecentomila!) bambini ucraini. Si badi: di ognuna di queste azioni compiute dalle autorità russe vi sono troppe notizie circostanziate, troppe prove raccolte sul campo, troppe testimonianze dirette, perché si possa nutrire un ragionevole dubbio su quello che è il dato centrale: nei territori dell’Ucraina che occupa, Mosca sta mettendo in atto una vera e propria politica di tipo genocidiario mirante alla cancellazione di fatto dell’identità nazionale di quel popolo. Una politica del tutto analoga a quella che la Germania nazista mise in atto, ad esempio, durante la Seconda Guerra mondiale nella parte di Polonia occupata che intendeva annettere. Non si prefigge del resto oggi il medesimo scopo Putin?

Ebbene, ma se questo è vero bisogna allora dire alto e forte che è inutile, addirittura grottesco, che un Paese coltivi in tutte le occasioni la sua memoria antifascista, celebri ogni anno la «giornata della memoria» e la «giornata del ricordo», non cessi di evocare ad ogni occasione le colpe di chi contro le infamie del totalitarismo ottanta anni fa «doveva parlare ma non parlò», per poi oggi osservare, invece, un sostanziale silenzio su quanto sta accadendo dalle parti del Donbass e dintorni.

Sì, come avete capito, quel Paese è l’Italia. Siamo noi. Come è possibile che il nostro discorso pubblico ma anche quello culturale e religioso (certo, anche quello culturale e religioso) avvezzi così tanto a frequentare i diritti umani, la legalità, la solidarietà, la giustizia, preferiscano però discettare magari sulla «pace» ma di fatto continuino da settimane a non dire nulla circa i crimini su grande scala che la Russia sta commettendo in Ucraina? L’unica speranza di fermare i quali è invece che se ne parli, che se ne parli molto (in modo tra l’altro che Sua Eccellenza l’ambasciatore Razov informi adeguatamente il suo governo) e forse che non ci si limiti a parlare. Ma magari anche per auspicare che gli organi di giustizia internazionale si attivino maggiormente per raccogliere prove e nomi di sospetti criminali russi, di responsabili russi, da trascinare domani in giudizio come si fece ottanta anni fa in una città tedesca che tutti sappiamo come si chiamava.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.

Che cos'è un genocidio? Quante persone devono essere uccise perché sia considerato tale? Il termine nasce dall'unione del prefisso geno-, dal greco razza o tribù, con il suffisso -cidio, dal latino uccidere. 

A coniare la parola fu l'avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin che nel 1944 cercava di descrivere le politiche naziste di sterminio sistematico degli ebrei. Nel 1945 il termine fu inserito per la prima volta nell'atto d'accusa del Tribunale di Norimberga contro i crimini commessi dai nazisti ma senza un autentico valore legale.

Il 9 dicembre del 1948, poi, le Nazioni Unite approvarono la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, introducendo il reato che viene così descritto: «Atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». 

Sin dagli anni '50 sono state presentate numerose proposte di modifica della definizione che viene considerata da molti insufficiente perché, per esempio, non include i gruppi politici e sociali perseguitati. Il reato, tra l'altro, è anche difficile da provare perché serve «una motivazione mentale» a commettere l'eccidio.

Francesca Mannocchi per “La Stampa” il 14 aprile 2022.  

L'aveva definito un uomo brutale, poi un criminale di guerra, infine due giorni fa il presidente Joe Biden, in quella che la CNN ha definito «una drammatica escalation retorica nella visione degli Stati Uniti di ciò che sta accadendo in Ucraina» ha definito gli atti compiuti da Putin in Ucraina un genocidio.

Durante il comizio in una fabbrica di etanolo in Iowa, dopo aver incolpato Putin dell'aumento del prezzo del carburante, ha detto: «Il budget familiare, la capacità dei cittadini di riempire i loro serbatoi, non dovrebbero dipendere dal fatto che un dittatore dichiari guerra e commetta un genocidio dall'altra parte del mondo» ribadendo che nelle ultime settimane sia diventato sempre più chiaro che Putin sta cercando di spazzare via l'idea di poter essere ucraino.

Si riferiva alle immagini di Bucha, ai crimini che emergono ad ogni città e villaggio liberati dalle forze ucraine. Dichiarazioni, quelle di Biden, particolarmente significative perché gli Stati Uniti sono storicamente riluttanti a usare la parola genocidio, e come ha recentemente sottolineato il segretario di Stato Antony Blinken in riferimento al massacro di civili da parte delle forze militari in Myanmar, era solo l'ottava volta nella storia che gli Stati Uniti stabilivano che si fosse verificato un genocidio.

Delle dichiarazioni di Biden si è immediatamente rallegrato il presidente Volodymyr Zelensky, «chiamare le cose col loro nome è fondamentale per resistere al male», ha scritto. Ha invece preso le distanze, ieri, Macron che ha invitato alla prudenza rifiutando quella che ha definito una «escalation delle parole».

Erano stati cauti anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il segretario di Stato americano Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan compatti sull'idea che stiamo assistendo ad atrocità e crimini di guerra ma - per dirla nelle parole di Sullivan - «non abbiamo ancora visto un livello di privazione sistematica della vita del popolo ucraino salire al livello di genocidio».

Lo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte penale internazionale (CPI) nel 2002, definisce genocidio gli «atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», in quanto tale, il genocidio è uno specifico crimine di guerra che è più grande dell'uccisione illegale di civili, la legge richiede la prova dell'intento di distruggere il gruppo e molti giuristi sono scettici sulla effettiva capacità di poter provare la responsabilità del genocidio.

È cauto anche Jonathan Leader Maynard, docente di politica internazionale al King' s College di Londra, dove si occupa di genocidio e dinamiche ideologiche della violenza politica. 

Maynard è cauto nell'esprimere giudizi sulla violenza mentre è ancora in corso: «Sappiamo che le forze russe hanno commesso atrocità ma non possiamo stimare in modo affidabile la loro portata esatta.

Abbiamo segnali allarmanti di una possibile pianificazione per i massacri di civili, compresi i primi rapporti dell'esercito russo che trasferisce crematori mobili in Ucraina, ma molti dettagli rimangono non confermati. 

Non sappiamo praticamente nulla degli effettivi ordini dietro le uccisioni specifiche di civili e stiamo solo iniziando a capire quanto sia stata organizzata e sistematica la violenza. Non è un caso che le principali Ong responsabili del monitoraggio dell'occorrenza e dei rischi di genocidio - come GenocideWatch o Early Warning Project of the United States Holocaust Memorial Museum - non abbiano ancora emesso un avviso di rischio di genocidio per l'Ucraina» scrive su Just Security, centro per l'analisi della sicurezza nazionale, della politica estera e dei diritti presso la New York University School of Law.

È vero - in sintesi - che siano stati commessi dei crimini di guerra da parte dell'esercito russo, che è necessario trovare i responsabili e fare sì che paghino, ma per parlare di genocidio sarebbe troppo presto. I cauti - politici e giuristi - sanno che l'escalation delle parole non serve alla causa della negoziazione, che accuse di questo tipo a conflitto in corso hanno storicamente dimostrato di prolungare e esacerbare la battaglia anziché aiutare la pace, soprattutto sanno che è difficile, se non impossibile, provare l'intento genocidario in Ucraina.

Inoltre, riconoscere una campagna di genocidio in Europa, significherebbe per la comunità internazionale un obbligo di azione. Ecco forse la ragione della cautela. 

Diversa la posizione di Bohdan Vitvitsky, che ha servito come consulente legale presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Kiev e ha lavorato come procuratore federale negli Stati Uniti - ha meno dubbi e meno cautela, e ritiene che i crimini dell'esercito russo in Ucraina rispecchino chiaramente e senza ambiguità il linguaggio genocida di Putin e dei suoi propagandisti.

In un intervento sull'Atlantic Council di pochi giorni fa ha sottolineato come da anni Putin metta in dubbio la legittimità della statualità ucraina, insistendo sul fatto che gli ucraini siano davvero russi, e sostenendo che l'intera nozione di un'Ucraina separata dalla Russia sia stata creata artificialmente da potenze straniere. 

Vitvisky ripercorre le affermazioni di Putin a partire dal saggio del 2021 "Sull'unità storica di russi e ucraini", il cui il presidente russo nega l'esistenza della nazione ucraina. Il saggio, non casualmente, è stato reso lettura obbligatoria per tutti i membri dell'esercito. «Il messaggio all'esercito invasore - scrive Vitvisky - non avrebbe potuto essere più chiaro: l'Ucraina è uno stato illegittimo e tutti gli ucraini che insistono diversamente sono traditori e nemici della Russia che dovrebbero essere trattati in modo appropriato».

Vitvisky analizza i discorsi di Putin del 2022, pensati per giustificare l’invasione. Putin passa a definire gli ucraini neo-nazisti e tossicodipendenti e promette di denazificare il paese. I media russi lo seguono e cominciano a predicare il genocidio. 

Quando emergono le immagini dell'eccidio di Bucha l'agenzia statale russa Ria Novosti pubblica un articolo titolato "Cosa la Russia dovrebbe fare con l'Ucraina", articolo che spiega in sostanza che de-nazificare significhi de-ucrainizzare, la stessa indipendenza del paese viene denunciata come un atto criminale e nazista.

«Denazificazione», scrive Ria Novosti, «è inevitabilmente anche deucrainizzazione». Questa è la classica ideologia genocida: corrisponde ai tipi di giustificazioni che si trovano nell'Olocausto, nel genocidio ruandese, nel genocidio armeno e in tutti gli altri casi principali. 

Nonostante questa campagna mediatica massiccia e sempre più spregiudicata, molti funzionari e diplomatici rimangono prudenti, ma, scrive ancora Bohdan Vitvitsky, «credo che sia un genocidio così sfacciato che gli autori ne hanno effettivamente pubblicizzato le intenzioni in anticipo. Se milioni di ucraini ora muoiono a causa dell'inazione internazionale, nessuno può affermare di non saperlo».

Crimini di guerra e genocidio, qual è la differenza? Il Dubbio il 13 aprile 2022. Biden accusa Putin di genocidio, Macron invita alla prudenza. Intanto la Corte penale internazionale è a lavoro: ecco come si classificano queste categorie di crimini. La scheda

Per il presidente Usa Joe Biden, in Ucraina le truppe russe stanno commettendo un genocidio e la stessa accusa nei confronti di Vladimir Putin è stata mossa dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha invitato alla prudenza, perché ritiene che una «escalation delle parole» non contribuisca all’obiettivo di fermare la guerra e cercare la pace, ma ha insistito sul fatto che l’esercito russo ha commesso «crimini di guerra». Il tutto mentre l’Ue fa sapere che contribuirà alle indagini e farà di tutto «per punire i responsabili dei crimini di guerra in Ucraina».

L’organismo competente per giudicare queste categorie di crimini è la Corte internazionale di giustizia (Icc/Cpi), con sedeall’Aja. Né la Russia né l’Ucraina ne fanno parte, tuttavia Kiev ha accettato la giurisdizione della Corte per i crimini commessi sul suo territorio a partire dall’invasione russa della Crimea, nel 2014. È sulla base di questo “via libera” che lo scorso 3 marzo la Cpi ha aperto un’indagine su sospetti crimini di guerra compiuti in Ucraina. Ecco qual è la differenza tra le varie categorie che rientrano nelle competenze della Cpi, ovvero crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Di recente è stata inoltre istituita una nuova categoria, il crimine di aggressione.

Crimini di guerra

I crimini di guerra sono gravi violazioni del diritto internazionale contro civili e combattenti durante i conflitti armati. I parametri per individuare ciò che costituisce un crimine di guerra sono individuati dall’articolo 8 dello Statuto di Roma del 1998, che ha istituito la Cpi: si tratta di «gravi violazioni» delle Convenzioni di Ginevra del 1949, ovvero oltre 50 ipotesi di reato, tra le quali uccisioni, torture, stupri e presa di ostaggi, nonché attacchi a missioni umanitarie. L’articolo 8 riguarda anche gli attacchi deliberati contro civili o «città, villaggi, abitazioni, edifici che sono indifesi e che non sono obiettivi militari» nonché la «deportazione o trasferimento di tutta o parte della popolazione» di un territorio occupato. Le autorità ucraine affermano di aver finora ricevuto 5.600 denunce di presunti crimini di guerra da parte delle forze russe dall’inizio dell’invasione il 24 febbraio.

Crimini contro l’umanità

La nozione di tale reato è stata formulata per la prima volta l’8 agosto 1945 e codificata nell’articolo 7 dello Statuto di Roma. Implica «un attacco diffuso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile», inclusi «omicidio» e «sterminio», nonché la «riduzione in schiavitù» e la «deportazione o il trasferimento forzato». I crimini contro l’umanità possono verificarsi in tempo di pace e includono torture, stupri e discriminazioni, siano esse razziali, etniche, culturali, religiose o di genere.

Genocidio

Il genocidio come concetto legale risale ai processi di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti. Il termine è stato coniato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin per descrivere lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei. Il reato di genocidio è stato formalmente creato nella Convenzione sul genocidio del 1948 per descrivere «atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il genocidio è un «crimine internazionale molto specifico» che è difficile da provare, ha precisato Cecily Rose, professoressa di diritto internazionale all’Università di Leiden nei Paesi Bassi, perché richiede la prova della «motivazione mentale» dietro di esso. Tra i crimini riconosciuti come genocidio c’è quello commesso nel 1994 in Ruanda ai danni dei tutsi e degli hutu moderati.

Crimine di aggressione

Nel 2017 la Cpi ha aggiunto il crimine di aggressione al suo mandato che riguarda gli attacchi alla «sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica» di un altro Paese. Il reato mira a garantire che i leader politici e militari siano ritenuti responsabili delle invasioni, ma non può essere utilizzato contro le decine di membri della Cpi che non hanno riconosciuto la giurisdizione del tribunale, né contro i non membri. I giuristi ritengono che invocare questo crimine nei confronti del presidente russo potrebbe richiedere l’istituzione di un tribunale speciale per l’Ucraina.

CRIMINI DEGLI UCRAINI. GLI SCUDI UMANI.

“In Ucraina civili come scudi umani”. E in Amnesty scoppia il caos. Bianca Leonardi su Nicolaporro.it il 7 Agosto 2022.

Quando i buoni diventano cattivi all’occorrenza: così potrebbe essere descritta l’apocalisse che sta vivendo Amnesty International a seguito dell’ultimo report che denuncia le forze ucraine di aver infranto il diritto umanitario internazionale. Nello specifico, l’Ong fin dall’inizio si è sempre mostrata incline all’Ucraina e ha, addirittura, qualche mese fa, presentato un’inchiesta – frutto di mesi di lavoro sul posto – che riportava le prove dei crimini di guerra commessi nella città ucraine dai russi.

L’invito, immediatamente accolto dal presidente Zelensky, era quello di incalzare la Corte Penale Internazionale avviando così le indagini e, successivamente, i processi. Ad oggi, Amnesty International è firmataria di un altro report: non diverso da quelli che ha sempre realizzato in tutte le zone di conflitto nel mondo, ma pericolosamente diverso per l’Ucraina. Il quadro che viene riportato indica infatti come l’esercito ucraino avrebbe utilizzato i civili come scudi umani, mettendo in pericolo la popolazione civile in quanto i soldati avrebbero posizionato le armi in luoghi come scuole, abitazioni ed ospedali. I soldati di Kiev, quindi, hanno trasformato obiettivi civili in obiettivi militari, violando il diritto internazionale,  massacrando volutamente il proprio popolo – aggiungiamo noi, ammessa la veridicità del dossier.

E se sui crimini di guerra dei russi non si è aperta nessuna voragine, la denuncia nei confronti di Kiev ha portato a un vero e proprio terremoto politico. In primis da parte di Zelensky che non ha fatto segreto della sua rabbia, fino all’indignazione dei vertici ucraini che hanno affermato che “il gruppo per i diritti umani ha cercato di spostare la responsabilità dall’aggressore alla vittima”. Ed è così che Amnesty International è diventata improvvisamente filoputin, motivo per cui il dirigente ucraino della Ong, Oksana Pokalchunk ha deciso (spontaneamente?) di dimettersi, accusando la sua ormai ex organizzazione di fare il gioco della propaganda del Cremlino.

Inoltre, Pokalchunk ha dichiarato anche che Amnesty “ha diffuso una dichiarazione che suona come un sostegno alla narrativa russa”, aggiungendo: “Ho cercato di avvertire l’alta dirigenza di Amnesty che il rapporto era unilaterale e non aveva tenuto adeguatamente conto della posizione ucraina ma è stata ignorata”. Dichiarazioni che sembrerebbero dimostrare le pressioni di Kiev sui funzionari, in modo da tenere tutto in equilibrio per non “sporcarsi mai le mani”, nonostante in una guerra sia impossibile non farlo. Il tentativo di avvertire preventivamente i piani alti di Amnesty e la richiesta di Pokalchuk di “tenere in considerazione la posizione ucraina” fanno ben pensare al controllo smisurato in cui Kiev si impegna per far vedere al mondo la bontà, l’altruismo e il coraggio: i lasciapassare di cui – probabilmente – il miope occidente ha bisogno per giustificare le scelte che giornalmente intraprende.

Ed è così che la dittatura dei buoni fa breccia, e non è la prima volta. Lo scorso anno si era presentata la stessa dinamica dopo che Amnesty aveva deciso di smettere di definire Navalny come “prigioniero di coscienza”. Agli ucraini questa scelta non era piaciuta, essendo Navalny il più celebre oppositore del Cremlino, tanto che, dopo infinite pressioni, la Ong è dovuta tornare sui propri passi. Questa volta Amnesty dichiara, però, che “essere in una posizione difensiva non esonera l’esercito ucraino dal rispetto del diritto umanitario internazionale”, andando contro a testa alta al governo di Kiev che ha duramente respinto il rapporto definendolo addirittura “una perversione”.

A prescindere dalle idee sullo scontro bellico sembrerebbe palese – e pericoloso – la strategia messa in atto dalle forze di Zelensky, fatta di un oscurantismo più totale su tutto ciò che non premia l’operato di Kiev, di intimidazioni presentate come “pressioni” e di controllo totale su quell’immagine che, da una parte dalla stessa Ucraina per non deludere i partner, dall’altra dall’Occidente, sembra essere stata costruita ad hoc. Se già c’erano dubbi sull’atteggiamento di un’Ucraina solo vittima e mai colpevole – nella visione, oggettivamente utopica, che viene promossa per cui in una guerra c’è un solo innocente e un solo colpevole – questa vicenda non può che confermare, almeno in questo caso, una dubbia gestione della tanta sbandierata democrazia. Una democrazia che vale solo per i prescelti e che, quindi, sembrerebbe tendere inevitabilmente a prendere le sembianze di un’azione totalitaria a tutti gli effetti. Non si dice, ci hanno insegnato, ma i fatti questa volta parlano chiaro. Bianca Leonardi, 7 agosto 2022 

Mirko Molteni per “Libero Quotidiano” il 5 agosto 2022.

Da mesi i russi ripetono che gli ucraini dispongono truppe e armi presso case, scuole, ospedali, usando i civili come "scudi umani", ma col risultato d'aumentare le "vittime collaterali" dei raid. Ora si schiera con la versione di Mosca anche Amnesty International, che ha pubblicato ieri un'inchiesta, condotta da aprile a luglio fra Kharkiv, Donbass e Mykolaiv e corroborata da foto satellitari. 

Vi si legge: «Le forze ucraine hanno messo in pericolo i civili collocando basi e usando armi in centri abitati, anche in scuole e ospedali. Violano il diritto internazionale perché trasformano obiettivi civili in obiettivi militari».

Numerosi i casi, rilevati in 19 città. Per citare solo due episodi, a Mykolaiv una madre ha perso il figlio, ucciso nel cortile di casa da un attacco russo perché soldati ucraini erano appostati nella casa di fianco alla loro, mentre a Kharkiv due impiegati di un ospedale sono morti nel raid che ha colpito l'edificio perché vi erano installati soldati di Kiev. 

In 22 scuole su 29 da essi visitate, i ricercatori di Amnesty hanno trovato soldati ucraini o indizi della loro attività: divise, casse di munizioni, veicoli militari. Amnesty ha inoltrato fin dal 29 luglio il rapporto a Kiev, che ha taciuto imbarazzata.

Solo ieri il consigliere presidenziale Mikhail Podolyak ha rotto il silenzio sostenendo che sarebbe «un'operazione d'informazione per screditare le forze ucraine e minare la fornitura di armi dai partner occidentali». 

Intanto, l'Onu s' appresta, stando al Guardian, a un'inchiesta sull'uccisione di 53 prigionieri ucraini nel carcere di Olenivka. Sia la Russia, sia l'Ucraina hanno chiesto l'indagine perché si accusano a vicenda del misfatto. E mentre l'accordo sul grano pare funzionare, oggi è previsto l'incontro fra i presidenti russo e turco Vladimir Putin e Recep Erdogan a Sochi, sul Mar Nero, a riconoscimento del ruolo mediatore di Ankara.

Sul campo, i russi tentano di sfondare le difese sull'asse Sloviansk-Kramatorsk e nel crocevia di Bakhmut, mentre gli ucraini hanno ripreso i villaggi di Mazanivka e Dmytrivka. Il sindaco di Donetsk, Alexey Kulemzin, denuncia che 6 civili sono stati uccisi da tiri d'artiglieria ucraina in città, ma 8 altri civili sono stati uccisi da una cannonata russa su una fermata d'autobus. I russi hanno inoltre colpito con 60 razzi Gradi distretti di Nikopol e Kryvorizky, nella regione di Dnipropetrovsk.

Diritti umani in Ucraina, Noury (Amnesty): «Anche la guerra ha delle regole e i civili vanno sempre protetti». Il portavoce dopo le polemiche dei giorni scorsi: «L'unico obiettivo delle nostre azioni è di tutelare la popolazione dai crimini di guerra. Senza diritti vince il modello Erdogan».  Carlo Gubitosa su L'Espresso l'8 Agosto 2022 

Il 4 agosto scorso Amnesty International ha rilasciato un comunicato su alcuni casi di violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell'esercito ucraino, legate all’uso di strutture come scuole e ospedali col rischio di mettere in pericolo i civili nell’area. 

Informazioni verificate e dello stesso tenore di precedenti rapporti dell’ONU, ma bollate come contributo alla propaganda militare del regime di Putin, anche con toni molto violenti, nonostante le persecuzioni subite in Russia dall’organizzazione. 

Ad aprile infatti Amnesty ha visto chiudere d’autorità i suoi uffici di Mosca proprio per aver denunciato le violazioni dei diritti umani di quel regime. Ma per il presidente ucraino Zelensky si è trattato di “un rapporto che purtroppo cerca di amnistiare lo Stato terrorista e di spostare la responsabilità dall’aggressore alla vittima”, come ha dichiarato in un videomessaggio. Abbiamo chiesto a Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, alcune informazioni di contesto per capire meglio il processo che ha portato a questa analisi delle attività di un esercito aggredito mentre è ancora in corso la campagna militare dell’aggressore. 

Con quali finalità Amnesty ha rilasciato il suo comunicato?

«Gli obiettivi sono almeno tre: fornire informazioni imparziali al pubblico e alla stampa sulle violazioni del diritto internazionale umanitario; pretendere dalle parti in conflitto di porre fine a tali violazioni; favorire, mettendo a disposizione le prove raccolte, le indagini della giustizia internazionale, in particolare del procuratore del Tribunale penale internazionale. Il 29 luglio abbiamo inviato le nostre conclusioni al ministero della Difesa ucraino, chiedendo commenti, lasciando cinque giorni di tempo dopo i quali avremmo diffuso la ricerca. E' una procedura standard, che seguiamo ogni volta che esce un contenuto importante. Non abbiamo ricevuto risposta».

Come si può pensare di applicare il diritto internazionale umanitario in un contesto di totale abuso e arbitrio come una zona di guerra?

«Può sembrare paradossale ma anche una guerra ha delle regole che devono essere rispettate: le prescrive il diritto internazionale umanitario, che ha come architrave le quattro Convenzioni di Ginevra. L'obbligo più chiaro è che, durante un conflitto, le popolazioni civili vanno protette. Altri obblighi riguardano il trattamento dei prigionieri di guerra, il comportamento della potenza occupante nei confronti della popolazione occupata e così via. Per quello che riguarda il comunicato stampa del 4 agosto, abbiamo rilevato, attraverso una ricerca in tre regioni dell'Ucraina, tra cui il Donbass, che la condotta militare dell'esercito ucraino ha posto a rischio la popolazione civile. In che modo? Stazionando in centri abitati, case e palazzi, scuole e ospedali e da lì a volte aprendo il fuoco. In questo modo, le forze ucraine hanno trasformato un obiettivo civile in un obiettivo militare. Questo, lo abbiamo scritto e detto ripetutamente, non fornisce alcuna giustificazione alle forze russe, che quando hanno attaccato quei bersagli hanno comunque commesso crimini di guerra, uccidendo civili. Nondimeno, le forze ucraine hanno portato avanti una tattica contraria al diritto internazionale umanitario».

Quali sono le accortezze che vengono adottate da Amnesty per marcare la distanza dalla propaganda bellica e ridurre il rischio di strumentalizzazioni?

«Restare zitti per evitare strumentalizzazioni sarebbe dannoso per la nostra imparzialità e la nostra credibilità. Normalmente adottiamo una strategia di comunicazione reattiva, per prepararci a possibili reazioni ostili e alle modalità per contrastarle, anche se in questo caso, devo dirlo, questa strategia non è stata pianificata in modo ottimale, e si è arrivati alla data di pubblicazione riponendo eccessiva fiducia nel fatto che la risposta ucraina sarebbe stata diversa da quella della propaganda russa. Ovviamente, la narrazione della guerra della Russia contro l'Ucraina in Italia risente del fatto che il nostro paese è impegnato al fianco del paese aggredito, un impegno portato avanti anche attraverso forniture militari. Per questo, la narrazione ucraina (che ci ha accusato di equidistanza, confusione tra aggressore e vittima, aiuto ai terroristi russi ecc) è stata ripresa in modo pressoché integrale, anche con toni veementi e con insulti».

Vi è stato contestato il mancato coinvolgimento della sezione ucraina di Amnesty International nella stesura del comunicato, al punto che la direttrice ha presentato successivamente le sue dimissioni. Cosa ne pensi?

«A fare ricerca sulle tattiche militari delle forze ucraine è stato lo stesso team che per cinque mesi aveva fatto ricerche sui crimini di guerra russi in Ucraina: un team che ha seguito le peggiori crisi (Siria, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana tra le altre) di questo inizio di secolo. Quando si è trattato delle ricerche sui crimini di guerra russi in Ucraina, il problema dello "scavalcamento" di Amnesty Ucraina non è stato sollevato».

A suo parere questa polemica contro Amnesty rischia di alimentare la propaganda contro i diritti umani di teocrazie, regimi autoritari e stati canaglia già apertamente ostili all'operato di Amnesty?

«Questa guerra sta scompaginando tutto, dando spazio a "mediatori" come Erdogan che ne approfittano per porre ricatti sui diritti umani (nel caso specifico, ai danni dei curdi) e concedendo ulteriore potere a stati autoritari che si offrono come fonti alternative di idrocarburi (Algeria, Egitto, Mozambico, stati del Golfo e così via). Russia e Cina si ripropongono come modelli di antioccidentalismo e antiamericanismo. E molta gente ci casca, come ci è cascata per oltre un decennio idolatrando Bashar el-Assad, il presidente siriano che negli anni della "guerra al terrore" collaborava con la Cia torturando i presunti terroristi che i servizi statunitensi gli portavano a casa per "interrogatori". In tutto questo, non è tanto Amnesty International che rischia di essere schiacciata ma lo sono i temi e i movimenti per i diritti umani relativi a quei paesi. Non abbiamo mai contato sull'appoggio di poteri politici o militari per affermare i diritti umani, ma è indubbio che stanno sempre più emergendo leadership ostili al rispetto dei diritti umani. Ribadisco, Erdogan è il modello purtroppo vincente. 

Al comunicato che documentava le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell’esercito ucraino ha fatto seguito un successivo comunicato di scuse affidato alla Reuters. Qual è il senso, lo scopo e la motivazione di queste scuse?

«Pur ribadendo le conclusioni della nostra ricerca, abbiamo ritenuto doveroso esprimere rammarico e dispiacere per gli stati d'animo di tante persone che, in Ucraina, hanno aiutato e accompagnato, per molti anni e non solo dal 24 febbraio, le nostre azioni in favore dei diritti umani. Comprendiamo il senso di delusione e quasi di "tradimento" che sia stato provato e vorremmo che, a mente fredda, si riconoscesse il fatto che l'unico obiettivo delle nostre azioni è di proteggere i civili ucraini dai crimini di guerra russi e, quando accade, da comportamenti delle forze ucraine che possono metterli a rischio. Vorremmo anche che si comprendesse la differenza tra un comunicato stampa di quattro pagine prodotto a quasi sei mesi dall'inizio dell'invasione russa e oltre una ventina di denunce contro le forze russe (tra cui lunghi rapporti) rese pubbliche a partire dal 24 febbraio».

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 20 aprile 2022.

A inizio marzo uno sperduto villaggio di meno di 600 abitanti, Husarivka, nella parte orientale dell'Ucraina, è stato colpito da bombe a grappolo, chiamate anche "munizioni a grappolo", armi messe al bando dall'Onu perché doppiamente vigliacche: esplodono una prima volta in mezzo all'aria, seminando frammenti a loro volta esplosivi. Il punto è che non sarebbero state lanciate dai russi, ma dagli ucraini.

Lo riporta il New York Times, secondo il quale le "cluster munitions" sarebbero state lanciate in un tentativo di riprendere il controllo del territorio. È il primo caso verificato che coinvolge gli ucraini.

Nessuno è rimasto ucciso, anche perché Husarivka è un villaggio rurale, semideserto, fatto per lo più di campi coltivati e condotte di gas. Il villaggio, che si trova a 150 chilometri da Karkiv, è stato ripreso dagli ucraini, ma il ricorso a "munizioni a grappolo" sarebbe in violazione della Convenzione Onu che dal 2010 vieta l'utilizzo di armi che possono colpire, in modo indiscriminato, i civili.

Secondo gruppi umanitari, i frammenti arrivati a terra e non esplosi potrebbero farlo in un secondo momento se presi in mano. Più di cento nazioni hanno aderito alla messa al bando, ma non Ucraina, Russia, Stati Uniti, Cina e Israele. Per la comunità internazionale l'uso delle "cluster munitions" si configura come "crimine di guerra". 

Cosa sappiamo sulle bombe a grappolo usate dall’esercito ucraino. Federico Giuliani su Inside Over il 19 aprile 2022.

Da quando ha preso il via il conflitto ucraino l’esercito russo ha ripetutamente usato le temibili bombe a grappolo per conquistare villaggi e città. L’utilizzo di queste armi è teoricamente vietato da un accordo internazionale anche se alcuni Paesi  – tra cui Russia e Ucraina – non lo hanno sottoscritto. Abbiamo parlato anche dell’Ucraina perché, oltre ad essere la parte lesa, Kiev avrebbe a sua volta impiegato le bombe a grappolo. Secondo quanto riportato dal New York Times, e in base alle prove esaminate dal quotidiano statunitense, è altamente probabile che le suddette munizioni siano state lanciate dalle truppe ucraine che stavano cercando di riconquistare l’area dalle forze di Mosca. Il luogo del misfatto coincide con Husarivka, un villaggio agricolo circondato da campi di grano e linee di gas naturale. A quanto pare, gli ucraini avrebbero bombardato il villaggio per la maggior parte del mese con l’intenzione di prendere di mira i nemici. La decisione di Kiev di colpire Hsarivka con bombe a grappolo in grado di uccidere persone innocenti sottolineerebbe (il condizionale è d’obbligo) il calcolo strategico dell’Ucraina di riconquistare i territori del loro Paese a qualunque costo.

Cosa sono le bombe a grappolo

Le bombe a grappolo sono una classe di armi che comprende razzi, missili, mortai, proiettili di artiglieria e bombe che, una volta lanciate, si dividono a mezz’aria facendo piovere bombe più piccole su un’ampia area.

In generale, stiamo parlando di bombe pensate per contrastare concentramenti di forze. Il loro funzionamento, come anticipato, è tanto semplice quanto letale. L’ordigno – sparato da elicotteri, artiglierie o aerei – rilascia sopra l’obiettivo varie sub-munizioni pensate per esplodere con l’impatto, anche se talvolta queste sono rallentate da appositi paracaduti oppure possono esplodere in un secondo momento trasformandosi, di fatto, in mine.

La Convenzione sulle munizioni a grappolo, entrata in vigore nel 2010, vieta il loro utilizzo per i danni indiscriminati che possono causare ai civili.

Stupri degli ucraini, ora lo ammette pure l’Onu.  Redazione su Nicolaporro.it il 6 Giugno 2022.

Ormai siamo alle liste di proscrizione. Alle presunte (e smentite) indagini del Copasir su influencer, opinionisti e giornalisti accusati di “putinismo”. Al punto in cui il Corriere pubblica foto segnaletiche dei colpevoli come manco nei peggiori bar de Caracas. Come la pensiamo, lo sapete: non si possono combattere Putin e la sua autocrazia comportandosi peggio di lui. La grande differenza tra “noi” democratici liberali e “loro” è proprio la capacità di sopportare, difendere e al massimo criticare il dissenso. L’opinione delle minoranze va tutelata. Anche quelle che avanzano le più strampalate delle teorie.

Ci siamo sempre opposti alla denigrazione dei “no vax” e dei “no pass” e lo facevamo, in netta minoranza, per difendere il principio secondo cui in ambito sanitario, sociale e politico non esiste un dogma unico e indivisibile. Il dibattito è il sale delle democrazie. Allo stesso modo, difendiamo pure il diritto dei presunti “putiniani” di criticare Di Maio, di redarguire Mario Draghi, di opporsi all’invio di armi in Ucraina. Ma soprattutto, ribadiamo da tempo la necessità di non trasformare questa guerra in un atto di fede incrollabile. Non c’è bisogno di spiegarvi chi è l’aggredito e chi l’aggressore. Però da qui a buttare tutto in una tifoseria ce ne passa. Le domande vanno poste, come ha fatto Toni Capuozzo su Bucha. Occorre interrogarsi sul ruolo della Nato, sugli errori di Kiev, su quanto avremmo potuto fare per evitare l’inizio della cosiddetta “operazione speciale”. E cosa stiamo facendo (o non facendo) per arrivare alla pace.

Si chiama spirito critico. Quello che permette ad un essere pensante di porsi delle domande sull’utilità o meno delle sanzioni, sulla logica di definire “animale” il presidente russo, sull’opportunità di cercare a tutti i costi un “regime change” a Mosca o “l’umiliazione” di Putin. Quello spirito critico, insomma, che ogni tanto bisognerebbe attivare per leggere tra le righe delle notizie che arrivano non solo dal Cremlino (campione di disinformatia) ma anche da Kiev, che ha fatto sin dall’inizio uso sapiente della propaganda.

Ecco perché non ci piacciono le liste di proscrizione. Perché a forza di affibbiare l’etichetta di “putinisti” a chiunque non segua il tracciato della narrazione “corretta” sul conflitto, si rischia di accusare di intelligenza col nemico la qualunque. A sprezzo del ridicolo. Ci è successo un mesetto abbondante fa. Un istituto americano ci aveva inserito all’interno di un report sulla disinformazione putiniana accusandoci di mettere “in dubbio la narrativa mainstream sulle atrocità di Bucha”. Peccato avessimo solo riportato una notizia fresca fresca – ignorata da molti altri -, ovvero la dichiarazione da parte di Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, il quale riferiva di “denunce di violenza sessuale da parte delle forze ucraine”. Era una fake news? No. Eppure è bastato mettere in dubbio la moralità dei soldati ucraini per finire in quella sorta di elenco dei cattivoni.

Bene. Il tempo è galantuomo. E infatti oggi dall’Onu è arrivata la conferma di quelle voci. “Abbiamo ricevuto denunce di violenze sessuali avvenute tra le fila delle forze ucraine – ha detto alla Stampa Pamila Pattern, rappresentante speciale di Antonio Guterres – Si tratta di casi che ho portato all’attenzione dei funzionari governativi di Kiev quando sono stata lì e devo dire che da parte loro non c’è stata un atteggiamento negazionista ostruzionista. E loro stessi si sono impegnati a cooperare migliorando i meccanismi di controllo e lavorando a stretto contatto col personale Onu. In realtà si tratta di episodi che erano già avvenuti nella guerra del 2014 e di cui noi abbiamo dato ampia documentazione in un rapporto del 2018″. Questo cancella gli orrori dei russi? No, ovviamente. Ma conferma che non tutto quel che luccica di ucraino è oro. E che discuterne non significa essere dei fan dello Zar.

L’Onu rivela: “Denunce di stupri commessi da soldati ucraini”. Le Nazioni Unite indagano sui crimini di guerra commessi in Ucraina. Accuse a Mosca e Kiev. Redazione su Nicolaporro.it il 6 Aprile 2022.

C’è una notizia, passata in sordina o quasi del nulla riportata dai media, che ieri ha plasticamente disegnato l’orrore della guerra in tutta la sua crudeltà. Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, parlando al Consiglio di Sicurezza nello stesso giorno in cui Zelensky chiedeva un “tribunale di Norimberga” per i russi, ha spiegato che la missione di monitoraggio dell’Onu in Ucraina sta verificando anche altre accuse, oltre a quelle ascritte ai militari russi a Bucha: “Ci sono denunce di violenza sessuale da parte delle forze ucraine – ha detto – e da parte delle milizie della protezione civile di Kiev”.

Le accuse ai soldati di Zelensky

Esatto: soldati ucraini che commettono abusi sessuali. Possibile? Credibile? Sì, allo stesso modo in cui sono credibili le accuse rivolte ai militari di Putin che ritirandosi fanno una strage o compiono “stupri di gruppo di fronte a bambini“, sevizie e altri orrori. Il motivo è semplice: la guerra è guerra. E dall’alba dei secoli tira fuori il peggio dell’uomo, sia che si tratti di un aggredito che di un aggressore. Sono pochi gli eserciti al mondo che possono vantare di non aver mai avuto tra le loro fila uomini in armi che si sono macchiati di simili crimini.

La situazione sul campo

Non è ovviamente una gara a chi ha la coscienza meno sporca. A tutti è evidente chi ha iniziato la guerra e chi l’ha subita. Ci penserà l’Onu, o una qualche corte internazionale, a stabilire cosa è successo in questo abbondante mese di scontri. Sempre che il conflitto si chiuda nel breve periodo. Epilogo non scontato, visto come stanno andando le manovre sul campo. La Russia si è ritirata dalla regione di Kiev, ha lasciato Irpin e arretra sul fronte Nord. Batte in ritirata? Non è detto: la storia insegna che le offensive si possono sempre riprendere, magari riorganizzando la logistica. È a Sud ed Est che però si concentrano adesso gli sforzi militari di Putin: lo Zar vuole la caduta di Mariupol, si stanno intensificando i bombardamenti su Odessa, gli scontri nella regione del Donbass sono sempre più aspri.

Lo stallo dei negoziati

Sul fronte diplomatico, invece, dopo giorni di trattative, adesso i negoziati sembrano in stallo. Le parti avrebbero raggiunto un accordo sulla neutralità dell’Ucraina, sulla sua demilitarizzazione e l’assenza di basi straniere nel Paese: più o meno lo stesso accordo proposto da Scholz a Zelensky cinque giorni prima dell’invasione, proposta che il presidente ucraino ha respinto. Ritrovandosi ugualmente a rinunciare al sogno Nato dopo oltre 1.500 civili uccisi.

“Crimini di guerra”

La partita adesso si gioca a livello internazionale. Il conflitto pare ormai diventato uno scontro tra l’Alleanza Atlantica e Putin, combattuto per interposto ucraino. Biden insiste nell’inviare aiuti umanitari e nell’innalzare il livello dello scontro, con la ricerca di un difficile (e rischioso) regime change in Russia. L’Europa è divisa, ma in maggioranza si adegua ormai alla linea americana anche grazie alle immagini arrivate da Bucha. Non è un caso se ieri Zelensky, intervenendo all’Onu, ha calcato la mano sul fatto che “i russi vogliono ridurci in schiavitù”, ha evocato una “nuova Norimberga” per i crimini di guerra, ha chiesto di rimuovere la Russia dal Consiglio di Sicurezza e di toglierle il diritto di veto.

Gli alleati occidentali concordano. Antony Blinken è convinto che quanto accaduto a Bucha “non sia un atto isolato ma parte di una campagna deliberata per uccidere, torturare e stuprare civili”. Mezza Europa, Italia compresa, espelle i diplomatici russi, allontanando la possibilità di un accordo. L’Ue è pronta a varare un nuovo pacchetto di sanzioni, che dopo il petrolio potrebbero includere di nuovo il settore energetico (gas escluso). E la pace sembra sempre più lontana.

Intanto, sul campo, restano le atrocità. Da entrambi i lati dello schieramento. Rosemary DiCarlo ha riferito di “accuse credibili” sull’uso della Russia di “munizioni a grappolo in aree popolate”, bombe vietate dalle convenzioni internazionali se fatte cadere in aree civili. Tuttavia l’Onu ha precisato che “anche le forze ucraine hanno usato tali armi” e “sono oggetto di indagine”.

I costi umani della guerra in Ucraina. Piccole Note il 31 marzo 2022 su Il Giornale.

“L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato domenica che sono stati uccisi finora 1.119 civili  e 1.790 sono rimasti feriti da quando la Russia ha iniziato il suo attacco all’Ucraina”. Così la Reuters il 27 marzo.

Numeri terribili, ovviamente, ma è il tragico dinamismo delle guerre. E però se si fa un raffronto tra questi numeri e quelli della guerra irachena, l’unica comparabile a questa – tra quelle recenti – per scala, appaiono alquanto ridotti.

Peraltro, le vittime civili sembra non siano dovute solo alla brutalità degli attacchi, ma anche alle tattiche difensive degli ucraini. Lo scrivono Claire Parker e Volodymyr Petrov, quest’ultimo inviato a Kiev, sul Washington Post in un articolo dal titolo: “La Russia ha ucciso dei civili in Ucraina. Le tattiche di difesa di Kiev aumentano il pericolo“.

“Sempre più spesso – si legge nell’articolo – gli ucraini si trovano ad affrontare una scomoda verità: il comprensibile impulso dei militari a difendersi dagli attacchi russi potrebbe mettere nel mirino i civili. Praticamente ogni quartiere nella maggior parte delle città è stato militarizzato, alcuni più di altri, rendendoli potenziali bersagli per le forze russe che cercano di eliminare le difese ucraine”.

“Sono molto riluttante a suggerire che l’Ucraina sia responsabile delle vittime civili, perché l’Ucraina sta combattendo per difendere il suo paese da un aggressore”, ha affermato William Schabas, professore di diritto internazionale alla Middlesex University di Londra. “Ma nella misura in cui l’Ucraina porta il campo di battaglia nei quartieri civili, aumenta il pericolo per gli stessi”.

E ancora: “La strategia dell’Ucraina di posizionare pesanti equipaggiamenti militari e altre fortificazioni nelle zone civili potrebbe indebolire gli sforzi occidentali e ucraini di ritenere la Russia legalmente colpevole di possibili crimini di guerra, hanno affermato alcuni attivisti per i diritti umani e alcuni esperti di diritto umanitario internazionale”.

Uno degli esperti interpellato dal Wp è Richard Weir, ricercatore del settore crisi e conflitti di Human Rights Watch, che sta lavorando in Ucraina, il quale ha dichiarato che l’esercito ucraino ha “la responsabilità, secondo il diritto internazionale,” di rimuovere le proprie forze e gli equipaggiamenti dalle aree popolate da civili e, se ciò non è possibile, di spostare i civili fuori da quelle aree”.

“Se non lo fanno, è una violazione delle leggi di guerra”, ha aggiunto. “Perché quello che stanno facendo è mettere a rischio i civili. Perché tutto quell’equipaggiamento militare è un obiettivo legittimo”.

“il confine tra un crimine di guerra e ciò che non è tale diventa più sfumato se i quartieri residenziali vengono militarizzati e diventano campi di battaglia in cui le morti di civili sono inevitabili”, scrivono i cronisti, che dettagliano cose viste in loco.

“L’Ucraina non può usare i quartieri civili come ‘scudi umani'”, ha detto Schabas, anche se ha precisato che non gli sembrava che ciò stesse avvenendo. Precisazione che suona un po’ come obbligata, dovendo parlare a un media come il WP.

Insomma, nella nebbia che circonda la guerra ucraina, tante le circostanze che andrebbero chiarite, ma che per ovvie ragioni rimangono sfumate. Di certo, l’Ucraina, come spiega l’articolo, ha scelto di difendersi attestandosi nelle città, evitando lo scontro aperto con i russi. E ciò aumenta i rischi.

I russi hanno proposto più volte di aprire corridoi umanitari per far defluire la popolazione civile dai centri abitati, come già aveva fatto in Siria, spiegava un indignato articolo di Molinari, che la definiva appunto una strategia bellica di Mosca.

In effetti, sembra proprio una strategia russa, dal momento che non abbiamo visto analoghe iniziative durante le guerre infinite, quando ad attaccare erano le forze Nato.  Ma alla luce di quanto scrive il Wp non sembra ci sia molto da indignarsi, dal momento che tale strategia sta riducendo la portata di questa tragedia, che potrebbe essere ben più grave.

Il punto è che non sempre i corridoi umanitari funzionano. Spesso come accadeva anche in Siria, i civili in fuga sono stati presi di mira da bombe e proiettili, con conseguente fallimento dell’evacuazione.

Non si sa bene di chi sia la responsabilità di questi crimini. In Siria a bombardare erano i jihadisti assediati, che non volevano perdere i loro scudi umani (vedi Piccolenote).

Appare alquanto strano che in Ucraina a sparare siano i russi, come hanno scritto alcuni media. I russi, infatti, avrebbero tutto l’interesse a far defluire i civili per poter attaccare più liberamente, come fa capire l’accenno di Molinari. Così resta il mistero, o forse no.

Dal momento che si è in tema, ci hanno segnalato un video che gira su YouTube, filmato di un cronista di al Jazeera, che documenta uno spostamento di alcuni militari ucraini per mezzo di un’ambulanza. 

Lo segnaliamo ai lettori (almeno finché non sarà bannato anche questo) così come ci è stato indicato a noi, perché in effetti è alquanto sconcertante, dal momento che è contrario alle Convenzioni di Ginevra: potrebbe, infatti, rendere anche le ambulanze un obiettivo militare.

Forse è un caso isolato, forse no. Se fosse pratica diffusa e articolata, come sembrerebbe dalla disinvoltura con cui si muovono i militari in questione, interpella non poco.

I decessi del conflitto sono responsabilità dei russi, dal momento che sono loro gli aggressori, cosa che non va dimenticata. E, però, come documenta l’articolo del Wp, il quadro di questa tragedia è più complesso e articolato di quanto sembra.

Ucraina. Scudi umani e missili sui quartieri; “i civili messi in pericolo”. Contropiano.org il 6 aprile 2022.

Nei media di regime italiani un articolo del genere sarebbe stato rifiutato dal caporedattore e dal direttore, senza alcuna esitazione. E invece un quotidiano un po’ più serio, come il Washington Post – filo-democratico, ultra-patriottico, sinceramente imperialista – lo ha pubblicato come un servizio decisamente importante. Senza alcuna concessione per i russi, ma senza bendarsi gli occhi sui presunti “eroi”…  

Cosa dice di così sconvolgente? Che l’esercito ucraino e le sue milizie di contorno (compresi i battaglioni dichiaratamente nazisti) adottano una tattica di combattimento che mette in grave pericolo la propria  popolazione stessa.

Detto semplicemente: piazzano le loro batterie missilistiche e contraeree in mezzo ai palazzi residenziali, in modo da rendere più problematico l’attacco per l’artiglieria, i missili e gli aerei russi.

Non è che i dirigenti ucraini non ne siano pienamente consapevoli. Alexei Arestovich, consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha detto che la dottrina militare del paese, approvata dal parlamento, prevede il principio della “difesa totale“.

Detto con altre parole, scorrendo le varie dichiarazioni dei comandanti sul terreno, “le leggi umanitarie internazionali o le leggi della guerra non si applicano in questo conflitto“. O anche: “tutti capiamo i rischi. Non possiamo difendere la città senza rischiare o ferire i civili, purtroppo“.

Ma il cosiddetto principio della “guerra totale” – che era applicato dall’esercito nazista, non a caso, quando invadeva territori altrui – implica necessariamente che non c’è più possibilità operativa di distinguere tra militari (obiettivo legittimo di ogni azione di guerra) e civili (obiettivo vietato, che giustifica l’accusa di crimini di guerra).

Se ne sei consapevole, e lo applichi in una guerra, anche difensiva, il discorso non cambia. E arrivi ad usare i civili non come “l’acqua entro cui nuota l’avanguardia politica e/o militare” (principio maoista – o guerrigliero – che implica un’organizzazione capillare delle strutture popolari per renderle adatte a quel tipo di guerra, imposta, in quel caso, dai giapponesi), ma come “il bosco entro cui si nascondono i combattenti”  (che usano le piante come “materiale”, a proprio esclusivo vantaggio e senza alcun vincolo). 

E’ – quest’ultima – una pratica vietata in qualsiasi tipo di guerra, perché significa usare i civili come “scudi umani”. Non proprio una tattica da “eroi”, diciamo così… 

Buona lettura (si fa per dire…)

La Russia ha ucciso dei civili in Ucraina. Le tattiche di difesa di Kiev accrescono il pericolo. Sudarsan Raghavan – Washington Post il 28 marzo 2022.

Il sospetto missile russo ha colpito l’alto condominio, inondandolo di fiamme e fumo. Ha ucciso almeno quattro persone, compresi i residenti anziani, e ha sconvolto la vita di una comunità molto unita. Per il parlamentare Oleksii Goncharenko, la tragedia è un altro esempio di potenziali crimini di guerra russi.

“Stanno colpendo solo edifici residenziali in queste zone“, ha detto il membro del parlamento ucraino, che è arrivato sulla scena poco dopo l’esplosione di due settimane fa. “Puoi camminare in giro, non troverai nessun obiettivo militare, o nessun militare. Questo è solo terrore“.

Eppure, pochi minuti dopo, il suono frusciante dei razzi ucraini sparati da un lanciarazzi multiplo ha fatto trasalire i residenti che fissavano bianchi in faccia le loro case distrutte. Poi, un’altra raffica in uscita. Le armi sembravano essere vicine, forse a poche strade di distanza, certamente ben dentro la capitale.

Sempre più spesso, gli ucraini si stanno confrontando con una scomoda verità: il comprensibile impulso dell’esercito a difendersi dagli attacchi russi potrebbe mettere i civili nel mirino.

Praticamente ogni quartiere nella maggior parte delle città è stato militarizzato, alcuni più di altri, rendendoli potenziali obiettivi per le forze russe che cercano di eliminare le difese ucraine.

“Sono molto riluttante a suggerire che l’Ucraina sia responsabile delle vittime civili, perché l’Ucraina sta combattendo per difendere il suo paese da un aggressore“, ha detto William Schabas, un professore di diritto internazionale alla Middlesex University di Londra. “Ma nella misura in cui l’Ucraina porta il campo di battaglia nei quartieri civili, aumenta il pericolo per i civili“.

Le città dell’Ucraina – e le aree civili – sono diventate il crogiolo della guerra, dove un’intensa lotta si sta svolgendo tra i russi che vogliono prendere o controllare queste aree e gli ucraini che resistono con sfida.

Questo ha trasformato il conflitto in una guerra in gran parte urbana, forgiata più dalle armi aeree e dai bombardamenti che dai tradizionali combattimenti strada per strada in molte aree. Con le forze russe che prendono di mira le città, gli ucraini hanno risposto fortificando le aree civili per difendere Kiev, schierando sistemi di difesa aerea, armi pesanti, soldati e volontari per pattugliare le enclavi. Le vittime civili stanno aumentando.

Non c’è dubbio che le forze russe sono dietro gli atti più orribili della guerra che continua per un secondo mese. Hanno colpito scuole, cliniche, ambulanze, centri commerciali, impianti elettrici e idrici e autovetture, tra i numerosi attacchi indiscriminati contro i civili, secondo gli attivisti dei diritti umani. Nella città meridionale di Mariupol, un sospetto attacco aereo russo ha ucciso molte persone che si erano rifugiate in un teatro. Era chiaramente segnato, con la parola russa per “bambini” in lettere enormi visibili dal cielo. Giorni prima era stato colpito un ospedale di maternità.

Ma la strategia dell’Ucraina di collocare attrezzature militari pesanti e altre fortificazioni in zone civili potrebbe indebolire gli sforzi occidentali e ucraini per ritenere la Russia legalmente colpevole di possibili crimini di guerra, hanno detto gli attivisti dei diritti umani e gli esperti di diritto internazionale umanitario. La settimana scorsa, l’amministrazione Biden ha formalmente dichiarato che Mosca ha commesso crimini contro l’umanità.

“Se c’è un equipaggiamento militare lì e [i russi] dicono che stiamo lanciando contro questo equipaggiamento militare, questo mina l’affermazione che stanno attaccando intenzionalmente oggetti e civili“, ha detto Richard Weir, un ricercatore della divisione crisi e conflitti di Human Rights Watch, che sta lavorando in Ucraina.

Nell’ultimo mese, i giornalisti del Washington Post sono stati testimoni di razzi anticarro ucraini, cannoni antiaerei e veicoli corazzati per il trasporto di personale posizionati vicino a edifici di appartamenti. In un lotto libero, i giornalisti del Post hanno visto un camion che trasportava un lanciarazzi multiplo Grad.

Posti di blocco con uomini armati, barricate di sacchi di sabbia e pneumatici, e scatole di molotov sono onnipresenti sulle autostrade della città e nelle strade residenziali. Il suono dei razzi e dell’artiglieria in uscita si sente costantemente a Kiev, la capitale, le scie bianche dei missili visibili nel cielo.

“Ogni giorno è così“, ha detto Lubov Bura, 73 anni, in piedi fuori dal palazzo dove viveva che è stato distrutto due settimane fa. Pochi istanti dopo, mentre l’edificio stava ancora bruciando, si è sentito di nuovo il suono dei razzi ucraini in uscita. “A volte sembra più vicino, a volte sembra lontano. Ci pensiamo e, naturalmente, siamo preoccupati, soprattutto di notte“.

L’esercito ucraino ha “la responsabilità secondo il diritto internazionale” di rimuovere le sue forze e le attrezzature dalle aree popolate da civili, e se questo non è possibile, di spostare i civili da quelle aree, ha detto Weir.

“Se non lo fanno, questa è una violazione delle leggi di guerra“, ha aggiunto. “Perché quello che stanno facendo è mettere a rischio i civili. Perché tutto quell’equipaggiamento militare è un obiettivo legittimo“.

Andriy Kovalyov, un portavoce militare della 112a Brigata di difesa territoriale dell’Ucraina, le cui forze e attrezzature sono posizionate nella capitale, si è fatto beffe di questo ragionamento. “Se seguiamo la tua logica, allora non dovremmo difendere la nostra città“, ha detto.

In risposta alle domande scritte dal Post, Alexei Arestovich, consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha detto che la dottrina militare del paese, approvata dal parlamento, prevede il principio della “difesa totale“.

Ciò significa che i volontari nelle Forze di difesa territoriale o in altre unità di autodifesa hanno l’autorità legale di proteggere le loro case, che sono per lo più in aree urbane. Inoltre, ha sostenuto che le leggi umanitarie internazionali o le leggi della guerra non si applicano in questo conflitto perché “il compito principale della campagna militare di Putin è la distruzione della nazione ucraina”. Ha detto che il presidente russo Vladimir Putin ha ripetutamente negato l’esistenza dell’Ucraina come nazione indipendente.

“Pertanto, ciò che sta accadendo qui non è una competizione degli eserciti europei secondo le regole stabilite, ma una lotta del popolo per la sopravvivenza di fronte a una minaccia esistenziale“, ha detto Arestovich. “Non possiamo impedire ai nostri cittadini di difendere le loro case, le loro libertà, i loro valori e le loro identità come li intendono“.

Lunedì, le forze ucraine hanno mostrato a un gruppo di giornalisti una fortificazione militare in un quartiere residenziale settentrionale della capitale, vicino ad alti condomini, una stazione della metropolitana e negozi. La strada era barricata con linee di pneumatici, blocchi di cemento, mucchi di sacchi di sabbia, oggetti metallici appuntiti per fermare i veicoli e grandi trappole metalliche per carri armati note come “ricci”.

C’erano anche due linee di mine anticarro sulla strada. Su un lato, una lussureggiante macchia di verde, un luogo ideale per i picnic, era sigillata con un cartello di avvertimento: Mine.

“Se si vuole proteggere la città, bisogna essere pronti a combattere dentro la città“, ha detto Pavlo Kazarin, un volontario dell’unità di difesa territoriale e portavoce del suo battaglione. “Purtroppo, non possiamo evacuare tutta la città perché ci sono ancora 2 milioni di persone. Tuttavia, possiamo fermare l’esercito russo fuori dalla città. Ma tutti capiamo i rischi. Non possiamo difendere la città senza rischiare o ferire i civili, purtroppo“.

Alla domanda se c’era la preoccupazione che le forze russe potessero vedere gli appartamenti residenziali come un obiettivo militare a causa delle fortificazioni di fronte, Kazarin ha concordato. “Ma ripeto: ci sono sempre dei rischi quando si cerca di proteggere la città“.

Ha detto che le forze ucraine stanno cercando “tutto per evitare” che Kyiv diventi un’altra Mariupol o Kharkiv, città che sono state pesantemente bombardate e assediate dalle forze russe. “C’è una logica molto crudele nella guerra quando stiamo cercando di proteggere i civili“, ha detto Kazarin.

Anche se l’Ucraina viola le sue responsabilità secondo il diritto internazionale, “questo non significa che la Russia ottiene un lasciapassare per fare quello che vuole“, ha detto Weir. Se i civili vengono uccisi vicino a una posizione militare o un equipaggiamento, la Russia può ancora essere ritenuta responsabile di un possibile crimine di guerra se il suo attacco è stato indiscriminato e sproporzionato contro la popolazione civile.

Molto dipende dalle dimensioni e dall’importanza dell’obiettivo militare, dal tipo di armi usate, se i civili sono stati consapevolmente presi di mira e se il danno a loro è stato eccessivo. Per esempio, il lancio da parte della Russia di munizioni a grappolo vietate il mese scorso in tre quartieri residenziali di Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina, è stato un possibile crimine di guerra, anche se i russi sostengono che stavano prendendo di mira attrezzature militari ucraine o posizioni, hanno detto gli attivisti.

“Quando un attacco a un obiettivo militare può provocare vittime civili, il danno ai civili deve essere bilanciato contro il vantaggio militare“, ha detto Schabas, il professore di diritto internazionale. “Se non c’è alcun vantaggio militare, allora la violenza non è giustificata, ed è ragionevole parlare di crimini di guerra“.

Ma la linea tra ciò che costituisce un crimine di guerra diventa più sfocata se i quartieri residenziali sono militarizzati e diventano campi di battaglia dove le morti civili sono inevitabili.

“L’Ucraina non può usare i quartieri civili come ‘scudi umani‘”, ha detto Schabas, aggiungendo che non stava suggerendo che questo è ciò che sta accadendo.

Dopo ogni sospetto attacco aereo russo nella capitale e altrove, gli ucraini hanno inviato squadre per raccogliere video e altre prove da utilizzare in un potenziale caso di crimini di guerra contro la Russia presso la Corte penale internazionale dell’Aia, ma molti di questi siti potrebbero essere motivi deboli per l’accusa di crimini di guerra.

“Se ci sono obiettivi militari nella zona, allora potrebbe minare la loro affermazione che un colpo specifico è stato un crimine di guerra“, ha detto Weir di Human Rights Watch.

Ci sono molti posti a Kiev dove le forze militari coesistono all’interno di enclavi civili. Uffici, case o anche ristoranti in molti quartieri residenziali sono stati trasformati in basi per le Forze di difesa territoriale dell’Ucraina, milizie armate composte per lo più da volontari che hanno firmato per combattere i russi.

All’interno di edifici comunali e in scantinati, tra cui uno sotto una caffetteria, gli ucraini preparano molotov da usare contro le forze russe se entrano nella capitale. All’interno di un grande complesso industriale, annidato di fronte a una vivace autostrada principale con negozi e condomini nelle vicinanze, una forza paramilitare addestra le reclute prima di schierarle in prima linea.

Gli esperti di sicurezza per le organizzazioni dei media occidentali hanno notato che le difese aeree ucraine sono così interne nella città che quando colpiscono razzi, missili o droni russi in arrivo, i detriti a volte hanno colpito o sono caduti in complessi residenziali.

I soldati ucraini e i volontari avvertono i giornalisti di non scattare foto o video di posti di blocco militari, attrezzature, fortificazioni o basi improvvisate all’interno della città per evitare di allertare i russi sulle loro posizioni.

Un blogger ucraino ha caricato un post su TikTok di un carro armato ucraino e altri veicoli militari posizionati in un centro commerciale. Il centro commerciale è stato poi distrutto il 20 marzo in un attacco russo che ha ucciso otto persone.

Non ci sono prove che il post di TikTok abbia portato all’attacco. Su Facebook, una persona che sostiene l’esercito ucraino ha esortato a dare la caccia all’uomo per aver rivelato le posizioni militari ucraine “per il bene dei like” sui social media. “Pago 500 dollari per qualsiasi informazione su questo autore su TikTok. ID, indirizzo di residenza, dettagli di contatto“. Il servizio di sicurezza dell’Ucraina ha poi detto di aver arrestato il blogger.

In altri quartieri militarizzati, i residenti hanno anche espresso la preoccupazione di sentire razzi e artiglieria in uscita. “È spaventoso“, ha detto Ludmila Kramerenko. “Succede tre o quattro volte al giorno“.

Quando le è stato chiesto se era preoccupata di avere armi militari e combattenti così vicino a dove vive, ha risposto dopo una lunga pausa: “Non so cosa dire. Speriamo solo che tutto vada bene e che questo finisca presto“.

Come la maggior parte dei residenti intervistati, ha espresso stoicismo e lealtà alle forze militari dell’Ucraina. Ha detto che non le piace come la capitale è stata trasformata in una zona militare simile a una fortezza, ma capisce. Valeva la pena di sentire il suono dei razzi in uscita o di vivere alla vista dei cannoni pesanti per impedire ai russi di entrare nella capitale, ha detto.

“Ci sentiamo male e rattristati per come la nostra città è cambiata“, ha detto Kramerenko. “Ma capiamo la situazione e crediamo nei nostri soldati ucraini. Noi ucraini dobbiamo reagire“.

Claire Parker a Washington e Volodymyr Petrov a Kiev hanno contribuito a questo servizio.

I 4 soldati russi giustiziati a terra. Un nuovo video mostra l'orrore di questa guerra. Gian Micalessin l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il filmato è stato girato a Dmytrivka a pochi km da Bucha il 30 marzo. La lezione: non basta stare dalla parte giusta per agire da "buoni".

«L'orrore... l'orrore ha un volto... e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario diventano nemici da temere». Marlon Brando, protagonista nelle vesti del colonnello Kurtz del monologo finale di Apocalypse Now, spiega così la terribile e nefasta comunanza che ogni conflitto crea tra i combattenti e l'orrore. Le stragi di My Lai in Vietnam, di Sabra e Chatila in Libano, ma anche quelle attribuite alle forze speciali statunitensi in Siria e Irak da un'inchiesta del New York Times dello scorso dicembre, avrebbero dovuto farci comprendere da tempo la brutalità nascosta in ogni conflitto. Una brutalità che non sta mai da una parte sola. Perché la guerra, a differenza di quanto raccontano i film, non prevede buoni sentimenti. E a dimostrarcelo, a pochi giorni dalla scoperta dei morti di Bucha, arriva un altro film dell'orrore.

Un film andato in scena a Dmytrivka, un villaggio distante solo dodici chilometri in direzione Sud dalla stessa Bucha. Con una differenza. Qui le vittime sono i russi mentre gli spietati aguzzini sono i soldati ucraini. Il video è così crudele e sanguinario da rendere difficile la pubblicazione di foto o spezzoni capaci di restituirne la disumana ferocia. Al lato di una strada si vede un Bmd-2 , un blindato usato dalle truppe aviotrasportate russe. Il mezzo, intatto, ci fa capire che l'equipaggio si è arreso senza combattere. Anche perché, duecento metri più avanti, vi sono le carcasse di altri mezzi appena colpiti e distrutti. Sull'asfalto, invece, ci sono quattro corpi. Vestono le divise dell'esercito russo e non hanno accanto alcuna arma. Giacciono tra lunghe scie di sangue. Uno ha le mani legate dietro la schiena e la gola tagliata. Quello che gli sta accanto è disteso a braccia aperte freddato da una raffica al ventre. Altri due corpi sono sul lato opposto della strada. Uno è stato ucciso con un colpo alla nuca. L'altro, con il volto nascosto da una giacca militare tirata su fino a coprirgli il volto, è scosso dai tremiti dell'agonia. Sussulta, muove un braccio, mormora versi incomprensibili. Tutt'intorno si sentono delle voci in ucraino.

«Filma questi bastardi. Guarda questo... è ancora vivo... sta rantolando» ulula una voce senza volto. Poi s'intravvede la canna di una pistola. Apre il fuoco due volte. Il soldato in agonia sussulta, si muove ancora. Un terzo colpo lo finisce. Ora tutt'intorno compaiono soldati ucraini riconoscibili da uniformi e distintivi. Quello che ha sparato mostra il suo volto. Ha il volto incorniciato da una fitta barba. Grida: «Gloria all'Ucraina». Un altro si fa fotografare accanto ai corpi. «Questi - sbraita una voce fuori campo - non sono neanche esseri umani». A confermare il tutto ci pensa un tweet del ministero della difesa ucraino che definisce un «lavoro preciso» l'imboscata ai danni di un convoglio russo in ritirata da Kiev messa a segno il 30 marzo scorso. Segnalazione confermata dal video-reporter Oz Katerji che il 2 aprile gira le immagini dei blindati distrutti e, citando i soldati ucraini, parla di una battaglia svoltasi 48 ore prima.

Ma quella battaglia e la brutale eliminazione di quei quattro prigionieri dovrebbero insegnarci un paio di cose. La prima è che in guerra non basta stare dalla parte giusta per comportarsi da «buoni». La seconda è che la guerra è sempre abietta, crudele e feroce. E l'unico modo per sconfiggerne mostri e perversioni è uscirne in fretta.

Così militari ucraini hanno ucciso dei prigionieri russi. Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

L'esecuzione ripresa in un video. Rivendica l'orrore come frutto dei suoi ordini Mamuka Mamulashvili ufficiale in capo della «Legione nazionale georgiana» che combatte in Ucraina a fianco di Kiev. Il ministro Kuleba: «I colpevoli dovranno essere individuati e puniti».

Quattro soldati sono a terra. Un blindato è pochi metri più avanti. Ha una valigia comune appesa sull’armatura più altri oggetti che stonano con l’aspetto bellicoso del mezzo. Paiono il frutto di saccheggi. Sulla scena si muovono altri 6 soldati. Per le bande bianche che hanno sulle braccia, quelli a terra sembrano russi. Uno ha le mani legate dietro la schiena. Invece quelli in piedi, i vincitori, appaiono e parlano da ucraini. Non hanno remore a mostrarsi in video. Sembrano gli attimi successivi ad una imboscata. I russi a terra sono immobili, solo uno si muove ancora e si lamenta debolmente. Un ucraino dice «lascialo stare», l’altro ribatte «no, non voglio lasciarlo stare». E spara. Più volte. Fino a finirlo.

Un’esecuzione barbara di prigionieri che circola da ieri sui canali Telegram e che si conclude con «slava Ukraine» gloria all’Ucraina. Il Corriere ha individuato il sedicente comandante del reparto di assassini. Si chiama Mamuka Mamulashvili e rivendica l’orrore come frutto dei suoi ordini. Mamulashvili si presenta come l’ufficiale in capo della «Legione nazionale georgiana» che combatte in Ucraina a fianco del governo di Kiev. In effetti, almeno uno del reparto che ha sparato ai prigionieri russi, parla russo con accento georgiano. E, in ogni caso, è lo stesso ufficiale Mamulashvili a riconoscere proprio quella pattuglia come ai suoi ordini. «L’abbiamo detto sin dal principio, noi non facciamo prigionieri» è l’allucinante spiegazione del comandante. 

La Bbc ha esaminato il video dell’esecuzione con tecniche di riconoscimento satellitare e incrociando i dati a disposizione. Dall’indagine risulta che l’eccidio sarebbe avvenuto durante il ritiro dei militari russi dalle aree a nord di Kiev. In particolare, sulla strada tra Dmytrivka e le zone di Irpin e Bucha. Già nei giorni scorsi erano state segnalate alcune unità russe rimaste isolate, forse dimenticate dai comandi durante un ritiro non particolarmente ordinato. Oppure i russi di quella particolare unità si erano attardati per riempire il loro blindato di oggetti rubati nelle case ucraine. In ogni caso l’imboscata dei miliziani georgiani ha avuto successo e si è conclusa in quel modo disgustoso. 

Non è la prima volta che emergono prove di violenze gratuite da parte ucraina . Ci sono immagini di violenze barbare nei confronti di presunti saccheggiatori o di possibili infiltrati. Calci in faccia, a persone già a terra, file di uomini al muro, terrorizzati, maltrattati e umiliati. Uno lasciato senza mutande davanti alle minacce con i kalashnikov. Episodi al cui confronto i maltrattamenti del G8 di Genova sembrano azioni controllate. 

Un altro video mostra dei prigionieri russi, già inoffensivi, che vengono gambizzati a freddo, uno dopo l’altro, in mezzo a soldati ucraini. Senza che nessuno intervenga per fermare il responsabile. In quell’occasione si disse poi che il soldato ucraino autore del gesto fosse appena tornato in reparto dopo aver visitato moglie e figlio colpiti da un bombardamento russo nelle retrovie. 

Il presidente Zelensky aveva dichiarato come inammissibile quel comportamento e aveva annunciato un’inchiesta. Non se ne sa ancora nulla. Ieri era toccato al ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, assumere lo stesso atteggiamento nei confronti del nuovo video sui quattro russi freddati a terra. «Bisognerà esaminare le prove e i colpevoli dovranno essere individuati e puniti». 

La posizione ufficiale dell’Ucraina, in sostanza, è di non negare ogni responsabilità com’è invece la strategia comunicativa russa. Kiev si mantiene ferma sull’idea che simili comportamenti siano inaccettabili. Non riesce però ad impedirli e, al momento, a guerra in corso, a perseguirli.

Monica Perosino per “la Stampa” l'8 aprile 2022.

Con gli occhi ancora pieni dell'orrore di Bucha, del prigioniero di guerra russo giustiziato in mezzo a una strada, delle donne ucraine stuprate e prima ancora di precipitare in quel buco nero che sarà Mariupol, un altro atroce crimine di guerra si aggiunge alla lista.

A Obukhovychi, un villaggio nel Nord dell'Ucraina nelle vicinanze della zona di esclusione di Chernobyl, le truppe russe hanno usato i civili come scudi umani per proteggersi dal contrattacco delle forze ucraine. 

L'ha scoperto e verificato Bbc, che ha raccolto le testimonianze degli abitanti del villaggio. L'episodio sarebbe avvenuto la notte del 14 marzo, quando le forze russe si trovavano in difficoltà sotto il fuoco di quelle ucraine. I militari russi, secondo i testimoni, sarebbero andare di porta in porta e avrebbero raccolto, sotto la minaccia delle armi, circa 150 abitanti del villaggio, la maggior parte persone anziane e bambini. I civili sarebbero poi stati ammassati nella palestra di una scuola, usata come scudo di protezione per le forze russe. 

Ancora una volta, come già riferito da altri testimoni in altre città liberate, i soldati «erano ubriachi», «sparavano alle persone solo per divertirsi, senza motivo».

Un 25enne, a cui i russi hanno sparato a una gamba, ha detto alla Bbc di essere stato tenuto prigioniero per 15 giorni all'aperto a temperature sotto lo zero, legato e imbavagliato. 

Human Rights Watch dice di aver documentato crimini di guerra commessi dalle forze russe nelle aree di Kiev, Kharkiv e Chernihiv, nell'Ucraina settentrionale, tra cui un caso di stupro ripetuto e due casi di esecuzione sommaria. Amnesty International ha pubblicato ulteriori testimonianze, raccolte sul campo, su esecuzioni extragiudiziali di civili ucraini da parte dell'esercito russo che fanno pensare a crimini di guerra.

«Nelle ultime settimane abbiamo raccolto prove di esecuzioni extragiudiziali e altre uccisioni illegali da parte delle forze russe. Molte di queste prove devono essere indagate come probabili crimini di guerra. Stiamo parlando di atti di inspiegabile violenza e di sconvolgente brutalità, come le uccisioni di civili privi di armi nelle loro case o in strada», ha detto Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. 

«L'uccisione intenzionale di civili è una violazione dei diritti umani e un crimine di guerra». Finora Amnesty International ha ottenuto prove di uccisioni di civili in attacchi indiscriminati a Kharkiv e nella regione di Sumy, di un attacco aereo che ha ucciso civili in coda per il cibo a Chernihiv e della situazione delle popolazioni civili sotto assedio a Kharkiv, Izium e Mariupol. Le persone intervistate hanno raccontato ad Amnesty International di essere rimaste prive di elettricità, acqua e riscaldamento sin dai primi giorni dell'invasione e di aver avuto scarse quantità di cibo a disposizione.

Due abitanti di Bucha hanno detto che i cecchini aprivano regolarmente il fuoco contro chi andava a recuperare cibo da un negozio che era stato distrutto. La versione di Mosca, senza sorpresa, è che «Le autorità ucraine stanno intensificando una campagna per diffondere accuse deliberatamente false contro i militari russi», ha detto l'ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov , che si dice sicuro che «il regime di Kiev sta preparando un altro contenuto provocatorio sulla morte di civili nella regione di Kharkiv». Le persone - afferma - «vengono pagate 25 dollari per partecipare alle riprese inscenate».

DAGONEWS il 7 aprile 2022.

Un video che sta circolando in rete mostra un gruppo di soldati ucraini che uccide militari russi dopo averli legati con le mani dietro la schiena. Una scena horror che ricorda quella dei civili massacrati a Bucha.  

Il filmato, verificato mercoledì dal “New York Times”, mostra le truppe ucraine che commettono gli omicidi dopo un’imboscata su una strada appena a nord di Dmytrivka, a circa 11 chilometri a sud-ovest di Bucha. 

«È ancora vivo – dice uno degli ucraini - Filma questi predoni. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando».  Uno dei soldati ucraini a quel punto spara tre colpi di pistola: dopo il secondo il russo continua a muoversi, ma poi smette di respirare dopo il terzo colpo. Sembra che almeno altri tre soldati russi siano stati uccisi nella stessa imboscata.

Da fanpage.it il 7 aprile 2022.

Non ci sono solo i crimini di guerra commessi dalle forze armate russe. Sempre più spesso, infatti, stanno emergendo episodi inquietanti imputabili anche all'esercito ucraino, come quello documentato con un video risalente molto probabilmente al 30 marzo. 

Nel filmato, che sta circolando su Telegram ed è stato verificato in modo indipendente anche dal New York Times, si possono vedere degli uomini agli ordini di Kiev uccidere dei prigionieri russi in un villaggio a ovest della capitale. 

Le telecamere indugiano sui due soldati a terra e una voce dice: «Quello è ancora vivo. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando». Altri replicano: «Questi non sono nemmeno umani». Sull'asfalto si vede un militare russo con una giacca tirata sulla testa, apparentemente ferito; pochi secondi dopo l'ucraino gli spara ripetutamente, uccidendolo.

Accanto all'uomo giustiziato il video mostra almeno altri tre soldati russi morti, uno dei quali con una ferita alla testa e le mani legate dietro alla schiena con dei bracciali bianchi comunemente indossati dalle truppe russe. 

Il video sarebbe stato girato lungo una strada nei pressi del villaggio di Dmytrivka, a una quindicina di chilometri a sud-ovest di Bucha, teatro di una mattanza attribuita alle truppe di Mosca. Stando a quanto riferisce il NYT i soldati russi viaggiavano a bordo di un BMD-2, un mezzo da combattimento impiegato dalle truppe aviotrasportate. La colonna sarebbe caduta in un'imboscata intorno al 30 marzo, mentre i militari si stavano ritirando dalle piccole città a ovest di Kiev.

Il filmato con le atroci esecuzioni è stato pubblicato su Twitter il 2 aprile dal giornalista freelance Oz Katerji, specificando che fonti dell'esercito gli avevano riferito che i russi erano caduti in una trappola 48 ore prima nell'ambito di un'operazione lodata dal Ministero della Difesa ucraino: «Un lavoro preciso». 

Quello di Dmytrivka è uno degli episodi che, sempre più spesso, dimostrano come presunti crimini di guerra vengano commessi non solo dai russi, ma anche dagli ucraini.

CRIMINI DEI RUSSI. TIRO AL BERSAGLIO.

Erri De Luca: "I russi a Bucha come i nazisti a Napoli nel 1943: rappresaglie di un esercito che sta perdendo la guerra". Concetto Vecchio su La Repubblica il 7 aprile 2022.  

Lo scrittore: "Giusto dare le armi agli ucraini, non le usano certo per attaccare il suolo russo. Le accuse di maccartismo sono improprie e inadeguate".  

Erri De Luca, qual è stato il suo primo pensiero di fronte alle immagini di Bucha?

"I miei pensieri rimbalzano all'indietro, alle stragi commesse da altri eserciti in ritirata. Vinti sul campo, scaricano la loro frustrazione sugli inermi che capitano loro a tiro. Sono rappresaglie. L'esercito tedesco cacciato da Napoli dopo quattro giorni d'insurrezione, nel 1943, nascose una bomba ad alto potenziale nella Posta centrale, con il timer a 48 ore: l'esplosione fu una strage di pura ritorsione.

Nel grande libro di Vasilij Grossman dove l’ideologia si dissolve. CLAUDIO PIERSANTI su Il Domani il 07 aprile 2022.

Fa uno strano effetto leggere Stalingrado di Vasilij Grossman questi giorni. Se per distrarti accendi la televisione ti sembra di vedere un film al contrario. Gli stessi luoghi. Il bombardamento e la distruzione di Kiev, le stragi di innocenti, il Donbass, Odessa.

Ma allora erano i nazisti ad attaccare. Con una potenza di fuoco impressionante. Hitler non ha invaso la Russia con leggerezza, ma con una macchina militare spaventosa.

Non ha senso leggere Stalingrado senza leggere a seguire Vita e destino: sarebbe come leggere soltanto metà di Guerra e pace. In questo unico grande libro avviene un fenomeno straordinario: l’ideologia si dissolve. 

CLAUDIO PIERSANTI. Scrittore e sceneggiatore. Il suo primo romanzo, Casa di nessuno, è uscito nel 1981. Alcuni, più volte ristampati in Italia,  hanno ottenuto premi (Viareggio, Vittorini ecc) e sono stati tradotti in molti paesi. Tra questi: L’amore degli adulti, Luisa e il silenzio, L’appeso, Stigmate (un libro a fumetti realizzato con Lorenzo Mattotti) e La forza di gravità (2018). È stato a lungo anche sceneggiatore lavorando per il cinema e  la televisione. Ha diretto La rivista dei Libri (ediz. Italiana della New York Review of Books). 

Domenico Quirico per “la Stampa” il 7 aprile 2022.

Nel 1944 le uniche pagine di giornale che i soldati russi non usavano per arrotolarsi le sigarette erano quelle in cui erano pubblicati gli articoli scritti da Il'ja Erenburg. Quelle erano parole sacre: «Se hai ammazzato un tedesco ammazzane un altro...non c'è niente di più allegro dei cadaveri tedeschi... Germania, tu puoi ora rotolarti su te stessa e ululare nella tua agonia mortale... l'ora della vendetta è suonata».

Chissà se alcuni di loro avevano letto anche il Deuteronomio: «Quando il Signore ti avrà dato la città del nemico nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici». 

Alle spalle di quei soldati c'erano tre anni e mezzo di lutti e di violenza. Indimenticabili. Immortali. La guerra non rende la gente più tenera. Al contrario la rende volgare e molto crudele. Adesso per i soldati russi era arrivato il momento di rovesciare le parti. I «politruk» che affiancavano le unità della Armata rossa, i commissari politici che vegliavano sull'umore della truppa e sulla reverenza al verbo del padre Stalin, incitarono: «Voi state per diventare esecutori di giustizia, dovete essere l'incarnazione del tribunale della giustizia del vostro popolo».

Quando superavano la frontiera prussiana i soldati piantavano una piccola bandiera rossa e si radunavano per una ultima riunione di coscienza politica. Gli ufficiali ricordavano i crimini che erano venuti a vendicare, le violenze perpetrate sulle donne russe, i villaggi e le città bruciate, le lacrime delle madri. Ora era arrivato il momento di spogliare il cadavere tedesco. 

Mi è venuto in mente tutto questo leggendo le denunce di saccheggi nelle zone del nord dell'Ucraina attorno a Kiev occupate dall'esercito russo per un mese prima del ritiro oltre la frontiera bielorussa. A cui si aggiunge una sequenza di immagini che, secondo molti, sarebbe la prova di questi saccheggi.

Soldati che spediscono a casa, nella allegra confusione di una marachella ben riuscita, nelle scatole di uno spedizioniere bielorusso il bottino, come all'uscita di un centro commerciale: televisori telefonini, computer. I potenti invasori sembrano dunque più poveri di coloro che hanno aggredito. Negli occhi dei saccheggiatori aleggia il piacere: lusso, confort, tecnologia, parole straniere nella Russia, eterna pezzente ma con i missili e la Bomba. 

Nelle buie settimane di Bucha gli uomini furono scritti sulla lavagna nera come numeri a più cifre, un colpo di spugna sopra, ecco, cancellati. La roba, quella no, quella è importante. Bisogna portarla a casa. Anche così quello che è accaduto si fa palese. Parla. Gli oggetti rubati sono scorie del consumismo povero. In poco tempo si sfasceranno, saranno gettati via. Non diventeranno, temo, un passato che non dà pace.

Il saccheggio è la vergogna della guerra, da sempre: il vincitore esige il diritto di prendere tutto al vinto, la vita, le donne, i beni. Quello che non può portar via deve essere distrutto per cancellarne la memoria. È la spogliazione del cadavere. In mezzo ai resti fumanti, ai morti abbandonati, dalle porte e dalle finestre divelte dai saccheggiatori rinasce il miserabile commercio delle cose rubate. La guerra è quello che i barbari furono per le società antiche, agenti convulsi di distruzione e dissoluzione. 

Oltre che l'omicidio anche il furto diventa lecito, autorizzato, in fondo giusto compenso alla fatica spesa per cacciare il nemico. Un tempo i generali lo promettevano ai soldati per motivarli o renderli pazienti: poi vi rifarete nella città conquistata... Oggi la differenza è che nessuno lo dice esplicitamente.

Nel 1945 i nonni dei soldati russi che hanno assediato Kiev vissero una campagna militare spietata per entrare in Germania, con decine di migliaia di morti. Ma quello fu anche per loro un periodo di strana abbondanza. La Germania era ricca. Nonostante cinque anni di guerra era ancora molto più ricca delle terre in cui erano stati arruolati. 

Si presero le donne tedesche, a migliaia, ma anche rubarono. E tutto venne fatto su scala russa, monumentale. Avevano sofferto e perduto più di qualunque altro e ora volevano una ricompensa. Stalin pretendeva dal Reich un risarcimento di almeno dieci miliardi di dollari. Una parte spettava a loro e bisognava impadronirsene subito, fino a che si era in tempo.

Dal 1944 era stato emanato un previdente ordine di servizio in cui si specificava in dettaglio la procedura da seguire per i «trofei». E la loro spedizione in Russia. Qualsiasi cosa conquistata o abbandonata diventava proprietà dell'Armata rossa. Una volta si era più sfacciati, non si temevano certo tribunali incaricati di perseguire i reati di guerra. 

Mentre squadre specializzate provvedevano a smontare pezzo dopo pezzo le fabbriche tedesche, i soldati facevano da soli. E spesso saccheggiare era l'unico modo per mangiare perché le linee di rifornimento della Armata rossa, come pare quella di Putin, erano rudimentali e sempre in ritardo.

In Russia non c'era niente da comprare. Gli ufficiali furono i primi ad approfittare imballando porcellane. Biancheria, pellicce, confiscando automobili per portare in patria le meraviglie tedesche. Un saccheggio di alto bordo per cui si arrivò perfino a organizzare, visti i volumi, treni del bottino. Alla vigilia del capodanno russo del 1944 il ministro della Difesa autorizzò tutto l'esercito a mandare «pacchi» a casa, cinque chili per i soldati, quindici per gli ufficiali. Ma si era indulgenti, si largheggiava nel peso. 

Gli oggetti rubati dicono molto di coloro che ne approfittarono: era l'immagine di un popolo che il comunismo aveva immerso nella miseria mobilitandola con la missione del comunismo. I soldati di Stalin come i coscritti di Putin erano ragazzi arrivati al fronte spesso direttamente dalla scuola, che non avevano imparato niente se non a sparare, a strisciare, a lanciare bombe, a uccidere e odiare il nemico.

C'era chi spediva macchine da scrivere che non avrebbe mai usato perché non utilizzavano caratteri cirillici, o metteva da parte una bella radio tedesca ma si rammaricava che nella sua isba non ci fosse la corrente elettrica. Oppure spedivano scarpe, panni di lana per confezionare finalmente cappotti caldi, cuoio per confezionare alte scarpe. Ricercatissimi erano gli orologi da polso. E le biciclette, pochi sapevano usarle, facevano tentativi malaccorti e ruzzolavano fragorosamente tra le risate dei commilitoni. Qualcuno, forse, a Vladivostok o a Jakutsk sta aprendo pacchi con la stessa meraviglia.

La Russia chiede il disarmo globale. Sulla «Gazzetta» del 19 aprile 1922: Mussolini spinge per la libertà di stampa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

Sul «Corriere delle Puglie» del 19 aprile 1922 in primo piano c’è la partecipazione della giovanissima Repubblica Federativa Socialista Sovietica di Russia alla Conferenza di Genova, l’incontro internazionale per pianificare la ricostruzione dell'Europa centrale ed orientale dopo gli orrori della Grande guerra. Il capo della delegazione Čičerin ha annunciato l’intenzione del suo Paese di convivere pacificamente con gli stati con diverso ordinamento sociale e ha presentato un ampio programma pacifista di disarmo globale. L’obiettivo principale è, naturalmente, da parte del Paese nato dalla rivoluzione bolscevica, quello di riprendere gli scambi commerciali con l’Europa.

Sulla questione si è espresso anche Trotsky, commissario del popolo per la difesa nazionale: la Russia, egli ha affermato, desidera la pace ed è pronta a disarmare a condizione che lo facciano anche le potenze che l’hanno assalita. All’offerta sovietica si è fermamente opposta la Francia, convinta di esser di fronte ad un mero atto propagandistico. «Il rifiuto della Francia vuol semplicemente dire che gli stati capitalisti desiderano conservare un esercito potente per opprimere e sopprimere i deboli e gli inermi» è il cuore del messaggio di Trotsky riportato dal «Corriere».

Mussolini per la… libertà di stampa!

Nelle ultime pagine appare un articolo di Benito Mussolini, pubblicato il giorno prima sul giornale da lui diretto, «Il Popolo d’Italia». Il leader fascista si scaglia contro la decisione della Federazione della Stampa di esser disposta a ripristinare in pieno la libertà di stampa solo dopo «una profonda revisione dei sistemi di lotta politica e di una concezione più serena dei diritti di ogni corrente di idee»: in sostanza, essa non deve diventare un alibi per calunniare e diffamare gli avversari. Per Mussolini tutto questo è inconcepibile: non c’è confronto tra l’atteggiamento del suo giornale e quello dell’«Avanti!», il quotidiano socialista, che si accanisce da tempo ormai contro i fascisti, i quali invece, si sarebbero impegnati a smorzare i toni. Il futuro duce fa riferimento a quel patto di pacificazione sottoscritto, nell’agosto precedente, al culmine di una escalation estrema di violenze tra le due forze in campo, rivelatosi però del tutto inefficace. Per la libertà di stampa, dunque, si batte quello stesso Mussolini che poco più di un anno dopo, nel luglio 1923, ormai a capo del governo, metterà sotto controllo il mondo del giornalismo, arrivando infine ad imbavagliare del tutto la libera informazione e la diffusione del libero pensiero.

Stalin seppe che per noi era «zio Giuseppe». Minacciò di lasciare Yalta, poi capì lo scherzo. Wiston Churchill su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.

In un articolo pubblicato il 19 novembre 1953, Churchill scriveva: «Ricordo che a un pranzo nei giorni della Conferenza fu Roosevelt a rivelarglielo. Io gli avevo suggerito di farglielo sapere in privato ma lui preferì dirlo davanti a tutti in tono giocoso». 

Cena a Palazzo Livadia per la Conferenza di Yalta (1945): in primo piano a sinistra il Segretario di Stato Usa Edward R. Stettinius, a destra il ministro degli Esteri sovietico Vjaceslav Molotov.Dopo di lui, da destra, i tre leader: nell’ordine Winston Churchill (Gb), Franklin Delano Roosevelt (Usa) e Iosif Stalin (Urss)

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. E il giornale ha ospitato nella sua storia gli interventi di capi di stato e statisti, come questo articolo di Winston Churchill che vi proponiamo dal numero di «7» uscito il 15 aprile. Buona lettura

19 novembre 1953

La sera del 10 febbraio a Yalta si svolse nella mia residenza l’ultimo pranzo di cerimonia della conferenza. Molte ore prima che Stalin arrivasse, comparvero a villa Vorontzov numerosi soldati russi. Essi chiusero le porte che si trovavano sui due lati minori della sala da pranzo e si misero di fazione in vari punti. Fu compiuta una accuratissima perquisizione; i russi frugarono sotto i tavoli e negli angoli più strani. I miei collaboratori furono fatti uscire dalla villa e indotti a ritirarsi nei loro alloggiamenti privati. Quando tutto fu trovato in ordine giunse il Maresciallo, di ottimo umore, seguito poco dopo dal Presidente Roosevelt. Al pranzo svoltosi alla villa Yusupov Stalin aveva brindato alla salute del re in una forma che, pur volendo essere amichevole e rispettosa, non mi era per niente andata a genio. Infatti il Maresciallo aveva detto che egli era sempre stato contrario a tutti i re, che egli era dalla parte del popolo e non già dalla parte di alcun re, ma in questa guerra egli aveva imparato a onorare e stimare il popolo britannico, che amava e rispettava il suo re, e perciò egli proponeva un brindisi alla salute del re d’Inghilterra. Io non ero rimasto per nulla soddisfatto di quel brindisi e perciò dissi a Molotov che gli scrupoli di Stalin avrebbero potuto essere evitati in futuro brindando alla salute dei «tre Capi di Stato». E poiché così fu convenuto, quella stessa sera misi in pratica la nuova norma d’etichetta proponendo il seguente brindisi: «Brindo alla salute di sua maestà il re, del Presidente degli Stati Uniti e del Presidente dell’Unione Sovietica Kalinin, i tre Capi di Stato».

Roosevelt, che appariva molto stanco, così rispose: «Il brindisi del Primo ministro fa risorgere un ricordo. Nel 1933, mia moglie si recò a visitare una scuola del nostro Paese. Sulla parete di un’aula vide una carta geografica dove spiccava un grande spazio in bianco. Domandò allora cosa significasse quello strano fatto; le fu risposto che si trattava di un Paese che non era lecito nominare; cioè l’Unione Sovietica. Questo piccolo incidente fu uno dei motivi che mi indussero a scrivere al Presidente Kalinin per chiedergli di mandare a Washington un suo rappresentante per discutere la possibilità di stabilire relazioni diplomatiche tra i nostri due Paesi. Questa è la storia del riconoscimento dell’Unione Sovietica da parte nostra».

Mi alzai allora io per brindare alla salute di Stalin: «Già varie volte ho fatto questo brindisi; ma in questa occasione lo faccio con maggior calore, non già perché il Maresciallo abbia conquistato maggiori trionfi ma perché le grandi vittorie e la gloria dell’Armata rossa lo hanno reso più gentile di quanto egli non fosse nei periodi difficili che abbiamo passati. Io sento che, quali che siano le divergenze su alcuni argomenti, egli ha un buon amico nella Gran Bretagna....». «Vi è stato un tempo in cui il Maresciallo non era così gentile verso di noi; ed io ricordo di aver fatto qualche duro rimarco sul suo conto, ma i comuni pericoli e la reciproca lealtà hanno spazzato tutti questi malintesi; il fuoco della guerra ha bruciato tutte le incomprensioni del passato. «Noi sentiamo che abbiamo un amico del quale ci possiamo fidare e io spero che egli continui a nutrire gli stessi sentimenti nei nostri confronti. Io prego che egli possa vivere tanto a lungo da poter vedere la sua amata Russia non soltanto vittoriosa in guerra ma anche felice in pace».

Il capo migliore è quello che ha vinto una guerra

A quel pranzo, compresi gli interpreti, eravamo non più di una dozzina di persone e, una volta esaurita la parte protocollare, si intavolarono amichevoli discussioni a piccoli gruppi di due o tre. Io avevo detto fra l’altro che, dopo la sconfitta di Hitler, si sarebbero svolte in Inghilterra le elezioni generali. Stalin riteneva che un mio successo fosse garantito «poiché - egli disse - il popolo vuole avere un capo e quale miglior capo potrebbe scegliere di colui che ha vinto la guerra?». Gli spiegai che in Inghilterra vi erano due partiti e che, io, ero semplicemente un membro di uno di essi. «È molto meglio avere un partito unico», osservò Stalin con tono di profonda convinzione. Stalin raccontò poi un episodio personale per illustrare quello che lui chiamava «l’insensato spirito di disciplina della Germania del Kaiser». Da giovane, una volta, Stalin si era recato a Lipsia con circa duecento comunisti tedeschi per partecipare a una conferenza internazionale che si svolgeva in quella città. Il treno era arrivato puntualmente in stazione ma mancava l’usciere che doveva raccogliere i biglietti. Così i duecento comunisti germanici attesero docilmente per due ore prima di poter uscire dalla stazione; e giunsero troppo tardi al convegno per partecipare al quale avevano fatto un lunghissimo viaggio. La serata trascorse in maniera piacevole. Ma in un’altra occasione, sempre durante la nostra permanenza a Yalta, le cose non erano andate tanto lisce.

Una confidenza pericolosa

Durante una colazione offerta da Roosevelt, questi rivelò che spesso lui e io, nei nostri rapporti privati, indicavamo Stalin con l’appellativo di «zio Giuseppe». Io avevo suggerito a Roosevelt di rivelare quel particolare a Stalin in privato, ma il Presidente invece lo disse in tono scherzoso in presenza di tutti. Ci fu un momento di imbarazzo penoso. Stalin si offese: «Quando potrò lasciare questa tavola?» domandò in tono adirato. Fu Byrnes a salvare la situazione con una frase felice. «Dopo tutto - disse - voi non vi fate scrupolo di usare il termine zio Sam per indicare l’America, e allora cosa c’è di male nel dire zio Giuseppe?». Allora il Maresciallo si placò e più tardi Molotov mi assicurò che Stalin aveva perfettamente compreso lo scherzo. Egli sapeva già che molta gente all’estero lo chiamava zio Giuseppe e si era reso conto che il soprannome gli era stato affibbiato in senso amichevole e affettuoso. Il giorno successivo chiuse il periodo della nostra permanenza in Crimea. Come sempre accade in simili conferenze, molte gravi questioni rimasero insolute. Il Presidente era ansioso di rientrare in patria e di fare una sosta in Egitto durante il viaggio per discutere le questioni del Medio Oriente. A mezzogiorno dell’ll febbraio Stalin e io facemmo una colazione con Roosevelt a palazzo Livadia, in quella che era stata un tempo la sala da biliardo dello zar. Durante il pranzo, firmammo i documenti conclusivi e i comunicati ufficiali. Tutto ora dipendeva dallo spirito con cui quei documenti sarebbero stati messi in atto.

Visita sul campo di battaglia

Quello stesso pomeriggio partii in automobile con mia figlia Sarah verso Sebastopoli, dove era ancorato il transatlantico Franconia, che era servito come base logistica principale della nostra delegazione. Io desideravo visitare il campo di battaglia di Balaclava e perciò chiesi al generale Peake di prepararsi a farci da cicerone e a illustrarci tutti i particolari della famosa azione svoltasi durante la guerra di Crimea. Il pomeriggio del 13 febbraio mi recai nella zona; mi accompagnava l’ammiraglio russo che comandava la flotta del Mar Nero e che mi era stato assegnato come scorta personale dal Governo di Mosca. Noi eravamo un poco timidi e usavamo molto tatto nei riguardi del nostro ospite. Ma non avremmo dovuto preoccuparci tanto. A un certo momento, il generale Peake ci indicò la posizione sulla quale si era schierata la Brigata Leggera; l’ammiraglio russo intervenne indicando quasi lo stesso punto ed esclamò: «I carri armati tedeschi piombarono su di noi da quella posizione». Poco dopo, Peake ci stava illustrando lo schieramento dei russi e indicava le colline sulle quali era piazzata la loro fanteria quando intervenne nuovamente l’ammiraglio sovietico e con evidente orgoglio esclamò: «In quel punto una batteria russa combattè fino a che l’ultimo servente fu ucciso». A questo punto ritenni giusto spiegare al nostro ospite che noi stavamo studiando un’altra guerra: «una guerra di dinastie e non di popoli». Il nostro amico ammiraglio non diede cenno di aver compreso ma si mostrò completamente soddisfatto. E cosi tutto si svolse nel migliore dei modi.

Ad Atene e in Egitto, sempre con i figli

Nelle prime ore del 14 febbraio partimmo in automobile verso l’aeroporto di Saki e di qui in volo per Atene dove fui accolto da una grande dimostrazione popolare. La mattina del giorno 15 partii in aereo per Alessandria d’Egitto; qui presi quartiere a bordo dell’incrociatore Aurora. Le conversazioni tra il Presidente Roosevelt e Ibn Saud. Faruk e Hailé Selassié si erano svolte nei giorni precedenti a bordo dell’incrociatore americano Quincy, che aveva calato le ancore nel Lago Amaro. Poco dopo il mio arrivo il Quincy entrò nel porto di Alessandria e verso mezzogiorno io salivo a bordo. Erano con me i miei figli Sarah e Randolph, e Roosevelt aveva accanto sua figlia Anna (allora sposata Boettiger); ci riunimmo tutti nella cabina del Presidente per una cena amichevole, alla quale presero parte anche Hopkins e Winant. Il Presidente appariva tranquillo e fragile; io ebbi la sensazione che egli si sentisse già un poco distaccato dalle cose di questo mondo. Non lo dovevo vedere mai più. Ci salutammo affettuosamente e nel pomeriggio la nave di Roosevelt levava le ancore per tornare in America.

Scelta obbligata la vicinanza con la Russia

Esattamente a mezzogiorno del 27 febbraio io chiedevo alla Camera dei Comuni di approvare i risultati della conferenza di Yalta. In generale i deputati appoggiavano completamente l’atteggiamento da noi assunto; ma era anche fortemente sentito l’obbligo morale che noi avevamo verso la Polonia che tanto aveva sofferto ad opera dei tedeschi e per la quale avevamo preso le armi. Un gruppo di circa trenta deputati sentiva tanto profondamente la questione che parlò apertamente contro la mozione da me proposta. È molto facile, dopo la sconfitta della Germania, criticare coloro che fecero del loro meglio per rincuorare i russi, aiutare il loro sforzo bellico e mantenersi in armonioso contatto con il nostro grande alleato. Cosa sarebbe accaduto se ci fossimo messi in urto con la Russia quando i tedeschi disponevano ancora di tre o quattrocento divisioni sui vari fronti? Le nostre speranze dovevano ben presto essere deluse; eppure a quel tempo non v’era altro atteggiamento da prendere.

LA BIOGRAFIA DELL’AUTORE - WINSTON CHURCHILL 

Winston Churchill fu primo ministro britannico conservatore nella seconda guerra mondiale (1940-1945) e ancora tra il 1951 e il 1955. nacque a Woodstock nel 1874 e morì 90enne a Londra nel 1965. Di famiglia aristocratica, sposò la nobildonna Clementine Hozier nel 1908. Con lei ebbe 5 figli. L’opera monumentale La seconda guerra mondiale (1948-1953) che fu pubblicata anche a puntate sul Corriere in esclusiva per l’Italia e da cui è tratto questo articolo, gli valse il premio Nobel per la Letteratura nel 1953.

La storia del processo ai nazisti. Come è nato il processo di Norimberga, voluto da Stalin contro Churchill e Roosvelt. David Romoli su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

A differenza di quel che si potrebbe credere in base alla visione dei processi di Norimberga offerta soprattutto dal cinema, la strada che portò a quei processi e in particolare al primo, che vide alla sbarra i principali gerarchi superstiti del Terzo Reich dal 20 novembre 1945 al primo ottobre 1946, fu lunga, contrastata, segnata dal rapporto di forze e dalle diverse esigenze dei Paesi in guerra contro l’Asse. E fu molto più decisivo di quanto non sia apparso in seguito il ruolo dell’Unione sovietica.

A parlare per la prima volta di una punizione legale per i nazisti e i loro alleati erano stati nel gennaio 1942 i rappresentanti di nove Paesi invasi dalle forze dell’Asse, riuniti a Londra. L’idea di un tribunale internazionale non aveva convinto nemmeno un po’ Usa e Uk, anche perché l’esperienza si era dimostrata fallimentare e controproducente dopo la prima guerra mondiale.

In giugno, a Washington, il premier inglese Churchill e il presidente Roosevelt avevano concordato sull’opportunità di dar vita a una commissione d’inchiesta sui crimini di guerra, priva però di poteri sanzionatori. Nella visione dei due leader si trattava di una commissione con scopi essenzialmente propagandistici. L’ipotesi di allestire un vero processo era ancora del tutto esclusa. La situazione nell’Unione sovietica era opposta. Stalin e il suo ministro degli Esteri Molotov volevano assolutamente che i leader della Germania nazista fossero portati alla sbarra, anche e forse soprattutto perché, per quanto la situazione dell’Urss fosse ancora difficilissima e la guerra tutt’altro che vinta, già miravano a riparazioni tali da permettere la ricostruzione di un Paese devastato e distrutto dalla “guerra assoluta” di Hitler. Quello che avevano in mente non era un processo che implicasse equilibrio tra accusa e difesa, esibizione di prove o dubbi sul verdetto. Il modello erano i grandi processi staliniani del 1937 e infatti Stalin incaricò proprio Andrej Vyshinsky, il grande inquisitore di quei processi, di preparare quelli del dopoguerra.

Vyshinsky, a sua volta, coinvolse Aron Trainin, il giurista sovietico che più di ogni altro aveva dato forma legale ai processi di Mosca. Fu Trainin, nei tre anni successivi, a definire l’impianto legale che sarebbe poi stato adoperato a Norimberga, smantellando la giustificazione adoperata più spesso, quella di aver “obbedito agli ordini” e soprattutto aggiungendo all’accusa di “crimini contro l’umanità” quella sino a quel momento inesistente di “crimini contro la pace”. Il fatto stesso di aver deciso di muovere guerra con scopi di razzia o genocidio diventava così delitto in sé. Nell’estate del ‘42 le prove dei massacri sul fronte orientale erano però tali e tante da imporre a Usa e Uk di prendere una posizione più decisa. Roosevelt promise in agosto che i responsabili sarebbero stati processati nei Paesi nei quali si erano macchiati dei crimini. Churchill, sentendosi scavalcato, rilanciò l’8 settembre con l’annuncio pubblico della costituzione di una commissione speciale d’inchiesta sulle atrocità commesse dai tedeschi. Stavolta furono i sovietici a prendere malissimo l’annuncio, del quale non erano stati avvertiti preventivamente. Dopo settimane di schermaglie e gelo, bollarono la proposta come “troppo timida” e diedero vita a una propria Commissione straordinaria di Stato incaricata di raccogliere prove sui crimini tedeschi.

La distanza tra il progetto di Stalin e quello del Regno Unito era abissale e rispecchiava la opposta cultura giuridica dei due Paesi. L’Urss mirava a processi-spettacolo in cui la regia fosse decisa a priori sin nei particolari e nei quali dunque non ci fosse nulla da temere. Gli inglesi erano invece consapevoli dell’obbligo, una volta scelta la strada del tribunale internazionale, di rispettare le regole del rituale e non vedevano per quale ragione si dovesse correre i rischi inevitabili un processo reale. Suggerivano di risolvere la faccenda sbrigativamente, con un decreto che condannasse all’impiccagione i gerarchi del Terzo Reich a partire da Hitler. L’eventuale processo per crimini contro l’umanità presentava una difficoltà in più. L’accusa poteva essere rivolta anche contro i sovietici. Nel 1940 l’Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni, erede della Gpu e predecessore del Kgb) aveva massacrato 22mila esponenti dell’élite polacca alle Fosse di Katyn. Nell’aprile 1943 la Germania diede notizia del massacro. Stalin risolse il problema a modo suo: attribuì l’eccidio ai nazisti e gli alleati finsero di credergli. Anche per stornare l’attenzione da Katyn, nel luglio 1943 i sovietici organizzarono il primo processo pubblico contro 11 persone, tutte russe o ucraine, accusate di aver collaborato con gli Einsetzgruppen nell’uccisione di 7mila civili, per lo più ebrei.

In dicembre, subito dopo la conferenza di Teheran fra “i tre grandi” i sovietici allestirono a Kharkov il primo processo in assoluto per crimini di guerra che vedesse militari tedeschi come imputati per lo sterminio di 14mila vittime, per la maggior parte ebree. Gli imputati, tre tedeschi della Gestapo e un collaborazionista ucraino, furono condannati e impiccati dopo un dibattimento nel quale fu per la prima volta smontata la tesi difensiva dell’aver obbedito a ordini superiori. Quando si svolse il processo di Kharkov, al quale Stalin diede massima pubblicità, si era già svolta tra ottobre e novembre la terza conferenza di Mosca, nella quale i ministri degli Esteri dei tre Paesi, il russo Molotov, l’inglese Eden e l’americano Hull concordarono per la prima volta ufficialmente l’intenzione di punire tutti i responsabili dei massacri nazisti, senza specificare però se passando o meno per processi formali. L’interrogativo non fu evaso neppure nella successiva conferenza di Teheran, dal 28 novembre al primo dicembre ‘43, nella quale Stalin illustrò tuttavia il progetto di eliminare tra i 50mila e i 100mila ufficiali tedeschi. Churchill e Roosevelt pensarono, a torto, che stesse scherzando.

Quando i tre leader si incontrarono di nuovo a Yalta, dal 4 all’11 febbraio 1945, la decisione sul come punire i capi della Germania nazista e i responsabili delle stragi non era ancora stata presa. Gli inglesi insistevano sulla condanna a morte per decreto ma nel corso del 1944 lo staff della Casa Bianca si era spostato sempre più vicino alle posizioni sovietiche. I consiglieri di Roosevelt ritenevano che la condanna a morte senza processo avrebbe potuto fare dei nazisti dei martiri e suggerivano una dinamica molto simile a quella poi effettivamente adottata: un primo processo contro i principali gerarchi e poi processi contro gli imputati di rango minore che avrebbero potuto svolgersi o nei Paesi colpiti oppure, di nuovo, di fronte a corti internazionali. Mentre la fine della guerra si avvicinava, il nodo non era ancora stato sciolto. Gli inglesi erano fermi sull’idea di un processo a porte chiuse alla fine del quale le condanne avrebbero dovuto essere emanate per decreto e non tramite formale sentenza. I sovietici reclamavano il processo pubblico secondo il rito spettacolare del 1937 a Mosca.

In aprile Harry Truman, diventato presidente dopo la morte di Roosevelt, ruppe gli indugi, bocciò la proposta inglese, in realtà condivisa da molti anche a Washington, perché “antidemocratica”, assicurò ai sovietici che anche con un processo formale e “garantista” i gerarchi sarebbero stati puniti. Il 2 maggio 1945, proprio mentre i sovietici issavano la bandiera sovietica sul Reichstag a Berlino, Truman, senza avvertire inglesi e sovietici, annunciò l’istituzione di un tribunale militare internazionale che avrebbe giudicato i responsabili del terrore nazista.

David Romoli

Le foto dei corpi di Bucha sono punto di non ritorno. Ma la Russia tenta di offuscare la verità e parla di fake news. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 4 aprile 2022.  

Il ministero della Difesa di Mosca sul massacro di Bucha: «I cadaveri ad almeno quattro giorni dalla morte non sono rigidi e non hanno macchie» Lo speaker tv filo-Putin: «È una montatura, muovono le mani». 

In un mondo normale, i racconti e le immagini che provengono da Bucha dovrebbero rappresentare uno spartiacque definitivo. Quell’orrore così ripetuto da sembrare invece un metodo, una tecnica di guerriglia in un conflitto che non avrebbe mai dovuto cominciare, dovrebbe essere il punto di non ritorno. Per i molti ancora alle prese con troppi distinguo, per i politici renitenti a pronunciare il nome di chi ha voluto ad ogni costo l’invasione dell’Ucraina. Per chi è convinto che anche quei corpi abbandonati sul ciglio di una strada alla periferia di Kiev vadano messi in conto al malconcio Occidente. Ma è da tanto tempo che invece abbiamo accettato l’idea di non vivere più in un mondo normale, dove contano solo i fatti e in base a quelli si deve ragionare. Ci stiamo ormai abituando a una realtà dove tutto può essere capovolto, letto e riletto al contrario, per vanità televisiva o accademica, per odio strisciante verso gli Stati Uniti, l’Europa o tutti e due. Non è un caso che la Russia, in evidente imbarazzo per la crudezza di quelle testimonianze, fotografiche o raccolte sul campo dai colleghi delle testate internazionali, abbia reagito più in fretta del solito, mettendo subito in campo il suo armamentario di propaganda. Ad uso e consumo interno, ma non solo. Come al solito, si tratta di uno schema a spirale. Il ministero della Difesa, nelle ultime settimane così silente da destare sospetti sulla sorte dei suoi maggiorenti, emette un comunicato lungo e articolato, nel quale all’inizio sostiene che durante il periodo in cui il sobborgo di Bucha è stato sotto il controllo dell’esercito russo, non un singolo residente ha dovuto soffrire a causa di azioni violente.

Quello che segue è un esercizio autoptico che rende la misura della difficoltà in cui si trova il Cremlino a causa di quelle immagini. «Tutti i corpi delle persone i cui fotogrammi sono stati pubblicati dal regime di Kiev, ad almeno quattro giorni dalla morte non sono diventati rigidi, non hanno le caratteristiche macchie del cadavere, e appare evidente come il sangue non sia ben coagulato nelle ferite». Inoltre, aggiunge il ministero della Difesa russo, intorno ai corpi le case risultano intatte, senza alcun danno. Queste frasi possono anche apparire come una autodifesa tanto tempestiva quanto improbabile. Ma il loro vero significato è quello di un fischio d’inizio, che dà il via alla vera opera di mistificazione, pronta ad attecchire anche sui social, anche a casa nostra. Così, i canali Telegram filorussi cominciano a sostenere che quei corpi appartengono a cittadini ucraini uccisi dal loro esercito in quanto sospettati di collaborazionismo. E in diretta su Rossiya-1, il presentatore Vladimir Soloviov, un neo-oligarca con villa sul lago di Como che ha costruito una carriera sulla sistematica negazione dei fatti, riesce a dire che il massacro di Bucha è una messinscena fatta dall’Ucraina per ottenere ancora più armi dall’Occidente, con i corpi disposti ad arte, e cadaveri falsi, dato che secondo lui alcuni muovono le mani e sono in posizione seduta. Sono teorie della cospirazione indotte dall’alto, e attuate da sostenitori tanto interessati quanto zelanti, che dovrebbero suscitare altrettanto orrore. Ma non è detto che lo facciano. È più probabile che trovino qualche appiglio anche fuori dai confini della Russia. Se tutto è confutabile, anche le immagini di quei poveri corpi, allora non esiste più una sola verità. Il gioco praticato dalla comunicazione del Cremlino in questi anni è così scoperto che non dovrebbe essere necessario parlarne ancora. Invece bisogna farlo.

Nel momento in cui l’Unione Europea annuncia l’adozione di nuove sanzioni, stabilendo così che con l’uccisione dei civili di Bucha è stato oltrepassato un altro limite, saranno molti quelli che si aggrapperanno a versioni alternative dei fatti, a dubbi pelosi, per negare una maggiore incisività a quei provvedimenti, e per impedire che una semplice questione di principio diventi veramente tale, senza dover essere sempre misurata sull’eventuale importo della bolletta del gas. Facendo così, passeranno senza conseguenze l’emozione del momento, il cordoglio, e quelle vittime civili. Che invece dovrebbero se non altro rappresentare il confine tra l’umano e il disumano. E restare in mezzo, non si può.

Guerra Ucraina, a Bucha massacro di civili. Indignazione in Europa: "Nuove sanzioni". Da tg24.sky.it.

A denunciare le esecuzioni da parte dei soldati di Mosca è il governo ucraino che ha anche diffuso la foto di alcuni cittadini uccisi in strada. Secondo Human Rights Watch nella cittadina a nordovest di Kiev liberata dagli ucraini ci sono "prove di crimini di guerra” commessi dai russi. Bucha "solleva serie domande su eventuali crimini di guerra", dice anche l''Onu. Draghi: “Le immagini lasciano attoniti”. Scholz: “Nuove sanzioni nei prossimi giorni”. Usa: “Responsabili pagheranno”. Mosca nega: "Foto sono fake".

Arriva dal governo ucraino la denuncia di esecuzioni di civili da parte dei soldati russi a Bucha, a nordovest di Kiev, a lungo occupata dalle forze armate russe. "Bucha, regione di Kiev. I corpi di persone con le mani legate, uccise a colpi di arma da fuoco da soldati russi, giacciono per le strade. Queste persone non erano nell'esercito. Non avevano armi. Non rappresentavano una minaccia. Quanti altri casi simili stanno accadendo in questo momento nei territori occupati?", scrive su Twitter il consigliere del presidente ucraino Mykhaylo Podolyak, postando una foto. Secondo Human Rights Watch ci sono "prove di crimini di guerra commessi a Bucha”. La notizia è riportata dal Wall Street Journal. In dettaglio il gruppo per i diritti umani ha affermato di aver intervistato una donna che ha visto le truppe russe radunare cinque uomini e sparare a uno di loro alla nuca, uccidendolo. "Abbiamo documentato un evidente caso di esecuzione sommaria da parte delle forze armate della Federazione Russa a Bucha lo scorso 4 marzo", ha affermato una portavoce di Human Rights Watch. Ora le foto diffuse sui social dal governo ucraino rafforzerebbe le accuse dei crimini di guerra commessi dalle truppe di Mosca. Nella giornata del 3 aprile sono stati trovati altri 57 corpi in una fossa comune nella città. Lo denuncia il capo dei soccorritori Serhii Kaplytchny. Una dozzina di corpi erano visibili, altri solo parzialmente sepolti. I corpi scoperti a Bucha "sollevano serie domande su eventuali crimini di guerra", ha fatto sapere l''Onu. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato nuove sanzioni contro la Russia dopo i "crimini di guerra" commessi a Bucha, aggiungendo che le misure saranno decise con i partner nei prossimi giorni. 

L’immagine dei tre civili uccisi in strada a Bucha, uno di loro con le mani legate, ha subito scatenato un’ondata di indignazione. "Le immagini dei crimini commessi a Bucha e nelle altre aree liberate dall'esercito ucraino lasciano attoniti”, ha dichiarato il presidente del Consiglio Mario Draghi. “La crudeltà dei massacri di civili inermi è spaventosa e insopportabile. Le autorità russe devono cessare subito le ostilità, interrompere le violenze contro i civili, e dovranno rendere conto di quanto accaduto. L'Italia condanna con assoluta fermezza questi orrori, ed esprime piena vicinanza e solidarietà all'Ucraina e ai suoi cittadini", ha ribadito Draghi. “Noi stiamo col popolo ucraino. Noi stiamo contro la barbarie della guerra di Putin", ha scritto il segretario del Pd, Enrico Letta postando la foto. "Da Bucha immagini agghiaccianti. Corpi di civili ucraini a terra, uccisi, con le mani legate. Crudeltà, morte, orrore. Accertare il prima possibile l'esistenza di crimini di guerra. Queste atrocità non possono restare impunite", ha scritto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Con il popolo ucraino, la guerra russa va fermata", continua il capo della Farnesina. "L'orrore delle immagini che giungono da Bucha ricorda i tempi più cupi della nostra storia. Non dobbiamo rassegnarci all'ineluttabilità della guerra, non possiamo accettare questa carneficina. Non dobbiamo tacere di fronte a queste violenze", scrive sui social il leadere del M5s Giuseppe Conte. "Da Bucha notizie e immagini di terribili crimini di guerra. Strazio per le vittime. Vergogna e disonore per i responsabili", commenta il commissario Ue Paolo Gentiloni.

"Dobbiamo essere coscienti di che cosa sta accadendo" in Ucraina. Per questo "devono essere imposte sanzioni ancora più dure" alla Russia. È quanto scrive la presidente dell'Europarlamento Roberta Metsola su Twitter dicendosi anche "sconvolta dalle atrocità dell'esercito russo" commesse" a Bucha e in altre aree ora liberate" dalle forze ucraine. "I responsabili" di queste atrocità "e i loro comandanti devono essere portati davanti alla giustizia". Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha accusato l'armata russa di avere commesso "atrocità" nella regione di Kiev, invocando maggiori sanzioni nei confronti di Mosca. "Scioccato dalle immagini ossessionanti delle atrocità commesse dall'armata russa nella regione liberata di Kiev", ha twittato. "L'Ue aiuta l'Ucraina e le Ong a raccogliere le prove necessarie per i procedimenti dinanzi alle corti internazionali".

Scholz: “Accertare gli spaventosi crimini a Bucha”

Più tardi il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha confermato nuove sanzioni contro la Russia, aggiungendo che le misure saranno decise con i partner nei prossimi giorni. "Dobbiamo fare chiarezza senza mezzi termini su questi crimini dei militari russi", ha detto Scholz, commentando le "spaventose" immagini del massacro dei civili di Bucha, in un comunicato diffuso dalla cancelleria. "Io rivendico che organizzazioni internazionali come il comitato internazionale della Croce Rossa abbiano accesso a questa area, per documentare in modo indipendente queste atrocità. I carnefici e i loro mandanti devono essere assicurati alla giustizia", ha aggiunto. "Le immagini dei civili uccisi a Bucha sono insopportabili", ha scritto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock. Anche Baerbock ha definito queste azioni come "crimini di guerra", come anche il vicecancelliere tedesco Robert Habeck: "Questi spaventosi crimini di guerra non possono rimanere senza risposta. Ritengo adeguato un inasprimento delle sanzioni. Questo stiamo preparando con i nostri partner in Ue".

Di fronte alle "atrocità" contro i civili nelle città ucraine di Irpin e Bucha di cui sono accusate le truppe di Vladimir Putin, Londra afferma la necessità di una inchiesta per crimini di guerra. Lo ha dichiarato in una nota la ministra degli Esteri britannica, Liz Truss, secondo cui siamo di fronte ad "attacchi indiscriminati delle truppe russe contro civili innocenti durante l'invasione illegale e ingiustificata dell'Ucraina" e per questo il Regno Unito "sostiene pienamente qualsiasi indagine della Corte penale internazionale".  Alle parole di Truss, che ha anche chiesto sanzioni più severe contro Mosca, si sono aggiunte quelle del premier Boris Jonhnson: nel corso di una telefonata col presidente Volodymyr Zelensky si è congratulato per la resistenza mostrata dalle forze ucraine e ha riconosciuto "l'immensa sofferenza inflitta ai civili". 

"Le immagini che ci giungono da Bucha, una città liberata vicino a Kiev, sono insopportabili. Per le strade, centinaia di civili assassinati vigliaccamente", ha scritto su Twitter il presidente francese Emmanuel Macron. "La mia compassione per le vittime, la mia solidarietà agli ucraini. Le autorità russe dovranno rispondere di questi crimini", ha affermato. La Francia condanna "con la più grande fermezza" i crimini commessi dall'armata russa contro i civili a Bucha e afferma che i suoi responsabili dovranno essere "giudicati e condannati", si legge in una nota del ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian. "Lavoriamo in raccordo con i nostri partner, le autorità ucraine e le giurisdizioni internazionali competenti affinché' questi crimini non restino impuniti" si legge nella nota.

Nato: “Atto di crudeltà”. Usa: “Responsabili dovranno rendere conto”

In un’intervista alla Cnn il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha definito “la barbara uccisione dei civili” a Bucha da parte delle forze russe “un atto di crudeltà”. Le notizie che arrivano dalla città a nordovest di Kiev "sono orribili e inaccettabili". "Si tratta di un atto di brutalità mai vista in Europa da decenni”. Stoltenberg ha quindi ribadito di appoggiare con forza un'indagine su quanto accaduto a Bucha da parte della Corte penale internazionale, organismo che ha già aperto un'inchiesta sui crimini di guerra in Ucraina. Le violenze imputate alle forze russe a Bucha, nella regione di Kiev, "sono un pugno nello stomaco", ha affermato il segretario di Stato Usa Anthony Blinken su Cnn. "È la realtà di ogni giorno fino a quando proseguirà la brutalità della Russia contro l'Ucraina". Gli Stati Uniti, ha aggiunto, continueranno a "documentare" eventuali "crimini di guerra di cui i responsabili dovranno rendere conto".

Mosca ha respinto le accuse di aver ucciso civili a Bucha. Lo ha detto il ministero della Difesa russo, secondo quanto riporta la Tass, bollando le foto ed i video sui morti di Bucha come “fake” prodotti da Kiev e dai media occidentali. Mosca ha aggiunto che la cittadina è stata bombardata dagli ucraini quando era ancora controllata dai russi. "Tutte le fotografie e i materiali video pubblicati dal regime di Kiev, che presumibilmente testimoniano una sorta di 'crimini' del personale militare russo sono un'altra provocazione", ha dichiarato il dipartimento in una nota pubblicata da Ria Novosti, in cui si sottolinea che i filmati di Bucha sono "una produzione di Kiev per i media occidentali". La nota precisa che "le Forze armate colpiscono solo le infrastrutture militari e le truppe ucraine. Entro il 25 marzo, hanno completato i compiti principali della prima fase: hanno ridotto significativamente il potenziale di combattimento dell'Ucraina. L'obiettivo principale del dipartimento militare russo era la liberazione del Donbass".

Esecuzioni con le mani legate, stupri e fosse comuni: gli orrori di Bucha. Patricia Tagliaferri su Il Giornale il 3 aprile 2022.

Scene che si sperava di non dover più rivedere e che invece il conflitto in Ucraina sbatte in faccia al mondo, giorno dopo giorno sempre più violente: civili disarmati giustiziati in mezzo alla strada, bambini usati come scudi umani, stupri, donne uccise e calpestate dai carri armati, fosse comuni. Ritirandosi da Kiev i russi si sono lasciati alle spalle ogni genere di atrocità.

Ci sono immagini e video terribili che documentano i massacri avvenuti a Bucha, a 30 chilometri dalla capitale, e nella vicina Irpin. Agghiaccianti i racconti del sindaco di Bucha, Anatoly Fedoruk, le testimonianze degli abitanti e delle truppe ucraine che hanno ripreso il controllo della zona. A Bucha i soldati hanno trovato abbandonati, in fila, su un'unica strada, la Yabluska, i cadaveri di almeno 20 uomini, alcuni con le mani legate dietro la schiena con degli stracci. Uccisi con colpo d'arma da fuoco sulla nuca, come un'esecuzione. Il sindaco ha denunciato che i civili sono stati trattati dai russi in modo disumano e la presenza di almeno 280 corpi in fosse comuni, «perché era impossibile seppellirli nei tre cimiteri della zona, tutti nel raggio di tiro dei soldati russi». Il capo dei soccorritori, Serhii Kaplychny, ha mostrato alla France Press un sito dove sono sepolte 57 persone. «Non erano militari, non avevano armi, non ponevano una minaccia. Quanti casi come questi ci sono nei territori occupati?», ha scritto il consigliere del presidente, Mykhailo Podolyak. In una delle fosse comuni, vicino a Motyzhyn, è stato trovato il cadavere di Oleksandr Sukhenko, ex calciatore del club Seagull Second League. Fino a ieri, ha fatto sapere l'ufficio della procura generale ucraina che indaga sui possibili crimini di guerra commessi dalla Russia, erano stati trovati 410 cadaveri nelle città alla periferia settentrionale di Kiev.

Davanti all'orrore dei civili uccisi il presidente Zelensky accusa Mosca di compiere «un genocidio» con l'obiettivo «di eliminare tutta la nazione». Commentando le foto degli ucraini giustiziati, il leader ucraino si rivolge alle madri dei soldati russi: «Guardate che bastardi avete cresciuto: assassini, saccheggiatori, macellai». E in un discorso alla nazione indica la leadership russa come «responsabile» delle torture a Bucha annunciando la creazione di «un meccanismo speciale» per indagare sui crimini di guerra. Nonostante Mosca neghi, le immagini - molte già verificate dai media internazionali - raccontano un'altra storia. L'Associated Press ne ha pubblicate alcune che mostrano cadaveri in abiti civili che sembrano essere stati uccisi a distanza ravvicinata, due con le mani legate e due avvolti nella plastica e buttati in una fossa. Alla Bbc il consigliere di Zelensky, Sergey Nikiforov, ha raccontato di cittadini colpiti da proiettili in testa, da dietro. Secondo un altro consigliere del presidente, Oleksiy Arestovych, ci sono anche notizie di avvenuti stupri. E l'ambasciatrice britannica in Ucraina, Melinda Simmons, ha accusato l'esercito russo di usare lo stupro come arma militare. Ci sono prove sufficienti, dice, per parlare di azioni deliberate e approvate dai militari, non di singoli crimini: «Le donne sono state violentate davanti ai loro figli, le ragazze davanti alle loro famiglie, come atto di riduzione in schiavitù». Anche Human Rights Watch ha documentato almeno una violenza sessuale ripetuta su una giovane che aveva trovato rifugio in una scuola nella regione di Kharkiv, oltre ad una serie di esecuzioni sommarie e violenze illecite contro i civili. L'organizzazione non governativa ha intervistato una donna che ha visto le truppe russe radunare cinque uomini e sparare a uno di loro alla nuca, uccidendolo.

Altre drammatiche testimonianze di chi ha vissuto i giorni dell'occupazione prima del ritiro delle truppe, vengono riportate dal Guardian: i soldati russi avrebbero usato i bambini come «scudi umani» sui mezzi per proteggere i loro spostamenti. Si narra di passeggini piazzati davanti ai carri armati nel villaggio di Novyi Bykiv, vicino a Chernihiv, a nord di Kiev, e di altri piccoli presi come ostaggi in una serie di punti caldi del conflitto in tutto il Paese per garantire che la gente del posto non fornisse le coordinate dei movimenti del nemico alle forze ucraine. Analoghe atrocità sarebbero state commesse ad Irpin, a pochi chilometri da Bucha. Il sindaco Alexander Markushin ha raccontato di donne e ragazze uccise e poi calpestate dai carri armati.

Da Dresda a Srebrenica, i massacri che la Storia non potrà cancellare. Gianni Riotta La Repubblica il 4 aprile 2022.

La Seconda guerra mondiale, ma anche i Balcani o la guerra civile americana. Con un copione che si ripete: stragi, occultamento e propaganda.

"Un rintocco di campane fu il primo segnale, acuto come il grido di un gufo. Afferrai mio figlio Inaki, aveva 17 mesi, presi a correre, senza fermarmi. Un aereo nazista, un Heinkel 51S imparai dopo, prese a inseguire me e il bambino, sul fiume, intorno a un pino, gridavo: perché me, perché me?", ricordava Maria Aguirre che, a 27 anni, viveva a Guernica, la città basca che il gerarca nazista Hermann Göring, scelse il 26 aprile del 1937, come laboratorio "per la mia giovane Luftwaffe", impiegando per la prima volta la strategia del terrore aereo ideata dal generale italiano Giulio Douhet nel trattato "Il dominio dell'aria".

Michele Farina per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2022.

Cinquemila e seicento crimini di guerra dal 24 febbraio a oggi: cinquemila e passa azioni, cinquemila patimenti, cinquemila «file» di immagini e testimonianze. Questo archivio dell'orrore, e di giustizia in costruzione, è curato e aggiornato da Iryna Venediktova, 43 anni, originaria di Kharkiv. 

È lei, prima donna a ricoprire il ruolo di Procuratrice Generale dell'Ucraina, a coordinare le indagini e vagliare il materiale. Un archivio di fatti e di prove che il governo di Kiev ha voluto mettere subito online ( war.ukraine.ua/russia-war-crimes/ ), quasi in tempo reale. È stato il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba a lanciarlo via Twitter: «Le prove delle atrocità commesse dall'esercito russo serviranno ad assicurare che i criminali di guerra non sfuggano alla giustizia». 

Certo, ci vorrebbe anche una sezione che segnali i crimini attribuiti ai militari ucraini, ci vorrebbe anche una certa freddezza nella presentazione dei casi. Ma il distacco non è facile, quando ogni giorno porta la sua pena. Quando la paura è non riuscire a dare conto di tutto. La procuratrice Venediktova ha detto che per quei quasi seimila crimini sono già stati individuati 500 sospetti.

Molti segugi. A Dnipro la Molfar, società che in tempo di pace si occupava di aziende, ha recuperato finora i nominativi di 80 dei 1.060 soldati russi che avrebbero gestito l'occupazione di Bucha e dei suoi 40 mila martoriati abitanti. Anche la Corte Penale Internazionale ha lanciato un portale per chi voglia fornire testimonianze.

Il bilancio della Cpi dà la misura delle difficoltà e delle frustrazioni: da quando è nata nel 2002, sono state messe sotto accusa per crimini di guerra o crimini contro l'umanità «soltanto» 46 persone (quasi tutte africane): soltanto due stanno scontando una pena, sei hanno pagato già il loro conto con la giustizia internazionale. 

Che per altri è rimasto in sospeso. Nel 2020 la Cpi concluse la sua inchiesta sui crimini commessi in Ucraina nel 2014-2015, durante l'annessione della Crimea e il conflitto fomentato dai separatisti del Donbass. L'esito fu che crimini di guerra erano stati commessi anche allora. Ma la Cpi non andò avanti, adducendo una mancanza di risorse e «le difficoltà» dovute al Covid.

Scorrendo l'archivio messo online dal governo ucraino - un catalogo che comincia con il suono lugubre di una sirena - sembra impossibile che questa volta cinquemila e passa crimini di guerra possano essere archiviati così, per mancanza di fondi. Questa volta dovrebbe essere un'altra storia. Mille missili lanciati sulle città, 6.800 infrastrutture civili colpite, 21 ospedali, 18 scuole, almeno 1.563 civili uccisi (167 bambini), 2.213 feriti.

Grandi massacri (il teatro e l'ospedale di Mariupol, la stazione di Kramatorsk) accanto a tragedie più nascoste. Due anziani uccisi da un colpo di mortaio mentre mangiavano qualcosa su una panchina di un quartiere residenziale di Kharkiv. Oppure Olga di Irpin, che racconta gli ultimi minuti dell'amica Marina Met: «Ha chiamato un taxi per fuggire, lei e il figlio Vanya hanno raccolto quattro cose e sono usciti. In quel momento un carro armato russo gli ha sparato addosso. Li hanno sepolti nel cortile del loro palazzo».

Jake Sullivan, consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca, ieri ha detto che il piano «per terrorizzare e brutalizzare» i civili in Ucraina arriva dai «più alti livelli» del Cremlino, fino a Vladimir Putin. Provarlo non sarà facile. 

 Ma per condannare Karadzic ci sono voluti vent' anni, ricorda all'Observer Alex Whiting, oggi docente a Harvard e ieri procuratore al Tribunale Onu per l'ex Jugoslavia. E in Bosnia non c'erano gli smartphone a documentare le atrocità. «Il grande elemento facilitatore è proprio questo: open source intelligence ». Il primo passo è ora: raccogliere le prove, con la cura che la gente di Bucha ha dimostrato nel raccogliere i corpi trovati nelle fosse comuni. Archiviare tutto, tranne la necessità di fare giustizia.

Bucha, ma non solo: ecco il lungo catalogo degli orrori contro i civili documentati da Human Rights Watch. Alberto Flores D'Arcais La Repubblica il 3 aprile 2022.

La Ong sta raccogliendo prove di massacri, stupri, giustizia sommaria nel conflitto ucraino: potranno essere usate per portare davanti ai tribunali internazionali mandanti ed esecutori. Tra i crimini circostanziati l'eccidio consumato nella cittadina a 30 chilometri da Kiev.

Bucha come Srebrenica, come le stragi naziste in Europa. Sui social network le terribili immagini dei civili (anche bimbi) assassinati, delle donne stuprate e bruciate dalla barbarie dei soldati russi, suscitano inevitabili paragoni con i crimini di guerra che l’Europa ha già visto nel secolo scorso. In ogni angolo dell’Ucraina martoriata dai bombardamenti, dalle deportazioni e da saccheggi e ruberie, operatori umanitari e reporter raccolgono con l’aiuto della popolazione locale una documentazione che - quando la guerra sarà finita - diventerà una prova: quella che serve per incriminare al tribunale dell’Aja Putin e chi sul terreno ha violato ogni legge dell’umanità, diventando autore (la responsabilità è individuale) di crimini di guerra. 

Andrea Cuomo per "il Giornale" il 10 aprile 2022.

Il catalogo (dell'orrore) è questo. Lo ha messo in rete il governo di Kiev, può consultarlo chiunque sul sito war.ukraine.ua. È in inglese, ma non c'è bisogno di parlarlo per comprendere le abiezioni compiute dai russi nell'ex repubblica sovietica che guarda all'Europa. Basta avere il fegato per guardare le fotografie. Basta e avanza. 

Il catalogo è questo. Destinato a finire sul tavolo della Corte penale internazionale dell'Aja, come si legge nella sezione «Ci sarà giustizia?», con quell'angosciato punto interrogativo. Le cifre, aggiornate al 6 aprile, sono queste: 1.563 civili uccisi, di cui 167 bambini (ieri erano già 176), 2.213 civili feriti, 6.800 edifici civili distrutti, 4.820 crimini di guerra.

«Dopo Bucha e Kramatorsk nemmeno piango più», dice il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Che aggiunge: «Davanti a certe immagini provo odio verso la Russia». E la commissaria europea Ursula von der Leyen, tornando dalla visita dei giorni scorsi in Ucraina, si è chiesta: «Se questi non sono un crimine di guerra, cos'è un crimine di guerra?».

Bucha è la città di uno dei massacri più ciechi e insensati, che ieri ha dovuto aggiornare il pallottolierie: «Risultano al momento complessivamente 360 civili uccisi, compresi almeno 10 bambini», scrive la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmyla Denisova su Telegram. 

A Bucha c'era il quartier generale del macellaio ceceno Ramzan Kadyrov, che aveva allestito una vera stanza delle torture. «I russi hanno sparato in faccia alle persone, bruciato i loro occhi, tagliato parti del corpo e torturato a morte adulti e bambini», garantisce Denisova. 

Ma peggio dovrebbe essere andata a Mariupol. «La portata dei crimini russi è dieci volte peggio del genocidio di Bucha», scrive su Telegram il comune della città ucraina, che racconta di un sottopassaggio nel distretto periferico di Sadkiv in cui gli occupanti russi hanno allestito un punto di raccolta per i corpi dei residenti uccisi, che arrivano a centinaia ogni giorno».

Di ieri anche il ritrovamento a Makariv, città della regione di Kiev abbandonata dai russi qualche giorno fa semidistrutta, di 132 corpi di persone torturate e uccise. Le testimonianze che arrivano dal sobborgo di Kiev sono agghiaccianti. Parlano di «spari alle auto in strada dagli elicotteri dell'esercito russo», di «militari russi che hanno lanciato le granate nei rifugi, perché non volevano ci nascondessimo».

Il sindaco Vadano Tokar racconta di «cadaveri trovati con le mani legate» e di «almeno due casi di donne stuprate e poi uccise: una di queste è stata sgozzata». Agghiaccianti i dettagli della morte del regista lituano Mantas Kvedaravicius, trucidato a Mariupol. «È stato fatto prigioniero dai razzisti, che poi gli hanno sparato - racconta Denisova -. Gli occupanti hanno gettato il corpo del regista nella strada. La moglie, rischiando la propria vita, ha portato il suo corpo fuori dalla città bloccata e portato in Lituania». 

Questa la cronaca di ieri. Ma nell'archivio online del governo di Kiev c'è la storia di 45 giorni di turpitudini, caso per caso, abiezione per abiezione. C'è la storia di Iryna, la donna di 53 anni uccisa mentre, sulla sua bicicletta, tornava dal suo lavoro in un magazzino nel villaggio di Mykhailivka-Rubezhivka, vicino a Bucha, riconosciuta dai figli grazie allo smalto sulle unghie.

C'è la storia di una delle prime vittime innocenti della guerra, una bambina di sei anni ferita gravemente durante un bombardamento il 27 febbraio a Mariupol, e morta tra lo strazio dei medici che lottarono ore per salvarle la vita. 

E c'è la storia di Lyuba, una ventinovenne rimasta in Ucraina per assistere la madre malata e sequestrata per una settimana da un soldato russo che si era infilato nella sua casa, violentata in continuazione e infine uccisa davanti agli occhi dell'anziana quando si è ribellata agli abusi.

Che i russi abbiano compiuto orrori lo ammettono loro stessi. Nelle intercettazioni rese note ieri dai servizi segreti ucraini, i militari al servizio di Putin in Ucraina lamentano frustrazione e stanchezza e raccontano di essere stati costretti dai superiori a bombardare villaggi «fino a raderli al suolo» o a uccidere tutti i civili in maniera indiscriminata e di stupri contro le ragazze. Orrori, sempre orrori, giorno dopo giorno. 

"Esplosivi in auto e lavatrici". La tattica dei russi che terrorizza gli ucraini. Edoardo Sirignano su Il Giornale il 10 aprile 2022.

Lasciare esplosivi nelle auto e nelle lavatrici. È la strategia dei soldati russi per seminare terrore, ma soprattutto per non far tornare i civili ucraini nelle proprie abitazioni. A rivelarlo è il ministro dell’Interno Denis Monastyrskyi. L’esponente del governo Zelensky, in un articolo pubblicato dal quotidiano Ukrinform, ha avvertito le persone che rientravano nelle aree liberate della possibile minaccia.

Secondo fonti locali, un uomo addirittura avrebbe perso la vita dopo aver aperto il bagagliaio della macchina, lasciata parcheggiata e incustodita davanti al proprio cancello. Diverse le persone che in queste ore starebbero trovando mine nel rientrare laddove avevano vissuto prima del conflitto.

“Gli occupanti – dichiara il ministro – hanno installato cavi elettrici nelle case dove passavano la notte, sia sulla soglia che vicino alle recinzioni. La nostra gente ora trova esplosivi negli appartamenti di agenti di polizia, soccorritori e militari ucraini”. Un pericolo, quindi, da non sottovalutare per chiunque. Le bombe, infatti, si attiverebbero al semplice passaggio o toccando qualsiasi oggetto potrebbe sembrare innocuo.

Lo stesso governo, pertanto, sarebbe al lavoro giorno e notte per rendere al sicuro quei territori lasciati dalle truppe dello zar, adesso ritirate in Bielorussia. Artificieri, nelle ultime ore, starebbero controllando frigoriferi, lavatrici e ogni genere di elettrodomestico, nonché cancelli, inferriate e porte per fare in modo che la vita degli abitanti di quei paesi, teatri di orrori, possa tornare presto a una quasi normalità. Soltanto allora potrà partire anche la tanto auspicata ricostruzione.

Per velocizzare i tempi delle operazioni di sminamento sarebbero arrivati addirittura esperti da fuori Europa. Lo sforzo è quello di recuperare giorni preziosi e rendere sicure nel più breve tempo possibile le città invase, semidistrutte e come rivelano le ultime denunce anche minate.

Il rischio sarebbe stato confermato pure dall’intelligence britannica. “Le truppe russe – dichiara una nota del ministero della Difesa del Regno Unito - continuano a usare ordigni esplosivi improvvisati (Ied) per causare vittime, abbassare il morale e limitare la libertà di movimento degli ucraini”. Il piano di Mosca consisterebbe proprio nel creare danni collaterali ai civili per demotivare così coloro che si ritrovano in quella resistenza, che tanto sta facendo penare le truppe di Putin.

Questa è la nuova Srebrenica, è un genocidio. Roberto Fabbri su Il Giornale il 4 aprile 2022.

Cadaveri di civili seminudi abbandonati per le strade di Bucha e Hostomel dopo esecuzioni sommarie, fosse comuni con centinaia di corpi mutilati tra i quali non pochi bambini, disgraziati senza vita trovati con le mani legate, segni di tortura e un foro di proiettile alla nuca, segno classico fin dai tempi di Stalin della tradizione russo-sovietica. Con tante scuse alla sensibilità al contrario delle anime belle rosso-brune (o semplicemente in stolida malafede) che mentre in Ucraina i russi massacrano e violentano si turbano per Dostoevskij o per l'irrinunciabile due per cento fin qui assicurato al bilancio del nostro turismo dai ricchi visitatori moscoviti, ce n'è più che a sufficienza per rievocare gli orrori di Srebrenica. E per invocare a carico di Vladimir Putin, mandante di queste infamie, un processo al Tribunale dell'Aia.

Per chi è troppo giovane o troppo distratto per ricordare: Srebrenica è una cittadina della Bosnia di popolazione musulmana, passata alla Storia per uno spaventoso massacro di civili inermi, il peggiore avvenuto su suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Accadde nel luglio del 1995 per mano dei bravacci del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, specialisti in «pulizia etnica» nel nome della Grande Serbia. Una volta penetrati a Srebrenica dopo aver vinto la men che simbolica resistenza di un contingente di caschi blu dell'Onu che quei civili avrebbe dovuto proteggere, i miliziani agli ordini di Mladic non persero tempo a radunare l'intera popolazione (disarmata), a separare gli uomini e i ragazzi sopra i dodici anni da donne e bambini. Condussero poi, con il pretesto di interrogatori, quegli oltre ottomila sciagurati considerati nemici abili al combattimento in una zona boscosa a breve distanza dalla cittadina e li fucilarono in massa nell'arco di diversi giorni, gettandone poi i corpi in enormi fosse comuni.

I mandanti di questo crimine mostruoso Mladic ma anche l'allora presidente della serbo-Bosnia Radovan Karadzic furono catturati solo dopo anni di latitanza, processati e condannati all'Aia. L'accusa fu di genocidio, considerata l'evidente intenzione di sterminare un'etnia (quella dei cosiddetti bosgnacchi, i musulmani di Bosnia per lo più di origine turca) su base razzistica. Non mancò anche allora, qui in Italia, chi non si vergognò di cercare giustificazioni per quei macellai in divisa malati di nazionalismo sanguinario, arrivando perfino a lodarli perché, in fondo, stavano facendo il lavoro sporco anche per noi occidentali minacciati dall'islam.

A rischio, mi ripeto, di urtare la raffinata intellettualità di chi riscontra anche negli odierni crimini di guerra russi in Ucraina profonde motivazioni storiche, non pare che vi sia gran differenza tra gli orrori del 1995 e quelli di oggi. Anzi, a dirla tutta, oggi è peggio. Perché almeno Mladic e Karadzic, così come il loro boss belgradese Slobodan Milosevic, rivendicavano con orgoglio le loro bestialità. I vertici del Cremlino, invece, si divertono non solo a far trucidare civili ucraini in quanto ucraini, ma anche a prenderci in giro. Così, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, un distinto signore poliglotta diplomatico di lungo corso, senza vergogna ripete che il suo Paese non ha attaccato nessuno, e che meno che mai si macchia di attacchi a bersagli civili. Criminali di guerra? Genocidi all'opera in Ucraina? Ma come ci permettiamo! Il vero genocidio giurano a Mosca e purtroppo spesso anche dalle nostre parti - è semmai in atto da anni nel Donbass per mano dei nazisti ucraini, e le immagini di condomini sventrati e di morti ammazzati in mezzo alla strada sono fake news architettate dai medesimi diabolici nazisti per infangare il buon nome dell'esercito russo.

Un confine tra guerra e barbarie esiste, e a Bucha è stato ampiamente varcato. Joe Biden può piacere o non piacere, ma aver definito dittatore, macellaio e criminale di guerra Vladimir Putin può al più essergli rinfacciato quanto a opportunità politica, certo non per sostanza. Se il mandante di questi orrori fosse un Karadzic o un Milosevic qualsiasi, il suo posto sarebbe in una cella in Olanda.

Lo sdegno mondiale provocato dalla tragedia dell'Olocausto, però, non ha impedito che nel Dopoguerra venissero compiuti nuovi massacri indiscriminati ai danni della popolazione inerme. Dal massacro di My Lai ad opera dei soldati americani in Vietnam a quello di Srebrenica commesso dalle truppe serbo-bosniache, ecco alcuni degli episodi più drammatici. Gianni Rosini su Tempo il 6 aprile 2022.  

La storia europea è costellata di massacri commessi da eserciti o milizie paramilitari ai danni di civili. Solo in Italia, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si ricordano tra gli altri l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema o quello delle Fosse Ardeatine, nel Vecchio Continente quelli nel ghetto di Varsavia o la Notte dei Cristalli in tutta la Germania nazista. Lo sdegno mondiale provocato dalla tragedia dell’Olocausto, però, non ha impedito che nel Dopoguerra venissero compiuti nuovi massacri indiscriminati ai danni della popolazione inerme. Eccidi che assomigliano tutti a quello di Bucha, ma che, nonostante siano rimasti vividi nell’immaginario collettivo, non sempre sono riusciti a imprimere un cambio di rotta ai conflitti o a favorire un cessate il fuoco. Dal massacro di My Lai ad opera dei soldati americani in Vietnam a quello di Srebrenica commesso dalle truppe serbo-bosniache, ecco alcuni degli episodi più drammatici che hanno fatto la storia delle guerre dal Dopoguerra ad oggi.

MASSACRO DI MY LAI (VIETNAM, 1968) – La Guerra del Vietnam era ormai agli sgoccioli, gli Stati Uniti e i suoi alleati l’avevano persa. E già lo sapevano. Il 16 marzo 1968 i soldati americani si resero protagonisti di uno dei massacri ai danni della popolazione civile inerme più sanguinosi della loro storia recente. A My Lai, una frazione del villaggio di Son My, nel Vietnam centro-meridionale, i militari di Washington, in seguito a uno scontro a fuoco con truppe di Viet Cong, si scagliarono contro la popolazione rendendosi protagonisti di torture e uccisioni di massa indiscriminate nei confronti di uomini, donne, anziani e bambini. Nessuno venne risparmiato, fino a quando a intervenire fu proprio l’equipaggio di un elicottero americano in ricognizione che si mise tra i carnefici e le loro vittime, puntando i mitra contro i compagni in armi e minacciandoli di aprire il fuoco se non avessero messo fine al massacro. Secondo quanto ricostruito, con questo intervento i membri dell’esercito Usa riuscirono a salvare la vita a 11 persone, ma sul terreno rimasero 504 vittime innocenti.

Le indagini sull’eccidio di My Lai vennero condotte da un giovane Colin Powell, poi diventato noto al mondo da Segretario di Stato americano quando mostrò all’Onu le false prove del possesso di armi chimiche da parte di Saddam Hussein, ma non portarono a nessun risultato concreto. Anzi, tornando in patria sostenne che non esisteva alcun problema nelle relazioni tra i militari americani e i civili vietnamiti. Una versione che sarà poi sconfessata da una successiva inchiesta del giornalista premio Pulitzer, Seymour Hersh, che svelò al mondo la verità su quel genocidio.

MASSACRO DI SABRA E SHATILA (LIBANO, 1982) – La notte del 16 settembre 1982, il cielo di Beirut sopra i campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila vennero illuminati a giorno dai bengala dell’esercito israeliano che circondava le enormi tendopoli. Stavano aprendo la strada alle milizie falangiste affamate di vendetta dopo l’attentato al presidente del Libano e loro leader, Bashir Gemayel, compiuto dai servizi segreti siriani in collaborazione con le milizie palestinesi. Da giorni il ministro della Difesa di Tel Aviv, Ariel Sharon, denunciava la presenza di 2mila combattenti fedeli a Yasser Arafat rimasti nel Paese dopo il ritiro definitivo annunciato all’inizio di settembre, in piena guerra civile libanese. Le truppe israeliane, così, accerchiarono i campi profughi poco dopo la partenza degli eserciti occidentali, mentre le Falangi si stabilirono nelle aree immediatamente adiacenti. L’uccisione di Gemayel fece esplodere la furia dei suoi seguaci, in una situazione già ad altissima tensione.

La sera del 16 settembre le milizie entrarono nei campi profughi palestinesi e ne uscirono solo al mattino del 18. In mezzo ci furono le donne violentate, i ventri squarciati di quelle incinte, i bambini seviziati a morte e centinaia di giovani e anziani giustiziati, con i loro corpi accatastati in montagne di carne umana o sparsi per le vie dei due campi. Sul terreno rimase un numero imprecisato di vittime palestinesi innocenti: alcune stime parlano di 700, altre arrivano addirittura a 3.500. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite definì il massacro “un atto di genocidio”. La successiva commissione Kahan riconobbe la diretta responsabilità delle Falangi libanesi e quella indiretta, elemento che provocò non poche critiche, dell’esercito israeliano, del primo ministro Menachem Begin, del ministro della Difesa Sharon e del Capo di Stato Maggiore Rafael Eitan.

MASSACRO DI MURAMBI (RWANDA, 1994) – Quello del Rwanda perpetrato dai gruppi armati di etnia Hutu ai danni dei Tutsi rimane uno dei genocidi più sanguinosi ed efferati della storia recente. Tanto da richiedere l’istituzione di un Tribunale speciale che indaghi sui crimini commessi in quei tre mesi tra la primavera e l’estate del 1994. Il numero di morti è praticamente incalcolabile, si stima siano tra i 500mila e oltre 1 milione, e la furia della violenza etnica non ha risparmiato nessuno: uomini, donne, anziani e bambini sono stati torturati, stuprati e trucidati senza pietà. Se in un evento così grave si può ritrovare un fatto emblematico, quello è il massacro alla scuola di Murambi, il 21 aprile 1994. Un episodio così grave che sul posto è stato anche costruito, in occasione del primo anniversario, un Memoriale che ricorda le circa 65mila vittime dell’eccidio.

Mentre le operazioni di pulizia etnica in corso dall’aprile dello stesso anno si stavano spostando verso l’area meridionale del Rwanda, 65mila civili di etnia Tutsi cercarono riparo nella chiesa locale. Ma furono il vescovo e il sindaco in persona ad attirarli in una trappola: dissero loro che il posto più sicuro dove recarsi era l’istituto che sorgeva poco lontano da lì. Mandarono 65mila persone al massacro. Una volta arrivati, infatti, i civili non trovarono acqua e cibo proprio per limitare le loro forze e impedirne la resistenza. Per qualche giorno fronteggiarono le milizie hutu, ben armate, solo con bastoni e pietre, ma il 21 aprile dovettero arrendersi alla superiorità militare degli avversari. In 20mila furono uccisi in quell’occasione, mentre altri, che riuscirono a fuggire, vennero sterminati nei giorni seguenti. Un numero talmente elevato di morti in un’area così ristretta e in così poco tempo che, secondo la ricostruzione del Memoriale, i soldati francesi scomparsi dall’area per qualche giorno dovettero utilizzare dei bulldozer per scavare fosse comuni dove gettare i corpi. Su 65mila persone, solo 34 sono sopravvissute al massacro di Murambi.

MASSACRO DI SREBRENICA (BOSNIA-ERZEGOVINA, 1995) – Uno dei massacri più sanguinosi della storia recente è certamente quello di Srebrenica, avvenuto nel luglio del 1995. In quelle settimane durante le quali si stava assistendo alla dissoluzione della Jugoslavia, l’allora esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina guidato dal Macellaio Ratko Mladic fece irruzione nella piccola cittadina bosniaca, dichiarata zona protetta dai Caschi Blu dell’Onu come le città di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde e Bihać. Nonostante l’impegno delle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite, in quell’occasione in mano a un contingente di 600 militari olandesi che decisero di non intervenire di fronte all’avanzata degli uomini di Mladic perché “scarsamente equipaggiati”, le truppe serbe riuscirono a entrare in pochi giorni nella cittadina bosniaca e a giustiziare migliaia di civili innocenti. Sono oltre 8.300 le persone che risultano scomparse, ma oggi, a 27 anni di distanza, solo 6.900 sono state ritrovate.

Quella di Srebrenica è una strage che non è rimasta totalmente impunita. Il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia ha condannato Mladic, in carcere dal 2011, all’ergastolo in quanto responsabile dell’assedio di Sarajevo e di quello che è il più grande genocidio commesso in Europa dal Dopoguerra. Come lui, i giudici internazionali condannarono anche l’allora presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, Radovan Karadzic, per genocidio. I tribunali nazionali olandesi, inoltre, hanno condannato lo Stato per responsabilità indirette nei fatti di Srebrenica, anche se una serie di sentenze al ribasso hanno portato a un riconoscimento solo parziale delle colpe. Gianni Rosini

Cronache da Sarajevo, trent'anni dopo la guerra. Raffaele Oriani su La Repubblica l'1 Aprile 2022.

Il 5 aprile fu il primo dei 1.425 giorni di assedio della città. A raccontarli ci pensò il giornale diretto da Zlatko Dizdarevic. Siamo andati a trovarlo con in testa Kiev e Mariupol. Reportage.

Sarajevo. Quella volta non c'era nessun rischio nucleare. L'Occidente aveva appena vinto la Guerra fredda, la Russia era un colosso in frantumi, un miliardo di cinesi si salutavano ancora con apprensione chiedendosi "Hai mangiato?". Eppure il 5 aprile 1992, esattamente trent'anni fa, a Sarajevo iniziava un assedio che sarebbe durato 1.425 giorni di fame, sete e cecchini che fecero almeno 11.000

Ritorno all'inferno, Toni Capuozzo ricorda l'assedio di Sarajevo. Da  mediasetplay.mediaset.it il 9 aprile 2022.

Il commosso ricordo di Toni Capuozzo dell'assedio di Sarajevo, documentate sul campo, a 30 anni di distanza.  

1992-2022 - Ritorno all’Inferno è il documentario sul campo di Toni Capuozzo e del suo cameraman Igor Vucic - con la regia di Roberto Burchielli - che tornano a Sarajevo a 30 anni di distanza dall'inizio dell'assedio durante il conflitto dei Balcani. Il reportage, andato in onda sul canale tematico Focus, è disponibile in streaming on demand su Mediaset Infinity e qui sopra. Il viaggio riporta Capuozzo e Vucic a ritrovare persone e luoghi legati a quel drammatico periodo, evocati dalle immagini girate allora.

1992-2022 - Ritorno all’Inferno: l'assedio di Sarajevo

Uno dei momenti più cruenti della Guerra in Bosnia ed Erzegovina e il più lungo blocco nella storia bellica della fine del XX secolo. Vede scontrarsi le forze del governo bosniaco, che aveva dichiarato l'indipendenza dalla Jugoslavia, contro l'Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le forze serbo-bosniache (VRS), che volevano annientare il neo-indipendente stato della Bosnia ed Erzegovina, per creare la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. 

Nei mesi che precedono la guerra, le forze della JNA iniziano a schierare artiglieria e altri equipaggiamenti sulle colline che circondano la città. Nell'aprile 1992, il governo bosniaco chiede al governo della Jugoslavia di ritirare il contingente, ma Milošević acconsente solo per i soldati non bosniaci. Il 5 aprile 1992 i paramilitari serbi attaccano l'Accademia di Polizia di Sarajevo. 

Il 2 maggio 1992, Sarajevo viene completamente isolata dalle forze serbo-bosniache. Le principali strade che conducono alla città vengono bloccate, così come i rifornimenti di viveri e medicine. I servizi come l'acqua, l'elettricità e il riscaldamento sono tagliati. Anche se inferiori di numero ai difensori bosniaci in città, i soldati serbi intorno a Sarajevo sono meglio armati. Dopo il fallimento dei tentativi iniziali di assaltare la città con le colonne corazzate della JNA, le forze di assedio cannoneggiarono Sarajevo dai 200 bunker sulle montagne. 

Nella seconda metà del 1992 e nella prima del 1993 l'assedio raggiunge l’apice della violenza dei combattimenti. Vengono commesse gravi atrocità, con i bombardamenti di artiglieria che continuavano a colpire i difensori. Gran parte delle principali posizioni militari e le riserve di armi all'interno della città sono sotto il controllo dei serbi, che impediscono i rifornimenti ai difensori. 

Ma è solo l'inizio: l'assedio prosegue per quattro anni, con indicibili sofferenze per la popolazione. L'isolamento, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, registra più di 12mila vittime, oltre 50mila feriti, l'85 per cento dei quali tra i civili. Al termine, la popolazione è ridotta a 334.664 persone, il 64 per cento della pre-bellica.

Capuozzo a Sarajevo 30 anni dopo: il dolore dei sopravvissuti. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.  

Il giornalista è tornato sul luogo simbolo del conflitto dei Balcani per dare vita al documentario«1992-2022 - Ritorno all'Inferno». 

Mentre assistiamo all’invasione della Russia in Ucraina, Toni Capuozzo è tornato a Sarajevo, a trent’anni da quel tragico assedio di cui fu testimone e narratore: «1992-2022 - Ritorno all’Inferno» (Rete4). È un reportage da groppo in gola: Capuozzo incontra il suo vecchio cameraman Igor e insieme fanno «un piccolo, lungo giro nell’inferno», come se quelle stragi non avessero insegnato nulla, come se la guerra seguisse sempre lo stesso copione, come se la rassegnazione fosse l’unica consolazione dei sopravvissuti. Lo sconforto è tale che a un certo punto Capuozzo mette in discussione il ruolo stesso del giornalismo (cos’è servito informare?) e il solo gesto sensato che gli pare di aver compiuto è di aver portato di nascosto in Italia (aiutato da Anna Cataldi) il piccolo Kemal, vittima dei bombardamenti serbi, la cui madre era morta mentre il bimbo aveva perso una gambina.

"1992-2022 Ritorno all'inferno" Stasera, su Retequattro, alle 22.35 il documentario che racconta la guerra di trent'anni fa, mentre sullo schermo scorrono le immagini della guerra di oggi. pic.twitter.com/yYd85krREX

— toni capuozzo (attonicapuozzo1) April 9, 2022

Capuozzo oggi è ancora il suo secondo papà: tra i due perdura un legame fortissimo, mai spezzato dalla distanza fisica. Il 5 aprile 1992 le forze serbo-bosniache circondarono la città di Sarajevo, in quello che resta l’assedio più lungo della storia moderna, le cui stime parlano di 12mila morti e oltre 50mila feriti. Il 2 maggio l’esercito federale e le milizie serbe bloccarono tutti gli accessi a Sarajevo, ponendo la capitale sotto un assedio destinato a durare ben 43 mesi, fino al 29 febbraio 1996. Stragi, stupri e deportazioni proseguirono per tutta la durata della guerra, in uno scenario di pulizia etnica culminato nel massacro di Srebrenica, costato la vita a circa 8.000 civili mussulmani bosniaci. Nascosti nelle colline dei dintorni, i cecchini serbi sparavano ai civili che uscivano per la strada. P.S. Spiace che un grande come Capuozzo abbia firmato quella lettera aperta degli ex inviati sui rischi della narrazione semplicistica della guerra. Non è nel suo stile: il ritorno all’inferno è il suo vero insegnamento.

Maurizio Stefanini per “Libero Quotidiano” il 10 aprile 2022.

Importante promessa: dagli italiani di Graziani a Addis Abeba agli americani a Sand Creek e Mi Lai passando per i francesi in Algeria o gli inglesi in India, la gran parte degli eserciti del mondo hanno fatto cose simili a quelle di cui sono ora accusati i russi a Bucha. 

Ma la Russia rispetto ad altri Paesi ha avuto un'incapacità storica a riconoscere colpe del genere molto maggiore: sia relativamente all'epoca zarista che a quella sovietica e post-sovietica. Anche per questo, la quantità di eccidi sembra maggiore.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare, l'Armata Rossa commesse una gran quantità di crimini di guerra che non furono mai giudicati. Uno degli esempi più noti fu il massacro di 22.000 tra ufficiali, politici, giornalisti, professori e industriali polacchi che avvenne nella foresta di Katyn tra il 3 aprile e il 19 maggio 1940. Ma quello fu uno scenario che si ripeté prima in tutti i territori occupati in base al patto Molotiv-Ribbentrop, e poi in quelli occupati dopo la sconfitta nazista. 

Anche gli ufficiali dell'esercito estone, ad esempio, furono tutti giustiziati o deportati. Ma furono in tutto più di 300.000 cittadini estoni che durante la Seconda Guerra Mondiale furono colpiti da deportazioni, arresti, esecuzioni e altri atti di repressione.

Quasi un terzo della popolazione, mentre le 200.000 vittime furono un estone su cinque. Una Bucha estone fu ad esempio Viru-Kabala: un villaggio in cui nell'agosto del 1941 fu uccisa tutta la popolazione. Anche un bambino di due anni e un neonato di sei giorni. 

Pure in Lettonia il 14 giugno 1941 ci fu una deportazione in massa verso la Siberia. E la Lituania perse 780.000 cittadini, cui seguì una sanguinosa coda nel gennaio 1991, con le 13 persone uccise durante le manifestazioni indipendentiste. In Romania ci fu il primo aprile 1941 il massacro di Fantana Alba.

L'Urss ammetterà 44 vittime, ma varie stime arrivano a 3000. Dalla Moldavia ci furono almeno 46.000 deportati. Katyn a parte, in Polonia gli storici parlano di prigionieri scottati con acqua bollente a Bobrka; di altri a cui a Przemyslany furono tagliati naso, orecchie e dita e cavati gli occhi; di detenute col seno tagliato a Czortków. 

Secondo gli studi di Tadeusz Piotrowski, negli anni dal 1939 al 1941 quasi 1,5 milioni di persone furono deportati dalle aree controllate dai sovietici dell'ex Polonia orientale.

Secondo lo storio Carroll Quigley, almeno un terzo dei 320.000 prigionieri di guerra polacchi catturati dall'Armata Rossa nel 1939 furono assassinati. I soldati dell'Armata Rossa iniziarono in Polonia la politica di stupri di massa poi portata avanti in Germania, al punto da provocare nel 1945 una pandemia di malattie sessuali. 

Gli archivi di Stato polacchi stimano almeno 100.000 vittime. Il governo tedesco nel 1974 stimò in almeno 600.000 i civili morti durante le espulsioni di massa tra 1945 e 1948. E sono stimate in almeno 2 milioni le tedesche vittime di stupri. 

Ma stupri furono documentati non solo in un altri Paese occupato come l'Ungheria, ma perfino in Cecoslovacchia e Jugoslavia. In Jugoslavia almeno 121 casi, da cui proteste di Tito che forse ebbero un ruolo nella rottura con Stalin.

Violenze contro i civili ci furono anche durante la Rivoluzione Ungherese del 1956 e l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968, per non parlare dell'Afghanistan. Almeno 500 civili furono per esempio uccisi durante il massacro di Laghman nell'aprile 1985, e 360 durante il massacro di Kulchabat, Bala Karz e Mushkizi. 

Nel 1992 l'Urss cessò di esistere, ma episodi del genere hanno continuato a essere denunciati anche nelle successive guerre russe. Nell massacro di Samashki dell'aprile '95 oltre 100 civili ceceni furono uccisi dalla polizia antisommossa, e il rapporto Onu del 26 marzo '96, accusò i russi di aver sparato e ucciso civili ai posti di blocco e di aver giustiziato sommariamente ceceni catturati, sia civili che combattenti.

Polveriera balcani. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Walter Molino

Collaborazione di Federico Marconi 

A trent’anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, il conflitto in Ucraina alimenta la tensione nell’area balcanica.

L’integrità statale della Bosnia Erzegovina è minacciata dalle mire secessioniste di Milorad Dodik, leader della Repubblica Srpska spalleggiato da Vladimir Putin. In Serbia il conservatore Aleksandar Vučić è stato appena rieletto Presidente della Repubblica con quasi il 60% delle preferenze e in Parlamento sono entrate nuove formazioni della destra radicale. Adesso è chiamato a sciogliere l’equivoco che ha attraversato la campagna elettorale e riguarda il futuro del Paese: da un lato gli interessi commerciali e la richiesta pendente di entrare nell’UE, dall’altro il tradizionale legame con la Russia e il revanscismo nazionalista. Nessuno però ha dimenticato i bombardamenti NATO del 1999 e la condanna unanime di un intero popolo che sente di avere ancora molti conti aperti con il passato.

POLVERIERA BALCANICA di Walter Molino collaborazione Federico Marconi immagini Alessandro Spinnato montaggio Giorgio Vallati - Riccardo Zoffoli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, chi è che invece non le ha proprio contemplate queste sanzioni è la Repubblica serba, che è legata ai russi da un forte legame storico, dal ricordo dei bombardamenti di Belgrado, della Nato, del 1999. Ora, questo sentimento ha reso complicato l’adesione all’Unione Europea, è dal 2009 che pende una richiesta di adesione, diciamo che nella forma di resistenza ha anche pesato la dipendenza dal gas russo. Poche settimane fa ha vinto le elezioni il presidente Alexander Vucic, al governo dal 2014, ha messo su un governo muscolare, autoritario, ha consentito che in Parlamento entrassero anche le forze più nazionaliste, quelle dell’estrema destra. Ora, dopo l’intervento in Ucraina deve decidere, scegliere, se stare dalla parte dell’Europa o guardare a Est, a Russia e Cina. Il nostro Walter Molino.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO La Serbia ha deciso di non aderire alle sanzioni economiche contro il regime di Putin e di lasciare aperto lo spazio aereo con Mosca ma ha votato a favore dell’espulsione della Russia dal Consiglio dei diritti umani all’ONU. A Belgrado la chiamano la politica delle due sedie - un po’ con l’Europa e un po’ con la Russia. E l’attore protagonista è Alexander Vucic, rieletto Presidente della Repubblica lo scorso 4 aprile con oltre due milioni voti in una campagna elettorale senza storia.

ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI SERBIA Ma quando qualcuno dice mai dire mai, forse entreremo a far parte della NATO, la mia risposta è che non entreremo nella NATO! Proteggeremo da soli il nostro paese, il nostro cielo e la nostra libertà e ne siamo capaci, abbiamo costruito un esercito che è incomparabilmente più forte e che non minaccia nessuno ma funge da deterrente.

SOSTENITRICE DI VUCIC Noi amiamo Vucic. Finché vivremo lo voteremo, perché non abbiamo uno migliore. Anche Putin è un buon presidente del suo paese, la Russia ci ha aiutato mentre ci bombardavano.

WALTER MOLINO Siete stati pagati per venire qui?

SOSTENITORE DI VUCIC No, non, no… ma questo capisce tutto! Io spero che andrà tutto meglio.

SOSTENITRICE DI VUCIC È il migliore perché è il migliore. E anche perché è l’amico di Putin. Putin non ci fa paura, per noi lui è un grande amico.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Le opposizioni, che alle precedenti elezioni non avevano partecipato al voto per protesta, si accontentano di tornare a sedere in Parlamento e in campagna elettorale si parla poco di Serbia e molto di politica internazionale.

UOMO La Serbia non può entrare nella Nato, perché la Nato ci ha bombardati, è stato il nostro grande nemico, io portavo i miei figli nei rifugi mentre cadevano le bombe.

WALTER MOLINO Vucic dice: il Kosovo è serbo e deve tornare alla Serbia.

UOMO È la nostra terra.

WALTER MOLINO Quindi su questo la pensate come Vucic.

UOMO Penso che il Kosovo è la nostra terra da secoli. Ma l’abbiamo persa. Le tensioni ci sono e ho paura che questi non lasceranno il potere tanto facilmente, anche se perdono le elezioni.

WALTER MOLINO Ma tanto non le possono perdere.

UOMO Possono, per quello che siamo qua.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dveri formazione di ispirazione religiosa, monarchica e nazionalista. La guida a Bosko Obradovic, tra i maggiori sostenitori della propaganda filorussa in Serbia.

BOSKO OBRADOVIC – LEADER DVERI Lo stato russo è stato fondato a Kiev e non a Mosca, la Crimea è il luogo del battesimo del popolo russo, sono territori russi da secoli. La Russia non è intervenuta in un altro paese, come facevano gli Stati Uniti in tutto il mondo.

WALTER MOLINO Lei ha usato le stesse parole di Putin.

BOSKO OBRADOVIC – LEADER DVERI Io uso le mie parole e penso solo con la testa serba, e guardo esclusivamente gli interessi del popolo serbo. La Russia sta vivendo ciò che abbiamo vissuto noi serbi negli anni '90, quando la macchina mediatica dell’occidente ci ha definito un popolo di criminali, la causa di tutte le guerre nella ex Jugoslavia. La Nato dovrebbe pagare i danni di guerra alla Serbia per tutto quello che è stato fatto nel 1999 durante i bombardamenti.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO I venti di guerra attraversano la campagna elettorale, il movimento pacifista prova a far sentire la sua voce ma è minoritario. Stasja Zajovic ha fondato trent’anni fa Le donne in nero, una ONG di Belgrado femminista e antimilitarista che si batte per i diritti civili nell’ex Jugoslavia. Subiscono da sempre aggressioni e minacce, l’ultima è questa: puttane in nero, simboli nazionalisti e il nome di Ratko Mladic, il generale serbo condannato all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica.

WALTER MOLINO Cosa ha pensato quando è tornata qui quella mattina e ha trovato tutte quelle scritte dietro la porta?

STASJA ZAJOVIC – DONNE IN NERO BELGRADO Io devo prendermi cura sempre degli altri, come si sentono gli altri, dare loro una sicurezza, ma io sono di una famiglia che ha lottato molto nella seconda guerra mondiale, tutta la mia famiglia è stata nei partigiani. Il Presidente della Serbia è uno che ha fatto le chiamate pubbliche in Parlamento il 20 giugno 1995, venti giorni prima del genocidio di Srebrenica. Lui ha detto: per un serbo ucciso dai musulmani noi uccideremo cento musulmani. Questo dittatore fascista Vucic fa la guerra continuamente. Perché lui è un guerrafondaio. Lui ha i paramilitari, parapoliziesche. Questo gli serve per alimentare la propaganda di guerra e poi lui dire: sapete, io sono il vostro salvatore.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Leader di SNS partito progressista di nome, ma conservatore e nazionalista nei fatti, Alexander Vucic è al governo dal 2014. Ha costruito un sistema di potere autoritario e filorusso, riducendo al minimo lo spazio per il dissenso. Tuttavia rimane il punto di equilibrio più affidabile per l’occidente e la sua immagine appare rassicurante al popolo serbo. Nell’ultima campagna elettorale è entrato in casa delle persone passando dal frigorifero. Domenica 3 aprile è il giorno delle elezioni. L’opposizione denuncia brogli e aggressioni. Nel pomeriggio l’affluenza ai seggi è bassa, il partito di Vucic teme un brutto risultato a Belgrado e la tensione sale. Una fonte ci informa che il governo avrebbe pronti squadroni di ultras per creare disordini di cui incolpare le opposizioni ma tutto rimane apparentemente tranquillo. Ad urne appena chiuse, nella sede di SNS c’è già aria di festa. Un ricco buffet per la stampa in attesa di un risultato che appare scontato. I maggiorenti del partito sfilano uno dietro l’altro.

ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI SERBIA Io ho vinto con il 59,9% dei voti.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO È la prima comunicazione ufficiale dei risultati e non arriva da una commissione elettorale, ma dalla viva voce del presidente in carica. E a chi prova a chiedere spiegazioni, Vucic risponde così…

 ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERBIA Noi abbiamo osservatori in ogni seggio elettorale e possiamo informarvi sui risultati. Si rallegri, sorrida, una mano sicura la guida attraverso la storia.

ZAKLINA TATALOVIC – GIORNALISTA Il Presidente della Serbia non vuole rispondere alle domande non concordate e non vuole parlare con i giornalisti critici verso il potere. WALTER MOLINO È difficile oggi in Serbia essere un giornalista critico con il potere.

ZAKLINA TATALOVIC – GIORNALISTA Sì, molto. Ed è una cosa rara oggi in Serbia. Il Presidente Vucic è circondato dai giornalisti che gli pongono le domande che ordina lui stesso e così è da anni.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il controllo del potere sull’informazione arriva perfino dentro le librerie. Nel centro di Belgrado preferiscono non esporre libri come questo. Pòbuna in serbo significa Ribellione. Lo ha scritto Srdan Skoro, un giornalista dissidente che da anni denuncia la corruzione del sistema di potere di Vucic. Incontriamo Skoro in un luogo simbolo di Belgrado, davanti alla sede della televisione di Stato bombardata dalla NATO nella notte del 23 aprile 1999. Morirono 16 persone.

SRDAN SKORO – GIORNALISTA Questo è un luogo orribile e agghiacciante. Quelle vittime non erano colpevoli di nulla, nessuno è mai stato ritenuto responsabile. Soprattutto non la Nato che ha preso di mira la televisione e sapeva che c'erano le persone dentro.

WALTER MOLINO Vucic era ministro dell’informazione con Milosevic. Ci sono delle analogie tra i due?

SRDAN SKORO – GIORNALISTA Vucic è stato il peggior ministro nella storia dell'informazione serba e ha approvato la legge più brutale contro i media e contro la libertà di parola. Le redazioni e i giornalisti venivano puniti e le redazioni venivano chiuse solo perché scrivevano qualcosa che non gli piaceva. Vucic è stato più estremo di Milosevic. La differenza è che Milosevic non ha goduto dello stesso sostegno dell'Occidente mentre a Vucic tutto è permesso, almeno fino a quando non interferirà con gli interessi di Europa e Stati Uniti.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo la netta affermazione elettorale Vucic ha ricevuto i rallegramenti di Putin e pochi giorni dopo i cieli di Belgrado sono stati attraversati da sei aerei cargo militari cinesi che hanno consegnato alla Serbia una fornitura di missili antiaereo. Ma quando Vuk Cvjijc, un coraggioso giornalista del settimanale NIN, ha pubblicato la prima puntata della sua ultima inchiesta, Putin sarà stato poco allegro di sapere che migliaia di colpi di mortaio sparati contro i russi sono stati prodotti in Serbia e venduti all’Ucraina.

WALTER MOLINO Che tipo di armi sono?

VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Si tratta di colpi da 60 mm sparati da mortai prodotti nello stabilimento statale Krusik di Valjevo, in Serbia. Vucic ha ammesso di essere a conoscenza di una vecchia fornitura di 23 mila munizioni, ma i documenti che abbiamo trovato dimostrano che sono almeno il doppio.

WALTER MOLINO Come hai trovate le prove?

VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Oltre ai documenti sulle esportazioni c’è un video ufficiale dell’esercito ucraino sul fronte di Kiev ed esperti militari che abbiamo consultato hanno riconosciuto le marcature delle munizioni prodotte a Krusik nel 2018.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO È il 13 marzo scorso. Le forze speciali ucraine combattono alla periferia del villaggio di Mosku, nei pressi di Kiev. Le marcature gialle sui proiettili dei mortai indicano la provenienza dalla fabbrica serba di Krusik.

WALTER MOLINO Il Presidente Vucic ha negato, quindi ha mentito?

VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Sì, ha mentito. Inoltre dai documenti risulta che un alto funzionario del suo partito è andato a Krusik e ha negoziato questa fornitura per l'Ucraina. Il secondo livello di questa storia è la corruzione, grazie alla mediazione di questo funzionario di partito il prezzo finale della vendita all’Ucraina è stato di quasi 2,5 milioni di dollari, mentre alla fabbrica di Krusik sono arrivati solo 1,2 milioni di dollari. Bisogna capire dove sono finiti tutti quei soldi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A Belgrado la chiamano la politica delle due sedie: un po’ con l’Europa e un po’ con la Russia. Ora la scoperta del collega serbo rischia di avvelenare un contesto che è già complesso: cosa penserà, cosa pensa Putin del fatto che un esponente del partito del suo amico Vucic ha armato l’Ucraina in cambio, forse, di una stecca per il suo partito? Ma su questo dovrà indagare la magistratura. Ora il rischio è che si alimentino venti di guerra, anche perché ci sono ferite mai rimarginate e che colpevolmente l’Europa non ha mai cercato di curare con attenzione.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, è una distesa di lapidi bianche. L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco ai comandi di Ratko Mladic, sterminò più di 8000 bosgnacchi di sesso maschile. Il più atroce genocidio della guerra nell’ex Jugoslavia, perpetrato di fronte al contingente olandese dei caschi blu dell’ONU che decisero di non intervenire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora, il conflitto in Ucraina rischia di riaprire delle vecchie ferite che l’Europa ha colpevolmente lasciato incancrenire. Parliamo del conflitto nella ex Jugoslavia: sono passati trent’anni dall’assedio di Sarajevo, ha contato quel conflitto 140 mila morti. I trattati di pace non hanno contribuito a sanare questa vecchia questione. Ora, che cosa è successo? Che ci sono tante questioni ancora non risolte, a partire dalla Repubblica del Kosovo. Aveva chiesto l’indipendenza nel 2008 dalla Serbia, la Serbia non aveva gradito un’indipendenza che è stata accettata solo da 98 Paesi sui 193 membri dell’Onu e adesso, con il conflitto in Ucraina si sono riaccese quelle ambizioni nazionaliste della destra serba: in Bosnia Erzegovina si respira un’aria di secessione. Gli accordi di Dayton di 27 anni fa hanno lasciato uno stato ibrido: serbi, bosniaci e croati. Insomma, e adesso nella Federazione di Bosnia Erzegovina la Repubblica Srpska, la parte serba, vuole staccarsi con decisione da quella bosniaca. Chi è che sta soffiando e alimentando i venti di secessione, chi è che ha interesse ad alimentare la tensione nei Blacani che sono una polveriera?

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, è una distesa di lapidi bianche. L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco ai comandi di Ratko Mladic, sterminò più di 8000 bosgnacchi di sesso maschile. Il più atroce genocidio della guerra nell’ex Jugoslavia, perpetrato di fronte al contingente olandese dei caschi blu dell’ONU, che decisero di non intervenire.

SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA La prima notte ho capito che si trattava di una specie di campo di concentramento. I militari olandesi ci buttavano qualche bottiglia d’acqua dalle finestre.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Shida Abdurahmanovic quel giorno era dentro la fabbrica abbandonata presidiata dai caschi blu dell’ONU, i bosgnacchi di Srebrenica e dei villaggi vicini pensavano di essere al sicuro.

SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA Guardavamo dalla finestra mentre portavano via tutti i maschi. Allora non sapevamo perché, solo dopo abbiamo saputo che erano stati uccisi. È stato come vivere un film dell’orrore.

WALTER MOLINO Adesso che c’è la guerra lei ha di nuovo paura?

SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA Abbiamo paura. La situazione in Ucraina per me è identica alla nostra. Ieri sera ho visto le immagini delle fosse comuni. Se in Ucraina non finisce come vuole la Russia, in Bosnia potrebbe succedere di nuovo qualcosa.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quella di Srebrenica è una pagina di storia scritta dalle sentenze del Tribunale internazionale dell’Aja. Nel 2015, il presidente serbo Alexander Vucic fu accolto così al Memoriale di Potocari in occasione del ventennale del massacro. Ma i serbi non hanno mai accettato la storia scritta dai vincitori. Anche perché a meno di 10 chilometri da Srebrenica c’è il villaggio di Kravica, teatro di un’altra terribile strage, opera questa delle milizie bosniache musulmane e rimasta impunita.

RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA L’attacco è iniziato alle 5 del mattino, erano 5-6 mila musulmani. Hanno ucciso civili, anziani, bambini.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il giorno del Natale ortodosso del 1993, le milizie musulmane assaltarono il villaggio abitato dai serbi.

RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA Era la nostra festa di Natale, e ci stavamo preparando per andare in chiesa quando si sono presentati con granate e proiettili che sparavano alle finestre. Tutti quelli che hanno trovato li hanno massacrati. Con i coltelli, sgozzavano bambini e persino i gatti. Gli alberi della frutta sono stati bruciati, le case sono state rase al suolo.

DONNA ANZIANA Un bambino non aveva nemmeno quattro mesi quando è stato ucciso.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO 49 civili massacrati, stupri e torture, centinaia di case bruciate. Al comando dell’Armata bosniaca c’era Naser Oric. Assolto per questi e altri massacri dal Tribunale dell’Aja, il bosgnacco Oric è stato il più acerrimo nemico del serbo Ratko Mladic e alle sue unità militari i serbi attribuiscono gran parte delle oltre 3mila vittime nella regione.

WALTER MOLINO Lei adesso ha paura che tutto questo possa ricominciare?

RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA La paura c’è. Noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle di tutto. E abbiamo paura. Questi crimini possono essere commessi solo dai musilmani.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Trent’anni fa l’assedio di Sarajevo, il più lungo di tutte le guerre del ventesimo secolo. 1425 giorni di terrore. Oggi Sarajevo è abitata in maggioranza da musulmani. La Bosnia è uno Stato federale con due entità politico-amministrative: la federazione bosniaca e la Repubblica Srpska. Ma dalla firma degli accordi di Dayton del 1995 la costituzione è ancora solo un trattato di pace scritto in lingua inglese. Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza, ha avviato nei fatti la secessione e ha impegnato il Parlamento di Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska, a costituire un esercito indipendente. Sonja Biserko, è un ex diplomatica jugoslava, fondatrice del “Comitato per i diritti umani” di Belgrado.

WALTER MOLINO Che interesse ha Putin a scatenare il caos nei Balcani?

SONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO La Russia ha riempito il vuoto strategico lasciato dall’Europa e dagli Stati Uniti, forte anche dei legami della Serbia e con la Chiesa ortodossa. La Russia ha contaminato lo spazio informativo, ha sostenuto la Serbia sulla questione del Kosovo, si è espressa contro l’intervento della NATO. I servizi segreti russi hanno infiltrato Montenegro, Macedonia, Croazia.

WALTER MOLINO In Bosnia la situazione è sempre più tesa e il presidente della Repubblica Srpska minaccia la secessione.

SONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO Il presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, sin da quando nel 2008 il Kosovo si è proclamato indipendente, ha iniziato a radicalizzare la situazione in Bosnia con questo argomento: se il Kosovo ha diritto all’autodeterminazione, ce l’ha anche la Repubblica Srpska.

WALTER MOLINO Perché negare il genocidio di Srebrenica in Bosnia è un reato e in Repubblica Srpska no, eppure è un’unica federazione? S

ONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO La Serbia non ha riconosciuto il genocidio né l’aggressione alla Bosnia: ufficialmente è stata la guerra di liberazione dei serbi. Ma il genocidio è stato provato dal Tribunale dell’Aja. Gli accordi di Dayton avevano lo scopo di fermare la guerra, ma poi non c’è stata alcuna revisione. È impossibile che la Bosnia funzioni davvero come uno Stato.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A vigilare sul rispetto degli accordi di Dayton è l’Ufficio dell’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, con sede a Sarajevo. Sostenuto dall’Unione Europea e osteggiato dal Presidente Dodik. E anche il presidente russo Vladimir Putin ne ha chiesto l’abolizione.

WALTER MOLINO Putin vorrebbe che lei se ne andasse via da qui.

CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Il problema del signor Putin è che probabilmente alcune persone al Cremlino lo stanno seguendo, ma non la comunità internazionale. Io sono ben posizionato in accordo con la comunità internazionale e rimarrò qui.

WALTER MOLINO La Costituzione della Bosnia è un trattato di pace scritto in inglese. Come pensate che questi tre popoli possano sentirsi un unico stato se non hanno neppure una Costituzione scritta nella loro lingua?

CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Dayton è la base per una pace che dura da 27 anni, ma non è una risposta a tutte le sfide nella convivenza di tre popoli. Quindi ho davvero preferito avere una traduzione della costituzione che è accettata da tutti, altrimenti ognuno l’avrebbe modellata a modo suo.

WALTER MOLINO La spinta separatista imposta dal Presidente Dodik della Repubblica Srpska Dodik può aumentare ancora questa tensione?

CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Dodik non ha preso le distanze dalla guerra aggressiva in Ucraina e ha relazioni con la Federazione Russa, con Putin e Lavrov. Le persone sono preoccupate che ci sarà di nuovo una guerra.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dall’inizio del conflitto in Ucraina, la missione EUFOR ALTHEA, coordinata dall’Unione Europea, ha aumentato di fino a 1500 uomini il contingente multinazionale nell’ex base NATO di Butmir, nei pressi di Sarajevo.

GIOVANNI MONTELLI – COMANDANTE CONTINGENTE ITALIANO EUFOR ALTHEA C’è stato un incremento di circa 500 elementi che sono una forza intermediata di reazione, di risposta e questa forza semplicemente è stata attivata per motivi precauzionali. La fortuna di avere il contingente qua è proprio la garanzia che vedendoci la popolazione è già rassicurata.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Belgrado e Banja Luka i nazionalisti serbi manifestano a favore della Russia. In queste foto pubblicate nel 2018 dal sito bosniaco Zurnal.info, due importanti esponenti di “Onore Serbo”, sono in prima fila nell’assemblea nazionale di Banja Luka. Il primo è il pregiudicato Igor Bilbija. Il secondo è Bojan Stojkovic, leader di “Onore Serbo”, qui a fianco del Presidente Dodik. Stojkovic si è addestrato nel campo della 63° Brigata dei Paracadusti a Nis, 250 km a sud di Belgrado, dove è attivo un centro di assistenza umanitaria serbo-russo. Secondo l’intelligence di Sarajevo ci sarebbe dietro il Cremlino con l’intento di formare milizie paramilitari pronte a scatenare il caos in Bosnia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, se il Kosovo ha ottenuto la sua indipendenza, dicono quelli della Repubblica Srpska, lo stesso diritto deve essere riconosciuto anche a noi. Insomma, gli accordi di Dayton risalgono ormai al 1995 e la Costituzione della Bosnia Erzegovina non è nient’altro che un trattato di pace scritto in inglese. Il custode di questa Costituzione è l’Alto Rappresentante della comunità internazionale, Schmidt, che dice: ho preferito lasciare questo trattato di pace, questa Costituzione in inglese, per evitare che ciascuno la interpretasse a proprio piacimento. Ora però se tra bosniaci, croati e serbi non si è trovato un accordo di pace, una forma di convivenza, insomma, qualche problema ci deve essere e l’Europa deve essere pronto ad affrontarlo immediatamente perché tutto era cominciato nel 1991 con la guerra per la secessione della Slovenia, poi il conflitto per l’indipendenza della Croazia, poi ha continuato in Bosnia, poi in Kosovo, poi l’insurrezione nella Valle del Presevo e infine quella in Macedonia. Dieci anni di guerre perché c’era chi soffiava e alimentava il nazionalismo, c’erano problemi economici ma si alimentava quella differenza culturale, religiosa, e anche perché poi c’erano le ambizioni di leader, diciamolo, esaltati. Comunque erano tutti conflitti prevedibili ampiamente e l’Europa adesso non deve perdere tempo, è inutile rimuginare sui propri errori, bisogna invece preoccuparsi di evitare di commetterne altri anche perché, come abbiamo sentito l’intelligence bosniaca, parla di gruppi paramilitari addestrati dai russi pronti a scatenare l’inferno.

L'orrore di Mariupol. Civili uccisi per gioco e torturati pure in chiesa. Luigi Guelpa l'11 Aprile 2022 su Il Giornale.

"I soldati combattono per una causa, giusta o sbagliata che sia. I criminali uccidono per gioco. La differenza è tutta qui".

«I soldati combattono per una causa, giusta o sbagliata che sia. I criminali uccidono per gioco. La differenza è tutta qui». Mikhail Vershinin è il comandante di uno dei distretti di polizia di Mariupol. Nel 2014 è stato soldato nel Donbass, ma lo scenario di guerra dell'epoca non è paragonabile alle atrocità perpetrate dai russi nella città portuale. Mikhail non avrebbe mai voluto essere il testimone di un episodio che ha segnato la sua vita. Lo scorso 15 marzo le truppe di Mosca presero in ostaggio pazienti e personale dell'Ospedale Regionale di Terapia Intensiva per servirsene come scudi umani. «Poi però è successo anche di peggio. Obbligavano i civili a salire all'ultimo piano dell'edificio e li lanciavano dalle finestre. Poi scommettevano denaro tra chi era morto sul colpo o gravemente ferito».

Il racconto di Mikhail è l'ennesima dimostrazione che gli orrori documentati con foto e video a Bucha si sono ripetuti in tutte le aree dell'Ucraina. Territori in cui da settimane si replicano a ritmo incessante stupri, torture e uccisioni, come segnalato dal commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmila Denisova. Proprio ieri, su Telegram, la Denisova ha segnalato che non solo le donne sono state vittime di violenza sessuale, ma è emerso che anche molti «bambini di meno di 10 anni uccisi presentano segni di tortura e stupro». A raccontare scene e situazioni da girone dantesco sono anche i civili attraverso i social. Ragazze come Nadezda, Alena e Karina che su Facebook compilano l'agghiacciante diario quotidiano delle mostruosità. Secondo l'arcivescovo maggiore di Kiev, mons. Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, anche la chiesa ortodossa dell'Ascensione del Signore sarebbe stata profanata, con persone interrogate e torturate.

A Buzova, località a 20 km a ovest della capitale, il sindaco Taras Didich ha documentato su Telegram il ritrovamento di una cinquantina di corpi lungo un tratto di 6 chilometri della strada principale che porta a Kiev. «Sessanta persone al momento non si trovano. Temiamo l'esistenza di fosse comuni». Altri cadaveri sono all'obitorio, prelevati per strada dai parenti delle vittime. «I corpi hanno i segni di colpi di fucile e sono rimasti all'aperto per una decina di giorni». A Mariupol è tutt'ora in corso una caccia all'uomo. Lo racconta il consigliere del sindaco Petr Andryushchenko. «I russi non esitano a uccidere i civili per strada. Poi scattano foto e si vantano della vittoria, come se si trovassero in un safari». Frammenti di follia, come a Irpin, dove due soldati hanno violentato una ragazza incinta di 20 anni che ha perso il figlio, oppure a Makarov, dove hanno tagliato le mani a un uomo di 80 anni, morto dissanguato, davanti alla figlia.

Secondo il procuratore generale ucraino, Irina Venediktova, la Russia ha commesso atti aberranti contro la popolazione in tutta l'Ucraina. «Complessivamente si contano 1.222 morti solo nella regione di Kiev. Naturalmente, ciò che abbiamo visto sul campo in tutte le regioni sono crimini di guerra, crimini contro l'umanità e faremo di tutto per perseguirli». La Venediktova è anche tornata sulla strage alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, rivelando che le autorità hanno prove che a compiere l'eccidio sia stato un missile di Mosca. A rafforzare le tesi della procura di Kiev è il rapporto dell'MI6 britannico, illustrato domenica dal ministro della Difesa Ben Wallace. «La partenza russa dal nord dell'Ucraina lascia le prove di una sproporzionata presa di mira dei non combattenti, inclusa la presenza di fosse comuni, l'uso di ostaggi come scudi umani, il fatto che siano state minate infrastrutture civili». Senza dimenticare la fabbricazione di esplosivi improvvisati per provocare vittime e restringere la libertà di movimento degli abitanti. «Il piano di terrorizzare e brutalizzare i civili arriva direttamente da Putin», ha detto il consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan.

Oltre agli eccidi ci sono anche le deportazioni: più di 400 abitanti di Mariupol vengono tenuti in una struttura nella regione di Penza, a sud-est di Mosca. Altri 20mila (di cui almeno 2.500 bambini) si troverebbero nell'isola di Sakhalin, nell'estremo oriente della Russia. Lo riferisce il ministro degli Esteri Kuleba.

Mariupol è la nuova Auschwitz. La denuncia: campo di sterminio, forni crematori mobili per bruciare i corpi. Il Tempo il 06 aprile 2022.

“Mariupol è diventata la nuova Auschwitz”. Parola del sindaco della città portuale nel sud dell’Ucraina, Vadym Boychenko, che su Facebook ha scritto un post durissimo: “I razzisti hanno trasformato l’intera città in un campo di sterminio. Sfortunatamente l’inquietante analogia sta ottenendo sempre più conferme”. Boychenko ha aggiunto che “questa non è più la Cecenia o Aleppo. Questa è la nuova Auschwitz e Majdanek”. Il sindaco parla di “decine di migliaia” di vittime civili, ricordando che una settimana fa stime in difetto parlavano di cinquemila persone uccise a Mariupol. Nella città vivevano circa 400mila persone, ma alcune erano fuggite prima dell’invasione russa.

Inoltre i soldati russi stanno usando crematori mobili nella città di Mariupol per “distruggere qualsiasi prova dei loro crimini”. Lo denuncia su Telegram il consiglio comunale della città. “Assassini che coprono le loro tracce. Dopo l’ampia copertura internazionale del genocidio di Bucha, i vertici della Federazione Russa hanno ordinato di eliminare qualsiasi prova di crimini del suo esercito a Mariupol”, si legge nel post.

Il consiglio comunale di Mariupol ha ricordato che una settimana fa stime prudenti indicavano circa cinquemila morti in città, ma date le dimensioni dell’area urbana, la distruzione, la durata del blocco e la feroce resistenza, decine di migliaia di abitanti della città potrebbero essere caduti vittime degli occupanti. “Il mondo non assisteva a una tragedia come quella che sta affrontando Mariupol dai tempi dei campi di concentramento nazisti. I russi hanno trasformato la nostra intera città in un campo di sterminio. Sfortunatamente, l’analogia raccapricciante si sta facendo sempre più calzante” le parole del primo cittadino della città ucraina.

 Niente di nuovo sotto il sole, la guerra è un crimine. Paolo De Angelis su La-Notizia.net il 7 aprile 2022.

Nulla di nuovo sotto il sole. Non esiste un modo “leale” di fare la guerra.

“All’inizio dell’assedio da parte dei russi, in città sono rimasti intrappolati 200.000 civili. Uomini, donne e bambini che non sono riusciti a fuggire. Chi si è salvato lo ha fatto camminando sul mare ghiacciato che in molti punti ha ceduto, ingoiando migliaia di persone e non lasciando scampo a coloro che erano finiti nell’acqua gelata…

Alla fine della battaglia sono sopravvissuti 20.000 civili che sono stati deportati in Russia per essere avviati nei campi di lavoro in Asia centrale ed in Siberia e la cui sorte è sconosciuta. La città è stata totalmente ripopolata da etnia russa. Dopo 97 giorni di assedio con bombardamenti incessanti, le truppe sovietiche entrano in città. I comandanti aizzano i soldati a vendicarsi contro i loro nemici e iniziano gli stupri, i saccheggi, gli omicidi. La battaglia è finita. I Russi contano 160.000 morti, altrettanto tra gli avversari ed un numero spaventoso, sicuramente superiore ai 200.000 tra i civili, donne e bambini. Più di mezzo milione di morti giace sul terreno”.

Non è la cronaca che proviene da Bucha o di Mariupol, ma stiamo parlando di Königsberg (oggi Kaliningrad) e i fatti risalgono dal gennaio all’aprile 1945. Quello che successe lì non l’ho letto dai libri, ma dalla testimonianza diretta di mio padre, che era prigioniero internato nello Stammlager VIII C di Sagan (ora Żagań, in Polonia) costretto ai lavori forzati. Poco prima, nel dicembre ’44, i tedeschi l’avevano portato a Königsberg, insieme ad un centinaio di altri prigionieri, per essere utilizzati come forza lavoro nella realizzazione di opere di difesa della città. Tutti i giorni usciva dal lager (Stablack) nei pressi della città per recarsi al lavoro ed assisteva a spettacoli terribili. Riporto fedelmente uno stralcio dal suo diario.

“Il nostro trasferimento avvenne prima della mezzanotte, sotto i bombardamenti e i razzi bengala per colpire meglio i bersagli. Il giorno 10 (dicembre, ndr) ci portarono a lavorare a tu per tu, sul fronte russo, a fare le barricate da un palazzo all’altro. Il 14 ci fecero partire per trasferirci in un altro campo in un altro quartiere della città che si chiama “Kenigsplatz” (Königsplatz, credo che ogni città abbia una piazza con quel nome, ndr) facendoci rifugiare in una casa diroccata, senza mangiare e senza acqua. Bombardamenti e granate si incrociavano in ogni direzione, seminando terrore e morte. Quante paure, preghiere e raccomandazioni si rivolgevano al buon Dio affinché ci liberasse da questo immane flagello. Il 24 mattina tutte le armi russe aprirono nuovamente il fuoco e sconvolsero nuovamente tutta la zona, cioè il quartiere di Kenigsplatz. La sera ci fecero tornare nuovamente al quartier “burgvaide” (lui stesso dice di scriverlo come lo pronunciano, potrebbe essere burgweider-borghese) dove giungemmo alle ore 23 attraversando palazzi in fiamme e cadaveri che bruciavano, gente ancora viva avvolta dalle fiamme. Il dolore e le avventure le potete immaginare perché non è possibile descriverli in questi fogli. Rimanemmo al quartiere “burgvaide” sotto l’insidia e la minaccia tedesca, sotto le botte e la fame, accompagnato dal lavoro forzato, sotto i bombardamenti e i mitragliamenti delle armi russe dove i cadaveri non si contano più e le malattie si moltiplicano continuamente.

Strada facendo, vento, fuoco, fumo, gente morta, cavalli, soldati, macchine bruciate coprivano il terreno tanto che non si poteva camminare. Non potete riuscire a farvi idea di ciò che poteva essere, di questo orrendo spettacolo, di questa carne umana tagliata a pezzi e maciullata… io rimanevo fisso con lo sguardo, sembravo uno che era impazzito. Fissavo lo sguardo in aria, guardavo nel vuoto, pensavo, riflettevo… ma che cosa? … cose orrende, cose tristi, morte e sventure, patimenti e strazio, orrore e turbamento da non potersi descrivere. Mi domando “ma perché avvengono queste cose?” Perché io devo vedere tanti morti di persone sconosciute che hanno sparso il loro sangue? Se il destino ha messo a terra questi corpi tra noi ancora viventi, dobbiamo sentirci umiliati perché si vede con gli occhi inchiodati, la realtà delle atrocità della guerra e chiede a chi resta la ragione del perché accade questo. Forse soltanto questi morti sanno il perché. 

Io non so cosa dire, almeno ora, perché sono terrorizzato come tanti e tanti altri ancora nel vedere questi morti, pensando che almeno per loro la guerra e le sofferenze sono davvero finite. Io non capisco più nulla, sono sconvolto, piango lacrime veramente amare, vedo morti su morti, gente che corre terrorizzata senza una meta, senza speranze e senza conforto… Ma perché permettere tutto questo? Perché non scende sulla Terra un Santo, perché una voce non urla da lontano “pace, pace pace”… Perché la Terra, avida di sangue non dice “BASTA!”. L’esperienza di guerre passate non ha saziato si sangue coloro i quali sono responsabili e non li ammaestrati nel quieto vivere? Vorrei chiedermi tante cose, vorrei avere tante spiegazioni, sentire tante belle parole, ma in questo momento qualunque spiegazione è superflua, perché non capisco più nulla, non sono più capace di rendermi conto di alcuna spiegazione…”.

Poi i soldati russi conquistarono Königsberg, ma le cose non andarono particolarmente bene, neppure per i prigionieri dei tedeschi. Mio padre scriveva … “Le parole che circolavano tra di noi erano sempre le stesse, tanto per consolarci… ‘non ci hanno ammazzati’…. Che banditi, altro che liberatori!!! E difatti, più che liberatori, si rivelarono tirannici. Ma forse agivano di loro iniziativa, di loro spontanea volontà, perché si trattava di soldati cosacchi, mongoli, chirghisi e siberiani (guarda caso gli stessi di Bucha, ndr) e tanti altri asiatici. In genere questi soldati fanno paura solo a guardarli, sono peggio delle bestie inferocite e senza pietà”. Successivamente mio padre e gli altri i prigionieri furono trasferiti a Breslau (in Slesia, ora Wroclaw)dove nell’ultimo tratto arrivarono attraverso una strada di campagna… “Da questa strada si dominava tutta la città, dense nubi di fumo e fiamme di fuoco si levavano verso il cielo: bruciava tutto. I soldati russi, con i lanciafiamme bruciavano vivi i tedeschi (ormai arresisi) … (omissis)…”.

Poi mio padre ed altri due suoi compagni presero un carrettino e tentarono di andare alla ricerca di qualche cosa da mangiare, frugando tra le macerie, ma… “Appena percorsi 4 km trovammo una lunghissima fila perché la strada era interrotta. Un ponte sulla palude formata dal fiume Oder era spezzato. Bisogna portarsi dall’altra parte, camminando su delle tavole che erano state approntate, aiutandoci l’un l’altro, prima donne e bambini, poi gli uomini con carrettini e roba… (omissis).

Appena fui al di là cercai di ritrovare i miei due compagni di viaggio. Poco prima di raggiungerli, si udirono due forti detonazioni in mezzo alla colonna che stava per mettersi in movimento. Quattro mine scoppiarono, una dopo l’altra, urtate dalle persone che erano in sosta. Erano nascoste tra l’erba e nessuno le aveva viste. Si udirono delle grida, urla disperate che riempirono la valle desolata. A me e Teodolti caddero le braccia, ma corremmo, ritrovammo la forza di correre… correre verso la testa della colonna per vedere cosa fosse successo e se il nostro inseparabile amico fosse salvo” (omissis).

Nella via del ritorno, con il carrettino pieno di cibo “… mi si presentò lo spettro di sei uomini ed una donna, fucilati, trovati morti lungo la strada che avevamo percorsa. Dopo che erano stati denudati, una scarica di mitra li aveva perforati e giacevano a terra con gli occhi aperti, come se non fossero morti… Pensai che tra qualche minuto anche noi tre, poveri sventurati, dovevamo giacere morti lì dentro senza che nessuno avesse più notizie di noi. Pensai alla cara mamma, ai fratelli, alle sorelle, ai parenti, a coloro che conoscevo fin dalla mia infanzia, dando a tutti un caro addio.” … (omissis).

Ecco. Oggi ci stupiamo di ciò che sta succedendo in Ucraina, dei crimini. Ma questi episodi non sono crimini. LA GUERRA STESSA E’ UN CRIMINE. Il diario di prigionia di mio padre Mario De Angelis è molto lungo. Purtroppo mancano un centinaio di pagine. Mia madre mi dice che lei non sa cosa ci fosse scritto, ma quando mio padre le leggeva, piangeva tutta la notte. Sparirono… Mia madre mi dice che le distrusse.

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 Caro Liguori, la strage di Bucha è come il massacro di My Lay? Allora manifesta contro Putin! Secondo Paolo Liguori chiedere di processare Putin per la strage di Bucha è un’assurdità anglo-americana che ci allontana tutti dalla pace...di Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 aprile 2022.

Secondo Paolo Liguori, direttore editoriale del Riformista Tv, chiedere di processare Vladimir Putin per la strage di Bucha è un’assurdità anglo-americana che ci allontana tutti dalla pace. In altre parole non si può trattare il capo del Cremlino come un criminale di guerra, non si può metterlo in un angolo o addirittura sperare nella sua sconfitta militare perché questo «accanimento» (parole sue) porterebbe a una guerra infinita tra Russia e Occidente.

Con Putin bisogna trattare, negoziare, venire a patti. Zelensky e gli ucraini, invece, in un angolo possono finirci benissimo e possono compiere una sola scelta: arrendersi all’istante, magari nella speranza che i russi si mostrino clementi e rinuncino a qualche obiettivo minore, Poco conta che nel frattempo, gli stessi russi, da Mariupol a Karkhiv, da Bucha a Borodyanka si stiano macchiando di crimini atroci, come è stato documentato da centinaia di testimonianze.

Anche perché Liguori, evidentemente colpito dalla stessa sindrome dell’Anpi, di quei massacri si dice non così convinto e vorrebbe vederci chiaro. O meglio, li dà per buoni solo come ipotesi di scuola per corroborare il suo ragionamento. Che riposa su un ardito paragone storico con la strage di My Lay commessa dai marine americani in Vietnam nel lontano 1968: «Ammettiamo che a Bucha quel massacro sia andato veramente per come è stato ricostruito per le televisioni», scrive l’ex militante di Lotta Continua, spiegando che non ha senso incriminare il presidente russo perché per i fatti di My Lay «nessuno pensò che bisognava processare il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson neppure lo chiesero i vietnamiti. Perché subito dopo questi massacri aprirono un tavolo di trattative a Parigi e trattarono la pace con gli americani».

Strana similitudine, perché se ben ricordo dai manuali di storia, gli Usa in Vietnam non misero fine alla guerra dopo un negoziato o trattando direttamente con Ho Chi Min ma subirono una tremenda sconfitta militare, abbandonando Saigon con la coda tra le gambe e consegnando il paese asiatico ai vietcong. Allo stesso tempo nei paesi occidentali milioni di ragazzi e ragazze, tra cui senza dubbio un giovanissimo Paolo Liguori, sconvolti da carneficine come quella di My Lay scendevano in piazza gridando «yankee go home!»: il ritiro delle truppe Usa era la priorità della galassia pacifista (lo è stato anche per la guerra in Iraq) mentre i presidenti Johnson e Nixon erano considerati come i primi responsabili quei massacri. La stessa, derelitta, galassia pacifista che oggi intima agli ucraini di deporre le armi e accettare le condizioni dello zar per non “peggiorare le cose”.

Ma poi: se le fosse comuni e le stanze delle torture di Bucha sono degli orrori comparabili a quelli degli americani in Vietnam, perché il direttore editoriale del Riformista tv non va in piazza a manifestare per l’Ucraina e contro il criminale Vladimir Putin?

Il paradosso. Bucha, My Lai, Foibe, le stragi di russi, americani italiani che servono ad accettare la guerra. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Aprile 2022. 

Bucha, My Lai, Cirenaica, Katyn, Foibe. Senza scomodare i nazisti, perché il nazismo è un storia a sé. Questi nomi che ho messo vicini rappresentano altrettanti orrori e prove di ferocia umana. I protagonisti e le vittime sono diversi, i metodi e l’infamia sono uguali. Bucha l’abbiamo visto in queste ore, i massacratori sono russi. A My Lai erano americani. in Cirenaica italiani. Nelle foibe jugoslavi. I numeri che riguardano quelle stragi sono mostruosi. Le vittime furono terrorizzate, torturate, uccise nei modi più atroci. Molte di loro erano persone vecchie, molte erano persone giovanissime, cioè bambini. A My Lai c’erano anche centinaia di donne, e molte furono stuprate dai marines. A Bucha le vittime sono ucraine, europee. A My Lai vietnamite, asiatiche. A Katyn polacche, ed erano in gran parte soldati. Nelle Foibe erano in maggioranza italiani.

Perché cito queste stragi? Perché sono identiche, nell’orrore, e perché – in modi e tempi diversi – hanno suscitato rabbia e indignazione. Anche in questi giorni. Hanno scosso un’opinione pubblica propensa ad accettare l’ineluttabilità della guerra. La guerra è considerata in linea generale un fenomeno razionale, forse persino utile. Dignitoso o anche eroico. Recentemente un alto esponente della diplomazia italiana mi ha spiegato come e perché la guerra sia connaturata con la civiltà umana e col suo sviluppo, e come sia uno strumento decisivo per regolare i rapporti di forza tra le potenze e la gerarchia dei diritti umani. La strage, il singolo episodio di violenza e di sopraffazione e di prepotenza e di omicidio, invece, urtano la sensibilità e addirittura aiutano gli stati e gli eserciti a convincere l’opinione pubblica che la guerra è necessaria. È una risposta di livello elevato. Certo che è un paradosso: la strage – cioè la repulsione per la strage – serve a far accettare la guerra. Talvolta questo schema funziona in modo autonomo, spontaneo, casuale. Talvolta è guidato.

Parliamo di My Lai, anche per capire che l’orrore non è solo lontano da noi, spesso è vicinissimo. A My Lai operarono alcuni ragazzi americani più o meno della mia generazione, o forse un po’ più vecchi, della generazione di Bob Dylan e di Joan Baez, e che venivano, forse, dalle stesse città di Dylan e Baez. Ma non erano pacifisti. Arrivarono in una mattina di marzo in questo paesino del Sud Vietnam a un migliaio di chilometri a nord di Saigon, lo circondarono e lo annientarono. Si accanirono per ore. Nel villaggio trovarono solo persone anziane, bambini e donne, e questo li fece infuriare. Dove stavano i giovani maschi? Erano nascosti nella giungla, perché erano vietcong, dunque nemici. E allora i soldati blu, i marines, guidati da un tenente che si chiamava William Calley, decisero di punirli. Bruciarono le case, alcune coi loro abitanti, violentarono le ragazze, e poi uno a uno iniziarono a uccidere tutti. Tutti: anche i neonati. Il sangue scorreva giù impetuoso dai viottoli. Si stava facendo sera, e il lavoro era quasi finito, quando un elicottero americano sorvolò My Lai, al comando di un ufficiale che si chiamava Thompson, il quale vide cosa stava succedendo, atterrò proprio nella piazza del paese, puntò i bazooka contro i suoi colleghi e ordinò di allontanarsi minacciando di aprire il fuoco. Salvò chi ancora non era stato ucciso. Undici persone.

Gli altri 547 erano già morti. La strage fu messa a tacere. La scoprì un giornalista l’anno dopo, ricevendo le confidenze di uno dei soldati dell’elicottero. La denunciò. All’inizio non fu creduto. Il generale Colin Powell, incaricato dell’inchiesta, minimizzò. Poi ci fu un processo. Calley fu condannato all’ergastolo, ma l’ergastolo durò solo un giorno. Nixon lo graziò. Volete che vi parli degli orrori che fece il maresciallo Badoglio in Cirenaica? Forse basta che vi dica il numero dei civili che trucidò. Ventimila. Lo fece durante la deportazione delle tribù che abitavano il Gebel. Circa 100 mila persone. L’uccisione dei civili avvenne in forme tremende, feroci. Badoglio non ebbe bisogno di ricevere la grazia dal re, come il tenente americano: lui non fu processato ma qualche anno dopo diventò presidente del Consiglio. Fu processato invece un suo sottoposto (e poi successore), il generale Rodolfo Graziani, che tra l’altro si era reso protagonista dell’uso di armi chimiche contro gli etiopi. Graziani fu condannato a 19 anni di carcere nel 1948, ma scontò solo due mesi. Poi tornò alla ribalta e diventò presidente dell’Msi.

Nel 1954, sugli altipiani di Arcinazzo, incontrò Giulio Andreotti, già astro nella Dc e vice di De Gasperi. Tra i due ci fu un grande abbraccio. Katyn è stata una delle più gigantesche stragi politiche della storia. La ordinò Stalin. Le vittime son state circa 22mila. In grande maggioranza ufficiali dell’esercito polacco, portati in catene nella foresta di Katyn e trucidati. Insieme a loro furono fucilati anche diversi politici e giornalisti polacchi, considerati il nucleo forte dell’intellighenzia. L’orrore delle Foibe, che fu tenuto nascosto per molti anni, fu realizzato all’inizio del 1945 dai partigiani jugoslavi che si accanirono con i civili dalmati e giuliani considerati collaborazionisti del fascismo. Ne uccisero un numero spaventoso. Tra i 5000 e i 15 mila. Le vittime furono gettate nei crepacci che in quella zona d’Italia si chiamano Foibe e lasciate morire con le mani legate. e poi, tutti insieme, sotterrati. Per molto tempo non se ne è parlato, di questa atrocità, perché gli autori erano esponenti della resistenza al nazismo. Calò il silenzio politicamente corretto.

Da qualche anno è iniziata la ricostruzione storica, ormai non discussa più da nessuno tranne da qualche professore un po’ scapestrato. Le stragi dei civili da molto tempo sono una caratteristica di tutte le guerre. Colpiscono meno l’opinione pubblica, se sono frutto di un bombardamento, come quello russo che ha distrutto almeno due ospedali ucraini, o quello americano e italiano che 1999 rase al suolo un ospedale di Belgrado. Ma non sono meno orrende di My Lai e Bucha. È una contraddizione pazzesca quella tra la commozione mondiale per alcuni episodi e il presunto buonsenso con il quale viene perdonata la guerra, o dichiarata giusta. Del resto io credo che finché il buon senso accetterà la guerra, sarà difficile evitare l’orrore dei singoli episodi. E credo anche che la discussione su Bucha sia abbastanza inutile. Dobbiamo sapere esattamente chi è stato? E che importanza ha? Quel che sappiamo è che è stato. Scriveva Hemingway: non chiederti mai per chi suona la campana: suona per te.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Francesco De Remigis per “il Giornale” il 6 aprile 2022.

Quando Volodymyr Zelensky evoca lo spettro delle coperture dei crimini di guerra da parte dei russi, lo fa con la consapevolezza di chi conosce la «mente» del Cremlino. Lui per primo aveva lanciato l'allarme invasione senza essere preso troppo sul serio dall'Europa. Ora si comincia a parlare di processi e il leader della resistenza ucraina dà un nuovo alert: dopo Bucha, i cui cadaveri ai lati delle strade sono stati bollati come fake news dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, «stanno già azionando una falsa campagna per nascondere la colpevolezza nell'uccisione di massa di civili a Mariupol avranno dozzine di interviste inscenate, nuove registrazioni e uccideranno persone per far credere che siano state uccise da altri».

La fascinazione generata dalla parlantina quotidiana dell'ex attore potrebbe distrarre da quel che Zelensky è: uno che sa come ragionano i russi, come operano i vertici e quali strategie impiantano nei quadri militari, che ora potrebbero ritrovarsi sotto accusa alla Corte penale internazionale (dove non siedono gli Stati Uniti) come minuscoli capri espiatori. L'Italia è tra i 39 Paesi che hanno avallato la procedura d'attivazione per l'apertura di un'indagine all'Aia, dove si processano uomini e non Stati.

L'arma di Putin per nascondere al mondo (e ai suoi) i crimini di guerra è già stata azionata; ancora prima di iniziare l'invasione. Conoscenza delle operazioni a compartimenti stagni. Nessun generale ha contezza del disegno completo e forse neanche dei massacri. Ogni singola città occupata, distretto, quartiere, ha ricevuto ordini precisi, non necessariamente nella stessa versione: tra i battaglioni ritiratisi dal Nord molti non sapevano come si sarebbero mossi i colleghi nel Sud.

Cerchi concentrici in cui nessuno conosce nell'insieme il mosaico. La tecnica eredita la formazione del Servizi russi da cui lo zar proviene. Spazio ad azioni individuali anche indiscriminate che rientrano nella norma di un blitz degli 007 come di un battaglione. A fronte di indagini già avviate in Ucraina da parte della Cpi dell'Aia, l'attitudine da ex uomo dell'intelligence torna utile come paracadute. E se mai si riuscirà a imbastire un tribunale speciale Onu (diverso da un processo per crimini di guerra all'Aia) ognuno, militare o dirigente politico, potrà negare di sapere cosa stava accadendo, scaricando la responsabilità su soldati semplici, che nel panico della sconfitta (e da ripercussioni possibili) non denunceranno né azioni né ordini degli ufficiali.

Anche a questo è servito a Putin il richiamo di riservisti dall'Asia, ragazzi appena adulti già segnati dalla miseria dell'estremo oriente dell'impero, facilmente manipolabili. Mentre le milizie cecene hanno già la bocca cucita da anni sui massacri, e certo non dichiareranno responsabilità personali su Bucha o Mariupol. Un tribunale speciale per crimini di guerra all'Aia ha condannato quasi 50 serbi bosniaci tra cui il leader politico Radovan Karadzic, e il suo comandante militare, Ratko Mladic, per Srebrenica.

Ma Putin non è Karadzic e il tenente colonnello Asanbekovich, comandante dei russi che il 31 marzo hanno smobilitato da Bucha, non è Mladic. È un potenziale massacratore venuto da Oriente, e quasi certamente non il solo «boia» di Bucha.

Difficile cavare ragni dai buchi pensati ad hoc da Mosca. Ne abbiamo prove recenti. Il team internazionale di tecnici che dal 2014 indaga sul disastro aereo dell'MH17 ha lanciato appelli alla ricerca di testimoni, chiedendo lumi all'interno della gerarchia militare e amministrativa per sapere chi ha dato via libera al lancio del missile che ha distrutto il Boeing della Malaysia Airlines che attraversava l'Ucraina orientale. Telefonate intercettate mostrano leader del gruppo armato Repubblica popolare di Donetsk (Dpr) in contatto con funzionari del governo russo.

Ma di chiarimenti neppure l'ombra, solo 4 sospetti che avrebbero partecipato alla dislocazione del missile. Dei vertici del Cremlino non c'è traccia, solo pedoni sacrificabili. Stessa cosa in Siria. Indagine impantanata e fake news per sviare dai veri responsabili di crimini

Progetto Iramo. Figli del Genocidio. Testo e foto di Massimiliano Pescarolo su Inside Over il 7 aprile 2022.

Il 7 aprile di ogni anno le Nazioni Unite onorano la memoria delle vittime del genocidio ruandese del 1994. A più di venticinque anni dal massacro ruandese, in cui morirono in pochi mesi 800.000 persone, migliaia di sopravvissuti sono affetti da Aids. In particolare, la Rwandan Widows’ Association, che riunisce le vedove del genocidio, stima che siano affette da HIV il 70 per cento delle sue associate. La maggior parte di esse, dopo l’assassinio dei loro mariti, venne rapita dalle milizie e stuprata ripetutamente durante i tre mesi del genocidio; ormai sappiamo con certezza che il governo faceva uscire dagli ospedali i pazienti affetti da Aids proprio per formare i battaglioni di stupratori, si è trattata di una feroce violenza perpetrata dalla maggioranza hutu contro la minoranza tutsi e gli hutu moderati. In seguito agli stupri, molte di loro sono rimaste incinte e hanno contratto l’HIV.  

Ora si trovano contemporaneamente a crescere un figlio da sole e ad affrontare la malattia. Ben poche di loro possono permettersi il costo del trattamento antiretrovirale, oltre 100 Euro al mese. E i loro figli rischiano di rimanere a breve orfani sia di padre che di madre. Molti orfani hanno abbandonato la scuola per mancanza di mezzi. In tanti sono rimasti infermi per le violenze subite, e l’ideologia del genocidio minaccia ancora i sopravvissuti, perché i negazionisti sono numerosi, soprattutto in Occidente, dove regna l’impunità per i carnefici, in particolare in Francia. Le sopravvissute allo stupro sono tra i gruppi più colpiti dal genocidio: secondo stime delle Nazioni Unite, nel 1994 vennero perpetrati da 250.000 a 500.000 stupri. Molte delle vittime soffrono oggi di malattie a trasmissione sessuale, come il virus dell’HIV/Aids, e nutrono ben poca speranza di ricevere cure mediche o un risarcimento. L’80% delle sopravvissute allo stupro è ancora fortemente traumatizzata.  

Tutto questo ha generato una generazione di bambini nati dagli stupri, ufficialmente i casi registrati sono almeno cinquemila, ma con ogni probabilità sono molti di più, la maggior parte di loro affetta dal HIV, ed ancora oggi il diffondersi del virus prosegue inevitabilmente come diretta conseguenza del genocidio. Assicurare l’istruzione delle nuove generazioni è imprescindibile per promuovere lo sviluppo e la crescita del Rwanda. Sono diversi i ragazzi e le ragazze adolescenti che hanno alle spalle percorsi scolastici frammentati per vari motivi: alle conseguenze della guerra e del genocidio, si aggiungono oggi anche situazioni di povertà estrema, che portano i giovani a ricorrere agli “espedienti di strada” come possibile strategia di sopravvivenza e il crescente numero di gravidanze indesiderate, che causa l’abbandono scolastico di ragazze giovani e giovanissime.  

Ci sono parecchie ONG e ONLUS in Rwanda, io sono entrato in contatto con Turikumwe Onlus, una organizzazione che opera da più di 10 anni, con Desiré Rwagaiu referente dei progetti di Fondazione Marcegaglia Onlus e con Ilaria Buscaglia una antropologa di Girl Effect, una ONG di cui fanno parte sono donne rwandesi, che contribuiscono finanziariamente allo studio e alla formazione di ragazzi e ragazze vulnerabili, con una particolare attenzione per il reintegro scolastico dei “drop- outs”, coloro che hanno abbandonato prematuramente gli studi per varie ragioni. Turikumwe Onlus, con l’aiuto delle suore Inshuti z’Abakene, si occupa di indirizzare questi giovani verso un possibile percorso di studi e di pagare le tasse scolastiche annuali e anche le spese connesse all’acquisto dei materiali necessari per lo studio. Attraverso il confronto con l’antropologa Ilaria Buscaglia ho capito anche l’importanza dell’educazione sessuale che viene affrontata in questi progetti, necessaria per evitare comportamenti scorretti e alimentare il diffondersi della malattia.  

In Rwanda, secondo i dati più recenti (2019), il virus dell’Aids colpisce circa il 3% della popolazione, in maggioranza di sesso femminile e residenti nella capitale Kigali. Sebbene ci sia stata negli ultimi anni una riduzione dei casi di sieropositività e anche un aumento della soppressione virale (grazie a una regolare assunzione di farmaci retro-virali), essere sieropositivi in Rwanda – come nel resto del mondo – significa essere discriminati, tanto in famiglia quanto nelle comunità di provenienza.  

Il centro Iramiro a Busanza è una struttura destinata ad accogliere bambine/i e ragazze/i nate/i sieropositive/i. Gli ospiti del Centro provengono sia da contesti di povertà estrema o sia da situazioni di forte discriminazione a livello famigliare. Attualmente al centro sono ospiti 31 tra bambini, bambine, ragazzi e ragazze. Alcuni dei quali vivono al centro in permanenza, mentre altri vi si recano soltanto in giornata, dove mangiano e trascorrono il tempo dopo la scuola, fino a sera, quando rientrano nelle famiglie di provenienza.  

Il centro di Busanza nella periferia di Kigali, è stata la mia prima tappa e in un secondo momento mi sono diretto verso un’altra struttura nel sud del Rwanda, quasi al confine con il Burundi, a Rilima in una delle zone più povere del Paese. Qui ho seguito fotograficamente il progetto Iramiro, grazie al quale ho cercato di documentare la mia esperienza.

L’intento è quello di far conoscere una storia che nonostante siano passati più di venticinque anni è ancora un problema che affligge il Rwanda moderno.

Testo e foto di Massimiliano Pescarolo

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 aprile 2022.

Caro Dago, premesso che non ho alcuna parola bastante a dar conto dell’orrore di quella gente ucraina maciullata dai russi e lasciata marcire per strada - sicuri come erano quei biechi assassini della loro impunità - , ti confesso che esito a condividere la pressante richiesta di una “Norimberga” che veda sul banco degli accusati l’attuale dirigenza russa. 

Il fatto è che quando imperversa una guerra, i rapporti tra “morale” e “politica” si fanno molto intricati. A conclusione della Seconda guerra mondiale il processo di Norimberga non fu un trionfo della “morale” e bensì un sovrappiù della ”politica” che i vincitori imposero ai vinti. Non solo vi abbiamo battuto sul campo, non solo i nostri aerei e i nostri carri armati hanno prevalso sui vostri, in più vi impicchiamo in nome della “morale”. 

Non che i nazi non ne avessero fatto una più del diavolo, solo che in guerra i crimini sono come l’aria che respiriamo. Ce n’è caterve a ogni angolo di strada, non per niente è la guerra. I due milioni di donne tedesche stuprate dai soldati russi che da Stalingrado in poi andarono all’assalto della Germania, erano o no un crimine di guerra? 

Eppure quando io ne scrissi sull’ “Europeo” una quarantina d’anni fa, il caposervizio della cultura - che era un comunista italiano ma comunista era - mi cassò l’articolo, lo destinò al cestino. E ancora. Se avessero vinto i tedeschi sì o no sarebbero stati processati Winston Churchill e il gran capo dell’aviazione militare inglese, ossia quelli che ordinarono la distruzione totale di Dresda, una bellissima città tedesca che non ospitava installazioni militari? E così via. 

Quelle immagini che passano sui nostri schermi televisivi rappresentano l’orrore assoluto, come immagino lo avrebbero rappresentato le immagini di altre guerre recenti, ivi comprese quelle condotte dai nostri alleati occidentali. Purtroppo non ricordo il titolo di un cine documentario (americano) su un gruppo di marines che erano piombati nella casa di una bellissima ragazza irachena, l’avevano stuprata e poi avevano massacrato lei e la sua intera famiglia allo scopo di non lasciare testimoni. A quella famiglia irachena dedicai uno dei miei libi una decina d’anni fa.

Sto dicendo per questo che dobbiamo tacere sulle mostruosità compiute dalle forze russe che si stavano ritirando? Ovvio che no. Sto solo dicendo che una guerra o la vinci sul campo oppure l’ombra di una qualche “Norimberga” a danno dei tuoi avversari resta aria fritta. Non solo, a forza di chiedere una “Norimberga” a danno dei tuoi avversari rischi di bruciare sul nascere ogni ipotesi di accordo, di armistizio, di tregua. Con il loro insistere sul fatto che i tedeschi dovessero arrendersi senza condizioni, gli alleati fecero durare la Seconda guerra mondiale almeno sei mesi in più, e dunque con qualche centinaio di migliaia di morti in più.

Se i carri armati dei “buoni” non prevalgono in Ucraina sui carri armati dei “cattivi”, non ci sarà l’ombra di una “Norimberga” e invece ancora morti, orrori, torture, città distrutte, famiglie sfrantumate. In politica devi avere un obiettivo, il resto viene dopo e ammesso che verrà. 

Non credo che nessuno di noi vedrà sul banco degli accusati quell’ufficiale russo di cui sui social hanno messo indirizzo di casa e numero del cellulare perché era lui che comandava le truppe russe ritenute artefici di quel massacro. Noi possiamo solo sperare che le armi tacciano e fare tutto il possibile che vada in quella direzione.

L’espulsione a mucchi dei diplomatici russi va in quella direzione? Ma nemmeno per idea. Così come non sono sicuro che vada in quella direzione l’attuale atteggiamento del governo americano, gente che dopo aver ritirato (decisione inevitabile, a mio avviso) i suoi soldati dall’Afghanistan sta adesso combattendo una sua guerra accanita contro l’Urss per interposto esercito, quello ucraino. Non ne ho pace.

Lettera di Valter Vecellio a Dagospia il 7 aprile 2022.

Caro Dagospia, leggo sempre Giampiero Mughini, da cui ogni volta imparo qualcosa, cultura, stile, esperienze fatte e raccontate. La cosa va avanti da anni, da quando lo conobbi alla redazione di “Europeo”, a via della Mercede. Il suo ultimo “Muggenheim” lo leggo diviso: con spirito vorace, al tempo stesso centellinandolo, arriverò all’ultima pagina e sarà troppo presto, per quanto la posso tirare alle lunghe. 

Per fortuna sembra non voglia dar seguito alla “minaccia” buttata lì, nel suo “Memorie di un rinnegato”: ultimo suo libro, che ormai non aveva altro da aggiungere. I suoi articoli – sono ancora persona di riti antichi, tra cui i ritagli e le carte – imbottiscono le mie cartelline, allineate nel mio studio. Non dimenticherò mai che fu tra i pochi (meno delle dita di una mano), a levare la sua voce per una condanna spropositata (due anni e sei mesi senza la condizionale), per una vignetta irriguardosa su un magistrato pubblicata su “Il Male”, che dirigevo nominalmente. Pena che arrivò fino alla Cassazione, prima che si accorgessero della bestialità della sentenza emessa.   

Il “pistolotto” è per dire della mia incondizionata, totale, ammirazione per l’uomo e per lo scrittore. Così mi convince la sua esitazione a condividere la pressante richiesta di una “Norimberga” per Putin e i tagliagole responsabili dei massacri in Ucraina, che non dirò essere orribili, dal momento che non c’è massacro che non lo sia. Giampiero sa toccare le corde giuste, dunque anche questa volta: hai ragione.

Il guaio è che leggo ancora i giornali; e ogni giorno, con angoscia e indignazione, le cronache sul “campo” di Francesca Mannocchi su “La Stampa”: inviata che mi ricorda i grandi di un tempo (due nomi per tutti: Ettore Mo, auguri, 90 anni; ed Egisto Corradi). Leggo le sue cronache, “vedo” con i suoi occhi, “sento” con il suo “sentire”. 

Come faccio a dirmi che Putin e i suoi tagliagole, al di là dei pratici effetti, non vanno giudicati da un Tribunale Internazionale, come Slobodan Milosevic e la sua banda di assassini? Come faccio a non dire che anche Putin andrebbe condannato, al pari di un Gaspard Kanyanukiga, per le atrocità commesse durante i massacri dei Tutsi e degli Hutu moderati in Ruanda? Così, eccomi a esitare dell’esitazione… 

Buona giornata, Giampiero, e a tutti voi. Valter Vecellio

Giampiero Mughini per Dagospia il 9 aprile 2022.

Caro Dago, non conosco nessuno dei gentiluomini che hanno emesso quella raccomandazione in fatto di ospiti dei talk televisivi, e cioè che siano uomini “di comprovata competenza” e meglio ancora se non “vengono pagati”. Molto meglio dal punto di vista delle emittenti televisive che li utilizzano. 

Un paio di premesse. La ragione per cui i talk-show siano così numerosi nell’affollare i palinsesti televisivi sta nel fatto che sono la trasmissione televisiva di gran lunga a più basso costo che ci sia al mondo. Chiami quattro opinionisti di cui la metà vengono effettivamente gratis (ad esempio per pubblicizzare un loro libro, uno dei 75mila libri che si pubblicano in Italia ogni anno) e l’altra metà la paghi due soldi e mezzo, passi lo stipendio al conduttore, usi in redazione due o tre dei giornalisti che hai a busta paga e ne trai al minimo un’ora, al massimo due ore e mezza di trasmissione televisiva.

Qualsiasi altra trasmissione al mondo costa di più. Per dire di un talk show attrezzatissimo da prima serata (e dunque che non fa media), il “Che tempo che fa” condotto dal mio amico Fabio Fazio, costa la metà e forse meno di un altrettale show di prima serata. 

Dal punto di vista di quei gentiluomini da cui sono partito sarebbe ancor meglio se nessun ospite venisse pagato. Forse sono degli analfabeti e non sanno che la “comprovata competenza” costa molto. In libri da comprare, in riviste e giornali cui abbonarsi, in serie televisive da delibare dopo aver pagato un abbonamento, in mostre d’arte cui recarsi, in ore ore e ore passate al tavolino.

Tante tante tante. Non dico che quelle ore vadano pagate tanto quanto quelle di una puttana, ma quanto quelle di un idraulico certamente sì. Per quanto mi riguarda io non vado gratis neppure se mi chiamano dirimpetto a casa mia. Il computo di quelle ore ce l’ho ben chiaro nella mia mente e nel mio orgoglio, a partire da quando avevo poco più di vent’anni e mi ero fissato di stare alla mia scrivania dodici ore al giorno. 

Quanto alla “comprovata competenza”, apriti cielo. Di certo se c’è uno la cui competenza in fatto di guerra in Ucraina è comprovatissima, quello è il professor Orsini, uno che ha rischiato il suo posto di lavoro a causa delle sue opinioni che ciascuno ha il diritto di contestare ma che lui ha il diritto di esprimere. Aggiungo che alcuni di quelli che gli si animano contro sullo schermo televisivo è palese che non sanno nulla dell’argomento roventissimo in questione.

Ho visto uno (una bravissima persona) che gli citava contro le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”, un libro che non c’entra assolutamente nulla con gli orrori delle lande ucraine, orrori non tutti compiuti dalla stessa parte. Quanto a me, non sono certo di “comprovata competenza” sulla materia di cui stiamo dolorosamente dicendo. Però leggo i giornali, ho una biblioteca di libri sulla realtà e sulla cultura russa di circa 800 volumi, non sono un fanatico né dell’uno né dell’altro schieramento, sono molto intelligente, su ogni argomento che affronto mi metto i guanti bianchi nel pronunziare ciascuna parola e ciascun aggettivo. Altro che se voglio essere pagato.

L’Onu ostaggio dei veti: l’impotenza sui conflitti. Milena Gabanelli e Danilo Taino su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

Anche questa volta, messo di fronte all’invasione dell’Ucraina, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha mostrato la sua impotenza. Sabato 26 febbraio scorso si è riunito per discutere una risoluzione contro l’aggressione russa e il 5 aprile per condannare il massacro di Bucha. Inevitabilmente, non è riuscito ad adottare una risoluzione nella prima riunione e a condannare formalmente la Russia nella seconda. Inevitabilmente perché l’oggetto in discussione riguardava direttamente il governo di Mosca, uno dei cinque membri permanenti del Consiglio stesso, i cinque che vinsero la Seconda guerra mondiale e che dispongono del potere di veto sull’adozione di ogni documento. La risoluzione di febbraio contro l’azione di Putin era stata presentata da Stati Uniti e Albania: undici Paesi si sono dichiarati a favore, tre – Cina, India ed Emirati Arabi – si sono astenuti e l’ambasciatore russo presso l’Onu ha votato contro. Veto, tutto inutile. 

Il diritto di veto

Il Consiglio di Sicurezza è uno dei sei maggiori organi dell’Onu. È composto dai rappresentanti di quindici Paesi: dai cinque Permanenti – Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia – e da dieci eletti a rotazione che rimangono in carica due anni ma che non hanno diritto di veto. Nelle dispute tra Paesi, il Consiglio cerca prima la conciliazione stabilendo principi, investigando, mandando missioni e inviati speciali e invitando il segretario generale dell’Onu a cercare soluzioni. Nei casi di conflitto, innanzitutto può emettere direttive di cessate il fuoco e inviare missioni di peacekeeping. Se non basta può decidere sanzioni economiche, embargo sulle armi, penalità e restrizioni finanziarie, divieti di transito e viaggio; e poi rottura delle relazioni diplomatiche, blocchi attorno al Paese colpito dalle misure; e infine azioni militari collettive. Il diritto di veto, però, ha fatto sì che, sin dalla sua creazione nel 1945, l’Onu non sia stata in grado di impedire alcun conflitto iniziato da uno dei cinque membri permanenti. 

La risoluzione contro la Corea del Nord

In epoca di Guerra Fredda, il Consiglio di Sicurezza ha approvato solo due risoluzioni che contemplavano l’uso della forza. La prima sulla Corea del Sud invasa da quella del Nord nel 1950. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunì il 25 e il 27 giugno e approvò le risoluzione 82 e 83 con le quali condannava «l’attacco armato sulla Repubblica di Corea da parte delle forze della Nord Corea», chiedeva «l’immediata cessazione delle ostilità» e domandava alle «autorità della Nord Corea di ritirare le loro forze armate al 38° parallelo»; infine raccomandava ai membri dell’Onu di fornire assistenza in ogni modo alla Corea del Sud. Le risoluzioni furono votate senza voti contrari dei Cinque: nel 1950, il seggio della Cina era occupato dalla Repubblica di Cina, cioè Taiwan, non da Pechino che se lo prenderà solo negli Anni Settanta. Taipei (Formosa) votò a favore. La Russia non c’era alle riunioni proprio perché stava boicottando il Consiglio di Sicurezza a causa del riconoscimento di Taipei e non di Pechino. Quindi, risoluzioni adottate. Ma completamente ignorate dalla Corea del Nord, da Mosca e da Pechino, le quali due continuarono a sostenere e armare Pyongyang per tutta la guerra successiva che terminò solo nel 1953. Finito il boicottaggio del Consiglio di Sicurezza, l’Unione Sovietica impose il veto su ogni risoluzione riguardante la Corea del Nord. 

La prima Guerra del Golfo

Il 2 agosto 1990, l’Iraq di Saddam Hussein invase il Kuwait. Il Consiglio di Sicurezza approvò una mozione (660) che chiedeva il ritiro delle truppe di Bagdad. Dopo avere riaffermato la richiesta in altre dieci risoluzioni, il 29 novembre 1990 il Consiglio approvò la numero 678 che invocava il Capitolo VII delle Nazioni Unite – quello che stabilisce un atto di aggressione che interrompe la pace e autorizza l’uso della forza militare per restaurarla. Come ultima chance, diede all’Iraq tempo fino al 15 gennaio 1991 per adeguarsi alla risoluzione 660. Pechino si astenne. L’Unione Sovietica, già in fase di disfacimento, votò a favore. L’operazione militare (Desert Storm) fu poi guidata dagli Stati Uniti, con una coalizione di 35 Nazioni, iniziò il 17 gennaio 1991 ed entro febbraio era terminata con la restaurazione dell’Emiro in Kuwait, la sconfitta dell’Iraq. Saddam fu risparmiato da George Bush senior.

Dopo la caduta del Muro

Negli Anni Novanta, caduta l’Urss, il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato l’uso della forza in tre casi. In Somalia, con l’operazione Restore Hope nel 1992, nessun voto contrario: la guerra civile nel Paese era sfuggita di mano alla missione umanitaria (pacekeeping) dell’Onu e il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’intervento armato di una forza multinazionale (guidata dagli Usa). L’operazione terminò nel 1993 ma forze sotto le bandiere dell’Onu rimasero fino al 1994 con esiti pessimi: disorganizzazione e mancanza di leadership dell’Onu, oltre a uno scandalo che interessò il contingente canadese, con due militari sorpresi a picchiare un teenager durante la missione umanitaria.

Nel 1993 in Bosnia Erzegovina. Il 15 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione nella quale si stabiliva, per la prima volta, una safe area: a Srebrenica e zone circostanti, dove unità paramilitari serbo-bosniache attaccavano civili, forze dell’Onu e convogli di aiuti. La risoluzione imponeva il ritiro dei serbo-bosniaci, la sicurezza di Srebrenica, la cessazione degli aiuti militari ai serbo-bosniaci da parte della Repubblica di Jugoslavia, come al tempo si chiamavano la Serbia e il Montenegro. La missione umanitaria dell’Onu per fermare la pulizia etnica – condotta dall’Unprofor, United Nations Protection Force – fu un fallimento quando Srebrenica fu presa dalle milizie di Radko Mladic nel luglio del 1995. Nel genocidio furono uccisi ottomila musulmani bosniaci. A quel punto la risoluzione fu adottata all’unanimità. Ma l’intervento delle forze Onu fu un disastro. Ad Haiti nel 1994 per «restaurare la democrazia» nel Paese. Una giunta militare aveva spodestato il presidente Aristide e il governo. Fu autorizzata una missione militare multilaterale guidata dagli Usa. Nessun voro contrario, Pechino astenuta. Guerra del Kosovo, 1999, bombardamento Nato della Jugoslavia. In quell’anno era in corso un’altra pulizia etnica, contro i kosovari albanesi, da parte della Jugoslavia. Gli Stati Uniti chiesero all’Onu di potere intervenire ma Russia e Cina fecero sapere che avrebbero posto il veto a un intervento armato. La Nato decise dunque di intervenire senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, «per ragioni umanitarie».

2001 Afghanistan

I contrasti tra i membri permanenti con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza ebbero una parentesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. La risoluzione 1368 fu adottata dal Consiglio il giorno dopo l’attentato. Presentata dalla Francia, chiedeva a tutti i Paesi di assicurare alla giustizia i responsabili dell’atto terroristico, compresi organizzatori e sponsor, e chiedeva di aumentare gli sforzi per eradicare il terrorismo internazionale. Gli Stati Uniti e alleati intervennero in Afganistan in ottobre. La risoluzione iniziale fu seguita da altre, fino alla risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001 che creava la International Security Assistance Force (Isaf), formazione militare multinazionale che aveva il compito di assistere gli afghani a costruire istituzioni. L’Isaf diventò poi parte della guerra contro i talebani. Anche quella risoluzione fu adottata all’unanimità.

2011 Libia

Il cessate il fuoco in Libia nel 2011 (approvato, ma non rispettato da Gheddafi) formò la base legale per l’intervento militare nella guerra civile libica. Fu proposto da Francia, Libano e Regno Unito e approvato con l’astensione di Cina e Russia. L’intervento iniziò con un bombardamento dei francesi e missili dai sottomarini britannici dopo che Gheddafi aveva minacciato l’opposizione. Poi la Nato assunse il comando dell’operazione. 

Il caso Iraq

Invasione Iraq. L’accordo tra i Grandi Cinque durò poco. Tra il 2002 e il 2003, una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza avevano riguardato l’Iraq. In particolare, a Bagdad fu mandata una missione guidata da Hans Blix e Mohammed El Baradei per investigare la presenza di armi di distruzione di massa, che Usa e Regno Unito ritenevano ci fossero, date le forniture che l’Iraq aveva ricevuto negli anni. Blix ed El Baradei non trovarono prove conclusive della loro presenza. Il 5 febbraio 2003, il segretario di Stato americano Colin Powell fece una presentazione al Consiglio e sostenne la presenza di armi di distruzione di massa, oltre che Saddam avrebbe avuto rapporti con al Qaida. Powell disse anni dopo che la decisione di invadere era già stata presa, in quel momento, da George Bush junior. Di fronte alla debole presentazione di Powell – che sosteneva il diritto di intervento in Iraq in quando il Paese non aveva rispettato le «18 risoluzioni precedenti» (in particolare la 1441 sul disarmo dell’Iraq) –, tre altri membri permanenti del Consiglio si mostrarono contrari: Cina, Russia, Francia. Del Consiglio in quell’occasione faceva parte anche la Germania, come Paese non permanente, e famoso diventò l’intervento del ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer: «I’m not convinced», disse. La risoluzione che era stata proposta da Washington, Londra e Madrid fu ritirata: americani e britannici ritennero che prendersi un cospicuo numero di veti (tre) avrebbe provocato più danni che procedere senza il mandato dell’Onu. L’invasione dell’Iraq iniziò il 19 marzo 1993 con una «Coalizione di volonterosi» formata alla fine da 49 Paesi.

I veti sulla Siria

Il 4 ottobre 2011, di fronte alla repressione dell’opposizione in Siria da parte di Bashar Assad, alcuni Paesi presentano una risoluzione per condannare «le gravi e sistemiche violazioni dei diritti umani» e per minacciare azioni se non fossero cessate. La risoluzione fallisce per il veto di Mosca e Pechino; altre due risoluzioni sulla questione non passano per lo stesso motivo il 4 febbraio 2012 e il 19 luglio 2012. In parallelo, la repressione del regime di Assad si rafforza. Nel 2014, la condanna dell’annessione russa della Crimea non viene accolta per l’ovvio veto di Mosca.

I veti su Palestina, Israele e Medio Oriente

Nel corso dei decenni sul conflitto Israele Palestina e Territori Occupati gli Usa hanno messo il veto su 29 risoluzioni. Mentre negli ultimi 30 anni sulle questioni mediorientali e Siria la Russia ha votato «no» su 17 risoluzioni. In totale, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che consentono l’uso della forza in situazioni di grave crisi sono state sette, dal 1945 (il cessate il fuoco in Libano non può essere considerato uso della forza). Quando sono in gioco interessi anche di uno solo dei cinque membri permanenti, il Consiglio di Sicurezza non può fare nulla. 

La riforma impossibile

In sostanza la possibilità che il Consiglio di Sicurezza adotti risoluzioni in casi rilevanti di conflitto a livello globale è praticamente zero. Così come la Lega delle Nazioni non riuscì a evitare la Seconda guerra mondiale. Non è una questione tecnica, risolvibile con il cambiamento delle regole di funzionamento dell’Onu. È che l’equilibrio raggiunto alla fine della Seconda guerra mondiale è finito da tempo e, ora che la competizione tra potenze si è fatta fortissima, non c’è alcuna speranza che gli equilibri stabiliti nel 1945 possano funzionare. Il governo mondiale in cui molti hanno sperato in momenti meno violenti svanisce sempre più. Come si vede in questo 2022, lo spirito di potenza prevale sullo spirito dell’unità delle Nazioni. Pensare dunque a una riforma del Consiglio di Sicurezza è purtroppo naif.

Il governo mondiale in cui molti hanno sperato in momenti meno violenti svanisce sempre più. Come si vede in questo 2022, lo spirito di potenza prevale sullo spirito dell’unità delle Nazioni

Sostanzialmente, il Consiglio è oggi un forum di scontro dove viene reso evidente al mondo come si schierano, o si astengono, sui diversi grandi problemi le Nazioni più potenti, in particolate Usa, Cina e Russia e i loro alleati. Un piccolo passo di valore politico, in un momento in cui si decide della Sicurezza in Europa, potrebbe (e dovrebbe) farlo la Francia cedendo all’Ue il suo seggio permanente. Al Consiglio di Sicurezza del 5 aprile, Volodymyr Zelensky ha chiesto che alla Russia venga tolto il diritto di veto.

Anna Zafesova per “La Stampa” il 4 aprile 2022.

«Mai più». In Europa, il mantra, scritto su monumenti e manifesti, vorrebbe scongiurare un orrore impossibile, rimasto nella memoria dalla guerra più crudele mai sperimentata finora. In Russia, sugli adesivi appiccicati ai parabrezza e sui quaderni scolastici, sulle fiancate dei missili e sugli striscioni alle manifestazioni, si scrive «Possiamo replicare». Non è uno scongiuro, è una minaccia. 

Una promessa. Un auspicio. Un modello. E le repliche sono state messe in scena, più e più volte. Grozny. Aleppo. Donbass. Bucha.

Quello che ha colpito l'immaginazione del mondo, nelle guerre russe degli ultimi decenni, è stata quella spietatezza indiscriminata, lo sfoggio di brutalità inutile, senza alcun criterio non soltanto di umanità, ma di ragionevolezza nell'utilizzare la forza bellica.

La distruzione come metodo di conquista, con Mariupol come monumento più recente a questo modello di guerra. Lo sterminio come metodo di sottomissione di un popolo che si dichiara "fratello".

Il politologo russo Abbas Galyamov si chiede se la strage dei civili a Bucha sia stata una «violenza spontanea dei soldati e ufficiali russi per vendicarsi della loro umiliante sconfitta», oppure se sia avvenuta «per ordine del partito della guerra che vuole silurare il negoziato», e confessa che preferirebbe la seconda ipotesi, perché non vuole «credere che cittadini russi siano capaci in massa di atrocità così epiche».

Che però sono già state commesse diverse volte, e non sono state degli incidenti, delle eccezioni, degli eccessi scappati di mano, sono state stragi volute, e negate con la stessa veemenza con la quale il Cremlino oggi nega Bucha. 

Come aveva negato nel 1940 l'eccidio degli ufficiali polacchi a Katyn, attribuendolo a un "fake" dei tedeschi. Come aveva negato nel 2000 le "zachistke", le "pulizie" dei ceceni, che facevano sparire dai villaggi tutti gli abitanti di sesso maschile, portati a torturare nei "campi di filtraggio", oppure uccisi per le strade, esecuzioni sommarie, esattamente come a Bucha.

Come aveva negato l'uso di armi chimiche in Siria, l'avvelenamento di oppositori, le torture nelle carceri: era sempre una «provocazione dei media occidentali», volta a screditare un Paese che non ha mai ammesso nessuna colpa e non ha mai chiesto scusa o almeno manifestato rammarico per nulla. 

Quando, nel 1945, l'Armata Rossa si portò via dalla Germania treni interi - gli aneddoti sulle mogli degli ufficiali sovietici che sfoggiavano le sottovesti di pizzo delle tedesche, scambiandole per abiti da sera, sono ormai storia, come i lampadari e i divani art decò nelle dacie di celebri scrittori e generali - gli europei considerarono questo saccheggio la ricompensa per un popolo poverissimo, e il suo sacrificio.

Quarant'anni dopo, con il crollo del Muro, gli ex sovietici scoprirono che i tedeschi che avevano sconfitto vivevano infinitamente meglio dei vincitori. Ottant'anni dopo, quella guerra terribile viene sognata dai russi come il momento più intenso e giusto della propria storia, un trionfo di violenza che giustifica una missione nazionale, una vittoria conseguita all'insegna del motto staliniano «se il nemico non si arrende, va annientato».

Volodymyr Zelensky oggi si chiede, insieme a quel 5% dei russi che nei sondaggi dichiarano di provare "vergogna" per il proprio Paese come hanno potuto le madri russe tirare su "saccheggiatori e carnefici". Una risposta possibile si nasconde in quel culto della guerra, che equipara forza e violenza, e considera la grandezza come diritto a imporre e sottomettere.

«La Russia è un Paese governato dai forti, le leggi sono riservate ai deboli», sintetizza un pensiero nazionale radicato il politologo Vladimir Pastukhov, in uno degli ultimi numeri della Novaya Gazeta ormai chiusa. 

Se le dittature resistono per decenni, non è soltanto perché reprimono il dissenso: creano una piramide della violenza, nella quale ciascuno accetta di venire abusato dal superiore, in cambio del diritto di abusare dei sottoposti.

Una sorta di nonnismo su scala nazionale, dove i generali mandano gli ufficiali a morire senza munizioni per accontentare il capo supremo, tenenti e capitani si premiano saccheggiando le case ucraine, e i soldati affamati raccattano possono sentirsi parte di una "potenza" violentando e uccidendo civili con le mani legate.

È la banalità del male degli autoritarismi, ed è quella la diversità dalla civiltà occidentale che la Russia rivendica da anni, quel "difetto genetico" che, secondo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, impedisce all'Europa di accettare la Russia.

Ogni volta che Mosca ha fatto un passo indietro rispetto a all'Occidente è stato proprio per difendere il diritto sovrano a usare la forza: i primi screzi delle critiche europee alle pulizie etniche dei ceceni sono diventati crepe con la repressione degli oppositori e dei media liberi, e voragini con i brogli elettorali e la discriminazione delle persone Lgbtq.

Non è stato il famigerato "accerchiamento della Nato", a spingere la Russia putiniana lontano dall'Europa, ma il rifiuto di un sistema dove avere potere non significa automaticamente poter massacrare impunemente gli avversari. Grozny. Aleppo. Bucha. Mariupol. To be continued. 

Ucraina e il massacro a Bucha: Usa e Ue incolpano la Russia. Mosca smentisce. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Le immagini dei civili morti per le strade di Bucha, alcuni con le mani legate, sconvolgono il mondo e scrivono un'altra pagina tragica della guerra in Ucraina. L'indignazione è unanime. Il presidente russo Volodymyr Zelensky parla apertamente di "genocidio" invitando le madri dei soldati russi a guardare le foto dei loro figli "assassini, saccheggiatori e macellai". La presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen si dice "inorridita" mentre per il segretario di Stato americano Antony Blinken le immagini che provengono dalla cittadina alle porte di Kiev sono "un pugno nello stomaco".

Tutti i principali leader, da Mario Draghi ad Emmanuel Macron passando per Boris Johnson esprimono il loro dolore e la loro rabbia per quanto accaduto mentre il cancelliere tedesco Olaf Scholz si spinge oltre annunciando "nuove sanzioni" nei confronti di Mosca da prendere "nei prossimi giorni" anche in risposta a questi "crimini di guerra". Si sente anche la voce dell'Onu tramite il segretario generale Antonio Guterres che chiede in fretta "una commissione di inchiesta indipendente" che porti ad accertare "le responsabilità effettive dell'accaduto". Secondo il procuratore generale di Kiev sono 410 i cadaveri di civili trovati nelle zone abbandonate dai russi.

Mosca, dal canto suo, respinge le accuse per il massacro di Bucha. Secondo il ministero della Difesa i militari delle forze armate russe non hanno commesso atti violenti contro gli abitanti del villaggio. Per i russi si tratta di una "provocazione" una sorta di messa in scena. Per avvalorare la sua tesi la Russia spiega come lo scorso 31 marzo il sindaco della città, Anatoly Fedoruk, in un video messaggio aveva confermato che non c'erano soldati russi in città, ma non aveva menzionato nessun residente locale colpito per strada con le mani legate". Pertanto, a dire di Mosca, "non sorprende che tutte le cosiddette 'prove dei crimini' a Bucha siano apparse solo a quattro giorni di distanza, quando ufficiali del servizio di sicurezza ucraino e rappresentanti della televisione sono arrivati in città". 

L'allontanamento dei russi dalla zona intorno a Kiev non convince comunque ancora gli Alleati in merito a una eventuale de-escalation del conflitto. "Non è un ritiro reale ma piuttosto un riposizionamento", spiega il segretario della Nato, Jens Stoltenberg. "La guerra è lontana dall'essere finita" gli fa eco il capo dello staff della Casa Bianca, Ron Klain. Le notizie che giungono dal campo sembrano dare loro ragione. Bombardamenti infatti sono stati effettuati su Odessa dove è stata distrutta una raffineria di petrolio e sulla città portuale di Mykolaiv. La situazione resta infine drammatica a Mariupol dove per molti civili l'evacuazione resta una chimera. Secondo il vice sindaco Sergei Orlov la colpa sarebbe dei russi che non consentono loro di partire. 

Mosca, le smentite contraddittorie dei crimini in Ucraina pensate per convincere i russi. Fabio Tonacci su La Repubblica il 5 Aprile 2022.

Nel goffo tentativo di allontanare ogni responsabilità per l’eccidio di Bucha, la macchina della propaganda sta saturando il web di dubbi e sospetti sulle foto e i video dell’orrore alle porte di Kiev. Una goccia di fango fa traboccare il vaso delle fake news russe. Nel goffo tentativo di allontanare ogni responsabilità per l’eccidio di Bucha, la macchina della propaganda sta saturando il web di dubbi e sospetti sulle foto e i video dell’orrore alle porte di Kiev. Spacciano una macchia sul parabrezza di un fuoristrada per il braccio di un cadavere che, come Lazzaro, resuscita un attimo dopo il passaggio della telecamera dell’emittente ucraina Espreso.

Il fact checking. Il “cadavere che si muove” a Bucha, la teoria del complotto russa sul massacro contro i civili. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

La “nuova Srebrenica del 21° secolo”, come il capo delegazione ucraino Mikhailo Podolyak ha definito il massacro di civili compiuto dalle forze armate russe in ritirata da Bucha, è un complotto? La tesi è stata lanciata da diversi fonti del Cremlino, con la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha parlato di una “provocazione dell’esercito e dei radicali ucraini” con l’obiettivo di interrompere i colloqui di pace.

“Il significato del crimine del regime di Kiev è l’interruzione dei negoziati di pace e l’escalation della violenza”, ha scritto Zakharova nel suo canale Telegram. A supporto di questa tesi account di propaganda russa hanno condiviso sui social un video che dovrebbe provare il complotto ucraino per fa apparire i militari russi come colpevoli di una strage di civili.

La bufala, perché di questo si tratta, vede protagonista un video in cui secondo la propaganda russa vi sarebbe un “cadavere che si muove”, segno di una messinscena ucraina da mostrare al mondo per ottenere armi e sanzioni contro Mosca.

Il video in questione vedrebbe uno dei corpi a terra spostare un braccio al passaggio di un mezzo militare ucraino. In realtà, come evidenziato da Aurora Intel, gruppo di fact checking, il presunto movimento del cadavere sarebbe colpa di un effetto ottico provocato da una goccia d’acqua sul parabrezza del mezzo militare.

La macchia bianca sugli schermi, appunto una goccia d’acqua sul parabrezza, come evidente dai fotogrammi del video si trova nella stessa posizione rispetto all’auto tra un fotogramma e l’altro: il segno evidente che si trattava di un elemento interno all’auto e non un movimento del corpo a terra, drammaticamente fermo perché senza vita.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il livello estremo del negazionismo. Francesco Maria Del Vigo il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

No, non ne siamo usciti migliori dal Covid. La giaculatoria che, con inspiegabile e fastidioso ottimismo, ci ripetevamo quotidianamente era solo una balla. Si è schiantata al suolo.

No, non ne siamo usciti migliori dal Covid. La giaculatoria che, con inspiegabile e fastidioso ottimismo, ci ripetevamo quotidianamente era solo una balla. Si è schiantata al suolo. Ne siamo usciti peggiori: spaventati, impauriti, divisi sempre in tifoserie opposte, ossessionati dal complotto permanente, pronti a negare l'evidenza in nome di chissà quale macchinazione sconosciuta che si muove sopra le nostre teste, predisposti ad accettare la più illogica delle fake news piuttosto che la più banale, semplice - ma dura - delle verità. Perché davanti alla vertigine dell'abisso, dell'incomprensibile, del non prevedibile - che si tratti di una pandemia o di una guerra a pochi passi da casa nostra - è più facile aggrapparsi ai maniglioni antipanico dei vari complottismi che prendere atto della realtà. Meglio attaccarsi al salvagente di un pensiero debole che dà manforte ai debolissimi, uno dei tanti sul mercato. Altro che «grande reset», questa è la «grande semplificazione», che divide tutto in due e ammazza sfumature e dibattito. È più comodo e tranquillizzante pensare che sia tutto falso, che non esista quel maledetto virus che ha ammazzato centinaia di migliaia di persone e che non esistano nemmeno loro, i morti. Così come non esistono i cadaveri trovati due giorni fa a Bucha, un sobborgo di Kiev. Centinaia di corpi senza vita, freddati con un colpo alla testa, con le mani legate dietro la schiena, il volto esanime che sbuca da una fossa comune, dentro i sacchi neri gettati come immondizia nelle buche del terreno. Tutto falso. Tutto artefatto. Tutto finto. Le immagini del satellite? Taroccate. Le centinaia di foto? Ritoccate. I racconti degli inviati? Romanzi di pennivendoli al servizio del sistema. Viviamo nell'era del Photoshop permanente che come un paio di occhiali ci fornisce una realtà diversa, più accomodante. Solo che non è una realtà aumentata, ma diminuita. Perché privata del vero e delle sue sfumature. Le vecchie fette di prosciutto davanti agli occhi - nell'era vegan - sono diventate dei filtri Instagram che rimuovono chirurgicamente quello che non si vuole vedere. Così ora si negano i massacri e tra poco si negherà anche l'esistenza della guerra, come se fosse un grande Risiko in scala 1:1. Dai, se l'allunaggio è stato girato cinquant'anni fa in uno studio di Hollywood vuoi che non si possa mettere in scena un conflitto nel 2022? Con la «rimozione» del massacro di Bucha c'è stato l'aggiornamento del sistema operativo del negazionismo del Covid: siamo arrivati al livello «pro». Coltivare il dubbio è un esercizio di democrazia fondamentale, sempre. Negare i fatti è un allenamento al totalitarismo e un favore di servitù agli autocrati.

Zachistka, lo "sgombero" brutale di Bucha: come hanno massacrato i civili (porta a porta). Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

Il massacro compiuto a Bucha dalle forze russe ha aperto gli occhi sugli orrori della guerra in Ucraina. Pare, stando ai media locali, che i responsabili di questa strage siano gli uomini della 64esima brigata di fucilieri motorizzati. Questi ragazzi, tutti sui 30 anni, hanno compiuto quella che in russo viene chiamata "zachistka", letteralmente sgombero: un termine militare non ufficiale utilizzato - come spiega il Giornale - per indicare "operazioni di sgombero (da stanza a stanza)" con pattuglie armate e perquisizioni casa per casa. Una sorta di rastrellamento.

Lo scempio, comunque, non è avvenuto solo a Bucha. Il premier ucraino Volodymyr Zelensky ha spiegato che "il numero delle vittime degli occupanti potrebbe essere ancora più alto a Borodyanka e in alcune altre città liberate che a Bucha". Nel suo ultimo video il presidente ha detto: "In molti villaggi dei distretti liberati di Kiev, Chernihiv e Sumy, gli occupanti hanno fatto cose che la gente del posto non ha visto nemmeno durante l'occupazione nazista 80 anni fa".

A capo della brigata responsabile del massacro ci sarebbe stato Omurbekov Azatbek Asanbekovich, la cui identità sarebbe stata resa nota su Telegram. Si tratterebbe di un giovane con tratti somatici di un mongolo-siberiano e occhi a mandorla dei buriati, "la più grande minoranza etnica che viene dai territori mongoli della Siberia".

L'atlante dell'orrore. A Borodyanka e Irpin altri massacri di civili. E a Bucha sei corpi giustiziati e bruciati. Andrea Cuomo il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.

Bucha. Borodyanka. Irpin. Mariupol. Volnovakha. Kherson. Melitopol. Sono nomi che passeranno dalle pagine delle cronache a quelle dei libri di storia che studieranno i nostri nipoti.

Bucha. Borodyanka. Irpin. Mariupol. Volnovakha. Kherson. Melitopol. Sono nomi che passeranno dalle pagine delle cronache a quelle dei libri di storia che studieranno i nostri nipoti. Sono i luoghi dell'atlante del dolore ucraino, in una guerra pochissimo intelligente, che stermina i civili come fossero soldati, come accadde nella Seconda guerra mondiale, e che fa invocare una nuova Norimberga, risucchia l'umanità indietro di ottant'anni come in un buco nero della storia.

B come Bucha. La città a 24 chilometri da Kiev che è stata liberata qualche giorno fa, ma a quale terribile prezzo. La città delle fosse comuni - locuzione che nell'Europa del terzo millennio avremmo pensato di non dovere più pronunciare al presente - continuamente rifornite di corpi. Centinaia di persone, osso più osso meno, sepolte alla meglio dopo quello che il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha definito un «massacro deliberato» da parte dei russi costretti ad andarsene da là e determinati a lasciare meno vita possibile, un civilicidio documentato da fotografie che hanno preso a pugni lo stomaco di chiunque le abbia viste. Corpi come marionette abbandonate dove capita dopo lo spettacolo, vite fatte a pezzi come se valessero meno di un biglietto del bus. E le prove delle torture su due uomini, tre donne e un bimbo nascoste bruciando i corpi.

B anche come Borodyanka, a 60 chilometri da Kiev. Un'altra città da cui i russi hanno dovuto sloggiare cercando di lasciare il peggiore dei ricordi possibili. Torture, violenze insensate, palazzi bombardati e fatti crollare, chiunque ci fosse dentro. In uno duecento persone, il condominio dell'orrore. Forse più morti che a Bucha, ma è un primato di cui nessuno può andare orgoglioso. E prima, finché erano i russi a comandare, chiunque uscisse di casa veniva colpito senza un'ombra di pietas.

H come Hostomel. A un tiro di schioppo da Bucha. Dove si è battagliato per giorni per il controllo dell'aeroporto ritenuto strategico dai russi per il controllo di Kiev. E dove il grande complesso edilizio Pokrovsky è stato occupato dai russi, che hanno reso i residenti ostaggi, scudi umani e infine cadaveri, bombardandoli.

I come Irpin, sempre alle porte di Kiev. Una delle città martiri della guerra, bombardata per giorni, per settimane, trasformata in un luogo fantasma abitata da uomini costretti a trasformarsi in topi acquattati nelle cantine quando non fuggiti. Il luogo dove è stato ucciso il giornalista americano Brent Renaud. Dove una mamma e i due figli sono stati trucidati mentre se ne andavano con le loro valigie in mano. Dove un ponte è crollato sotto le bombe lanciate durante una tregua che sarebbe dovuta servire a evacuare i civili e che invece servì a solo a ucciderne ancora. E dove video mostrano corpi di bambini torturati e uccisi. Dov'eri, uomo?

K come Kherson, nel Sud dell'Ucraina, sulla strada per Odessa, ora nelle mani dei russi, abitata da spettri senza libertà, senza cibo, medicine, carburante. Una città in cui nulla funziona, tutto congelato in un eterno oggi di paura e sgomento.

M come Mariupol, città del Sud-Est dell'Ucraina, nell'oblast' di Donetsk, sulla quale è stato detto tutto, ma tutto non è ancora abbastanza. Una città che prima guerra ospitava 490mila persone e che ora ne contiene 130mila tuttora intrappolate, come dice il sindaco Vadym Boychenko, senza cibo, senza acqua, senza riscaldamento, senza elettricità.

M ancora come Melitopol,in cui il sindaco Ivan Fedorov è stato rimosso e rapito e sostituito dalla filorussa Halyna Danylichenko, che chiude gli occhi di fronte a violenze e saccheggi di proporzioni bibliche.

Sulla Russia-Ukraine Monitor Map, la mappa interattiva della guerra curata da un gruppo di testate indipendenti, tanti i pin rossi che segnalano le «civilian casualty», gli eventi di cui sono stati vittime dei civili. A Chernihiv, nel Nord del Paese. A Velyka Dymerka, dall'altra parte del Dnepr rispetto a Kiev. E poi il Donbass. Sumy, Trostianets, Okhtyrka, Kharkiv, Sievierodonetsk, Kramatorsk, Volnovakha. I grani di un rosario che non smette di allungarsi.

BUGIARDI DA SEMPRE.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

Dalle bombe sull'ospedale all'ultimo eccidio In campo la macchina della disinformazione

Questa volta la doppia dose del generale Igor Konashenkov non basta. Ogni giorno, alle dieci del mattino e intorno alle 18, il portavoce del ministero della Difesa racconta in diretta la sua verità sugli avvenimenti del momento, che poi viene elaborata dai media statali. Per gli avvenimenti più importanti, come quando si è trattato di confutare la paternità del bombardamento del teatro di Mariupol o di denunciare la presunta fornitura di armi biologiche all'Ucraina da parte degli Usa, al massimo interviene il suo diretto superiore, il viceministro Mikhail Mizinstev.

Ma ieri non è stata una giornata come le altre. Ieri sono dovuti scendere in campo i pesi massimi. Dmitry Peskov, l'uomo che parla per conto di Vladimir Putin, ha messo in dubbio la veridicità dei video giunti da Bucha, sostenendo che i suoi specialisti militari avevano identificato alcuni falsi, senza specificare quali. E ha aggiunto che la questione è troppo seria e quindi bisognerebbe convocare il Consiglio di sicurezza dell'Onu per discuterne. Anche il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha messo un carico sulla vittimizzazione del suo Paese.

«Consideriamo la messa in scena di Bucha come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale».

La «nebbia» di guerra La Russia non ha inventato niente. Al massimo, sta cercando di perfezionare il meccanismo. Ma la disinformazione di guerra segue regole ben precise, non lascia nulla alla creatività del momento.

All'inizio si nega, con una certa veemenza. «Queste provocazioni da parte ucraina sono intollerabili» ha esclamato ieri Peskov. Già sentito, qualche anno fa, nei Balcani. Anche le autorità serbo-bosniache dissero che i massacri al mercato Markale di Sarajevo se li erano fatti i resistenti bosniaci per conquistare la solidarietà della comunità internazionale. Ci vollero quasi vent' anni, per stabilire che quei colpi di mortaio erano stati sparati dall'esercito serbo che assediava la città. E lo spazio che ricevette la notizia fu inversamente proporzionale al tempo che era passato da allora.

La seconda fase è la nebbia di guerra. La frase deriva dal gergo militare e indica l'impossibilità di ottenere informazioni sicure dal campo di battaglia. Se non esistono certezze, se verità e bugia sono impossibili da distinguere, può essere stato anche il nemico. La disputa sulle date dell'abbandono di Bucha da parte dell'esercito russo appartiene a questo canone.

Niente di nuovo, neppure qui. 

Nell'aprile del 1937 il dittatore Francisco Franco, di fronte allo sdegno della comunità internazionale per il massacro di Guernica, rispose che la città era stata bruciata dai difensori baschi che si stavano ritirando. In epoche più recenti si è parlato del metodo Srebrenica, dal nome della città dove avvenne il massacro del 1995 ad opera dei soldati del generale serbo Ratko Mladic.

Se la negazione non funziona, si può sempre fare una chiamata in correità dicendo che gli altri, gli americani, la Nato o gli ucraini, hanno fatto ben di peggio. Succederà ben presto. Solo questione di tempo. 

Il sito sui «falsi» Il ribaltamento delle responsabilità si è già visto più volte in questi quaranta giorni di guerra. Il sito sui falsi di guerra creato dal Cremlino cita come esempio il bombardamento del teatro di Mariupol. Prima la tesi avversa, ovvero che si sia trattato di una operazione dell'aviazione russa, catalogata alla voce «fake». Poi, di seguito, le versioni da prendere per buone, certificate dal bollino «verità».

«Dopo il fallimento della provocazione inscenata all'ospedale pediatrico, i nazionalisti del battaglione Azov si sono preparati con più attenzione. Hanno portato molti civili, nel teatro, promettendogli riparo». Gli elementi a sostegno del complotto sarebbero alcuni messaggi di incerta paternità su Twitter e Telegram dove viene riportato il progetto dei soldati ucraini di far saltare in aria la sala, per dare la colpa i russi. Ma è come se ci fosse un catalogo dal quale scegliere la tesi contraria a piacimento.

Se per l'ospedale di Mariupol si trattava di comparse ingaggiate per simulare l'evacuazione, qui la luce naturale che filtra dalle finestre del teatro proverebbe che le immagini dei morti sono state girate prima del bombardamento. L'unica vera novità consiste nella velocità della reazione. In soli due giorni è stato distillato tutto il manuale della propaganda. Come se la Russia fosse stata sorpresa dalla visibilità estrema di questa guerra, la prima ai tempi del dominio social, dove le vittime parlano in tempo reale, sono connesse con il mondo intero e spesso realizzano da sole le loro testimonianze.

E dove i satelliti dimostrano che i corpi delle vittime di Bucha si trovavano lì da giorni, smentendo quasi in diretta la tesi russa. Quasi una nemesi, per la potenza considerata maestra della disinformatia sul web, che obbligata a giocare di rimessa risponde con indizi labili, confutabili, spesso falsi. Ma tanto l'importante è sempre seminare il dubbio. Qualche idiota pronto a raccoglierlo e ad amplificarlo, per vanità o cialtronaggine, lo si trova sempre. Anche e soprattutto in Italia. 

La versione russa della strage di Bucha è un vero massacro della logica e della pietà. Secondo la propaganda di Mosca la prova regina che smaschererebbe la presunta fake, sarebbe nel coprifuoco imposto da Kiev. Coprifuoco necessario - per i media di Putin - ad allestire la “scena”. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 6 aprile 2022.

Tra le 1.430 vittime civili ucraine sancite ufficialmente (alla data del 4 aprile) dall’OHCHR, l’agenzia dell’Onu per i diritti civili, quelle che hanno fatto più rumore sono state sicuramente le persone trovate morte dai soldati ucraini nella cittadina di Bucha, appena riconquistata. I ritrovamenti fanno presumere un tiro al bersaglio da parte dei militari russi ai passanti, addirittura interrogatori a base di tortura, con esecuzione finale, in pratica tutto ciò che è scritto nei manuali di diritto penale internazionale sotto la voce “crimini di guerra”.

Pur essendo finora stato negazionista il governo russo, bisogna ammettere che il ritrovamento dei cadaveri sparsi sulle strade e di qualche fossa comune in questa cittadina a nord ovest di Kiev (quella successiva a Irpin, venendo dalla capitale ucraina), ha iniziato a far preoccupare anche la finora imperturbabile classe dirigente russa. Tanto è vero che la vicenda è stata subita tacciata da Lavrov per “provocazia” dell’Ucraina, a uso e consumo dei media occidentali, antipatici alimentatori di venti che portano sanzioni sempre più pesanti. E’ quindi partita una immediata campagna stampa su tv e giornali russi, ed esemplare in questo senso è l’articolo del quotidiano Isvestia, firmato da Ivan Petrov, e pubblicato il 4 aprile.

Il titolo dell’articolo, “Demonizzazione con danno: dettagli sulla creazione di una provocazione a Bucha. Cosa c’è di sbagliato nella storia del massacro di civili vicino a Kiev”, è già un programma, ed anche una bella sfida alla logica. Infatti, prima ancora di esaminare il contenuto (che suscita nel lettore una giusta curiosità, del tipo “vediamo che cosa si inventano”), vengono spontanee le seguenti riflessioni:

1) demonizzazione: in effetti perché demonizzare un bravo popolo che si limita a distruggere il paese vicino, definito perfino “fratello”?

2) provocazione: inutile negare che ammazzare qualcuno che è amico dei miei nemici è una bella provocazione. Perché non ho mai pensato, quando voglio provocare il mio vicino, di ammazzargli magari un ospite che va a casa sua?

3) cosa c’è di sbagliato nella storia del massacro di civili? E’ una bella domanda, ed è un peccato che i russi non la rivolgono a se stessi, essendo invece tutti concentrati a cercare spiegazioni su come mai quei cadaveri fossero in bella vista, ovviamente indifferenti che quegli oggetti del contendere fossero prima persone, desiderose, al pari di Ivan Petrov, di vivere la propria vita.

Ma passando al contenuto dell’articolo, che è stato taggato da questo prestigioso quotidiano russo come “fake news” (di fatto, tutte le notizie non gradite a Putin), il primo rilievo riguarda il video shock. Dopo aver ricordato il contenuto delle immagini che avevano suscitato la condanna dell’Occidente, il giornale accusa Macron di aver dimenticato di applicare ai russi il principio della presunzione di innocenza (d’altronde chi dice che mandare missili, distruggere case, possa determinare vittime?). Meglio sono giudicati gli inglesi, che almeno hanno chiesto un’indagine. Ancora più positivamente sono giudicati gli americani, visto che il Pentagono ha dichiarato che non poteva confermare in modo indipendente le atrocità di Bucha (vuoi vedere che è la premessa per una nuova amicizia americano-russa…). Si chiude così il primo capitolo dell’articolo e le prove a difesa della Russia sono finora 0.

Andiamo avanti. La seconda parte dell’articolo ripete le parole di Peskov (il portavoce del Cremlino), che nega qualsiasi coinvolgimento dell’esercito russo nell’uccisione dei civili (d’altronde è noto che i soldati russi stavano in vacanza in Ucraina…). Inoltre si segnala che gli specialisti del Ministero della difesa russo hanno scoperto dei segni di frode nei video. Quali segni? Non è dato saperlo (d’altronde un po’ di mistero ci vuole pure…). In ogni caso – sottolinea il giornalista – è tutta colpa della Gran Bretagna, che al Consiglio di sicurezza dell’Onu non ha consentito alla Russia di presentare le prove. A questo punto viene spontaneo domandarsi perché la Russia non presenta al pubblico internazionale queste prove, senza passare dall’Onu. Il buon Petrov, ovviamente, non si arrischia a porre questo quesito, pena 15 anni di carcere (e bisogna pur capirlo). La seconda parte dell’articolo si conclude con la sottolineatura che i russi sono andati via da Bucha il 30 marzo. Prove a difesa della Russia: ancora 0.

Nella terza parte dell’articolo, improvvisamente, compare la spiegazione dei morti civili: è colpa dei soldati ucraini che usano i civili come scudi umani. Basta immaginare la scena: un civile ucraino va in bici, e dietro c’è guardingo un soldato ucraino pronto a colpire un carrarmato russo. Certo. E’ ovvio. E’ tutta colpa degli ucraini. Si arriva quindi alla prova regina: il sindaco di Bucha ha stabilito un coprifuoco nei giorni 2-5 aprile, ed è chiaro (ai russi) che questo è stato fatto per creare la messinscena (mica per evitare altre vittime). E per dare il colpo del ko, si fa presente che i corpi erano messi in modo da poterne riprendere molti con una sola foto. E infine si chiede: che motivo c’era per tanta crudeltà da parte dei russi? D’altronde anche a Srebeniza non è chiaro – continua il buon Petrov – cosa è successo.

A noi risulta solo che siano morte tra le 5 e le 27 persone, e il resto è tutta propaganda antiserba. Di fronte a queste affermazioni, il classico “no comment” è veramente opportuno. Infine, l’ultima chicca: dopo altre inutili e inconcludenti frasi, l’articolo si chiude con il richiamo che la Procura generale della Russia, investigherà… Sulle fake news, mica sulle morti.

Il "metodo Kgb" per nascondere i crimini di guerra e evitare i processi. Francesco De Remigis il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.

Schema usato per coprire i responsabili delle stragi in Siria e del missile contro il Boeing nel 2014. Ordini a compartimenti stagni, nessuno sa il quadro d'insieme. E i livelli superiori si salvano.

Quando Volodymyr Zelensky evoca lo spettro delle coperture dei crimini di guerra da parte dei russi, lo fa con la consapevolezza di chi conosce la «mente» del Cremlino. Lui per primo aveva lanciato l'allarme invasione senza essere preso troppo sul serio dall'Europa. Ora si comincia a parlare di processi e il leader della resistenza ucraina dà un nuovo alert: dopo Bucha, i cui cadaveri ai lati delle strade sono stati bollati come fake news dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, «stanno già azionando una falsa campagna per nascondere la colpevolezza nell'uccisione di massa di civili a Mariupol avranno dozzine di interviste inscenate, nuove registrazioni e uccideranno persone per far credere che siano state uccise da altri».

La fascinazione generata dalla parlantina quotidiana dell'ex attore potrebbe distrarre da quel che Zelensky è: uno che sa come ragionano i russi, come operano i vertici e quali strategie impiantano nei quadri militari, che ora potrebbero ritrovarsi sotto accusa alla Corte penale internazionale (dove non siedono gli Stati Uniti) come minuscoli capri espiatori. L'Italia è tra i 39 Paesi che hanno avallato la procedura d'attivazione per l'apertura di un'indagine all'Aia, dove si processano uomini e non Stati.

L'arma di Putin per nascondere al mondo (e ai suoi) i crimini di guerra è già stata azionata; ancora prima di iniziare l'invasione. Conoscenza delle operazioni a compartimenti stagni. Nessun generale ha contezza del disegno completo e forse neanche dei massacri. Ogni singola città occupata, distretto, quartiere, ha ricevuto ordini precisi, non necessariamente nella stessa versione: tra i battaglioni ritiratisi dal Nord molti non sapevano come si sarebbero mossi i colleghi nel Sud.

Cerchi concentrici in cui nessuno conosce nell'insieme il mosaico. La tecnica eredita la formazione del Servizi russi da cui lo zar proviene. Spazio ad azioni individuali anche indiscriminate che rientrano nella norma di un blitz degli 007 come di un battaglione. A fronte di indagini già avviate in Ucraina da parte della Cpi dell'Aia, l'attitudine da ex uomo dell'intelligence torna utile come paracadute. E se mai si riuscirà a imbastire un tribunale speciale Onu (diverso da un processo per crimini di guerra all'Aia) ognuno, militare o dirigente politico, potrà negare di sapere cosa stava accadendo, scaricando la responsabilità su soldati semplici, che nel panico della sconfitta (e da ripercussioni possibili) non denunceranno né azioni né ordini degli ufficiali.

Anche a questo è servito a Putin il richiamo di riservisti dall'Asia, ragazzi appena adulti già segnati dalla miseria dell'estremo oriente dell'impero, facilmente manipolabili. Mentre le milizie cecene hanno già la bocca cucita da anni sui massacri, e certo non dichiareranno responsabilità personali su Bucha o Mariupol. Un tribunale speciale per crimini di guerra all'Aia ha condannato quasi 50 serbi bosniaci tra cui il leader politico Radovan Karadzic, e il suo comandante militare, Ratko Mladic, per Srebrenica. Ma Putin non è Karadzic e il tenente colonnello Asanbekovich, comandante dei russi che il 31 marzo hanno smobilitato da Bucha, non è Mladic. È un potenziale massacratore venuto da Oriente, e quasi certamente non il solo «boia» di Bucha.

Difficile cavare ragni dai buchi pensati ad hoc da Mosca. Ne abbiamo prove recenti. Il team internazionale di tecnici che dal 2014 indaga sul disastro aereo dell'MH17 ha lanciato appelli alla ricerca di testimoni, chiedendo lumi all'interno della gerarchia militare e amministrativa per sapere chi ha dato via libera al lancio del missile che ha distrutto il Boeing della Malaysia Airlines che attraversava l'Ucraina orientale. Telefonate intercettate mostrano leader del gruppo armato Repubblica popolare di Donetsk (Dpr) in contatto con funzionari del governo russo. Ma di chiarimenti neppure l'ombra, solo 4 sospetti che avrebbero partecipato alla dislocazione del missile. Dei vertici del Cremlino non c'è traccia, solo pedoni sacrificabili. Stessa cosa in Siria. Indagine impantanata e fake news per sviare dai veri responsabili di crimini.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

Quei dettagli che non mentono sui massacri che Putin nega. "I corpi in strada da settimane". Vittorio Macioce il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

I cani non mentono. Ha il pelo fulvo e il muso scuro da pastore tedesco imbastardito da incroci casuali.

I cani non mentono. Ha il pelo fulvo e il muso scuro da pastore tedesco imbastardito da incroci casuali. È sdraiato a terra, con un orecchio teso e l'altro quasi accartocciato, qualcosa per un attimo lo ha distratto da quella che sembra una sorta di veglia, come se aspettasse un segno, una rivelazione, magari che la realtà non è come appare e quell'odore di morte è solo finzione. Quel segno non arriva. Sdraiato sul marciapiede c'è quel che resta di un uomo, con una bicicletta che gli copre le gambe dal ginocchio ai piedi. È stato probabilmente colpito alla testa mentre pedalava e sembra il lavoro di un cecchino. Non si conosce il rapporto tra il cane e il cadavere. Si sa solo che lui è rimasto lì in attesa, accanto a quel corpo senza vita. No, non è la prova regina. Non racconta tutto quello che è successo nei giorni infernali di Bucha. È solo un morto con accanto un cane. Non state lì a smontare quello che si vede. «È solo un randagio in cerca di cibo». «È stato addestrato dalla propaganda ucraina».

Non serve. Non è da questi particolari che si valuta la realtà. Contano di più le immagini satellitari pubblicate dal New York Times: i morti a terra sono lì dal 11 marzo, quando i russi non avevano ancora lasciato la città. Eccola la certezza, ma tanto chi non vuole vedere comunque non vede.

Allora tanto vale chiedere ai cani, perché dei cani ti fidi. Non hanno retropensieri. Quello che vedono è il senso della guerra e riconoscono la violenza. I cani non dimenticano chi li ha già aggrediti e ne decifrano i segni. I cani si portano nel sangue la memoria di Katyn e sanno della Cecenia e della Siria.

Ecco, ora si può anche parlare di informazione e controinformazione, dello spaccio di notizie più o meno false, dei fatti e delle foto e dei video di Bucha e di chi non ci crede. È una battaglia sul confine della verità e in tempi più saggi andrebbe combattuta dai filosofi e non sul mercato delle piazze virtuali. Pazienza. Non si può scegliere il proprio tempo. A due giorni dal primo aprile è cominciato il gioco del vero o falso. Mosca per prima ha fatto sapere che il massacro di civili, i corpi di vecchi e bambini, le fosse comuni, la devastazione apocalittica, le stanze della tortura sono la solita propaganda degli Stati Uniti e di quell'attore chiamato Volodymyr Zelensky. È tutto finto. È messinscena. Poi sono arrivati gli scettici, qualcuno in buona fede, altri di professione. Prima tesi: a chi giova? Putin non avrebbe il movente per mostrarsi come un mostro. È un controsenso rispetto alla guerra della buona reputazione. I militari russi si sono ritirati volontariamente da Bucha e avevano tutto il tempo di nascondere lo sporco. È insomma un crimine molto maldestro. Si potrebbe obiettare che in altre guerre, e in tanti delitti, Putin non si è mai preoccupato più di tanto della sua reputazione. Altra tesi: non tornano i tempi. Gli ucraini non hanno denunciato subito quello che era accaduto. Come mai? Ci hanno messo due giorni per vedere i cadaveri e Anatoly Fedoruk, sindaco di Bucha, il giorno della liberazione non era affatto triste, ma esultava per la fuga dei militari. Fedoruk in realtà aveva parlato di stupri e massacri il 28 marzo, due giorni prima che i carri armati andassero via. Terza tesi: il video è un film. C'è qualcuno che segue in auto un pick-up che trasporta militari. Sulla strada ci sono dei cadaveri. Gli scettici vedono una mano che si muove. La risposta di chi sbugiarda i complottisti è che l'effetto del movimento è dato da una macchia, una goccia di pioggia, sul parabrezza dell'auto di chi riprende la scena. Questo gioco di specchi e controspecchi potrebbe andare avanti una vita. Non serve a nulla. C'è ancora gente che non crede alle foto dei campi di sterminio. Fu il generale Eisenhower a farle scattare. «Perché un giorno qualcuno verrà fuori a dire che non è mai successo». Gli inviati di tutto il mondo stanno raccontando quello che hanno visto. Ci sono i testimoni e si sente l'odore dei corpi in putrefazione. Putin questa guerra la sta facendo davvero e a modo suo. I cani lo sanno, i cani non mentono.

Carro armato russo spara a un ciclista nelle strade di Bucha: un drone riprende tutta la scena. Leo Malaspina il 05 aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.

Un drone delle forze ucraine ha ripreso il momento in cui un carro armato russo colpisce un ciclista a Bucha, la cittadina a pochi km da Kiev dove decine di corpi di civili sono stati trovati in strada dopo la ritirata delle forze Russia. Le immagini sono state rilanciate sui social da Bellingcat, che ha geolocalizzato l’accaduto in via Yablunska, dove sono stati filmati e fotografati più cadaveri.

Il video del drone che riprende il ciclista colpito

Bellingcat precisa che nel punto esatto in cui, secondo le immagini, l’uomo è caduto, gli ucraini che sono entrati a Bucha dopo l’uscita dei russi hanno poi effettivamente trovato un cadavere accanto a una bicicletta. A dimostrare che il video è stato girato mentre le forze russe ancora si trovavano in città, contrariamente a quanto asserito dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, vi sono altre immagini riprese da un drone l’11 marzo in cui si vede che la casa accanto al punto in cui era stata uccisa la vittima, viene distrutta. Mentre era ancora in piedi nel video dell’uccisione.

I massacri di Bucha e le prove

Ieri anche le immagini satellitari avevano confermato i massacri a Bucha. Nelle immagini, risalenti a più di 3 settimane fa, quando le milizie russe erano ancora presenti nella città, si vedono i corpi privi di vita di diversi civili uccisi e abbandonati per strada. Da Mosca hanno rigettato le accuse di colpevolezza per la strage, sostenendo che i video che mostrano i civili morti nella città ucraina sono stati ordinati dagli Stati Uniti nell’ambito di un complotto per incolpare la Russia. Secondo ulteriori analisi condotte dal Visual Investigations team del Nyt le persone uccise sarebbero state abbandonate in strada per oltre tre settimane. Il video del ciclista colpito dai tank russi sembra inattaccabile, come veridicità.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

A vederli gettati alla rinfusa nella trincea scavata di fresco, questi poveri corpi sembrano cose, manichini dalle apparenti sembianze umane confusi nella terra sabbiosa. I militari ucraini, assieme ai volontari della difesa civile, nelle ultime ore li hanno deposti in sacchi di plastica nera, ma ancora emergono mani rattrappite, unghie annerite di sangue rappreso e stracci di vestiti, giacche strappate. I russi dicono che è una montatura degli ucraini, ma le immagini satellitari diffuse ieri sera dal New York Times mostrano che diversi cadaveri erano già per le strade di Bucha l'11 marzo.

Il confronto con un video girato il 2 aprile da un consigliere locale mostra i corpi nelle stesse posizioni. Viene da paragonare tutto questo al modo in cui noi trattiamo i nostri defunti. Come possiamo immaginare civili torturati e abbandonati nell'agonia? Come accettare l'idea di donne, vecchi e bambini trucidati a sangue freddo, l'immagine di uomini fucilati con le mani dietro la schiena, o ancora il fetore di un massacro insepolto? E, invece, eccoli questi fagotti informi, alcuni dei quali sono stati lasciati per settimane a decomporsi sul selciato delle strade sconvolte dalle bombe e nelle cantine dove adesso vengono via via trovati dalle squadre di soccorso.

«Guardate qui attorno» Li abbiamo visti ieri nei pressi della basilica di Bucha, una decina di sacchi neri appoggiati gli uni sugli altri che attendevano di essere portati via, senza cerimonie, senza nessuno che li piangesse. Quanti sono in tutto? Due giorni fa soltanto qui erano una quarantina, la zona viene via via ripulita. 

«Se guardate qua attorno forse ne troverete altri. Potrebbero essere ancora centinaia. Occorre cercare tra la terra smossa dei giardini, nelle abitazioni, dentro le cisterne, ma soprattutto nelle macchie di bosco e lungo il fiume», dice Oleg Anatolienko, il poliziotto 43enne di guardia al quartiere della chiesa. Le autorità ucraine sostengono di avere recuperato e identificato sino ad ora oltre 410 cadaveri nella trentina di villaggi attorno a Kiev appena evacuati dall'esercito russo in ritirata verso la Bielorussia.

A dire il vero, sembra piuttosto una rotta. Il Pentagono conferma che almeno due terzi delle forze russe, che componevano l'armata originariamente destinata a conquistare la capitale, negli ultimi quattro giorni sono usciti dai confini dell'Ucraina. Anche qui a Bucha i soldati ucraini non temono contrattacchi, almeno per il momento, possono così concentrarsi sulla ricerca dei morti, sull'assistenza ai sopravvissuti e soprattutto sullo sminamento della regione. 

«I russi ritirandosi hanno lasciato montagne di proiettili inesplosi e migliaia di mine, molte innescate come bombe trappola per boicottare la nostra opera di bonifica», aggiunge Oleg. Parola d'ordine «Zviak», che in ucraino significa chiodo. Ce la dicono nel primo pomeriggio i volontari che portano cibo e medicine e improvvisamente i posti di blocco sulla strada per Bucha diventano più facili da passare. Si trova 37 chilometri a nord della capitale, arrivandoci non è difficile capire il motivo dell'importanza: è il nodo stradale che arrivando dalla Bielorussia garantisce di imboccare le grandi arterie che conducono facilmente a Maidan.

I russi dovevano prenderla, necessitavano dei carri armati per battere la guerra partigiana, fatta di barricate e bottiglie molotov, che li attendeva nella cerchia metropolitana di Kiev. Poco prima c'è la zona dell'aeroporto di Hostomel, dove i russi già la mattina del 24 febbraio avevano paracadutato le loro teste di cuoio per poi puntare sugli uffici del governo di Zelensky. Oggi la sfioriamo appena. 

E subito dopo ci sono i resti carbonizzati degli edifici belli e delle ville con piscina a far comprendere la vastità prolungata della battaglia: Bucha è ormai un grande campo di macerie. Non c'è costruzione che non sia stata colpita. I palazzi del centro sono inabitabili, le strade deserte, con detriti di ogni genere che ci costringono a continue gimcane per non forare. I pochi civili rimasti si muovono come fantasmi tra i rottami, quasi tutte le auto e i bus ai lati delle strade sono danneggiati dai proiettili, sui sedili macchie di sangue.

I testimoni insistono sulle rapine dei soldati russi. 

«Telefonavano alle loro famiglie a casa e chiedevano cosa dovessero rubare», racconta Tatiana, 35 anni. «La moglie di uno ha chiesto che lui prendesse il computer di nostra figlia per darlo alla loro». Un uomo mostra le carte di credito ancora sparse per strada. «Ci prendevano i portafogli. Rubavano nelle cucine, volevano vodka e sigarette. Ma qui hanno cercato di portarsi via anche le tegole che usavamo per rifare il tetto». Proprio nella centrale Vokzalna, la via che porta alla stazione ferroviaria, il 56enne Dmytro ha resistito per quasi un mese e mezzo sotto le bombe con il padre Grigory di 85 anni. «I russi sono venuti a prendersi i nostri cellulari.

Non siamo mai usciti di casa, troppa paura: dormivamo a terra per evitare le schegge.

Tre giorni fa abbiamo guardato per la prima volta fuori dal cancello e sulla strada abbiamo visto quindici persone uccise a colpi di mitra, tutti i nostri vicini che avevano deciso di restare», racconta. 

A poche decine di metri da loro si trovano i resti carbonizzati di un'intera colonna blindata russa. Decine di carri armati e mezzi logistici ridotti a ferraglia annerita. Fu il 27 febbraio. I partigiani locali colpirono il tank di testa e quello di coda: gli altri rimasero intrappolati e per i droni e le artiglierie ucraine fu un gioco da ragazzi colpirli uno a uno. Non è da escludere che proprio allora sia iniziata la vendetta: soldati impauriti decisi a prendersela vigliaccamente con i civili. Dietro l'angolo ci sono i resti di un'auto carica di valigie devastata dai proiettili, si vedono a terra giocattoli e vestitini.

L'accusa di violenze sessuali continua a venire ripetuta. All'una del pomeriggio arriva in visita il presidente Zelensky. «A Bucha si è consumato un genocidio», dichiara, quindi si rivolge alle madri dei soldati russi: «Anche se avete cresciuto dei saccheggiatori, come possono essere diventati dei macellai? Hanno trattato gli ucraini peggio degli animali». Uscendo dal centro incontriamo diverse chiazze di sangue, i locali mostrano il luogo dove hanno raccolto gli uomini fucilati con le mani legate e persino la bicicletta dell'anziana la cui foto ha fatto il giro del mondo. A terra c'è ancora la sua borsetta aperta: occhiali da vista infranti, un tubetto di crema per le mani, un barattolo di legumi.

Le immagini satellitari che contraddicono la versione russa: a Bucha corpi in strada da settimane. Le immagini di Maxar Technologies, analizzate da New York Times, dimostrano che numerosi cadaveri erano già nelle strade di Bucha settimane fa, smentendo la tesi russa della “messinscena”. A cura di Davide Falcioni il 4 aprile 2022 su  su Fanpage.it.

Sostengono i russi che il massacro di Bucha, con decine di cadaveri abbandonati nelle strade della città, sarebbe il frutto di una messa in scena orchestrata dal governo ucraino per mettere ulteriormente in cattiva luce Mosca agli occhi del mondo. A sostegno di questa tesi il Cremlino ha dichiarato che quando le sue forze armate hanno lasciato la città non vi erano corpi nelle strade, e che dunque ci sarebbero stati portati in un secondo momento; in attesa che venga fatta piena luce sul caso di Bucha una serie di  fotografie satellitari rilasciate dalla società di tecnologia spaziale Maxar rilasciate ieri sembrano confutare la tesi russa; gli scatti, pubblicati dal New York Times, risalgono alla metà di marzo e sembrano mostrare diversi cadaveri di civili già in quei giorni abbandonati ai bordi di una strada. "Le immagini – ha spiegato Stephen Wood, portavoce di Maxar Technologies – corroborano e confermano foro e video che mostrano corpi abbandonati all'aperto nella città di Bucha". Insomma, a quanto pare nessuna macchinazione del governo ucraino. Il New York Times ha pubblicato un'analisi realizzati nel viale Yablonska di Bucha  concludendo che molti corpi erano lì da almeno tre settimane, quando le forze russe avevano il controllo della città.

Il ministero della Difesa russo ha negato ogni responsabilità in merito alla carneficina, affermando che tutte le sue unità "si sono ritirate completamente da Bucha già il 30 marzo". Il Cremlino ha liquidato le immagini come "fake" inventati dall'Ucraina, e tale tesi è stata confermata anche ieri dall'inviato di Mosca alle Nazioni Unite Vassily Nebenzia, ribadendo che i cadaveri non erano lì quando le forze armate hanno lasciato la città: "All'improvviso sono apparsi nelle strade corpi sdraiati a destra e a sinistra, alcuni si muovono, alcuni mostrano segni di vita", ha detto Nebenzia, sostenendo che le scene sono state "organizzate dall'informazione ucraina, macchina da guerra dell'informazione". Secondo l'analisi del Times, le immagini di Maxar mostrano oggetti scuri di dimensioni simili a corpi umani nelle strade di Bucha già tra il 9 e l'11 marzo.

"La vendetta dei russi sulla resistenza ucraina". Massacro di Bucha, le immagini satellitari smentiscono Mosca: “Carneficina prima del ritiro russo, cadaveri per strada”. Vito Califano su Il Riformista il 5 Aprile 2022. 

Prima il corpo che si muove, poi quello che doveva essere un cadavere che si siede. E quindi il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov che accusa una “campagna organizzata” dall’Ucraina e respinge le accuse per il massacro di Bucha. “Le truppe hanno lasciato Bucha il 30 marzo, perché le immagini non sono state diffuse per quattro giorni?”. A smentire la versione di Mosca le immagini satellitari della società Maxar Technologies. A riportarle per prime la BBC e via via tutti i media internazionali.

Secondo quanto ricostruito dal New York Times dagli scatti si vedono i corpi nelle strade già “prima del ritiro delle truppe russe” dal sobborgo alle porte di Kiev. Dove dopo la ritirata dei russi sono tronati gli ucraini, in contro-offensiva sull’area, e hanno trovato cadaveri abbandonati per strada e buttati nelle fosse comuni, anche con le mani legate. Vere e proprie esecuzioni. Le immagini hanno sconvolto il mondo, forse un salto di qualità nell’orrore della guerra in Ucraina dopo le settimane di assedio, definito “medievale”, nella città portuale di Mariupol, il punto più alto di orrore finora raggiunto nel conflitto.

E quindi dalle immagini satellitari si vedono almeno undici cadaveri abbandonati per strada “risalenti all’11 marzo, quando le truppe russe avevano il controllo del centro”. Il Visual Investigations team del New York Times riporta che le persone uccise sarebbero state abbandonate in strada per più di tre settimane. “Le cause della morte non sono chiare – scrive il quotidiano americano – alcuni dei corpi erano accanto a quello che sembra essere un cratere da impatto, altri erano vicino ad auto abbandonate, tre dei corpi giacevano accanto alle bicilette, alcuni hanno le mani legate dietro la schiena con un panno bianco”.

Cos’è successo a Bucha: il massacro, i “crimini di guerra”, le fosse comuni, le fake news, le teorie del complotto russe

Da uno scatto del 31 marzo appare poi una trincea lunga circa 14 metri scavata nel terreno della Chiesa di Sant’Andrea dove sono stati ammassati i cadaveri. Non è escluso che la carneficina sia stata premeditata in quanto gli scavi delle fosse sono partiti i primi di marzo. Gli attivisti di InformNapalm hanno ipotizzato che ha guidare la carneficina sia stato Omurbekov Azatybek Asanbekovich, comandante dell’unità militare 51460, 64esima brigata di fucilieri motorizzati. Il comandante fa parte dei buriati, la più grande minoranza etnica di origine mongola della Siberia. L’unità sarebbe partita da Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Khabarovsk, nell’estrema Russia orientale.

Il sindaco di Bucha Anatoly Fedoruk, al Corriere della Sera, ha ribadito che “la città è stata tagliata fuori dal mondo per settimane. Solo quando l’hanno liberata abbiamo potuto vedere la realtà e renderci conto della dimensione dell’orrore. Appena ho visto e capito ho raccontato“. Il sindaco racconta delle persone “trucidate, torturate e portate in fosse comuni”. Sulle accuse delle immagini falsate: “Che vengano qui di persona a vedere di chi sono le armi, di chi sono le mani, da quanti giorni i corpi giacciono nelle strade.

Fedoruk ha descritto Bucha come “la vendetta dei russi sulla resistenza ucraina”. Al momento nel sobborgo mancano luce e gas. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto visita ieri al sobborgo e definito i russi “macellai”. Parlerà oggi alle Nazioni Unite. Per il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il presidente russo Vladimir Putin deve essere processato per crimini di guerra. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Quei dettagli che non mentono sui massacri che Putin nega. "I corpi in strada da settimane". Vittorio Macioce il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

I cani non mentono. Ha il pelo fulvo e il muso scuro da pastore tedesco imbastardito da incroci casuali. È sdraiato a terra, con un orecchio teso e l'altro quasi accartocciato, qualcosa per un attimo lo ha distratto da quella che sembra una sorta di veglia, come se aspettasse un segno, una rivelazione, magari che la realtà non è come appare e quell'odore di morte è solo finzione. Quel segno non arriva. Sdraiato sul marciapiede c'è quel che resta di un uomo, con una bicicletta che gli copre le gambe dal ginocchio ai piedi. È stato probabilmente colpito alla testa mentre pedalava e sembra il lavoro di un cecchino. Non si conosce il rapporto tra il cane e il cadavere. Si sa solo che lui è rimasto lì in attesa, accanto a quel corpo senza vita. No, non è la prova regina. Non racconta tutto quello che è successo nei giorni infernali di Bucha. È solo un morto con accanto un cane. Non state lì a smontare quello che si vede. «È solo un randagio in cerca di cibo». «È stato addestrato dalla propaganda ucraina». 

Non serve. Non è da questi particolari che si valuta la realtà. Contano di più le immagini satellitari pubblicate dal New York Times: i morti a terra sono lì dal 11 marzo, quando i russi non avevano ancora lasciato la città. Eccola la certezza, ma tanto chi non vuole vedere comunque non vede.

Allora tanto vale chiedere ai cani, perché dei cani ti fidi. Non hanno retropensieri. Quello che vedono è il senso della guerra e riconoscono la violenza. I cani non dimenticano chi li ha già aggrediti e ne decifrano i segni. I cani si portano nel sangue la memoria di Katyn e sanno della Cecenia e della Siria.

Ecco, ora si può anche parlare di informazione e controinformazione, dello spaccio di notizie più o meno false, dei fatti e delle foto e dei video di Bucha e di chi non ci crede. È una battaglia sul confine della verità e in tempi più saggi andrebbe combattuta dai filosofi e non sul mercato delle piazze virtuali. Pazienza. Non si può scegliere il proprio tempo. A due giorni dal primo aprile è cominciato il gioco del vero o falso. Mosca per prima ha fatto sapere che il massacro di civili, i corpi di vecchi e bambini, le fosse comuni, la devastazione apocalittica, le stanze della tortura sono la solita propaganda degli Stati Uniti e di quell'attore chiamato Volodymyr Zelensky. È tutto finto. È messinscena. Poi sono arrivati gli scettici, qualcuno in buona fede, altri di professione. Prima tesi: a chi giova? Putin non avrebbe il movente per mostrarsi come un mostro. È un controsenso rispetto alla guerra della buona reputazione. I militari russi si sono ritirati volontariamente da Bucha e avevano tutto il tempo di nascondere lo sporco. È insomma un crimine molto maldestro. Si potrebbe obiettare che in altre guerre, e in tanti delitti, Putin non si è mai preoccupato più di tanto della sua reputazione. Altra tesi: non tornano i tempi. Gli ucraini non hanno denunciato subito quello che era accaduto. Come mai? Ci hanno messo due giorni per vedere i cadaveri e Anatoly Fedoruk, sindaco di Bucha, il giorno della liberazione non era affatto triste, ma esultava per la fuga dei militari. Fedoruk in realtà aveva parlato di stupri e massacri il 28 marzo, due giorni prima che i carri armati andassero via. Terza tesi: il video è un film. C'è qualcuno che segue in auto un pick-up che trasporta militari. Sulla strada ci sono dei cadaveri. Gli scettici vedono una mano che si muove. La risposta di chi sbugiarda i complottisti è che l'effetto del movimento è dato da una macchia, una goccia di pioggia, sul parabrezza dell'auto di chi riprende la scena. Questo gioco di specchi e controspecchi potrebbe andare avanti una vita. Non serve a nulla. C'è ancora gente che non crede alle foto dei campi di sterminio. Fu il generale Eisenhower a farle scattare. «Perché un giorno qualcuno verrà fuori a dire che non è mai successo». Gli inviati di tutto il mondo stanno raccontando quello che hanno visto. Ci sono i testimoni e si sente l'odore dei corpi in putrefazione. Putin questa guerra la sta facendo davvero e a modo suo. I cani lo sanno, i cani non mentono.

Che tempo che fa, l'inviato Rai a Bucha: "Cosa avevano in comune tutti i cadaveri. Finzione occidentale? Beh..." Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Ilario Piagnerelli, inviato della Rai, ha testimoniato a Che tempo che fa la cruda realtà dell’orrore di Bucha, cittadina vicina alla capitale Kiev. Altro che fake news e montaggio dei media occidentali, come sostenuto dalla propaganda del Cremlino. “Siamo tornati poco fa da Bucha - ha dichiarato Piagnerelli in collegamento con Fabio Fazio - questo luogo di cui adesso parlano tutti”.

“Devo dire che rispetto a quello che dice l’agenzia russa Tass - ha spiegato - e cioè che si tratta di una messa in scena occidentale… beh, nulla di più lontano dalla realtà. Tutti i cadaveri che abbiamo visto noi oggi a Bucha erano esecuzioni, non dilaniati”. Quindi nessun errore, purtroppo quello che è stato raccontato nelle scorse ore risponde alla triste e dolorosa realtà: sono centinaia i corpi di civili uccisi e lasciati per strada o gettati in una fossa comune. “L’abbiamo vista - ha confermato l’inviato della Rai - quella con 270 corpi tutti di civili. Spuntavano anche le mani, i piedi e le gambe di alcune donne. Insomma, abbiamo visto oggi l’orrore a Bucha, periferia di Kiev”. 

Il presidente Volodymyr Zelensky è intervenuto in maniera molto dura sull’argomento: “Si meritano soltanto la morte dopo quello che hanno fatto”, ha dichiarato riferendosi ai responsabili delle atrocità commesse a Bucha, ma anche a Irpin e Gostomel, ovvero le città che sono state abbandonate dai russi. “Centinaia di civili sono morti torturati e fucilati - ha aggiunto Zelensky - sulla nostra terra c’è stato il male assoluto: assassini, boia, stupratori e saccheggiatori”.

Strage russa a Bucha, Guido Crosetto umilia Freccero: "Quanto hanno pagato le comparse per morire veramente". Giada Oricchio su Il Tempo il 03 aprile 2022.

“La guerra come una fiction? Inaccettabile”. Guido Crosetto contro Carlo Freccero, negazionista della guerra. Cosa è successo? In queste ore, lo stimato ex direttore di Rai 2, già no vax convinto sostenitore di un nuovo ordine imposto dai poteri oscuri attraverso una finta pandemia, ha sostenuto che i massacri di civili inermi in Ucraina da parte dei soldati russi non siano del tutto veri.

“Sappiamo che esiste materiale prodotto a scopo propagandistico, un buon esempio è il bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol con la sua influencer incinta dichiarata morta e ricomparsa poco dopo. – ha detto Freccero durante un dibattito - Sono stati utilizzati attori per interpretare i feriti”. Affermazioni da lasciar sbigottiti e increduli.

Oggi, dopo la notizia del genocidio di Bucha, regione di Kiev, dove sono state scoperte fosse comuni con oltre 410 civili inermi uccisi e uomini torturati, legati e giustiziati per strada, uno dei padri fondatori di Fratelli d’Italia, Guido Crosetto, ha messo all’angolo Freccero: “Qualcuno gli chieda quanto hanno dovuto pagare quelle comparse, che si sono fatte uccidere veramente per rendere più reale il set allestito a Bucha. Si può essere schierati con Putin, ma negare la tragedia della guerra, trattandola come una fiction, è inaccettabile”.

Dagospia il 7 aprile 2022. Da La Zanzara – Radio 24

Carlo Freccero a La Zanzara annuncia: “Lascio la commissione Dubbio e Precauzione”. “Bucha? Ho dubbi su tutto, a chi giova? Solo a chi vuole paragonare Putin a Hitler e andare alla guerra atomica”.  “Zelensky burattino? Peggio, è prigioniero di una sceneggiatura americana. Repubblica mi ha messo al rogo per le mie idee, mai detto che i morti sono una fiction". 

"Tutti quelli che fanno la guerra sono criminali, anche gli Stati Uniti. Questa criminalità è stata preparata con una guerra iniziata nel 2014”. “Ucraina? Se l'esercito resiste così tanto è perchè viene armato da anni". E su Draghi: “Parla solo a nome degli americani”. “Biden? Ha infermità mentale, è un criminale con la giustificazione"

Massacro o fake, da Porro è rissa tra Daniele Capezzone e Tony Capuozzo: "A Bucha hanno travestito i cadaveri?" Il Tempo il 04 aprile 2022.

I dubbi di Tony Capuozzo su quello che è diventato per i media di tutto il mondo "il massacro di Bucha" provocano la reazione sdegnata di Daniele Capezzone e un duro scontro. I due lunedì 4 aprile sono ospiti di Nicola Porro a Quarta Repubblica dove si parla degli ultimi avvenimenti nella guerra tra Russia e Ucraina. Il veterano degli inviati di guerra, in collegamento da casa perché positivo al Covid, ha espresso sospetti su video e foto che sono state diffuse per documentare l'uccisione di centinaia di civili sulle strade della cittadina poco lontana da Kiev e ha parlato anche di una possibile "messinscena". Il confine tra verità e propaganda in guerra è particolarmente sfumato, ma in questo caso non è possibile parlare di un falso costruito per danneggiare la Russia, sostiene invece il giornalista della Verità, in studio.

"Pochi minuti fa il New York Times ha mostrato le foto di tre settimane fa, quando Bucha era sotto il controllo russo. Le immagini satellitari mostrano i civili ammazzati, a terra", attacca Capezzone che si dice deluso dalle parole di Capuozzo: "Mi delude che da settimane dici che gli ucraini dovrebbero arrendersi. E mi delude la parola messinscena. Dobbiamo farci le domande e cercare la verità", dice l'ex parlamentare. 

Per Capuozzo pochi giorni fa la situazione a Bucha era completamente diversa. "State dicendo che hanno travestito i cadaveri tre giorni fa? Che sono stati addestrati tutti i testimoni? Che i giornalisti di tutto il mondo sono stati ingannati?", attacca Capezzone che rimarca come i civili sono sempre stati nel mirino dei russi in questa guerra. 

Capuozzo risponde con le argomentazioni precedentemente offerte, ossia che i morti sono spuntati fuori negli ultimi tre giorni, l'intervista allo stesso sindaco di Bucha e via dicendo. Capezzone insiste sulle immagini satellitari del Nyt  che risalirebbero a quasi un mese fa. "Io ho frequentato i fronti di guerra, so come sono i cadaveri dopo tre settimane" replica l'inviato di tanti conflitti. "Ma non puoi parlare di messinscena" conclude Capezzone.  

"Messinscena?", "Non sei leale". Su Bucha è lite Capuozzo-Capezzone. Giuseppe De Lorenzo il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.

A Quarta Repubblica polemica in diretta tra l'ex inviato di guerra e il giornalista sulla strage di Bucha.

La scintilla la fa scoccare Toni Capuozzo alla fine dell’intervista esclusiva a Quarta Repubblica del viceministro degli Esteri dell’Ucraina, Emine Dzhaparova. Una frecciatina velata, ma che sembrava diretta a Daniele Capezzone presente in studio. “Forse al viceministro abbiamo fatto domande troppo cattive e irriguardose”, alludendo in tono sarcastico - almeno questa è stata l’impressione - ai tre quesiti poco mordaci che poco prima il giornalista ed ex parlamentare aveva rivolto alla Dzhaparova.

Che sia stata questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso o meno, quel che è certo è che alla fine tra Capuozzo e Capezzone è esploso uno scontro che in realtà sembrava sul punto di scoppiare già da qualche puntata. I due, è chiaro ai telespettatori, non la pensano allo stesso modo sulla guerra in Ucraina. Dichiaratamente filo atlantista Capezzone, dubbioso sull’opportunità di inviare armi l’ex inviato di guerra. Il quale nelle scorse settimane si era posto pure alcune domande sulla strage di Bucha, questione che ieri l’ex deputato gli ha rinfacciato dopo la pubblicazione da parte del New York Times del video dei prigionieri ucraini uccisi dai russi nella cittadina alle porte di Kiev.

“Toni Capuozzo sa quanto lo stimo e metto la mano sul fuoco sulla sua onestà intellettuale - premette Capezzone - però perdonami: non prenderci per smemorati. Tu in questo studio facevi di fatto appelli alla resa, hai parlato di Bucha come di una messinscena e adesso ti preoccupi del fatto che qualcuno aiuti gli ucraini?”. L’affondo fa scattare la reazione dell’inviato: “Questo non è leale, non puoi dire una falsità”. Insiste Capezzone: “Hai usato la parola messinscena”.

La temperatura a quel punto si alza. “Io c’ero e Capuozzo si poneva delle domande su quello che è successo”, prova a fare da paciere Nicola Porro. “Tutti abbiamo ascoltato le domande, che sono il cuore del giornalismo - insiste però Capezzone - Ma quando uno usa la parola ‘messinscena’, usata dai ministeri del Cremlino, di fronte alle testimonianze di tutti i superstiti, ai reportage dei fotografi e dei giornalisti, alle intercettazioni dei servizi tedeschi”. Poi l’affondo: “Mettiamo a verbale che c’è chi usava la parola messinscena e chi la parola strage. Perché qui non siamo tutti uguali: nelle opinioni e nelle scelte di campo”. Pronta la replica di Capuozzo, che si mette pure le mani nelle orecchie per non sentire Capezzone affermare “una falsità, sapendo di dirla”.

Guerra in Ucraina, i dubbi di Toni Capuozzo sulle foto di Bucha. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Toni Capuozzo semina dubbi sui massacri di Bucha. "Io sollevo qualche dubbio su quello che è accaduto a Bucha. Mi faccio qualche domanda e voglio ricostruire quello che è accaduto a Bucha. "Il 30 marzo i russi si sono ritirati da Bucha - racconta Toni Capuozzo durante Quarta Repubblica - Il 31 marzo il sindaco di Bucha rilascia un'intervista in cui esprime la propria soddisfazione per il fatto che i russi hanno finalmente abbandonato il paese. Il 1° aprile c'è un'altra intervista e nessuno fa menzione dei morti in strada. Poi il 2 aprile spunta fuori un filmato della polizia ucraina che mostra soltanto un cadavere. Il 3, invece, iniziano a circolare tutti i morti che abbiamo visto. Da dove sono saltati fuori tutti questi corpi. Possibile che dopo 4 giorni nessuno ha messo una coperta su questi cadaveri? Io li ho visti come sono i cadaveri dopo qualche giorno. Queste vittime sono in strada da tre settimane? Non sarebbero in quelle condizioni!”. 

Capuozzo prosegue mettendo in evidenza la possibilità che sia tutta una messiscena. "I Russi potrebbero essere capaci di fare una strage simile - dichiara Capuozzo - Allo stesso tempo, però, anche gli ucraini potrebbero essere in grado di mettere in piedi questa messinscena. L'obiettivo potrebbe essere quello di farsi mandare i carri armati.

Bucha, Toni Capuozzo: "Non mi convince la sequenza dei tempi, osservate i cadaveri". La sua verità sulle foto dell'orrore. Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

Un intervento durissimo, controcorrente, che ci costringe a riflettere. A parlare è Toni Capuozzo, ospite di Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 4 aprile, giorno in cui il mondo continua ad essere scosso dagli orrori di Bucha, da quelle terrificanti fotografie di corpi uccisi, mutilati, legati, bruciati.

Il punto è che Capuozzo, voce autorevole e che spesso si spende in analisi scomode, afferma di avere qualche dubbio su ciò che realmente è accaduto. "Guai a non porsi delle domande", premette. "A me non convince la sequenza dei tempi riguardo a Bucha. È mai possibile che nessuno abbia messo un lenzuolo pietoso sui quei morti?", si interroga Toni Capuozzo. Dunque, aggiunge: "Queste vittime sono in strada da tre settimane? Non sarebbero in quelle condizioni", picchia durissimo.

Insomma, secondo Toni Capuozzo dietro alle fotografie dell'orrore potrebbe esserci una strategia precisa, mirata a creare l'ondata di sdegno e riprovazione che effettivamente si è scatenata. Il giornalista non mette in dubbio la responsabilità dietro all'orrore, di matrice russa, ma il fatto che gli scatti, così come li abbiamo visti, siano stati in parte costruiti. Già nella mattinata di ieri, lunedì 4 aprile, su Facebook anticipando la sua presenza a Quarta Repubblica, Capuozzo aveva scritto: "Spero mi chiedano di Bucha". La domanda è arrivata, così come la sua teoria, dirompente e a tratti inquietante.

Bucha, Toni Capuozzo a Quarta Repubblica: "Il sindaco ucraino esultava". Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.

E' tutta una questione di date. Toni Capuozzo analizza l'orrore di Bucha, con decine di civili ucraini trovati morti per strada dopo il ritiro dell'esercito russo. Il giornalista, ospite di Nicola Porro a Quarta repubblica su Rete 4, ripercorre calendario alla mano le tappe della Via Crucis della cittadina a una trentina di chilometri dalla capitale Kiev. "Il 30 marzo i russi se ne vanno, il 31 il sindaco rilascia un’intervista di fronte al Municipio tutto soddisfatto e il video va in onda il 1 aprile sulle tv ucraina e non vengono mai citati i morti. Eppure Bucha è una città piccola, 28mila abitanti - sottolinea -: possibile che nessuno gli abbia detto dei morti per strada?".

Prima incongruenza, secondo lo storico inviato di guerra di Mediaset, curatore e conduttore del programma Terra!. "Il 2 aprile - prosegue Capuozzo - c’è un video della polizia ucraina che mostra le devastazioni della guerra ma c’è un solo corpo, di un militare russo, che viene lasciato sul ciglio della strada". Quella foto inizia a girare sui social, ma nessuno ancora parla di eccidio, strage o barbarie. Sembra solo una rovinosa fuga militare. "Solo il 3 iniziano a girare le immagini dei morti. Da dove sono saltati fuori quei corpi?", domanda Capuozzo, che si scusa per il dettaglio macabro a sostegno dei suoi dubbi: "Quando uccidi una persona con un colpo di pistola alla tempia, ci sarebbero delle pozze di sangue. Voi avete visto del sangue accanto ai morti? E in una città come Bucha tutti conoscono tutti. Possibile che dopo 4 giorni nessuno abbia messo un lenzuolo pietoso sopra i morti?".

Quindi una amarissima, sconvolgente conclusione: "Se mi chiedete se i russi siano capaci di organizzare stanze delle torture e uccidere così a sangue freddo i civili, la mia risposta è sì. Ma se mi chiedete se anche gli ucraini con l’acqua alla gola sarebbero in grado di mettere in piedi una messa in scena per coinvolgere il mondo, allora vi direi ancora sì". 

Bucha, Toni Capuozzo: "Il noto neonazista in città il 2 aprile". Strage firmata dagli ucraini? Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

La strage di Bucha è stata firmata dagli ucraini? Il dubbio attanaglia Toni Capuozzo e rimbalza da Quarta repubblica, il talk di Rete4 condotto da Nicola Porro, e diventa virale sui social. Il noto giornalista Mediaset, inviato di guerra in ogni angolo del mondo e testimone oculare dei peggiori orrori di cui l'uomo ha saputo rendersi protagonista, avanza il sospetto di una auto-carneficina organizzata dall'esercito ucraino per poter incolpare l'esercito russo, in fuga.  

Calendario alla mano, Capuozzo ripercorre le date e ricorda come la ritirata degli invasori sia iniziata il 30 marzo. Ma fino al 3 aprile, 4 giorni, non girano video di morti in strada. "Com'è possibile? - domanda Capuozzo - Bucha è un paese di 28mila abitanti, si conoscono tutti e nessuno si è reso conto che c'erano cadaveri in strada?". 

La risposta, insinua il giornalista, allora forse è da trovare altrove. "C'è un filmato. Un noto neo-nazista delle milizie ucraine (si tratterebbe secondo la stampa russa di Sergei Korotkikh, membro del Battaglione Azov) è in paese a Bucha il giorno 2 aprile. Non si vedono morti in strada, però c'è un dialogo. Un suo commilitone gli chiede: 'Cosa facciamo con quelli che non hanno il bracciale blu?', vale a dire quello delle milizie ucraine. E lui gli risponde: 'Spariamo'". 

Quei morti, dunque, sarebbero finiti sotto il "fuoco amico" nel migliore dei casi, o vittime di una esecuzione per pura propaganda nel peggiore. E questo perché, conclude Capuozzo, "anche gli ucraini con l'acqua alla gola sarebbero in grado di mettere in piedi una messa in scena per coinvolgere il mondo". 

Bufera su Toni Capuozzo dopo i dubbi sul massacro di Bucha: tutti contro il giornalista. Il Tempo il 07 aprile 2022.

In molti non hanno gradito le parole di Toni Capuozzo sulla strage di Bucha. Il giornalista e storico inviato di guerra nel corso dell’ultima puntata di Quarta Repubblica, ospite di Nicola Porro, ha sollevato dei dubbi sul massacro nella cittadina d’Ucraina, ricevendo una valanga di insulti e vedendosi ritirato anche un premio che aveva ricevuto, come ha comunicato lui stesso su Twitter: “Con un messaggio la Fondazione Premio Ischia mi comunica che il ritiro del Premio concessomi a suo tempo è la richiesta di un'associazione. Cestinata e stima rinnovata. Grazie”.

Capuozzo non si sta quindi strappando i capelli per ciò che gli viene detto in seguito alle domande che si è posto in televisione: “I tempi che non convincono. Il video di Bucha va in onda il 1 aprile sulle tv ucraina e non vengono mai citati i morti. Eppure Bucha è una città piccola, possibile nessuno gli abbia detto dei morti per strada?. Il 2 aprile, il giorno dopo, un video della polizia ucraina mostra le devastazioni, ma c’è un solo corpo, di un militare russo, che viene lasciato sul ciglio della strada. Solo il 3 iniziano a girare le immagini dei morti. Da dove sono saltati fuori quei corpi?. Quando uccidi una persona con un colpo di pistola alla tempia, ci sarebbero delle pozze di sangue. Possibile che dopo 4 giorni nessuno ha messo un lenzuolo pietoso sopra i morti?”.

Secondo Capuozzo, attaccato in massa sui social, è doveroso porsi dei dubbi perché, se è vero che “i russi sarebbero capaci di realizzare stanze della tortura e uccidere i civili a sangue freddo” è altrettanto vero che “anche gli ucraini con l’acqua alla gola sarebbero in grado di mettere in piedi una messa in scena per coinvolgere il mondo”. La richiesta del giornalista è di aprire un’indagine internazionale per stabilire la verità dei fatti su un episodio clou della guerra tra Russia ed Ucraina.

"Hanno chiamato solo la televisione..." Toni Capuozzo su Bucha infiamma Dritto e rovescio: gli ucraini insorgono. Il Tempo il 07 aprile 2022.

"Bucha è un cimitero dei crimini di entrambi, russi e ucraini". Rimane un mistero perché "la Croce rossa non è stata chiamata anche se si trova a Kiev, a pochi chilometri. Hanno chiamato subito la televisione. I giornali hanno scritto che era uno 'spartiacque'. Si pensava di andare verso i negoziati, andiamo verso il protrarsi della guerra". Toni Capuozzo porta nella puntata di giovedì 7 aprile di Dritto e rovescio quanto detto in tv e sui social in questi giorni, ossia che la versione che a Bucha i soldati russi hanno fatto una carneficina di civili non torna, e ricorda le evidenze, a suo dire, raccolte in questi giorni. Ad esempio che molti dei centinaia di cadaveri trovati nelle strade non c'erano quando i russi si trovavano ancora nell'area, e che negli scantinati della cittadina molte vittime avevano al braccio un fazzoletto bianco, "segno che erano filorussi" e che potrebbero essere stati uccisi non dall'esercito di Mosca, ma da quello ucraino. Una tesi che ha attirato al giornalista, inviato in tante guerre, aspre critiche.

In studio c'è Olees Horodetskyy, presidente dell'Associazione Cristiana Ucraini in Italia secondo cui le parole di Capuozzo sono in sintonia con la versione del Cremlino che non rispetta il principio fondamentale, ossia che è l'Ucraina e il suo popolo a essere vittime di un'aggressione militare violentissima. "Le sue interpretazioni? Sono quelle di Lavrov", attacca l'ospite di Paolo Del Debbio che fa riferimento al ministro degli Esteri di Vladimir Putin. "Nega l'evidenza, cerca i colpevoli tra gli ucraini quando siamo noi a essere attaccati", controbatte Horodetskyy. 

Capuozzo rimarca: "Ha visto le foto in cui le vittime hanno un fazzoletto bianco al braccio? Vuol dire che sono filo-russi", dice il giornalista. A quel punto viene chiamata in causa una donna ucraina ospite in studio, che dice che a indossare fazzoletti bianchi al braccio sono tutti i civili, con l'obiettivo di segnalare che non sono militari, e racconta il dramma dei suoi familiari che rischiano di morire in Ucraina. Capuozzo fa notare come abbia raccolto foto e video che dimostrano pesanti sospetti sulla ricostruzione dell'eccidio di Bucha, ma le posizioni sono inconciliabili.  

Tony Capuozzo posta il video della polizia ucraina a Bucha: "Dove sono i morti?" I russi erano già andati via. Il Tempo il 05 aprile 2022.

Non si placano le polemiche sulle ricostruzioni della strage di civili a Bucha. I media occidentali sono certi nell'attribuire la paternità dell'eccidio - sono centinaia i morti trovati nella cittadina a quaranta chilometri da Kiev - alle forze armate russe che tre settimane fa hanno lasciato l'area lasciando dietro di sé una scia di sangue. Ma Mosca respinge le accuse dell'Ucraina e parla di messinscena creato dagli ucraini. Il giornalista Tony Capuozzo, veterano dei teatri di guerra, ha fin da subito sollevato dubbi che dietro al massacro ci sia sicuramente la Russia. L'inviato di guerra adduce a dimostrazione di questa tesi foto e video che smentiscono la ricostruzione ufficiale, tra cui un lungo filmato realizzato dalla polizia ucraina. 

Capuozzo lo ha postato su Facebook: "È questo è il lungo video della polizia ucraina (ripeto, ucraina) girato il 2 aprile a Bucha. Due giorni dopo che i russi sono andati via da Bucha. Non si vedono morti. Civili vivi e contenti di essere liberati, ma neanche un morto per le strade. Allora i morti che appaiono dal 3 aprile da dove vengono?" scrive il giornalista. In realtà nelle immagini girate dalle forze dell'ordine ucraine si vede un cadavere a bordo della strada, ma non le decine e decine di corpi visti in altri filmati. Il video mostra gli agenti che pattugliano le strade di Bucha e rimuovono dalla strada i veicoli abbandonati o incidentati, parlano con le persone, si muovono a piedi tra le case.

Lunedì 4 aprile il giornalista Mediaset a Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro su Rete 4, aveva affermato di nutrire forti dubbi su quello che è accaduto a Bucha. "Il 30 marzo i russi si sono ritirati, il 31 marzo il sindaco di Bucha rilascia un'intervista in cui esprime la propria soddisfazione per il fatto che i russi hanno finalmente abbandonato il paese. Il 1° aprile c'è un'altra intervista e nessuno fa menzione dei morti in strada. Poi il 2 aprile spunta fuori un filmato della polizia ucraina che mostra soltanto un cadavere (quello mostrato oggi su Fabebook, ndr). Il 3, invece, iniziano a circolare tutti i morti che abbiamo visto. Da dove sono saltati fuori tutti questi corpi. Possibile che dopo 4 giorni nessuno ha messo una coperta su questi cadaveri?" le frasi di Capuozzo nel programma di Porro. 

Ucraina, Toni Capuozzo tira fuori foto e video: il particolare che nessuno ha visto a Bucha. E Di Battista applaude. Il Tempo il 07 aprile 2022.

Toni Capuozzo non ci sta a farsi dare del negazionista filo-Putin per aver espresso dubbi sulla ricostruzione dell'eccidio di Bucha, la cittadina a pochi chilometri da Kiev dove centinaia di civili morti sono stati trovati dopo il ripiegamento dei soldati russi. Il giornalista, esperto inviato di guerra, è stato attaccato da più parti per le sue tesi, così giovedì 7 aprile ha dedicato due post su Faceboook molto densi di contenuti per rispondere alle critiche. "Faccio delle domande e nessuno risponde. Stiamo alle immagini, allora" scrive Capuozzo che mostra due foto provenienti da Bucha. 

Si vede il corpo di un uomo, con un giubbotto blu e un fazzoletto bianco legato al braccio, fotografato in due posti diversi e in pose differenti. "Pubblico le fotografie di una vittima di Bucha -la stessa persona, è nel post precedente - e niente, è stata spostata a nostra insaputa, a beneficio di cosa?" si chiede il giornalista che commenta anche alcune foto pubblicate da Dagospia: "Solo io mi accorgo che in almeno due fotografie le vittime hanno il bracciale bianco dei filorussi? Cos'è stato, il suicidio di una setta? Attendo risposte dai maestri che distribuiscono sdegno, pur di farci accettare tutto, economia di guerra e guerra stessa" è il duro attacco sui social. 

Capuozzo ammette di non essere infallibile, "ma ci sono errori che so di non voler fare. Ho davanti un video, girato nei dintorni di Bucha, di un’imboscata ucraina a un gruppo di soldati russi in ritirata. I soldati russi sono a terra, e dalle pozzanghere di sangue e dalla gola di qualcuno si capisce che sono stati sgozzati. Gli ucraini si aggirano tra loro, uno a terra muove un braccio, gli sparano" afferma in un altro post. Si tratta senza dubbio "di un piccolo crimine di guerra", scrive spiegando che non ha senso mostrarlo "per far vedere che gli ucraini, per quanto aggrediti, non sono dei boy scout". "Si vedono i volti degli autori, fieri, mentre dicono 'Gloria all’Ucraina', e magari un giorno ci sarà una piccola inchiesta (il video è loro, non è rubato, è esibizione tronfia). No, non aggiunge nulla che io già non sappia: la guerra peggiora tutti", argomenta il giornalista che continua a porre domande sulla verità ufficiale. Perché non è stata coinvolta, sulla scena del massacro di Bucha, la Croce Rossa Internazionale? Forse per "il timore che vedessero, ad esempio la scena che vi ho descritto prima? O che facessero domande indiscrete?".

Poi rivela che la stampa ucraina il 2 aprile "annunciava un’operazione dei corpi speciali per stanare sabotatori e collaborazionisti dei russi. Com’è finita?", e pone dubbi sulle foto satellitari pubblicate dal New York Times che risalirebbero però al 1 aprile secondo alcune ricostruzioni. Poi ancora parla dello stato di conservazione dei corpi, sul fatto che alcuni sono stati seppelliti e altri no, sui cadaveri col bracciale bianco dei collaborazionisti. Una sfilza di domande che includono anche una parziale risposta, ossia che la ricostruzione data per buona dai grandi media potrebbe non essere esaustiva. In calce al post spunta Alessandro Di Battista, ex Movimento 5 Stelle: "Domande lecite", scrive l'ex grillino. 

Toni Capuozzo, Giuseppe Cruciani a Dritto e Rovescio: "Non dico che abbia ragione, ma...", il sospetto. Libero Quotidiano l'08 aprile 2022.

Si parla di Bucha a Dritto e Rovescio. Nella puntata andata in onda giovedì 7 aprile su Rete 4, Paolo Del Debbio ha portato in studio Giuseppe Cruciani. Il conduttore radiofonico ha voluto prendere le difese di Toni Capuozzo, che in questi giorni ha sollevato la polemica. Il giornalista aveva infatti messo in dubbio la narrazione sull'eccidio della città ucraina. A suo dire qualcosa sulle vittime uccise dai russi non tornerebbe. Un'opinione che ha scatenato la bufera anche da Del Debbio, dove però Cruciani ha ricordato: "Non capisco perché non si possa coltivare il dubbio. La propaganda la fanno un po' tutti, soprattutto durante una guerra". Cruciani ha definito "l'Occidente la patria della libertà" e per questo non si riesce a spiegare come sia possibile che un dubbio non possa essere espresso.  

E ancora: "Io non dico che queste persone hanno ragione, ma non capisco perché devono essere messe alla gogna e definiti pazzi". Frasi che non possono che trovare Capuozzo d'accordo. L'ex vicedirettore del Tg5 è tornato a parlare di quelle che ritiene essere state delle incongruenze sulla vicenda di Bucha: "Prima c'è il sindaco che parlava orgoglioso della liberazione della città senza dire nulla, quando avrebbe i morti per strada. Ma c'è anche qualcosa di più. Io penso che quei morti fossero sabotatori o traditori". 

Insomma, per Capuozzo il massacro nella cittadina ucraina "è un cimitero dei crimini di entrambi". Non è tutto, il giornalista ha avanzato un altro sospetto: "Le Nazioni unite ora indagheranno, ma sono state chiamate dopo, solitamente invece si chiama subito quando c'è un crimine. Neanche la Croce rossa è intervenuto immediatamente".

Cosa non torna su Bucha, Borgonovo rilancia i sospetti. E Minzolini: "Non è una fiction", scontro a L'aria che tira. Il Tempo il 07 aprile 2022

La ricostruzione dell'eccidio di civili ucraini a Bucha continua a far discutere. Kiev e i paesi occidentali accusano la Russia di crimini di guerra, e le foto satellitari diffuse dal New York Times confermerebbero che i cadaveri erano nelle strade della cittadina non lontana dalla capitale del Paese quando l'esercito russo ancora non aveva abbandonato quell'area. Ma c'è chi mette in dubbio questa ricostruzione adducendo altri elementi, come i video che mostrano le strade sgombre da corpi senza vita pochi giorni prima della scoperta del massacro, e testimonianze come quella del sindaco di Bucha risalente agli stessi giorni. I sospetti sulla possibile "messinscena" di Kiev sono stati sollevati nei giorni scorsi da Tony Capuozzo, giornalista di guerra di lungo corso, rilanciati, giovedì 7 aprile, da Francesco Borgonovo. Il vicedirettore de la Verità è ospite di Tiziana Panella a Tagadà, su La7, dove è stato protagonista di un acceso scontro con il direttore del Giornale Augusto Minzolini, di opinione opposta sui fatti di Bucha.  

"Mi hanno insegnato che il lavoro del giornalista è quello di porsi domande sulla verità ufficiale, indagare e ricordare le cose che non tornano",  esordisce Borgonovo che cita Capuozzo: "Persone come lui, che ha rischiato la vita in tante guerre, si sono permesse di far notare non che i morti non ci fossero, ma che qualcosa nella tempistica e nelle dichiarazioni rese non tornava. Non significa che i russi non abbiamo ucciso nessuno e non ci siano le fosse comuni. Ma è lecito pensare che una popolazione in guerra, che non viene accontentata su temi come la no-fly zone, utilizzi qualche strumento per farsi ascoltare".  

I russi vogliono punire gli ucraini per la resistenza. Il prof. Parsi: vedremo altre Bucha, guerra barbara

Per Borgonovo se c'è stato un massacro bisogna indagare, ma sulla stampa si leggono espressioni come "genocidio e forni crematori" che in passato sono state utilizzate per giustificare l'intervento militare dell'Occidente. Myrta Merlino non ci sta: "Ma il massacro c'è stato". E parla del timore di un negazionismo legato alla guerra in Ucraina. 

La parola passa a Minzolini che attacca: bisogna avere rispetto per l'evidenza dei fatti e per il lavoro dei giornalisti. "Non ho visto reportage su Bucha che desse una versione diversa, in Italia o all'estero. Quella versione è stata data solo dai russi", dice il direttore. "Discutere di questo vuol dire che non c'è verità. Capuozzo fa un'analisi senza stare sul posto. O pensiamo che i nostri reporter sono pagati da una sorta di spionaggio occidentale?". 

Borgonovo insiste: "I giornalisti non erano lì quando le persone venivano uccise. E ci sono filmati del 2 aprile dove i corpi non c'erano". Minzolini ribatte citando le immagini fornite dal Nyt che dimostrano che i cadaveri c'erano: "Se non sono false qualcuno avrebbe dovuto rimettere i corpi in strada. Stiamo trattando una tragedia come un paradosso, una fiction".

“Bucha? Cauti sulla responsabilità”. Gabrielli getta un’ombra sulla strage. L’autorità delegata per la sicurezza della Repubblica frena: “A Bucha un eccidio, ma…” Redazione su Nicolaporro.it l'8 Aprile 2022.

Non è questione di negazionismo, categoria in cui ormai vengono gettati tutti coloro i quali si pongono anche solo il minimo dubbio. Non vuol dire non capire che a Bucha, la cittadina presa dai russi un mese fa e poi riconquistata dagli ucraini, non sia stato il teatro di un massacro. Significa solo porsi delle domande, come fa Toni Capuozzo, e cercare delle risposte per avere il quadro d’insieme completo di ciò che sta accadendo alle porte di Kiev. I soldati di Putin hanno commesso crimini? Probabile, anzi praticamente sicuro. Ci sono le testimonianze dei superstiti a dimostrarlo, le intercettazioni dell’intelligence tedesca e il resoconto degli inviati sul campo. Ma quelle immagini che ci hanno colpito nell’animo, quelle che – come sostiene il governo della Turchia – hanno “cambiato” la percezione del conflitto, quelle che rischiano di coinvolgere ancor di più l’Occidente e allontanano la tregua, raccontano davvero tutta la storia?

Per Capuozzo qualcosa non torna. Lo storico inviato di guerra non si spiega come mai le fosse comuni di Bucha siano piene ma quei corpi siano rimasti insepolti per giorni e giorni. Non capisce come sia possibile che, se sono morti davvero a metà marzo, i cadaveri si possano essere conservati in quel modo. Si chiede che fine abbiano fatto i “collaborazionisti” che il governo di Kiev ha cercato di “stanare” inviando sul posto delle squadre speciali apposite. E si domanda come mai i corpi esanimi ritrovati in uno scantinato abbiano al braccio il fazzoletto bianco che identifica i filorussi sul campo. Domande legittime, che rischiavano di costargli un premio giornalistico. Ma che a ben vedere rivelano una certa prudenza che sui fatti di Bucha anche due intelligence occidentali condividono.

Parliamo del Pentagono, mica pizza e fichi, che il 4 aprile ha detto di non poter “confermare in modo indipendente” le denunce ucraine su Bucha. Certo, non aveva e non ha motivi per “confutarle”, in fondo Biden è stato tra i primi a parlare di “crimine di guerra”, ma che il Pentagono non si sia sbilanciato non è un dettaglio secondario. Come non può passare inosservato quanto detto ieri sera a Stasera Italia da Franco Gabrielli, ex capo della polizia e ora Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. In pratica il capo dei servizi segreti. A Barbara Palombelli, il superpoliziotto ha fatto sapere che la nostra intelligence ritiene che “a Bucha ci sia stato un eccidio”, ma che “sulle responsabilità dobbiamo essere molto attenti e cauti. Anche perché a volte ci sono delle situazioni che possono essere rappresentate in maniera diversa la lesione che si produce alla credibilità di una narrazione è devastante”. Una posizione che fa a pugni con quel “Putin dovrà risponderne” urlato ai quattro venti da Mario Draghi a poche ore dalla liberazione di Bucha.

“Atteniamoci ai fatti, alle immagini e al racconto di chi sta sul campo – ha aggiunto Gabrielli – considero la presenza dei giornalisti fondamentale, avendo sempre la consapevolezza che le guerra porta con sé forme di degenerazione e di mistificazione”. Questo significa negare? No, ovviamente. Vuol dire spacciare i russi per santarelli o sposare acriticamente la loro tesi secondo cui a Bucha s’è svolta una messinscena ucraina? No, assolutamente. Ma una cosa sono i crimini di guerra, la cui responsabilità è personale (vedasi anche il video choc dei soldati ucraini che maciullano dei russi). Un’altra il genocidio, che lo pure Jack Sullivan, consigliere per la Sicurezza della Casa Bianca, esclude sia avvenuto a Bucha. L’unica cosa che conta, oggi, è evitare che – come spiegava Biloslavo – accada come in altre guerre del passato: “Ho visto stragi, massacri che poi non si sono rivelati tali, ma che hanno provocato un’ulteriore escalation”.

In difesa (critica) di Toni Capuozzo. Noi non condividiamo la linea di Capuozzo, ma proprio per questo, oltre che per la sua bravura, nei giorni scorsi abbiamo pubblicato alcuni suoi articoli. La censura non solo è sbagliata ma è soprattutto stupida: inaridisce, conforma e massifica i pensieri. Davide Varì su Il Dubbio l'8 aprile 2022.

Toni Capuozzo è finito nel tritacarne manicheo dell’“o con me o contro di me”. Toni, del quale abbiamo ospitato più di un articolo, è una delle prime vittime degli effetti collaterali di questa guerra, dell’“ordine di servizio collettivo” che in queste settimane ha intimato a ognuno di noi di schierarsi senza sfumature e senza dubbi. E capite bene che per noi è piuttosto difficile rinunciare ai dubbi. Capuozzo ha messo in discussione le immagini del massacro di Bucha. Chi scrive non ha alcuna incertezza sull’origine di quella strage.

Non serve certo una commissione Onu – come ha chiesto una sbadata e “sbandata” Anpi – per risalire ai mandanti e agli esecutori di quella carneficina. Si tratta di Putin e del suo esercito, che non avrà il segno delle Ss sulla mostrina come qualche soldato del famigerato battaglione Azov, ma si comporta come e peggio dei nazisti. L’ha detta bene, e del resto gli capita spesso, Erri de Luca: «I russi a Bucha si comportano come i nazisti a Napoli nel 1943: sono le rappresaglie di chi sta perdendo la guerra». Ciò non toglie che Capuozzo abbia il sacrosanto diritto di dubitarne. Insomma, la guerra fa questi strani scherzi: mette l’elmetto e affibbia bandiere a ognuno di noi. Elimina sfumature e conduce tutti verso un manicheismo insensato.

Noi non condividiamo la linea di Capuozzo, ma proprio per questo, oltre che per la sua bravura, nei giorni scorsi abbiamo pubblicato alcuni suoi articoli. E se ce lo concederà continueremo a farlo, perché la censura non solo è sbagliata ma è soprattutto stupida: inaridisce, conforma e massifica i pensieri. Ogni guerra, e questa in particolare, è attraversata da mille contraddizioni e dobbiamo ringraziare, anziché scomunicare, chi ce le sbatte in faccia, chi ci distoglie dal pensiero unico e dalle certezze che si sedimentano e incancreniscono dentro di noi. Anche perché, dopo un mese di guerra una cosa inizia a essere chiara: Putin non è l’unico a giocare la sua (sporchissima) partita…

Bucha, l'ex leghista Donato mette in dubbio l'eccidio. La Picierno sbotta, Scontro al parlamento europeo. Il Tempo il 06 aprile 2022.

I massacri di Bucha e le efferatezze dell'invasione russa in Ucraina. Mentre l'Ue si muove con nuove sanzioni contro Vladimir Putin nel Parlamento europeo lo scontro è infuocato. L'eurodeputata Francesca Donato, del gruppo dei non-iscritti, ha messo in dubbio la veridicità dei massacri di civili a Bucha nel suo intervento alla Plenaria del parlamento europeo, suscitando la protesta della presidente di turno dell'Aula, Pina Picierno (Pd), che ha definito "inaccettabili le sue parole". "Oggi sento proporre addirittura un embargo totale del gas russo, nei fatti assolutamente insostenibile per la nostra economia, sulla base dei fatti di Bucha riferiti dal governo ucraino, sulla cui veridicità ci sono già molti dubbi. Dovremmo piuttosto mandare un'inchiesta indipendente in Ucraina per indagare sulla reale dinamica dei fatti e sulle reali responsabilità per le violenze e i massacri a danno dei civili", ha detto nell'Aula di Strasburgo. Francesca Donato era uscita dalla Lega per le sue posizioni critiche sui vaccini e ha votato contro la risoluzione del Parlamento europeo del 1 marzo contro l'aggressione russa, votata nel giorno dell'intervento di Zelensky alla plenaria straordinaria. 

La vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno (Pd), ha biasimato l'intervento dell'europarlamentare Francesca Donato (ex Lega, ora indipendente), che metteva in discussione il massacro di Bucha. "Ho evitato di interrompere però mi sia consentito di dire una cosa: che quest'Aula non può diventare in alcun modo il megafono di posizioni che sono assolutamente non accettabili", ha detto Picierno, che in quel momento presiedeva la seduta. "Il massacro di Bucha, onorevole Donato, è sotto gli occhi di tutti. E noi non possiamo accettare, lo dico con molta chiarezza, che in quest'Aula venga messo in discussione addirittura questo. I massacri che stanno avvenendo in questi minuti, in queste ore, di civili innocenti sono sotto gli occhi di tutti e in questa Aula non è accettabile che questo possa essere messo in discussione. Quest'Aula non è equidistante: c'è un aggressore, Putin, e un aggredito, che sono i cittadini ucraini, che quest'Aula e le istituzioni europee difendono. Se ne faccia una ragione", ha concluso. 

Guerra in Ucraina, Cnn: in un video la prova della responsabilità dei russi nel massacro di Bucha. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera.it il 27 Aprile 2022.

L’emittente tv ha acquisito e verificato un video ripreso da un drone a metà marzo che mostra mezzi e truppe di Mosca vicine ai cadaveri in strada.

Un video girato da un drone e acquisito dalla Cnn sembra rappresentare una nuova delle responsabilità dei russi nel massacro di civili a Bucha, in Ucraina. L’emittente tv americana, che ha spiegato di aver verificato e geolocalizzato il video per verificarne l’autenticità, ha affermato che le immagini sono state girate fra il 13 e il 14 marzo e mostrerebbero mezzi e truppe russe accanto ai cadaveri in strada che poi, dopo il ritiro dei soldati di Mosca, sono stati fotografati e filmati da operatori indipendenti, scatenando indignazione in tutto il mondo.

Il Cremlino finora ha sempre respinto le accuse, affermando che il massacro sarebbe avvenuto dopo il ritiro delle truppe russe. Mosca ha parlato di “messinscena” e ha scaricato la responsabilità prima sugli ucraini, poi ha evocato il complotto, facendo intendere che dietro la strage dei civili potrebbero esserci i servizi segreti dei pasi occidentali. In un primo momento siti russi molto attivi nel confezionamento di fake news avevano anche fatto girare video manipolati per cercare di dimostrare che i cadaveri in realtà erano solo attori che si erano finti morti per poter accusare Mosca del massacro. La difesa dei russi però non ha convinto gli osservatori indipendenti.

Secondo la Cnn, nel video si vede un veicolo militare russo fermo a un incrocio. La Cnn ha identificato tre figure nel video – proprio in fondo alla strada rispetto al veicolo militare – e sarebbero gli stessi corpi che sono stati ripresi nel video del 1° aprile e dal satellite immagini scattate da Maxar Technologies il 18 marzo. In altri frame, girati sempre dal drone poco prima, si vedono i soldati russi nella strada del massacro. È questa la prima prova concreta della presenza delle truppe di Mosca nel luogo della strage. La Cnn ha chiesto un commento alle autorità militari russe, che hanno preferito non rispondere.

Da ansa.it il 29 aprile 2022.

Ora i macellai di Bucha, almeno alcuni di loro, hanno un nome ed un volto. A svelare la loro identità la procuratrice generale di Kiev, Iryna Venediktova, che su Facebook ha postato generalità e fotografie di dieci ufficiali e sottufficiali della famigerata 64ma brigata di fucilieri motorizzati russi proveniente dalla Siberia. 

Apre la lista il sergente Vyacheslav Lavrentyev, poco più giù il caporale Andriy Bizyaev, e nel gruppo anche un generale, Albert Radnaev. Quasi tutti, come il loro feroce leader, il tenente colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich, mostrano i tratti somatici tipici dei buriati, popolazione tra Russia, Mongolia e Cina che rappresenta la più grande minoranza etnica siberiana.

Contro di loro le autorità ucraine hanno spiccato i primi capi di accusa per crimini di guerra, chiedendo a chiunque li riconosca di fornire prove sul loro coinvolgimento nella strage di civili compiuta nella regione di Kiev. Qui si trova Bucha, dove dopo la ritirata delle truppe di Mosca sono stati trovati almeno 400 cadaveri in strada, nelle case, nelle fosse comuni. 

Alcuni con le mani legate dietro la schiena e un colpo alla nuca, vittime di vere e proprie esecuzioni. A giustiziarli gli stessi uomini a cui pochi giorni fa Vladimir Putin ha conferito una delle più alte onorificenze della Russia, elogiandoli per il loro eroismo.

"E' la prova che ad orchestrare i massacri è stato proprio il Cremlino", spiega la procuratrice ucraina, che nel post descrive le violenze compiute dai dieci aguzzini identificati. Alcuni di loro appaiono molto giovani, chi ritratto in mimetica e in tenuta da combattimento chi in abiti civili. 

In base a quanto stabilito dalle indagini, scrive Venediktova, "durante l'occupazione di Bucha hanno preso in ostaggio civili disarmati, li hanno fatti morire di fame e sete, li hanno derubati, tenuti in ginocchio con le mani legate e gli occhi bendati, derisi e picchiati. Sono stati usati pugni e mozziconi. 

Le persone - prosegue la procuratrice - sono state malmenate per avere informazioni e alcune sono state torturate senza motivo". I militari russi avrebbero anche "minacciato di uccidere le vittime e persino inscenato l'esecuzione dei loro prigionieri".

Mosca respinge ogni accusa e continua a parlare di fake news. Ma sempre la procura di Kiev, nelle ore in cui il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres era in visita nei luoghi dell'orrore della guerra in Ucraina, ha reso noto di aver identificato dall'inizio del conflitto oltre 8 mila crimini di guerra russi. Il bilancio delle vittime civili, solo nella regione di Kiev, sale invece ad oltre 1.150.

Toni Capuozzo, il "miracolo" di Nicola Porro: come è andata a finire (in studio) con Federico Rampini. Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano l'1 giugno 2022

Pelo e contropelo. Nicola Porro, a Quarta Repubblica su Rete 4, ospita due pesi massimi del giornalismo italiano come Toni Capuozzo e Federico Rampini e, pur da posizioni quasi opposte, convengono su un fatto: a quasi 100 giorni dall'inizio della guerra in Ucraina forse è lecito sollevare qualche dubbio sulla gestione americana del "dossier Kiev". «Ci stiamo avvicinando a una situazione in cui la Russia potrebbe dire 'trattiamo', l'Ucraina è a un bivio, credo che a decidere sia Washington, non Kiev».

Siamo, insomma, nel bel mezzo di quella che da tempi non sospetti l'inviato di guerra di Mediaset definisce una «guerra per procura, 'vai e combatti'». In questo senso, sottolinea, «tv e giornali non ci raccontano la verità, ma l'esatto contrario». 

"Certo che così è difficile". Il terribile dubbio di Toni Capuozzo: la rivelazione su cosa sta facendo l'Italia dietro le quinte

La polemica di Capuozzo è nota e insidiosa, perché senza scomodare Bucha presta il fianco anche ai più biechi complottismi. Ma la sua profezia, ancorché sconfortante, sembra assai lucida: «Gli ucraini faranno la fine degli afghani e dei curdi. Saranno usati per indebolire la Russia, poi alla fine gli unici indeboliti saremo noi, e loro abbandonati».

Rampini, che a differenza del collega professa una salda fiducia nell'Occidente, non può esimersi dal criticare i vuoti della Casa Bianca. La guerra «è cominciata il giorno in cui Joe Biden, alla vigilia del conflitto, disse 'non manderemo mai un soldato americano sul suolo ucraino' e così semmai ha dato campo libero a Vladimir Putin». Campo libero diventato prateria grazie alle incertezze europee su armi ed embargo di gas e petrolio. «L'Italia sta finanziando la guerra di Putin continuando a comprargli il gas», ricorda ancora l'inviato del Corriere della Sera. Refrain difficilmente contestabile e che va avanti, senza variazioni, da settimane. E alla fine a Porro riesce il miracolo: far fornire ai suoi ospiti due visioni opposte, ma con la medesima (convincente) conclusione.

Quei dubbi su Bucha. Gianluca Zanella su Inside Over il 2 giugno 2022.

Sui crimini di guerra russi in Ucraina è stato scritto molto e, in epoca social, si è visto anche di più. Se poi decidiamo di parlare di Bucha, il terreno diventa davvero impervio. L’unica cosa certa, in questo caso, è l’estrema incertezza nello schierarsi da una parte o dall’altra, cioè dalla parte di quelli che gridano al massacro indiscriminato di civili inermi e da quella di chi, più o meno cautamente, si pone delle domande il più delle volte legittime sulla genuinità o meno delle informazioni e delle immagini circolate poco più di un mese fa e negli ultimi giorni. Legittime non perché si voglia a prescindere pensar male o negare l’orrore di una guerra ingiustificabile (come del resto ogni guerra). Legittime perché il porsi delle domande è sempre legittimo, purché non ci sia un retroscena strumentale, naturalmente. Eppure di questi tempi, anche porsi una domanda diventa eresia. E chi ha l’ardire di farlo viene messo al muro, mediaticamente linciato come un untore della peggior specie. Guai, insomma, a utilizzare il punto interrogativo. Bisogna credere ciecamente o si è fuori dai giochi, soprattutto se si è giornalisti. Più o meno quello che è capitato a un ex corrispondente di guerra dal curriculum sterminato come Toni Capuozzo che, per l’appunto, non ha negato la presenza di cadaveri nella cittadina a nord di Kiev, ma semplicemente si è posto delle domande sulle genuinità o meno delle immagini di via Yablonsca che hanno fatto il giro del mondo, quelle in cui si vede, tra i tanti altri, il cadavere di Irina Filikina, la ciclista apparentemente centrata da un colpo di carrarmato russo mentre pedalava. E poco importa se un altro cronista di guerra come Fausto Biloslavo, in diretta televisiva e per ben due volte, abbia invitato alla cautela nel dare per buone quelle immagini. Poco importa se Biloslavo proprio non possa essere indicato come un filo-russo. Capuozzo è stato mediaticamente malmenato per aver osato l’inosabile: fare il proprio mestiere di giornalista. Forse meno famoso di Capuozzo, ma non meno giornalista è Luigi Grimaldi, oggi autore de Le Iene, che di argomenti scivolosi se ne intende. Nella sua carriera si è occupato – tanto per citarne alcuni – di casi come quello della strage del traghetto Moby Prince, dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, dell’omicidio di Garlasco e dei rifornimenti di bombe italiane in Yemen. Giorni fa, Grimaldi ha deciso di dire la sua a proposito delle immagini di Bucha con un video caricato su YouTube in cui, meticolosamente, mette in evidenza alcune incongruenze di quella che è la ricostruzione dei fatti. Per capire quali siano queste incongruenze, rimandiamo alla visione del filmato. Quello che abbiamo fatto è stato fargli alcune domande:

Su Bucha è stato scritto e commentato di tutto. Perché hai sentito la necessità di metterti al lavoro su questo video?

Per due motivi: il primo perché sono stato molto colpito da quello che hanno scritto e da quello che hanno detto non solo Capuozzo o Biloslavo, ma tanti altri collaudati reporter di guerra che sono tali non da oggi, ma dal finire degli anni ’80, gente che quando parla di guerra sa esattamente quello che dice. Il secondo perché, osservando le immagini, ascoltando le parole che accompagnavano le immagini, mi sono reso conto che qualcosa non funzionava. Poi dall’avere una sensazione e trovare un elemento di riscontro un po’ bisogna lavorarci… non è una cosa che ho fatto in modo leggero, sono stato spinto da una riflessione: se ci sono state delle messinscene e questi cadaveri sono dei morti autentici, c’è una brutta manipolazione in corso. Andare a prendere dei cadaveri per mettere in piedi delle sceneggiate non è una cosa normale, nemmeno in guerra. Nessuno nega che a Bucha ci fossero dei cadaveri, il problema è: chi li ha uccisi, in quali circostanze e per quale motivo. Strumentalizzare la morte, che in guerra non può mancare, altrimenti non sarebbe una guerra, è una cosa che mette i brividi.

Dato per assodato, quindi, che non neghi la presenza di cadaveri a Bucha, secondo te c’è un problema generale nella comunicazione mediatica? È un problema che si presenta ogni volta in situazioni simili o questo caso fa eccezione?

Mi occupo di questo genere di argomenti dalla fine degli anni ’80 e in tutta la mia vita non ho mai visto niente una cosa del genere. Il fatto che gran parte della stampa prenda qualunque informazione arrivi da una parte in conflitto – in questo caso l’Ucraina – e la riporti come se fosse un’agenzia di stampa del governo, io non l’ho mai visto. Questo è grave soprattutto per la carta stampata, dove c’è più spazio di riflessione rispetto alla televisione, che ha dei tempi tecnici diversi. Questo mia ha molto amareggiato, mi sono sentito fuori dalla categoria, nel senso che non si può fare così. Quelle poche volte in cui le testate sono andate a verificare le notizie che arrivavano – e arrivano – dal fronte, quasi mai corrispondevano completamente a come erano state dipinte dalla propaganda ucraina, che è diversa da quella russa. La propaganda ucraina, diffusa dai media italiani come se fosse roba nostra, ha uno scopo preciso: quello di “mostrificare” l’avversario per giustificare interventi economici, militari, di supporto generale oltre i limiti di quella che sarebbe la disponibilità morale e politica degli europei e degli americani. Non è una questione di poco conto. Questa teoria da terza elementare di aggrediti e aggressori non regge, chi conosce la storia degli ultimi 70 anni del nostro pianeta se ne rende conto. È di un’ingenuità mostruosa.

La tua attività giornalistica si è sempre caratterizzata per posizioni non allineate, per certi aspetti scomode…

Io non sono un giornalista alternativo, a me non interessa di niente e di nessuno quando faccio il giornalista. Non faccio l’educatore o il propagandista, a me interessa che venga raccontato o raccontare le cose senza guardare in faccia a nessuno, senza logiche di schieramento. Mi interessa banalmente che venga detta la verità.

Chi si mette contro la narrazione dei fatti – che si parli di Bucha, che si parli di Mariupol o di qualsiasi altro argomento (e torno a ricordare la tua attività sul caso di Garlasco, ma questa è un’altra storia) – viene quanto meno additato come filo-russo. Come rispondi a questa eventuale accusa?

 Mi viene da ridere. Secondo me il mondo non può essere diviso in filo-russi o filo-americani [in questo caso, filo-ucraini, ndr], ci sono delle alternative a questo modo di essere. Secondo me il vero problema, la molla che mi ha fatto iniziare a lavorare dal punto di vista tecnico su questo video, è stata la palese incongruenza di quanto raccontato e di quanto si poteva vedere nei video diffusi. E mi riferisco al carrarmato che spara sulla ciclista. Chiunque poteva vedere che la ciclista, in quelle immagini, si infilava in un conflitto a fuoco che era già in corso. Il primo carrarmato che si vede sta sparando prima che la ciclista compaia sulla linea del fuoco. Dire che è stato un omicidio deliberato, che si è sparato sulla ciclista per pura brutalità, è una vera follia. Non occorre essere filo-Putin per dire questo, basta guardare quello che viene proposto. Quello che mi fa imbestialire è che siamo arrivati a un livello di spudoratezza oltre i limiti della decenza. In generale, se si vede che “non è così”, perché tutti devono dire che “è così”? Non è accettabile. Quando proponi un prodotto informativo alle persone, stai vendendo, appunto, un prodotto. E in questo caso vendi un prodotto tarocco, sapendo che è tarocco. Dal punto di vista etico e deontologico è vergognoso, al di là dei contenuti della guerra. È un mancato rispetto nei confronti di chi legge quello che scrivi o di chi guarda quello che mandi in onda.

A questo punto sorge una domanda: perché questo filmato non l’hai proposto a Le Iene?

Perché credo che rispetto a questo genere di questioni contino le opinioni a livello personale. Sono sicuro che se glielo avessi proposto lo avrebbero accettato o quanto meno avrebbero accettato di discutere se mandarlo in onda o no, però non ho voluto coinvolgere una testata a cui tengo moltissimo in una mia battaglia.

Di quale battaglia si tratta?

Una battaglia per il giornalismo serio. Io immagino le conseguenze di questa mia presa di posizione e siccome ognuno deve rispondere personalmente delle proprie azioni, senza cercare la protezione del “fratello più grande”, ho deciso di fare per conto mio. La cosa importante del lavoro che ho fatto è che solleva una domanda e un dubbio.

Quali sarebbero?

Beh, abbiamo capito che c’è un cadavere [quello della ciclista, ndr] piazzato in una sorta di esposizione macabra. Quanti dei cadaveri che abbiamo visto esposti a Bucha hanno subìto la stessa sorte? Alcuni sicuramente erano già per terra, ma il problema è di fondo. Questa è una guerra in cui muoiono anche e soprattutto i civili perché non si guarda in faccia a nessuno o è una guerra in cui c’è un accanimento contro la popolazione civile? Non è che non cambi niente, anzi. Lo stesso problema si presenta quando si parla di fosse comuni: quando si dice “fossa comune” si sottintende non il problema del trovare un posto per seppellire molti cadaveri, ma un avvenuto massacro, come se le fosse fossero state scavate preventivamente all’uccisione di molte persone. Ho letto cose del tipo “ci sono fosse comuni con 9 mila cadaveri”. Se ognuno di questi 9 mila cadaveri ha un parente, un amico, un vicino di casa – e sono ovviamente numeri a ribasso – ci sono almeno 90 mila persone che cercano qualcuno. Non è possibile, la cosa avrebbe un’eco mille volte superiore. Questa strumentalizzazione delle parole, questo giocare sui detti e non detti, sulle falsità, è vergognosa. Non si può dire che una notizia sia falsa per partito preso, ma non si può nemmeno dare tutto per scontato.

Quale soluzione vedi a questa deriva mediatica, se di deriva si tratta?

Bisogna perdere tempo e investire per verificare e cercare il vero dove c’è, altrimenti si rende un pessimo servizio dal punto di vista dell’informazione. E la gente forma le proprie opinioni e fa le proprie scelte politiche o di schieramento in base alle informazioni. Le persone devono essere poste nelle migliori condizioni per poter fare queste scelte. E non è certo questo il modo.

Un’ultima, inevitabile domanda: pochi giorni fa il New York Times ha pubblicato un video in cui si vede una colonna di prigionieri spintonati sotto la minaccia delle armi. Prigionieri con tutta probabilità diretti verso un’esecuzione sommaria. Siamo a Bucha e questo ha infiammato ulteriormente il dibattito tra chi grida al massacro indiscriminato e chi, come te, non grida, ma cerca di analizzare. Posto che non è questo l’oggetto del tuo approfondimento, come ti poni di fronte a questo nuovo filmato?

Esatto, si tratta di due argomenti distinti. Il video della ciclista l’ho analizzato perché avevo gli elementi a disposizione. C’è un “prima”, un “durante” e un “dopo”, e questo mi ha permesso di fare il lavoro che si può vedere nel video. In questo caso, manca il contesto. Faccio un esempio, senza per questo voler sminuire la gravità della situazione, cerco solo di essere realista guardando quelle immagini: noi non sappiamo chi siano quegli uomini incolonnati; il video è girato con un telefonino, si sente l’audio delle voci di chi riprende e commenta ma non si sente rumore di spari; chi ci dice che quegli uomini non fossero dei disertori russi?

Non temi che il porsi queste domande possa apparire come una provocazione?

No, qui stiamo parlando di metodo. Il metodo giornalistico.

Non affidarsi alla pancia ma ai dati oggettivi. 

Esatto, in questo caso sono state tirate delle conclusioni in modo affrettato. Certo è che quando si spara e c’è la guerra è impossibile che non ci siano morti e azioni che rientrino nel novero delle atrocità, non si sta mettendo in dubbio questo. Per concludere, un’analisi di questo video – allo stato attuale – è impossibile. Magari il New York Times ha dell’altro materiale, non lo so. Insomma, per ora si può dire tutto e il contrario di tutto, ma di certo servirebbe un po’ di equilibrio. GIANLUCA ZANELLA

Ha un nome il macellaio di Bucha: ecco chi sarebbe. Federico Giuliani il 2 Maggio 2022 su Il Giornale.

Sergey Kolotsey, comandante di unità della Guardia nazionale russa, è il primo soldato di Mosca sospettato di aver condotto un massacro di civili a Bucha. Kiev: "Aiutateci a rintracciarlo".

Si chiama Sergey Kolotsey ed è il primo soldato russo, con nome e cognome noti, sospettato di aver condotto un massacro di civili a Bucha, in Ucraina. L'identikit dell'uomo è stato diffuso dalla procuratrice generale ucraina Iryna Venediktova sulla sua pagina Facebook.

Ricercato

Kolotsey è accusato dalla polizia e dai pubblici ministeri di Kiev di aver ucciso quattro uomini disarmati lo scorso 18 marzo e di aver torturato un altro civile il 29 dello stesso mese. I primi sarebbero stati ritrovati con le mani legati dietro la schiena ed evidenti segni di torture sul corpo. La quinta persona sarebbe stata costretta a confessare attività sovversive contro l'esercito di Mosca, dopo esser stata colpita dal militare con il manico del fucile.

I particolari sono stati raccontati su Telegram dall'ufficio del Procuratore generale. "È stato stabilito che il militare russo – si legge nel comunicato - ha costretto una vittima a confessare attività sovversive contro l'esercito russo. Per fare questo, ha picchiato l'uomo, in particolare con il manico del fucile. Fingendo un'esecuzione ha sparato vicino all'orecchio di un civile disarmato. Sono in corso verifiche per stabilire se è responsabile di altri crimini". Secondo quanto riportato dal Kyiv Independent, Kolotsey, durante i presunti crimini a lui imputati, ricopriva il titolo di comandante di unità della Guardia nazionale russa.

Foto e identikit del sospettato

La procuratrice Venediktova ha scritto un lunghissimo posto su Facebook, accompagnato da tre foto, nel quale ha fornito tutte le indicazioni necessarie per rintracciare il sospettato. La prima immagine, diventata uno dei simboli delle atrocità commesse a Bucha, mostra i corpi di alcuni civili uccisi e lasciati a terra, in via Yablunskaya, con le mani legate dietro la schiena. "Nella foto le vittime sono tre, mentre il quarto non è entrato nell'immagine. Tre ferite da fuoco alla testa. Il quarto uomo è stato colpito agli organi interni. Tuttie sono vittime degli invasori", ha scritto Venediktova.

La seconda foto ritrae Kolotsey, il comandante dell'unità dell'amministrazione del Servizio Federale della Guardia Nazionale della Federazione Russa regione di Ulyanovsk. L'uomo è ritratto all'interno di una posta bielorussa insieme ad alcuni colleghi militari. "I procuratori e la polizia di Bucha hanno scoperto che è stato questo soldato a uccidere quattro uomini disarmati il 18 marzo. Il 29 marzo ha torturato un altro civile costringendolo a confessare la finta attività contro l'esercito russo", ha commentato la procuratrice, che ha lo ha accusato anche di aver esercitato sui civili "una forma perversa di bullismo e intimidazione".

Indagini in corso

La terza immagine è invece un primo piano di Kolotsey, giubbotto scuro e penna in mano, intento a firmare un documento. "Sulla base delle prove raccolte, dell'esame alle vittime e del ritratto, i procuratori della Procura distrettuale di Buchansk hanno informato il Rosgvardíjc del sospetto di comportamento violento con la popolazione civile e di altre violazioni di leggi e dei costumi di guerra, unite ad uccisioni intenzionali", ha aggiunto la stessa Venediktova.

Infine l'appello finale a tutti i cittadini ucraini e non solo. "Se riconosci questo funzionario russo e hai prove del suo coinvolgimento in altre atrocità invia le prove al nostro hub warcrimes.gov.ua oppure contatta la Procura regionale di Kiev: 097-053-04-65, 097-838-31-87, 050-107-66-75; o la Procura del distretto di Buchan: 063-530-69-06". A quanto pare, la caccia all'uomo di Kiev è appena iniziata.

Bucha, il primo sospettato del massacro: «Io un criminale di guerra? Mai combattuto». Giusi Fasano, inviata a Kiev, su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2022.

«Voi siete fuori di testa». Sergei Kolotsey scrive dalla Bielorussia, ed è furente. Nega categoricamente: «Io non c’entro niente». E affida la sua difesa a un paio di post che diffonde sulla sua pagina VKontakte, la più grande rete social della Russia: «Mi è successa una cosa che all’inizio mi sembrava impossibile», attacca. Spiega che i blogger ucraini «postano dei video in cui legano il mio nome a presunti eventi successi a Bucha».

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina, in diretta

Di nuovo nega: «Voglio dire a quelli che usano queste informazioni contro me e la mia famiglia che io non ho niente a che fare con tutto questo. Non metto piede fuori dalla Bielorussia da più di due anni!!!». «Hanno fatto di me un criminale di guerra, ma io non ho niente a che vedere con le forze armate, non ho nemmeno prestato servizio nell’esercito...». 

Sergei Kolotsey ha 35 anni e da due giorni è «il primo identificato sospettato degli omicidi di Bucha», per dirla con le parole della severissima procuratrice generale ucraina Iryna Venediktova. Che lunedì sera ha postato su facebook il nome e cognome del militare svelando che è un «comandante della Guardia Nazionale Russa». Nel post anche due fotografie. «La polizia ha stabilito che il 18 di marzo Kolotsey ha ucciso quattro uomini disarmati» ha scritto la procuratrice, aggiungendo che nei giorni successivi «ha torturato e sottoposto un civile a una finta esecuzione». Le fotografie sono invece frame del video ormai famoso: quello all’interno del servizio di spedizione SDEK, a Mozyr (la città bielorussa di Kolotsey) nel quale si vedono uomini dell’esercito russo inviare a casa oggetti presumibilmente rubati in Ucraina. Lui, Kolotsey, stava spedendo in Russia il cofano di un’auto, rivela ancora la procuratrice. Si vede mentre lo impacchetta e lei isola anche un suo primo piano mentre guarda la telecamera. Non indossa abiti militari. Anche per quelle immagini però lui ha una spiegazione e invita a verificarla: «L’ho spedito in Russia, è vero. Ma l’ho venduto dopo aver pubblicato un annuncio di vendita prima dei fatti di Bucha. La procura ucraina incolpa chiunque spedisca pacchi in Russia?». Gli investigatori di Kiev hanno scritto nel loro rapporto che Kolotsey era originario di Mozyr, appunto, ed a Bucha era impegnato in combattimenti corpo a corpo. Che aveva lasciato la Bielorussia per la Russia ed era entrato in servizio lì. E che il filmato della spedizione è da considerarsi una prova del suo coinvolgimento. Le verifiche dei prossimi giorni diranno se hanno ragione loro — e magari si tratta di un mercenario che ha saccheggiato e ucciso con i russi e che ora sta semplicemente negando i fatti — oppure se la storia di Kolotsey è un clamoroso errore.

Le indagini e la procuratrice

Ma lei, Iryna Venediktova tira dritto e davanti a un muro di telecamere e taccuini convocati a Irpin, davanti alla Casa della cultura bombardata e bruciata, ribadisce sicura che «abbiamo identificato» il primo soldato dei massacri di Bucha. Numeri, considerazioni, crimini. La procuratrice risponde a tutte le domande. Putin? «Deve essere assolutamente processato, è il principale criminale di guerra del XXI secolo». I procedimenti penali aperti per presunti crimini di guerra, fa sapere, sono 9.158. E «purtroppo abbiamo motivi per aprire nuovi casi ogni giorno: per la morte di civili, i bombardamenti, la deportazione dei nostri cittadini e bambini nei territori occupati e nel territorio degli aggressori». Gli stupri: «La Russia usa la violenza sessuale come tattica di guerra». Poi la situazione a Irpin, dove sono stati trovati 290 corpi di civili uccisi dai russi: «Qui è concluso il primo step dell’inchiesta per i loro crimini. Sono stati sentiti finora 288 testimoni». È stata «documentata la fucilazione di civili da un carro armato». Pausa. Occhi bassi. Sembra che la procuratrice stia vedendo quel che dice: «Ci sono stati anche i casi di morte per fame».

I macellai di Bucha sacrificati al fronte. “Putin vuole far sparire i testimoni”. Daniele Raineri  su La Repubblica.it il 26 Aprile 2022.   

La 64esima brigata responsabile dei massacri e premiata da Mosca assedia gli ucraini a Kharkiv

KRAMATORSK - La 64esima brigata motorizzata accusata di avere commesso crimini di guerra a Bucha, vicino alla capitale Kiev, è stata mandata nei giorni scorsi su uno dei fronti dove i combattimenti sono più violenti, quello di Izyum, a nord della regione del Donbass, e ha già subito perdite pesanti. Le immagini che circolano, scattate da un drone ucraino, mostrano che la brigata è stata attaccata con successo dagli ucraini in un punto non specificato della regione.

Esercito decimato: cosa succede ai macellai di Bucha. Alessandro Ferro il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

La 64esima brigata russa accusata dei crimini di guerra compiuti a Bucha, è stata subito rispedita in Ucraina per combattere in Donbass: ecco qual è il motivo di tale scelta da parte di Putin.  

I soldati russi responsabili dell'uccisione di decine se non centinaia di civili Bucha, che hanno scritto una delle pagine peggiori dell'intero conflitto in corso in Ucraina, hanno ricevuto un trattamento speciale dal loro Zar. Soprannominati "macellai" per le azioni compiute e inconfutabili agli "occhi" impietosi di droni e telecamere che hanno filmato e fotografato i cadaveri nelle strade, si sono spostati adesso verso il Donbass che è il nuovo centro nevralgico del conflitto ma stanno iniziando a subire numerose perdite perché, anche laggiù, l'esercito ucraino è ben determinato a difendere il proprio territorio. Ma c'è dell'altro che li riguarda.

Il veloce rientro in Russia

Dopo aver completato la loro missione, infatti, la 64esima brigata russa ha fatto rientro in patria per un normale periodo di riposo. Nel frattempo, l'intelligence ucraina aveva reso noti i loro nominativi affinché fossero perseguiti e puniti. Come spiega Repubblica, l'Istituto per lo studio della guerra americano ha segnalato una cosa interessante: rispetto a tutte le altre brigate che, dopo le varie missioni, hanno goduto di un certo periodo di "stacco", loro sono stati immediatamente rispediti in Ucraina a combattere. Perché mai, proprio loro? La spiegazione è semplice e spietata: Putin li ha rispediti in guerra sapendo che avrebbero subìto delle perdite così da avere meno testimoni possibili qualora fossero stati chiamati a rispondere sui crimini di guerra compiuti a Bucha.

Il "premio" di Putin

Il presidente russo, però, non lascia nulla al caso: per congratularsi con i successi ottenuti in Ucraina, ha insignito la 64esima brigata con il titolo di "Brigata delle Guardie" che viene normalmente assegnata quando un esercito si dimostra particolarmente attivo su un fronte e ottiene importanti vittorie per la propria "bandiera", olte che per il "coraggio" dimostrato. Non solo, ma il condottiero della brigata è passato di grado: da tenente colonnello a colonnello. Quindi, dopo questa breve pausa di riposo in Russia, sono stati subito rispediti a Kharkiv, la zona Ucraina dove si tengono gli scontri più duri. Insomma, con tutti i reparti, battaglioni e brigate di cui dispone l'esercito russo, proprio a loro è toccato in sorte di proseguire il combattimento. E si sa che, più un esercito è stanco, maggiori possono essere le problematiche.

La protesta dei russi

L'agenzia ucraina Hromadske ha affermato che la notizia non è stata prese bene da quasi nessuno dei "macellai" di Bucha: le proteste per il rientro sul campo di battaglia hanno fatto scattare molti provvedimenti disciplinari. Oltre a quanto abbiamo già detto c'è dell'altro: sapevano che si sarebbero trovati di fronte gli ucraini della 93esima brigata chiamati "kholodnoyartsi", considerati tanto forti quanto il famoso reggimento Azov di Mariupol e un osso decisamente duro da trovarsi di fronte. Il quadro, quindi, è abbastanza chiaro: meno testimoni rimangono sugli orrori compiuti a Bucha e meglio è. Gli indizi e le prove ci sono tutti. L’Institute for the Study of War l'aveva detto: se vai a combattere sui fronti più "caldi", è normale subire delle perdite. Attenzione, la brigata russa non è stata sconfitta, è diretta verso sud a creare altri danni in Donbass ma non è più il gruppo compatto di un mese fa.

Francesca Donato, la «pasionaria» no euro e no vax che ora ha dubbi sul massacro di Bucha. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

Eletta deputata europea con la Lega, ne è uscita a settembre perché le sue posizioni contro il green pass non erano più accettate. Ora è tra chi non condanna Putin. 

Da no Euro a no vax fino a no Bucha, per Francesca Donato il passo è breve. L’europarlamentare eletta con la Lega (da cui è uscita «spontaneamente» nel settembre scorso per le sue posizioni No Green pass), dove è stata a lungo prima supportata e poi sopportata, è sempre al centro delle polemiche per le sue idee antagoniste. Stavolta è stata protagonista di uno scontro verbale durante l’assemblea plenaria del Parlamento europeo con la vicepresidente Pina Picierno (Pd). Donato è stata ripresa per aver avanzato forti dubbi sulla veridicità del massacro di Bucha da parte dei russi, accusando Kiev di non essere stata «né democratica né pacifica» nei confronti delle popolazioni russofone prima del conflitto.

Avvocato, 52 anni, nata ad Ancona da famiglia veneta, dopo aver vissuto in diverse città, nel 1990 ha sposato l’imprenditore palermitano Angelo Onorato e si è trasferita nel capoluogo siciliano. Ed è proprio nell’isola che è iniziata la sua «parabola» pubblica. Nel 2013 fonda l’associazione «Progetto Eurexit» che, come dice il nome stesso, si fa promotrice e sostenitrice di tesi favorevoli ad una uscita dell’Italia dall’area della moneta unica (e quindi anche dall’Europa). Le sue posizioni fanno discutere, bella presenza e parlantina sciolta unita ad un carattere battagliero ne fanno il personaggio ideale delle arene televisive. E infatti fioccano gli inviti. Finisce così all’attenzione di Matteo Salvini che la «arruola» come portabandiera degli euroscettici e la candida con la Lega (ma da indipendente) al Parlamento europeo nel 2014 nelle circoscrizioni Italia insulare e Nord-orientale. Il Carroccio non è ancora ai livelli che raggiungerà di lì a pochi anni e Donato raccoglie 6.000 preferenze, non poche per un outsider come lei, ma non sufficienti per essere eletta.

Il suo mantra allora recitava: «L’euro ha fallito la sua missione. L’eurozona va profondamente riformata, oppure smantellata concordemente per consentire la sopravvivenza dell’Unione Europea e lo sviluppo omogeneo dei paesi che la compongono. Se nulla di ciò verrà fatto, presto uno dei suoi membri sarà costretto ad uscire dall’euro per non fallire e l’intero sistema crollerà, con gravi danni per tutti». Il tutto con il contorno di slogan di facile presa, come questo: «MES: se lo conosci lo eviti». La posizione eterodossa nel tempo ne ha fatto un vero e proprio simbolo. E i risultati si sono visti in occasione del nuovo tentativo di approdare all’Europarlamento nel 2019. Questa volta, grazie anche ad una Lega ai suoi massimi livelli di consenso, eccola eletta con quasi 30 mila preferenze.

Quando è scoppiata la pandemia le tesi No Euro hanno lasciato il passo ad altre posizioni «minoritarie». La battaglia contro i vaccini le hanno regalato una nuova centralità. Lo schema si è ripetuto. Incurante di essere sprovvista di una cultura scientifica («Chi lo dice? Lo dico io...» la risposta più ricorrente), Donato è diventata il contraddittore privilegiato di virologi e scienziati nel tentativo di smontare le loro tesi, negando l’efficacia dei vaccini. Da un tal show all’altro, con assoluta disinvoltura e con la ferrea convinzione di essere depositaria di una verità negata dal cosiddetto «mainstream». La sua battaglia si è poi concentra sul green pass, uno strumento definito «liberticida». Per un po’ la Lega si è tenuta in linea con le sue posizioni. Più vicina a Salvini che a Giorgetti, per intenderci. Ma quando anche il segretario del Carroccio, di fronte all’evidenza della situazione, ha virato verso posizioni più prudenti, Donato è diventata una sorta di «corpo estraneo». Forse anticipando un’espulsione in arrivo, il 21 settembre scorso ha deciso di lasciare il gruppo della Lega e si è messa alla testa dell’associazione politica Rinascita Repubblicana.

Ora rieccola spuntare con nuove tesi «negazioniste». Come molti no green pass si è ritrovato tra i sostenitori (o comunque non oppositori) di Vladimir Putin. E quando sono uscite le immagini della strage di Bucha Donato non ha avuto esitazioni a mettere in dubbio i racconti e le testimonianze di chi ha visto le vittime con i propri occhi. Ancora una volta controcorrente, ancora una volta fuori dal coro. Una posizione o una rendita di posizione?

Da la7.it il 6 aprile 2022.

Massacro di Bucha, Alessandro Di Battista a diMartedì: "La mia opinione non cambia guardando queste immagini raccapriccianti, non ricordo una guerra che non sia stata caratterizzata da crimini contro l'umanità. Il tema è: vogliamo provare ad uscirne? Inviare

armi in Ucraina è pericoloso perché potrebbe prolungare il conflitto, tutto a svantaggio del popolo ucraini, e incattivire le forze russe" 

Il dibattito tra Alessandro Di Battista e Beatrice Lorenzin: "Ha votato a favore della guerra in Libia, oggi è un Paese che non esiste", "Lei sosteneva Maduro, oggi la realtà è che la Russia ha invaso l'Ucraina e non la fermi con i buoni pensieri" 

Di Battista: “Contesto il fatto che l’Unione europea non stia parlando con una voce sola per consentire a Putin di portare a casa una via d'uscita diplomatica. Proviamoci, altrimenti c’è il rischio di una terza guerra mondiale"

"Kiev paga 25 dollari a testa per fingersi morto in strada". Nino Materi l'8 aprile 2022 su Il Giornale.

Per capire come mai la maggioranza dei russi sia favorevole all'«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina, bisogna partire dalle «notizie» che ai russi vengono date - anzi, negate - dai media di regime. 

Si tratta - contro ogni evidenza fattuale - di un capovolgimento comunicativo della realtà, dove le parti si invertono: il governo ucraino accusato di «diffondere fake news»; l'esercito della «Z» descritto come «vittima». È uno scenario evidentemente falso, ma fedele alle dinamiche propagandistiche della «controinformazione». Va quindi letta in tale ottica la «rivelazione» di ieri dell'ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, la cui intervista a Newsweek è stata ripresa dalla Tass. Dichiara Antonov: «Il regime di Kiev sta preparando un altro contenuto provocatorio sulla morte di civili nella regione di Kharkov, presumibilmente come risultato delle azioni delle forze armate russe, e le persone vengono pagate 25 dollari per partecipare alle riprese inscenate».

E qui torna il campo il tema della «fiction di guerra» che, pure nel nostro Paese, fa discutere. Emblematico il caso-Carlo Freccero: personaggio che, fino a prima del conflitto, veniva considerato dall'intellighentia un guru alla McLuhan e che ora, dopo aver sparato tesi «non convenzionali», è stato degradato a scemo del villaggio globale. Sta di fatto che tanto l'arma del «medium» quanto quella del «messaggio» in questo conflitto giocano un ruolo-chiave. Altrimenti l'ex (ex?) attore Zelensky non avrebbe reclutato nel suo staff presidenziale gran parte della squadra dello star system che ha sancito il suo trionfo nel mondo dello show (prima artistico, poi politico). Alla luce di ciò le parole di Antonov potrebbero assumere un riflesso particolare: «Le autorità ucraine stanno intensificando una campagna per diffondere accuse deliberatamente false contro i militari russi, il che solleva dubbi sulla sincerità delle dichiarazioni di Kiev di voler risolvere la crisi attraverso la diplomazia». E poi: «Ogni giorno, le autorità ucraine intensificano la loro campagna di disinformazione anti-russa, lanciando accuse infondate di presunte atrocità e crimini di guerra delle forze armate russe. A giudicare dalla retorica, la leadership dell'Ucraina è guidata non tanto dalla preoccupazione per la popolazione civile quanto dal desiderio di assicurarsi l'immagine di martire e screditare il nostro paese».

Antonov ha inoltre ricordato «che il 31 marzo, il sindaco della città di Bucha ha dichiarato il ritiro delle truppe russe e non ha detto una parola sui residenti colpiti. Le prime accuse sono apparse sui media occidentali solo il 3 aprile. Sembra improbabile che nessuno abbia notato i corpi morti che giacevano sulle strade per 4 giorni». Infine il diplomatico ha assicurato di «avere le prove dei terribili crimini pianificati dalle autorità ucraine nelle regioni di Sumy e Kiev».

Intanto il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha convocato l'ambasciatore russo a Parigi, Alexey Meshkov, per «le oscenità» e per il «messaggio provocatorio dell'ambasciata russa in Francia sulle atrocità di Bucha», definite una «provocazione». In particolare l'ambasciata russa in Francia ha pubblicato una foto su Twitter affermando di mostrare un «teatro di posa» di ucraini che inscenano uccisioni di civili a Bucha.

Di certo il «richiamo» e «l'espulsione» di personale diplomatico dai paesi europei (con in testa l'Italia) non renderà meno accidentata la strada verso la pace.

Le foto della guerra: chi dubita, offende. Le immagini dei cadaveri di Bucha: la guerra vicina e condivisa - ripresa da telecamere, satelliti, cellulari - è una novità assoluta, e sta lasciando segni nelle nostre vite e sulle nostre teste. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

La guerra vicina e condivisa - ripresa da telecamere, satelliti, cellulari - è una novità assoluta, e sta lasciando segni nelle nostre vite e sulle nostre teste. Questa rubrica si chiama Fotosintesi: proviamo a sintetizzare queste due immagini, diffuse dalla France Presse, una delle agenzie più affidabili del mondo. 

Mostrano i cadaveri lungo la strada a Bucha, vicino Kiev. Erano lì il 2 aprile, quando la città è stata riconquistata dagli ucraini; c’erano già il 19 marzo, durante l’occupazione russa (il satellite non mente). Un eccidio. Discussione chiusa? No, come sapete. I social e i dibattiti televisivi sono pieni di dubbiosi, che insinuano si tratti di una messa in scena. Qualcuno è in malafede, certo (i troll russi non dormono, e a Mosca possono ricattare tanta gente). Ma gli altri? Cosa devo pensare quando, davanti all’abominio di Bucha, alcuni lettori scrivono «Dove sta la verità, a chi credere?» o «Le colpe devono essere equamente spartite fra la Russia di Putin, l’Ucraina e la Nato?». 

Non sono isolati: l’Italia è piena di persone così. Alcuni colleghi hanno provato a fornire una spiegazione. Conformismo, suggerisce Antonio Polito. Indifferenza, scrive Massimo Gramellini. Cialtroneggine e vanità, sospetta Marco Imarisio. Intelligenza, mi permetto di aggiungere io. Una intelligenza fastidiosa e insidiosa. Quella che considera banali l’evidenza e il buon senso. Quella che, anche davanti all’orrore evidente, gode a insinuare, contestare, dubitare. Farnetica, ed è convinta di ragionare. Pensa di aiutare il dibattito, e offende i morti. Auguriamoci che non arrivi mai un regime, in Italia. Perché queste persone lo giustificherebbero, in attesa di diventarne le prime vittime.

Cos’è successo davvero a Bucha? Fatti e ipotesi di un massacro. Mauro Indelicato, Roberto Vivaldelli su Inside Over il 6 aprile 2022.  

Cosa è successo a Bucha? È la domanda che di più sta riecheggiando in questi ultimi giorni. La cittadina, una delle tante che compongono il grande nucleo urbano di Kiev, è stata ripresa dagli ucraini a inizio aprile. C’è discordanza sulla data esatta: i russi sostengono di aver abbandonato Bucha il 30 marzo, gli ucraini invece rendono noto che nella cittadina si combatteva ancora venerdì primo aprile.

Dal 2 aprile hanno iniziato a circolare video e foto di civili uccisi all’interno di Bucha. Per gli ucraini non c’è dubbio: si tratta di gente uccisa dai russi. Le accuse a Mosca sono molto pesanti: l’esercito occupante avrebbe premeditato, secondo Kiev, un omicidio di decine di civili e avrebbe cercato di nascondere le prove gettando i morti in fosse comuni. La Russia ha smentito e la sera del 4 aprile ha presentato, in una conferenza stampa tenuta dall’ambasciatore russo all’Onu, Vasily Nebenzya, la propria versione dei fatti: per Mosca a Bucha è andata in onda una messinscena ucraina volta a provocare la reazione dell’occidente.

Dove sta la verità? Si è davanti a un grave massacro e a gravi violazioni dei diritti umani? Oppure si è davanti a un false flag?

La battaglia di Bucha

Per rispondere, occorre in primo luogo contestualizzare le operazioni belliche avvenute a Bucha. La cittadina si trova nel quadrante nordoccidentale della periferia di Kiev. Amministrativamente appartiene all’oblast (corrispondente a livello amministrativo alla nostra regione) di Kiev ed è a circa 20 km dal confine della municipalità della capitale.

Il 24 febbraio 2022, nello stesso giorno dell’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina, sono state avviate le azioni volte ad accerchiare Kiev. Truppe russe aviotrasportate sono state catapultate presso l’aeroporto di Gostomel, situato nell’omonima cittadina confinante con Bucha. A questo punto proprio Bucha ha assunto, nell’economia della battaglia per Kiev, un’importante valenza strategica. Per i russi era essenziale conquistarla per avanzare verso Irpin, ultimo comune prima del territorio di Kiev. Viceversa, per gli ucraini difendere Bucha significava infliggere un duro colpo ai piani russi.

Le prime notizie di un’avanzata russa nella cittadina sono arrivate il 27 febbraio. A darne conto è stato il giornalista ucraino Andriy Tsaplienko. I russi hanno usato l’artiglieria, forti anche delle truppe arrivate dal confine bielorusso. Il giorno successivo si è avuta una prima parziale occupazione da parte russa. Tuttavia la battaglia è apparsa subito cruenta. Non è un caso che il primo marzo si parla di Bucha come “cimitero dei mezzi russi”. Una grande quantità di blindati e veicoli sono stati colpiti dagli ucraini e abbandonati dai soldati di Mosca negli ingressi principali della cittadina.

Il 3 marzo gli ucraini sono riusciti a sferrare un duro contrattacco, rientrando nel centro cittadino. A dimostrarlo è una foto in cui dei soldati di Kiev issano una bandiera ucraina nell’edificio che ospita il consiglio comunale. Il nuovo attacco russo ha provocato una fase di stallo durata nove giorni. In questo frangente Bucha è stata bersagliata dalle forze di Mosca con l’artiglieria e con raid aerei. È in questo momento che la cittadina ha subito i maggiori danni. Soltanto il 12 marzo la situazione è apparsa più chiara, con i russi in grado di rivendicare la conquista definitiva di Bucha. Come detto, tra il 30 marzo e il 2 aprile la cittadina è stata poi abbandonata e lasciata in mano agli ucraini.

Il seppellimento dei corpi del 13 marzo

Il periodo compreso tra il 4 marzo e il 12 marzo è stato devastante per Bucha. Continui raid e scontri lungo la linea del fronte hanno provocato la distruzione di molti edifici e la morte di diversi cittadini. Il 14 marzo la Bbc ha catalogato Bucha tra le città più distrutte dalla guerra in Ucraina, paragonandola anche a Mariupol. Nell’articolo del network britannico si è fatto riferimento, per comprendere meglio la situazione, alla necessità della stessa cittadinanza di Bucha di seppellire molti civili dentro una fossa comune.

“Quattrocento miglia a nord-ovest, ai margini della capitale Kiev, è stata scavata una fossa comune vicino a una chiesa nella città di Bucha – si legge nell’articolo – a dichiararlo è stato il parlamentare locale Mykhailyna Skoryk-Shkarivska. La buca contiene più di 60 corpi”. La sepoltura dei cadaveri risalirebbe al giorno precedente all’articolo, ossia al 13 marzo.

Le immagini satellitari rese note dal New York Times

Dunque è possibile, tramite queste informazioni, ricostruire l’andamento del conflitto a Bucha. La guerra già a metà marzo aveva distrutto la cittadina e aveva creato tante vittime tra i civili. Vittime però, almeno fino al 13 marzo, non figlie di un’azione premeditata da parte di uno dei due eserciti, bensì vittime provocate dalla forte intensità che il conflitto, via terra e via cielo, ha assunto da queste parti. Nel servizio della Bbc non c’è alcun riferimento a esecuzioni sommarie, nemmeno risalenti al primo breve periodo di occupazione russa.

Secondo il New York Times qualcosa è cambiato successivamente. Il quotidiano statunitense il 4 aprile ha pubblicato delle immagini satellitari che attesterebbero la presenza di vittime nelle strade di Bucha. Le immagini risalirebbero al 19 marzo, momento in cui sono presenti in città le forze di Mosca. Per i giornalisti statunitensi questa sarebbe la prova delle responsabilità russe nella morte di numerosi civili.

È impossibile però al momento stabilire cosa realmente sia accaduto. Se cioè i morti per le strade di Bucha sono civili vittime dei combattimenti della seconda settimana di marzo e che non hanno trovato posto nemmeno nelle fosse scavate dai cittadini in precedenza. Oppure se si tratta di persone uccise a sangue freddo durante il secondo periodo di occupazione russa. Trovare una risposta per adesso non è semplice.

Inoltre poi vien da chiedersi come mai i cadaveri sono rimasti, secondo la ricostruzione del New York Times, per due settimane senza sepoltura. Come mai cioè né gli occupanti russi e né i civili abbiano in seguito provveduto, per motivi igienici e in primis ovviamente etici, a trovare zone in cui seppellire i morti.

Il video del sindaco di Bucha del 31 marzo

L’azione russa su Kiev intanto nell’ultima decade di marzo si è definitivamente arenata. Le truppe di Mosca si sono fermate a Irpin e lì sono state di fatto bloccate dai difensori ucraini. Lunedì 30 marzo, durante i colloqui di Istanbul, per la prima volta la Russia ha parlato di un riposizionamento delle truppe, equivalso poi a un vero e proprio totale ritiro dall’area attorno Kiev.

Il 31 marzo il sindaco di Bucha, Anatoliy Fedoruk, ha annunciato in un video su Twitter la fine dell’occupazione russa e il rientro dell’esercito ucraino nella cittadina. Per il governo russo, questa sarebbe la prova a discolpa del proprio esercito. Così come spiegato dall’ambasciatore russo all’Onu Vasily Nebenzya, il primo cittadino Fedoruk non ha fatto cenno né a fosse comuni e né a cadaveri per le strade. Segno di come, secondo Mosca, a Bucha le prove delle possibili atrocità russe sono state fabbricate in seguito.

Anche qui però sorgono delle domande. Perché dal canto loro gli ucraini hanno dichiarato che fino al primo aprile a Bucha si è combattuto. I russi, nella ritirata, avrebbero continuato a sparare per coprire la retromarcia del proprio esercito verso la Bielorussia. Possibile quindi che il 31 marzo non tutto il territorio di Bucha fosse nelle mani di Kiev e che quindi gli ucraini ancora non avevano contezza della situazione in città?

1-2 aprile: cosa succede?

Cos’è accaduto venerdì 1 e sabato 2 aprile a Bucha? Come ha sottolineato lo storico Jason Michael McCann su Standpoint Zero, il New York Times era a Bucha sabato con il fotografo Daniel Berhulak e non ha inizialmente riportato la notizia di un massacro. Il Nyt afferma che il ritiro delle truppe russo è stato completato sabato, quindi due giorni dopo l’annuncio del sindaco, e che i russi hanno lasciato “dietro di loro soldati morti e veicoli bruciati, secondo testimoni, funzionari ucraini, immagini satellitari e analisti militari”. Sempre il Nyt sostiene che i giornalisti hanno trovato i corpi di sei civili, anche se non spiega come sarebbero morti. “Non era chiaro in quali circostanze fossero morti, ma l’imballaggio scartato di una razione militare russa giaceva accanto a un uomo che era stato colpito alla testa”, sottolinea il giornale. Cita inoltre un consigliere di Zelensky, che afferma: “I corpi di persone con le mani legate, che sono state uccise a colpi di arma da fuoco dai soldati, giacciono nelle strade’, ha detto su Twitter il consigliere, Mykhailo Podolyak. “Queste persone non erano nell’esercito. Non avevano armi. Non rappresentavano una minaccia”.

È possibile che sabato non fosse ancora emersa l’intera portata di quanto era avvenuto, e che nemmeno il sindaco ne fosse a conoscenza due giorni prima, anche se le foto mostrano molti dei corpi all’aperto per le strade del paese. Non esattamente un dettaglio di poco conto. Qualcosa accade poi il 2 aprile, poche ore prima che il massacro venga portato all’attenzione dei media nazionali e internazionali. Il sito Лівий берег del Gorshenin Institute, annuncia che “le forze speciali hanno avviato un’operazione di sgombero nella città di Bucha, nella regione di Kiev, che è stata liberata dalle forze armate ucraine. La città viene ripulita da sabotatori e complici delle forze russe”.

Altri fonti ucraine confermano la notizia: “La Guardia nazionale, le forze armate dell’Ucraina e le forze di difesa territoriale continuano a ripulire gli insediamenti nei distretti di Bucha, Vyshhorod e Brovary della regione di Kiev. Il territorio è minato, distrutto. Ci sono gruppi di sabotaggio e ricognizione nemici. Lavoro coordinato e accurato di artiglieri, mortai e altri difensori decine di unità di equipaggiamenti bruciati e centinaia di soldati russi morti – il prezzo che il nemico ha pagato per le nostre città distrutte, per aver ucciso militari ucraini e civili, mutilato la vita di migliaia di residenti di Kiev”, si legge nella  stessa nota. Il giorno prima, Ekaterina Ukraintsiva, in rappresentanza dell’autorità comunale, è apparsa in un video informativo sulla pagina Telegram di Bucha con indosso tute militari e seduta davanti a una bandiera ucraina per annunciare “la pulizia della città”. Ha informato i residenti che l’arrivo del battaglione Azov non significava che la liberazione fosse completa (anche se i russi si erano già ritirati ) e che doveva essere eseguita una “pulizia completa”. A cosa si riferiva?

Sempre il 2 aprile la polizia ucraina gira un video per documentare la liberazione della città nel quale non si vedrebbero morti per le strade. La domanda sorge spontanea: come mai non si notano cadaveri per strada? Una delle ipotesi è che nel video non venga inquadrato il quartiere dov’è avvenuto il massacro e che le autorità ucraine si siano accorte soltanto dopo di ciò che era effettivamente successo qualche chilometro più in là.

A questo punto, tra il pomeriggio e la sera di sabato 2 aprile abbiamo però una certezza: le truppe del battaglione Azov e le forze speciali del reggimento Safari sono all’interno della città e stanno conducendo un’operazione speciale di pulizia dei “sabotatori e complici” degli invasori russi, come accennato poc’anzi. Anche di questo elemento ci sarebbe una prova video: il giorno prima, come scrive sempre Capuozzo sui social, “un neonazi che si fa chiamare Botsman posta su Telegram immagini di Bucha. Dice solo di aver trovato un parlamentare, in città, non parla di morti. Ma lo si sente rispondere a una domanda: ‘Che facciamo con chi non ha il bracciale blu?’. “Sparate, cazzo”, risponde. Il video è stato condiviso dai canali filo-russi su Twitter e su Telegram, dunque anche in questo caso la cautela è massima: tuttavia, il dialogo – come InsideOver ha potuto appurare grazie a un interprete – è autentico. 

Altro elemento interessante: negli stessi giorni, sui gruppi facebook cittadini alcuni utenti segnalano che i russi si sarebbero camuffati da civili per tentare di scappare. Post che si perdono fra le tante segnalazioni di persone che cercano i propri cari scomparsi.

Altri utenti chiedono se servano “volontari armati” per “setacciare” le periferie di Bucha: 

La posizione del Pentagono

Sicché il 4 aprile prende posizione anche il Pentagono. E non formula un’accusa perentoria come ci si potrebbe immaginare. Anzi. L’esercito americano, riporta l’agenzia Reuters, “non è in grado di confermare in modo indipendente i resoconti ucraini delle atrocità commesse dalle forze russe contro i civili nella città di Bucha”, ma “non ha nemmeno motivo di contestare i resoconti”, ha affermato un alto funzionario della difesa statunitense lunedì. “Stiamo vedendo le vostre stesse immagini. Non abbiamo alcun motivo per confutare le affermazioni ucraine su queste atrocità – chiaramente, profondamente preoccupanti”, ha detto il funzionario, parlando in maniera anonima. Nel frattempo, compaiono sulla stampa le prime tragiche testimonianze. Sergiy Prylucki, residente di Bucha, racconta all’Adnkronos che “durante l’evacuazione abbiamo visto l’orrore. Auto con all’interno corpi di persone morte. Distruzione. Quello che voi giornalisti state documentando non è avvenuto in questi ultimi giorni con la ritirata dei russi. Ma giorno dopo giorno, dal 24 febbraio“. Altre vengono raccolte dai giornalisti sul campo.

Questo è tutto ciò che sappiamo, ad oggi. Oltre l’orrore, sembra che nulla si possa al momento escludere. Come abbiamo visto, esistono delle prove che sembrerebbero inchiodare i russi alle loro responsabilità – immagini satellitari, testimonianze – ma anche documenti e tempistiche che sembrano suggerire altre ipotesi. È normale sia così: c’è bisogno di tempo, e forse neanche quello potrebbe bastare per appurare la verità al di sopra di ogni ragionevole dubbio.

La guerra delle fake news: perché la disinformazione non si ferma. Paolo Mauri su Inside Over il 6 aprile 2022.

Quanto sta accadendo in questi giorni in merito ai massacri (veri o da verificare) di civili compiuti dai russi durante il conflitto in Ucraina, apre una nuova finestra di indagine sulla reale possibilità di mettere in atto pratiche di mascheramento e disinformazione durante una guerra moderna.

La Russia ha una lunga tradizione di metodologie di mascheramento e disinformazione sin dai tempi dell’Unione Sovietica: maskirovka e dezinformatsiya sono due strumenti di quelle che vengono definite “misure attive” (aktivnye meropriyatiya) che vengono messe in pratica per condurre operazioni in quella che viene definita “zona grigia”, ovvero in una situazione conflittuale che non prevede apertamente l’uso dello strumento militare, oppure che lo prevede solo in modo molto limitato e spesso senza ufficialità in modo da avere sempre la possibilità di avere una negazione plausibile.

Ma la dezinformatsiya, così come la maskirovka, prosegue anche durante un conflitto convenzionale come quello che stiamo vedendo in Ucraina. Due esempi lampanti di disinformazione sono l’articolo di propaganda pubblicato su Ria Novosti ad opera del politologo Timofey Sergeytsev, che arriva a distanza di quasi un anno di un altro in cui viene usata la stessa retorica “denazificante”, e i documenti prodotti dal Ministero della Difesa russo che evidenzierebbero la presenza di armi biologiche fabbricate col placet e la consulenza scientifica degli Stati Uniti in Ucraina. Mentre per il primo caso la natura propagandistica dell’articolo è talmente evidente che è possibile farlo rientrare in quella campagna ideologica volta a giustificare il conflitto sul fronte interno con motivazioni pseudostoriche e capziose, nel secondo caso i documenti sui laboratori biologici, benché si possa loro concedere il beneficio del dubbio in merito all’autenticità o meno, sembrano comunque essere il classico esempio di “misura attiva” atta a fuorviare l’opinione pubblica estera generando il caso mediatico internazionale.

Viene pertanto da chiedersi se, nell’era dei satelliti e delle riprese video “in diretta” effettuate da droni o osservatori casuali armati di smartphone, sia ancora possibile fabbricare “disinformazione” di livello pari a quella data da semplici documenti cartacei artefatti.

Nell’epoca digitale si è portati a pensare che sia più difficile creare una “notizia falsa”: un video ripreso con un telefono cellulare, un’immagine satellitare di un operatore commerciale (open source) oppure la stessa possibilità di geolocalizzare un evento fanno ritenere che sia impossibile distorcere la realtà oppure inventare un fatto completamente.

Proprio l’alto livello tecnologico raggiunto, però, è quello che permette di confezionare “da zero” un fatto da usare per la disinformazione. Pensiamo solamente a quanto accaduto coi numerosi video degli attacchi aerei che hanno sommerso il web in queste settimane di guerra: alcuni di essi (in realtà molto pochi) erano solamente degli spezzoni di videogiochi in altissima risoluzione. Questo ha contribuito a gettare ombre sull’autenticità di tutti i video apparsi, anche quelli che, dopo attenta analisi, si sono dimostrati veri. Spesso sono anche comparsi video di conflitti precedenti, rilanciati dai media occidentali senza aver fatto un adeguato – e lungo – controllo online, mentre altre volte la geolocalizzazione del filmato non è stata possibile ma si è comunque presa “per buona” la fonte.

Risulta chiaro quindi “il vizio” che si affianca al pericolo dell’uso spregiudicato di videoriprese provenienti da fonti terze per documentare un conflitto: siamo portati a definire come reale quello che più si avvicina alla nostra opinione/ideologia rifiutando tutto quanto se ne discosta e bollandolo come “falso” anche quando non lo è. Il pericolo quindi è quello di un’informazione “di parte”, inesatta e fuorviante che viene sfruttata dalle parti belligeranti secondo i propri fini propagandistici.

La stessa geolocalizzazione di un video, se non fatta da personale esperto in grado di dimostrare la metodologia usata per farla, è del tutto inefficace per lo scopo della ricerca “della verità”, e, anzi, diventa un’arma a doppio taglio: si corre il rischio di essere smentiti nella metodologia andando così a inficiare la veridicità di quanto ripreso. Gli stessi video, siano essi provenienti da un drone commerciale o da uno smartphone, possono essere ritoccati con software di grafica di altissimo livello per nascondere o creare particolari fondamentali, quindi, ancora una volta, le cosiddette fonti OSINT (Open Source Intelligence) rappresentate da osservatori casuali vanno attentamente vagliate. Le stesse fotografie satellitari pubblicamente diffuse, se provenienti da operatori commerciali che negli ultimi anni stanno ritagliandosi una nicchia di mercato importante, non sono garanzia di veridicità: innanzitutto la loro risoluzione è inferiore rispetto a quelle catturate dagli operatori militari, in secondo luogo la datazione può essere cambiata arbitrariamente e il pubblico, così come il giornalista, difficilmente è capace di riconoscere questo artificio. Due fotografie satellitari scattate a pochi giorni di distanza, ad esempio, potrebbero essere facilmente scambiate se non si è in grado di avere un record fotografico che mostri l’evoluzione temporale quotidiana del luogo ripreso, e qualora persistano dubbi sulla datazione (che può essere artefatta per il grande pubblico) sarebbe necessario comunque affiancare osservazioni certificabili da parte di personale o strumenti in loco, in grado di confermarne l’andamento nel tempo (ad esempio video o fotografie di strumenti ottici di sorveglianza).

Questo non significa che si debba sempre dubitare di tutto: le risorse utilizzate dagli Stati, se attivate, sono in grado di dare un ragionevole grado di certezza, ma bisogna sempre considerare che tali risorse possono essere utilizzate per “confezionare” notizie false o parzialmente tali da dare in pasto all’opinione pubblica, quindi, nel caso di crimini di guerra, è preferibile un atteggiamento prudente finché non vengono prodotte prove inconfutabili.

Il livello estremo del negazionismo. Francesco Maria Del Vigo il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

No, non ne siamo usciti migliori dal Covid. La giaculatoria che, con inspiegabile e fastidioso ottimismo, ci ripetevamo quotidianamente era solo una balla. Si è schiantata al suolo.

No, non ne siamo usciti migliori dal Covid. La giaculatoria che, con inspiegabile e fastidioso ottimismo, ci ripetevamo quotidianamente era solo una balla. Si è schiantata al suolo. Ne siamo usciti peggiori: spaventati, impauriti, divisi sempre in tifoserie opposte, ossessionati dal complotto permanente, pronti a negare l'evidenza in nome di chissà quale macchinazione sconosciuta che si muove sopra le nostre teste, predisposti ad accettare la più illogica delle fake news piuttosto che la più banale, semplice - ma dura - delle verità. Perché davanti alla vertigine dell'abisso, dell'incomprensibile, del non prevedibile - che si tratti di una pandemia o di una guerra a pochi passi da casa nostra - è più facile aggrapparsi ai maniglioni antipanico dei vari complottismi che prendere atto della realtà. Meglio attaccarsi al salvagente di un pensiero debole che dà manforte ai debolissimi, uno dei tanti sul mercato. Altro che «grande reset», questa è la «grande semplificazione», che divide tutto in due e ammazza sfumature e dibattito. È più comodo e tranquillizzante pensare che sia tutto falso, che non esista quel maledetto virus che ha ammazzato centinaia di migliaia di persone e che non esistano nemmeno loro, i morti. Così come non esistono i cadaveri trovati due giorni fa a Bucha, un sobborgo di Kiev. Centinaia di corpi senza vita, freddati con un colpo alla testa, con le mani legate dietro la schiena, il volto esanime che sbuca da una fossa comune, dentro i sacchi neri gettati come immondizia nelle buche del terreno. Tutto falso. Tutto artefatto. Tutto finto. Le immagini del satellite? Taroccate. Le centinaia di foto? Ritoccate. I racconti degli inviati? Romanzi di pennivendoli al servizio del sistema. Viviamo nell'era del Photoshop permanente che come un paio di occhiali ci fornisce una realtà diversa, più accomodante. Solo che non è una realtà aumentata, ma diminuita. Perché privata del vero e delle sue sfumature. Le vecchie fette di prosciutto davanti agli occhi - nell'era vegan - sono diventate dei filtri Instagram che rimuovono chirurgicamente quello che non si vuole vedere. Così ora si negano i massacri e tra poco si negherà anche l'esistenza della guerra, come se fosse un grande Risiko in scala 1:1. Dai, se l'allunaggio è stato girato cinquant'anni fa in uno studio di Hollywood vuoi che non si possa mettere in scena un conflitto nel 2022? Con la «rimozione» del massacro di Bucha c'è stato l'aggiornamento del sistema operativo del negazionismo del Covid: siamo arrivati al livello «pro». Coltivare il dubbio è un esercizio di democrazia fondamentale, sempre. Negare i fatti è un allenamento al totalitarismo e un favore di servitù agli autocrati.

Cacciari: «In guerra le fake news sono la regola. Per difendersi bisogna studiare». È bufera sulla Commissione guidata da Freccero e Cacciari che ha definito alcune immagini dell'Ucraina «materiale propagandistico». Il Dubbio il 4 aprile 2022.

«Che le fake news, al pari della propaganda, vengano utilizzate nei contesti di guerra come strumenti per pilotare l’opinione pubblica e le decisioni non è una novità. È sempre avvenuto». Lo dice a LaPresse il filosofo Massimo Cacciari, in merito alle immagini dei civili ucraini massacrati a Bucha, laddove la Russia nega ogni coinvolgimento parlando di foto e video “costruiti a tavolino da Kiev a beneficio dei media occidentali”.

Cacciari fa parte della commissione Dubbio e Precauzione, movimento composto da filosofi, scienziati e giuristi, di cui è membro anche Carlo Freccero, al centro di una polemica in queste ore perché accusato di aver definito “materiale propagandistico” alcune immagini riferite al conflitto in Ucraina, come quelle del bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol. «Quando ci si trova di fronte ad alcune immagini chi le guarda non può sapere se sono vere, attendibili o palesemente false e costruite a scopo propagandistico», prosegue il filosofo. «Dalle manipolazioni non c’è modo di difendersi. L’unica possibilità è studiare, comprendere le ragioni alla base delle varie dinamiche, e poi affidarsi al proprio ragionamento politico», aggiunge Cacciari che sottolinea che «ci sono alcune verità assodate» come «il fatto che qui ci sia un soggetto aggressore e uno aggredito».

Tommaso Labate per corriere.it il 5 aprile 2022.

«Bisogna essere fuori dal mondo per non capire che siamo di fronte a una sconfitta strategica della Russia».

Professor Cacciari, quindi secondo lei Putin ha perso?

«Chi può dirlo? Ma certo ha sbagliato completamente i calcoli. Mi pare chiaro che si aspettasse una resa del governo ucraino alla sola vista dei carrarmati del Cremlino. Così non è stato. Quanto può resistere la Russia rispetto a sanzioni che pesano tantissimo? A questo punto non rimane che auspicare un cambio di direzione politica da parte di Mosca». 

Da parte di Putin stesso o di Mosca in generale?

«Se Putin non ha cambiato idea fino a oggi, dubito che lo faccia domani».

Biden ne ha chiesto l’incriminazione per crimini di guerra.

«Sparate senza senso. Scusi, come può arrivarci Putin a un processo di fronte al Tribunale internazionale de L’Aja? O perché c’è un golpe a Mosca, qualcuno lo rovescia, e a questo punto sarebbe tutto da vedere che chi lo rovescia poi lo consegna a un tribunale internazionale; oppure com’è successo con Milosevic, la Nato bombarda Mosca come ha fatto con Belgrado, lo cattura e lo porta alla sbarra. Stiamo parlando di cose fuori dalla realtà. I tribunali che processano per crimini contro l’umanità sono soltanto i tribunali dei vincitori».

Continua a respingere l’equazione Putin uguale Hitler?

«Continuo a respingerla perché è una totale idiozia pensare che Putin sia come Hitler e la Russia come la Germania. Mi rifiuto anche solo di riflettere un secondo in più su una risposta a una domanda priva di ogni senso storico. Anzi, di ogni buon senso».

Lei si è detto contrario all’invio delle armi in Ucraina...

«Attenzione: io sono contrario all’aumento delle spese militari di Paesi che non hanno una comune politica di sicurezza né una comune difesa. Aumentare le spese per armamenti in queste condizioni è pura follia. Che bisogno c’è di innalzare le spese militari quando l’Unione europea non ha avuto alcun ruolo decisivo in nessuna delle crisi internazionali che ci sono state negli ultimi trent’anni?».

Per iniziare ad averlo, magari.

«Glielo dico da europeista deluso, da uno che ci credeva talmente tanto da sentirsi oggi uno sconfitto. Questa dell’aumento delle spese militari è l’ennesima scelta, dall’euro in giù, che provocherà un allontanamento dei cittadini dall’idea di un’Europa unita».

Ma sull’invio delle armi all’Ucraina è favorevole o no?

«Se si aiuta un Paese aggredito lo si può aiutare anche così. Ma è assolutamente doveroso che sia il Parlamento, con una discussione più che approfondita, ad assumersene le responsabilità». 

In Parlamento si è votato.

«Ma non diciamo sciocchezze... Se questa pantomima va bene a lei, a me non va bene. C’è stata la scelta del Principe, cioè di Draghi, piombata a posteriori dai soliti Senatus consulti... Perché a questo siamo, da molto prima di Draghi: alle assemblee elettive trasformate in organi ratificanti e poco più. Quando qualcuno blatera di crisi della democrazia, non dimentichi lo scempio italiano dell’aver preso una decisione così delicata senza averne discusso in Parlamento».

A una riunione del Comitato Dubbio e Prevenzione, di cui lei fa parte, Carlo Freccero ha accostato le immagini da Mariupol a una fiction. È d’accordo?

«Per nulla. Non sono per nulla d’accordo con questa e altre cose dette da Freccero. Il comitato DuPre non è un partito. Ciascuno può dire quello che vuole, io sono libero di bollare come sciocchezze le cose che ritengo tali». 

Nella stessa sede, Ugo Mattei ha notato analogie tra la strategia anti-Covid e la guerra della Nato.

«Detta così non sono affatto d’accordo. Se ci si riferisce al modo in cui queste crisi sono state affrontate, possiamo discutere. Col Covid non poteva scoppiare la Terza guerra mondiale, con l’invasione dell’Ucraina sì. Certo, la gestione dell’emergenza Covid e alcuni provvedimenti di politica sanitaria — non ovviamente i vaccini, sui cui benefici, per quanto non risolutivi, parlano i dati — non mi hanno affatto convinto, come non mi convincono le decisioni prese sull’onda dell’emergenza. Ma non andrei oltre ed eviterei paragoni assurdi».

Guerra Ucraina, Biloslavo: "verificare l'effettiva strage di civili prima di confermarla, bisogna essere cauti". Da Triestecafe.it il 04 Aprile 2022

In collegamento dalla città ucraina di Kharkiv, il giornalista Fausto Biloslavo ha testimoniato nel programma televisivo 'Controcorrente' quanto sta succedendo nel territorio di guerra, avendo precedentemente detto che teme di essere ad "un punto di non ritorno". "Mi limito a riportare esclusivamente ciò che vedo", inizia così la sua testimonianza, "e bisogna essere cauti. In molti altri conflitti ho visto veri e propri massacri, veri o presunti che fossero, e in questo caso io voglio sapere cosa effettivamente sta succedendo, se si è effettuato un eccidio con vittime legate, chi e come sono state giustiziate, se con un colpo di pistola alla nuca o altro. Quando c'è un conflitto così vasto e devastante bisogna andare molto cauti e attenti ad alzare la bandiera della strage e del massacro prima di avere fonti concrete e indipendenti, anche da giornalisti recati sul posto a verificare", conclude l'inviato. Fonte notizia e foto: servizio 'Controcorrente'

"Il video che annulla tutti gli altri..." Carlo Freccero choc: il massacro di Bucha può essere un falso. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Le immagini del massacro di Bucha hanno fatto indignare il mondo ma non sono pochi quelli che mettono in dubbio la ricostruzione del ritrovamento di centinaia di morti per mano dell'esercito russo in ritirata dal centro a una trentina di chilometri dalla capitale dell'Ucraina Kiev. Dopo aver sollevato un vespaio di polemiche, Carlo Freccero è tornato a parlare di "false flag", ossia di un'operazione sotto una "falsa bandiera" per ingannare l'opinione pubblica. L'ex direttore di Rai 2, lunedì 4 aprile, ha tornato sull'argomento: "Quando ci si trova di fronte ad un episodio di tale ferocia ed efferatezza, scaturisce spontaneo il dubbio di trovarsi di fronte ad una false flag. Perché? Perché nessun attaccante in campo, dopo un autogol fortuito si accanirebbe a segnare una serie infinita di autogol per stracciare per sempre la possibilità di vittoria della sua stessa squadra. A chi gioverebbe infatti una strage? Non certo ai russi" è il ragionamento del massmediologo.

Freccero fa un discorso di "convenienza": a chi giova il ritrovamento delle fosse comuni in questo momento della guerra? "Anche un solo morto abbandonato sulla strada si ritorcerebbe contro l’esercito sovietico (già, ha usato l'aggettivo sovietico parlando con l'Adnkronos, ndr)  in un momento in cui tutti gli occhi del mondo son puntati sull’Ucraina". Per lo studioso di linguaggi televisivi dipingere il presidente russo Vladimir Putin come "impazzito o in punto di morte e dunque disposto a tutto, come i personaggi diabolici delle fiction, non ha alcun senso" perché "è famoso per essere una sorta di freddo giocatore di scacchi".

Tra i sospetti sollevati da Freccero, destinati ad alimentare feroci polemiche, c'è che le immagini viste a Bucha possano anche essere funzionali ad un’escalation "voluta" che potrebbe portare a una "guerra atomica": "C’è chi spinge in quella direzione, e per giustificare una cosa così mostruosa, ci vuole una causa altrettanto mostruosa: una strage", osserva.

Ma quali prove adduce alla sua tesi? "C’è un filmato che annulla tutti i filmati della strage. Una macchina percorre la strada ricoperta di cadaveri e poco dopo, nello specchietto retrovisore, un cadavere si alza in piedi credendo di essere ormai fuori dal campo visivo. Ci sono moltissimi precedenti, come i morti nei sacchi neri che tirano fuori la testa per fumarsi una sigaretta" dice Freccero, consapevole però che "anche questo filmato potrebbe essere un falso". Come altri, il massmediologo fa allora l'esempio del sindaco della cittadina che "il 31 marzo, giorno successivo all’abbandono delle truppe sovietiche, non ha detto una parola in merito. Una strage di quelle dimensioni andava sottolineata. O, forse, la strage è posteriore, dato che è stata filmata 4 giorni dopo l’abbandono delle truppe".

Per il massmediologo i dubbi restano e "sino a che non saranno svolti accertamenti, non si può dire niente di definitivo", ci vuole "cautela" per non finire "nella propaganda di guerra" sostiene Freccero. 

Filippo Facci per “Libero Quotidiano" il 5 aprile 2022.

Anche basta. La democrazia è una cosa, la par condicio è un'altra. Carlo Freccero che associa l'espressione «fiction» ai bombardamenti russi, e davanti a una folla imbelle spiega che il Covid sta all'invasione dell'Ucraina come il green pass sta alle armi della Nato: col denominatore comune del draghismo che umilia il Parlamento.

Il professor Ugo Mattei (ma poi: chi è?) che vede «elementi di continuità tra la gestione della pandemia in Occidente e la guerra della Nato», e lo vede nonostante esistano gli oculisti.

La conseguente associazione DuPre (Dubbio e Precauzione, fondata tra altri da un sempre più imbarazzato Massimo Cacciari) la quale passa dalle critiche al green pass alla contrarietà agli aiuti occidentali all'Ucraina. 

Il direttore di quotidiano Maurizio Belpietro che sfotte il professor Angelo Panebianco chiamandolo «Panenero, Paneacqua, Panegirico, Paneraffermo» che è come se noi chiamassimo lui Bruttopietro o Belsasso - sai che ridere - e qualifica il professore come uno «di idee illiberali» e un sostanziale despota, uno che banalmente abbia «nel mirino la libertà di espressione, il diritto all'informazione e l'articolo 21 della Costituzione»: e tutto per soddisfare il palato dei peggiori lettori del Paese.

Anche basta. Ci sono conduttori tv che su Raitre e su La7 danno spazio a tesi che è come se dopo l'11 settembre le avessero concesse a chi diceva che le Twin towers erano ancora lì, o che le aveva abbattute Bush, come se in un dibattito di etologia si desse pari spazio ai creazionisti, come se in un documentario sul sistema solare lo si desse ai terrapiattisti, come quella volta che a discutere di omosessualità - sulla Rai - si pretendeva di dare spazio ai fautori della cristoterapia per guarire i gay dalla loro malattia. 

Basta. Andiamo oltre. In democrazia c'è libertà di opinione e libertà di scemenza, lo sappiamo, ma potete scordarvi che ne consegua una par condicio.

C'è libertà di raccontare balle per compiacere quattro lettori o perché si è prostituti dell'informazione, e lo scriviamo noi che, su Libero, abbiamo scritto due intere pagine per smascherare la porcata dei «putiniani» classificati ignobilmente da Gianni Riotta: ma non può esserci eguale spazio tra le deformazioni mentali del reale a dispetto del nudo e crudo reale, quello dei morti torturati, delle immagini e fotografie verificate: convincere i retroscenisti e i complottardi è l'ultimo dei problemi, il problema è nostro, perché a causa della loro esibita proliferazione siamo costretti e schierarci bipolarmente, brutalmente e grezzamente al punto da non aver più la libertà di esercitare neppure le più moderate critiche interne al perimetro del reale.

Esistono molteplici sfumature entro le quali si potrebbe opinare sull'assetto Nato, sulle basi americane in Italia, sulla facoltà di lasciare al potere un uomo di dubbia lucidità come Volodymyr Zelensky - che ci avrebbe trascinato nella Terza Guerra mondiale, se lo avessimo ascoltato in tutto e per tutto - e sulla facoltà di distinguere tra oligarchi russi e ucraini, sulle colpe effettive degli sportivi russi esclusi per colpa di uno solo: ma queste discussioni sono state bandite dalla trasfigurazione del reale offerta da questo sottoprodotto della democrazia amplificato all'eccesso, queste minoranze mentali che scambiano per libera opinione anche il mettere in discussione ciò che sta all'origine storica della libera opinione: la coda lunga dell'illuminismo, il rigore, il metodo, il dimostrabile, il verificabile.

Noi dei media siamo corresponsabili, siamo noi che spesso facciamo scoppiare certe bolle social e ingrassiamo certe fiction distopiche. Non è democrazia lasciare spazio a chi spiega che in Ucraina c'è un golpe a opera della Nato o di paramilitari nazisti. 

Siamo noi che ci contendiamo uno come Alessandro Orsini che il servizio pubblico voleva pure pagare, noi che rischiamo di renderci complici del complottismo che ribalta i ruoli e che permette un'innocentizzazione dei massacratori veri e una colpevolizzazione di chi è stato massacrato.

Se diamo spazio ai Diego Fusaro e ai Giulietto Chiesa - che esistono solo perché noi li facciamo esistere - ne saremo infine solo i complici: ogni loro voce macchiettistica e di mero colore sarà una voce ragionevole in meno con cui il dibattito - pur vivo, vero - potrebbe confrontarsi. 

Ci sono quelli che accendono i fornelli o tengono il riscaldamento di casa al massimo per consumare più gas possibile e «aiutare Mosca»: che si aspetta a intervistarli? Non siamo in Russia: chi è disinformato ne ha ogni colpa. 

Ha ragione Angelo Panebianco, che l'ha scritto sul Corriere: il vero pregiudizio è incontrovertibile, non c'è da perder tempo nel tentar di raddrizzarlo. Peggio del pregiudizioso è solo chi, dolosamente, mentendo sapendo di mentire, lo corrobora, gli tiene bordone per quattro lettori o ascoltatori in più.

E costoro non sono nemici dell'Ucraina, sono paraculi e nemici dell'Italia. Nemici dell'evidenza, quella che non ammette opinione sul fatto che evidenza sia. Se il rischio fosse quello di passare da censori che oscurano opinioni non rispettabili e fuori dalla realtà, beh, è un rischio che vale la pena correre. 

I benaltristi, quelli che lo Stato mente sempre, che è tutto propaganda e fotomontaggio e Hollywood - anche i morti per strada - vanno lasciati nelle loro bolle: che oggi, almeno, chiamiamo democraticamente bolle, un tempo chiamavamo catacombe.

Dall’Anpi a Freccero, se il negazionismo è la nemesi politica della sinistra italiana. Che invece il negazionismo venga alimentato senza lo straccio di una prova da intellettuali e personaggi pubblici dal tinello di casa o dagli studi televisivi come ha fatto per esempio l’ex direttore di Rai2 Carlo Freccero, fa capire quanto il cinismo e la stupidità siano il rovescio della stessa medaglia. Anche ignorarli è troppo direbbe il poeta. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 5 aprile 2022.

La realtà gli scorre sotto il naso, livida e feroce, ma non riescono mai a vederla, lo sguardo è sempre rivolto altrove, alla “complessità”, alla geopolitica, allo stucchevole retro pensiero del cui prodest. Il complottismo eterno per cui l’ 11 settembre nelle due torri «non c’erano ebrei», e il genocidio di Srebrenica è una montatura, e i siriani gasati da Assad non sono mai esistiti, e così via. Allo stesso modo la mattanza di Bucha, le fosse comuni, i civili ucraini incappucciati e giustiziati con un colpo alla nuca, le stanze delle torture improvvisate dalle truppe russe, diventano «uno show hollywoodiano», i cadaveri sul ciglio delle strade dei «figuranti» addestrati dalla premiata ditta Washington- Kiev per spingere l’opinione pubblica occidentale verso la guerra.

Zelensky, poi, non era un attore? E non importa che ci siano decine di testimonianze oculari, i reporter indipendenti, i cineoperatori, i fotografi, le immagini satellitari con i corpi ammucchiati nelle fosse a documentare le stragi e la loro paternità. Ci vuole «cautela», dicono costoro. Mai vista però una simile cautela nel denunciare un’incursione israeliana nei Territori palestinesi o un bombardamento della Turchia di Erdogan su un villaggio del Kurdistan.

Che il negazionismo sul conflitto ucraino venga sostenuto dall’ufficio propaganda del Cremlino in fondo rientra nella logica dell’informazione di guerra e può scandalizzare fino a un certo punto. Da diverse ore le celebri factory digitali di Mosca fanno circolare in rete le fake news più disparate sulla strage di Bucha (i cadaveri che muovono le braccia, i russi che erano partiti da tre giorni, gli ucraini che hanno ucciso i loro stessi compatrioti, etc…), poi tutte smontate da accurati fact checking. Che invece il negazionismo venga alimentato senza lo straccio di una prova da intellettuali e personaggi pubblici dal tinello di casa o dagli studi televisivi come ha fatto per esempio l’ex direttore di Rai2 Carlo Freccero, fa capire quanto il cinismo e la stupidità siano il rovescio della stessa medaglia. Anche ignorarli è troppo direbbe il poeta. Esiste, poi, una posizione ancora più ipocrita e spregevole del complottismo assoluto e della sua patologica ingenuità. Quella che dice: ok, avete ragione voi, i morti ci sono, li abbiamo visti, non sono degli attori, ma non possiamo essere certi che i carnefici siano i russi. Il comunicato dell’Anpi che «condanna il massacro», ma resta «in attesa che una Commissione neutrale dell’Onu per capire cosa davvero è avvenuto» è in tal senso emblematico. Si l’Anpi, la derelitta Associazione italiana partigiani: immaginate una commissione indipendente per stabilire cosa è “davvero” successo a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema?

"L'amaca" di Michele Serra per "la Repubblica" il 5 aprile 2022.

Se la guerra in Ucraina è una fiction, come dice Carlo Freccero, bisognerà informarne le vittime civili e militari, così si rialzano in piedi e tornano a casa, a preparare la cena e accarezzare i bambini. 

Se invece non è una fiction, ma un massacro al quale assistiamo (come a tante altre cose) da spettatori impotenti e nauseati, allora i morti rimangono a terra, nella loro pozza di sangue e di silenzio, e le parole dei vivi diventano più pesanti e soprattutto più inopportune.

Penso che Freccero parli per deformazione professionale. Lui e la fiction sono la stessa cosa. Lavora in televisione da una vita intera, praticamente è un Pippo Baudo in versione Rive Gauche, nella società dello spettacolo galleggia come il raviolo nel suo brodo. 

E poi ha letto Guy Debord e La società dello spettacolo, libro di una importanza decisiva e di una noia mortale (molti intellettuali francesi, non saprei spiegare perché, sono noiosi in proporzione alla loro importanza). 

Di qui il suo comprensibile alibi: non è in condizione di credere nella carne, nel sangue, nei morti per strada. Sono cose troppo semplici. La morte, banalissima, azzera la densità intellettuale. 

Mi sentirei di escludere che i protagonisti della guerra in Ucraina, tanto gli aggressori quanto gli aggrediti, abbiano letto Guy Debord. E sappiano, dunque, che i loro corpi sono spettacolo, la loro sorte frutto di alienazione. Gli intellettuali sono molto utili, come gli idraulici, le astronaute, i parrucchieri e le insegnanti. Ma capita di cogliere, in quello che dicono, un'astrattezza che mette freddo nelle ossa. 

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 5 aprile 2022.

«Ero lì. So chi sono. C'erano russi, kadyroviti, buriati. Gli hanno sparato alla nuca e al cuore». Il metodo russo è questo: sparano alla nuca di persone disarmate. I buriati, russi delle regioni siberiane. I kadyroviti. E ci sono anche soldati bielorussi. Questa che scriviamo è solo la storia di una foto. Non certo un quadro di tutti gli orrori avvenuti a Bucha, meno che mai (per quello purtroppo ci vorrà tempo) in tutte le città occupate dai russi in Ucraina. La foto con otto uomini ammazzati e gettati in un cortile, dove sono stati ritrovati giorni dopo, quando Bucha è stata liberata. A raccontarla è, al collettivo giornalistico Vot Tak, un ucraino che era lì, Vladislav Kozlovsky, che ha vissuto nella città occupata per un mese.

«L'anno scorso ho vissuto e lavorato come sommelier a Kiev, ma dopo lo scoppio della guerra sono tornato nella zona di Steklozavod (Bucha), dove vivono mia madre e mia nonna. Il 2 marzo le truppe occupanti sono entrate nella nostra città, ero vicino al quartier generale della difesa territoriale con diversi amici. A tutti quelli che non avevano armi è stato ordinato di nascondersi in un rifugio antiaereo vicino alla base». Poi sono arrivati loro, e «tra loro c'erano per lo più russi e bielorussi, sono facili da riconoscere dal loro caratteristico dialetto». «Eravamo seduti nella completa oscurità. Non c'era luce, acqua o calore, ovviamente. Poi altri hanno preso il loro posto». E son stati i peggiori.

«Il 7 marzo hanno fatto uscire prima donne e bambini, poi uomini. Ci hanno messo in ginocchio e hanno iniziato a perquisirci. Avevo i miei soldi e il mio orologio con me. Hanno preso tutto, proprio come gli altri, quindi mi hanno derubato. Cercavano "i nazisti", ma in realtà sono stati fucilati anche quelli che avevano lo stemma ufficiale dell'Ucraina». 

I dettagli dell'esecuzione sono crimini di guerra: «Gli hanno sparato alla nuca o al cuore. Tra loro c'erano russi e, ritengo dall'aspetto, buriati». Kozlovsky ha visto proprio quegli otto, «penso che otto di loro siano stati uccisi. Ieri ho visto i loro corpi dietro un edificio di pietra in un mucchio di roba in una delle foto di Bucha. Quando sono riuscito a tornare a Kiev, non dimenticherò come la gente piangeva alla vista del pane, perché da tempo morivano di fame». 

Dopo la strage di Bucha, l'ultimo rifugio dei mascalzoni: non saranno le propagande contrapposte? Pierluigi Battista su huffingtonpost.it il 06 Aprile 2022.

Ecco un altro segnale di disonestà intellettuale spacciata per aperture di idee e segno di pluralismo da parte del circo Orsini.  

Altro segnale di disonestà intellettuale spacciata per aperture di idee e segno di pluralismo da parte del circo Orsini: la pensosa (si fa per dire) considerazione sulle “propagande contrapposte”. Dopo l’elogio della complessità (“Piove? Non essere semplicista la questione è più complessa) e il domandismo ultrà (“Dici che Putin è l’aggressore? Mi faccio solo delle comande”) ecco l’ultimo rifugio dei cripto neneisti, putinisti in erba: “le propagande contrapposte”.

DiMartedì, il generale Camporini su Bucha e immagini: "L'unica verità". Così l'obiettivo di Putin è cambiato. Valentina Bertoli su Il Tempo il 05 aprile 2022.

A"diMartedì" nella puntata del 5 aprile il generale Vincenzo Camporini affronta l'orrore di Bucha, pagina tragica della guerra in Ucraina invasa dalla Russia dove si sono consumati crimini di guerra. Le immagini dei cadaveri di civili con segni di torture e nelle fosse comuni hanno fatto il giro del mondo. L’Occidente ha condannato senza mezzi termini Vladimir Putin ma Mosca ha negato e respinto ogni accusa definendo il massacro una “messa in scena”, “una fiction”. Mentre il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky ha parlato di “genocidio”. 

Sulle responsabilità dell'eccidio degli ucraini il generale Camporini non ha dubbi: “Le immagini satellitari di Bucha rivelano quello che è accaduto, è impossibile truccarle". Verità o fake news, certezza o propaganda? "Non è possibile truccare tutte le immagini satellitari, e queste ci dicono che è successo quello che è successo" ha affermato il generale: la possibilità di manipolare l’accaduto, per Camporini, non sarebbe discutibile. Le fotografie non necessitano di spiegazioni e la tecnologia satellitare non ammette margine di errore nella trasmissione dei dati. "Sull'eccidio purtroppo è una tradizione - ha evidenziato - Dobbiamo ricordarci ciò che è successo in Cecenia". L'esempio terrificante - secondo il generale - di indisciplina violenta che porta allo sterminio della popolazione civile. L’inferno di Bucha ricorda per filo e per segno il massacro compiuto dall’esercito russo in Cecenia nel 2000. 

Può quest'orrore essere il segnale di un esercito fuori controllo? Lo chiede il conduttore Floris al generale che chiude il suo intervento sugli obiettivi militari dello Zar: "L'obiettivo russo è cambiato - spiega Camporini - non è più la conquista di Kiev, ma quella dei due oblast". E portarlo al tavolo delle trattative per fermare le bombe ora sembra ancora più complicato: il presidente russo ha intenzione di trattare solo se tutte le posizioni rivendicate saranno accolte ma Mosca sarebbe apertamente in difficoltà: il piano di espansione è cambiato e, con questo, la credibilità del conflitto.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 5 aprile 2022.

Dopo Bucha, dopo aver visto le immagini dei civili ucraini uccisi, noi spettatori siamo costretti a comunicare con le ombre. Ci hanno costretto gli assassini a comunicare con le ombre. Alcune sono cupe e terrificanti, quelle di coloro che hanno ucciso, pare con cattiveria ebete e viperina. Le altre sono quelle strazianti delle vittime abbandonate tra quelle case, avvolte nel tetro silenzio della loro rovina... Nessuno prende il posto di chi è scomparso, di questa come di altre generazioni di oggi che nella guerra sono state sepolte dalla cenere.

Con terrore pensiamo che la vita della gente, dopo questo, scorrerà ancor più vuota e amara tra pensieri di rivalsa e voglia di resistere. A tutto il resto rischiano di restare insensibili e inaccessibili. Mi chiedo se una colpa tra le tante di chi ha avviato una guerra così crudele non sia quella di averne avvelenato lo spirito per sempre e se riusciranno a far altro che subire violenza o infliggerla, a non diventare traboccamento di fiele e di vendette.

La violenza della guerra è casuale. Non ha senso. E coloro che lottano per il dolore di queste vite perdute devono, credo, ora lottare anche con la consapevolezza che quella perdita è stata inutile e assurda. 

I russi, gli aggressori, ci costringono ancora una volta a dare di nuovo la parola alla morte, cercare di darle un senso che ci permetta di non ribellarci vanamente ad essa come di fronte a un fato crudele e insensato. 

Abbiamo da tempo e invano in occidente cercato di immaginare "la buona morte" o almeno una morte che qualcuno ha definito "perbene", civilizzata; e abbiamo inseguito la aspirazione egoista a non soffrire né per la nostra né per la morte degli altri. E eccola qua, a Bucha, la morte vera, la cattiva morte, la morte da cani, riversi in una strada o gettati in una fossa come spugne inutili imbevute di cose vissute e sofferte. Ci alita in faccia il suo fiato pestifero. 

La macchina fotografica e la telecamera agiscono come un occhio allungato sulla vita e la morte degli altri. Occorre che non restino, "i cadaveri impressionanti" che l'obiettivo ha fissato nel tempo, come la prova di una eccezione che riguarda alcuni sfortunati ma un esempio di una condizione esistenziale in cui noi viviamo. Nel ventunesimo secolo si muore anche così. Che è un modo non per dire che queste morti valgano meno. Ma per restituir loro almeno la dignità della prova, dell'essere esempio.

Questo tipo di morte e la volontà degli assassini di farcela vedere, di mostrarcela, questa morte, costringendoci alla difficile sepoltura di tanta parte di noi stessi, le illusioni di progresso, lasciando dietro di se le prove con sfrontatezza, come se fossero foglie secche, rovescia il senso del mito greco della Medusa, la più straordinaria metafora della violenza e dei suoi effetti. Diversamente dalla figure degli dei che hanno volto umano la Medusa è il ritratto della confusione tra uomini e bestie, appartiene al terrore e all'orrore, alla confusione della notte.

La Medusa è la violenza e la ferocia che essa sprigiona. Se la guardi negli occhi si cessa di essere sé stessi, di essere vivi, umani, per diventare come lei sudditi della morte, repliche dell'orrore. Guardare Medusa significa perdere la propria umanità, essere posseduti del demone. Complici e mostri. Allora l'unica modo di annullarla, di vincerla, raccomanda il mito, è di ucciderla non guardandola, volgendo gli occhi dall'altra parte, annullandone il potere omicida nella mediazione dello specchio.

Ma dopo aver visto Bucha e le immagini di mille altri luoghi come Bucha che coprono di vergogna anche le guerre del nostro tempo civile, non è più possibile. Dobbiamo semmai per restare umani avere il coraggio di guardare in faccia Medusa, rovesciare la simmetria.

Le immagini non devono diventare lo specchio che medi e annulla. Non nel riflesso anestetizzato o nel volgere lo sguardo è la salvezza dalla seduzione della violenza. Ma proprio dalla sua osservazione metodica, dal preservarne con minuzia la memoria. 

Gli assassini, che sono soldati, ufficiali, generali, il Potere che li ha inviati passeranno il tempo a negare, hanno già cominciato, i loro zeloti periferici hanno subito ipotizzato le bugie. Tanto più il lagno è alto tanto più rivelano lo sforzo di scaricarsi, di ravvisarsi come vittime, mai a corresponsabili.

Noi dobbiamo invece guardare, documentare, raccogliere le prove, fare la lista dei nomi degli assassini e dei loro mandanti. La colpa, il giudizio e la punizione: il diritto, che è l'unico modo per sconfiggere la violenza come epilessia ripugnante di disordine ed eccesso.

Gli assassini di Bucha sembrano aver fatto una scelta che pare vada al di là del tumulto della battaglia, del dover avanzare o ritirarsi senza aver tempo per occuparsi di cadaveri per di più di nemici: c'è il sospetto che abbiano lasciato i cadaveri in vista, espliciti, nelle strade o che si potevano facilmente scoprire nelle fosse comuni. C'è un messaggio, forse, che ha a che fare con la morte. Dicono: il nostro delitto non è mascherato dalla vergogna, potevamo nasconderli meglio o farli sparire. Invece rifiutiamo perfino la pietà del seppellire, del restituire il cadavere alla terra. Il cadavere va chiamato, va invocato, va pianto, va sepolto?

Ebbene noi li lasciamo in strada: guardateli! Noi siamo questo. Il sapere della morte che noi vogliamo svelarvi è il sapere pubblico. Noi vogliamo infliggere, per aumentare il vostro orrore e timore, la morte senza qualità, vogliamo ridurre la morte a un puro avvenimento quantitativo, senza dignità. Eccoli i vostri morti, contateli, guardateli immersi nella nostra mota come una vegetante dissoluzione. Non c'è altro che possiate fare. Gli assassini di Bucha vogliono ricordarci che si sono arrogati la licenza di uccidere altri esseri umani e in quel modo crudele, perché nella loro guerra gli altri uomini, i nemici, sono considerati esseri inferiori e la loro eliminazione non comporta rimorso. 

Greta Privitera per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

L'ultima foto che circola nelle chat è quella di una famiglia trucidata.

Si vede un lettone e quattro corpi. In basso c'è la figlia, avrà 6 anni. È senza vestiti, le mani legate da quella che sembra una garza bianca, la stessa che le avvolge la bocca e il mento. Non si vede il volto, ma solo il buco del proiettile dritto nel cuore. «Perché questa cattiveria?», si chiede Anatoly Fedoruk, dal 1998 sindaco di Bucha, la città a 37 chilometri da Kiev diventata il teatro dell'inimmaginabile. Il bilancio delle vittime non è ancora chiaro, «ma si parla di centinaia di persone trucidate, torturate, buttate in fosse comuni», racconta Fedoruk.

Ora dove si trova?

«A Bucha. Non abbiamo né linea, né elettricità, né gas. La temperatura è sotto zero». 

Aveva capito che si trattava di un massacro?

«Sì, ma non pensavo che la mia gente sarebbe stata uccisa per divertimento o per rabbia. I russi hanno sparato a tutto ciò che si muoveva: passanti, persone in bicicletta, alle auto con la scritta "bambini". Bucha è la vendetta dei russi alla resistenza ucraina». 

A Mosca dicono che sono immagini false.

«Che vengano qui di persona a vedere di chi sono le armi, di chi sono le mani, da quanti giorni i corpi giacciono nelle strade».

Lei ha visto prima di tutti le immagini che hanno sconvolto il mondo.

«Non le scorderò mai. Hanno trasformato intere parti della città in un campo di concentramento. Le persone sono state chiuse negli scantinati per settimane, senza acqua e cibo. Chi usciva a cercarne veniva ucciso».

Cosa la fa arrabbiare di più?

«Il cinismo. Questo è il secondo esercito al mondo, dei professionisti. Ma siccome non sono riusciti nell'operazione militare hanno organizzato un "safari" sui civili». 

I media russi, rilanciati dai social, la accusano di non aver segnalato subito il massacro quando ha annunciato la liberazione della città, come prova di una messa in scena. Cosa risponde?

«Questo lo apprendo da lei, è assurdo. La città è stata tagliata fuori dal mondo per settimane. Solo quando l'hanno liberata abbiamo potuto vedere la realtà e renderci conto della dimensione dell'orrore. Appena ho visto e capito ho raccontato». 

Lei dove ha passato quest' ultimo mese?

«A casa mia. Un giorno i soldati sono entrati e mi hanno puntato una mitragliatrice alla testa. Hanno chiesto di me ma non mi hanno riconosciuto, non avevo il passaporto. Poi sono stato ospitato dai cittadini».

Zelensky è venuto da voi.

«Il suo sostegno è fondamentale. Ci serve anche quello dell'Europa e degli Usa. Speriamo che Putin e i suoi criminali vengano puniti». 

Che cosa farà ora?

«Prima di ricostruire penso a dare un nome a ogni morto». 

Vladimir Soloviev, l'orrore sull'eccidio: "Tutto falso, perché hanno scelto proprio Bucha". Come lo "spiega" ai russi. Libero Quotidiano il 06 aprile 2022.

I russi hanno una teoria tutta loro su quanto accaduto a Bucha. Nonostante l'orrore nella città ucraina sia sotto gli occhi di tutti, Vladimir Soloviev, tra i più noti conduttori di Mosca, ha definito il "massacro" un'invenzione dell'intelligence straniera. L'oligarca vicinissimo a Vladimir Putin ha mostrato ai telespettatori la pagina di Wikipedia, aggiungendo che la parola Bucha ricorda molto la parola inglese butcher, macellaio, l’epiteto con cui il presidente americano Joe Biden si è rivolto all'omologo russo. Da qui la tesi che i morti civili per le strade altro non sono che l'esito di una campagna mediatica anti-Russia. 

Davanti a lui Soloviev aveva un computer con una Z disegnata sopra, anch'essa simbolo russo per indicare "la vittoria". Ma il conduttore - come riporta Il Foglio - non è l'unico a credere che Bucha altro non sia che una messinscena. Lo stesso ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha accusato Kiev e l’occidente di usare il tutto "per scopi antirussi". Il ministero della Difesa ha scritto che si tratta di provocazioni e che mentre Bucha era sotto il controllo russo, tutti i residenti stavano bene. Dmitri Medvedev, l’ex presidente, ha rincarato la dose definendo le immagini un esempio di come lavora la propaganda di Volodymyr Zelensky.

Poi è toccato all'ambasciatore russo all’Onu, Vasily Nebenzya, che non è stato da meno e ha incolpato i nazisti ucraini. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha invece detto che le immagini sono contraffatte. La tecnica della propaganda russa è dunque quella di anticipare piuttosto che nascondere. Nelle tv russe si parla infatti del massacro, diffondendo la tesi che è tutto finto. Intanto Soloviev si è reso protagonista di un altro fatto di cronaca: a Menaggio, sul lago di Como, è stata incendiata la sua villa. Oltre alle fiamme, i responsabili hanno scritto sui muri la parola "killer".

Vladimir Soloviev, orrore contro Paolo Del Debbio: "Italiani canaglie peggio degli ucraini. Le gole tagliate..." Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.

"Gli italiani peggio degli Ucraini". È il giudizio tranchant dell'oligarca russo Vladimir Solovyev, conduttore tv più popolare di Mosca, che dal 2018 conduce sul canale Rossija 1 una rubrica dal titolo eloquente: Mosca-Cremlino-Putin. E proprio durante l'ultima puntata del suo programma, il giornalista ha lanciato l'anatema contro l'Italia. "Ho partecipato ad alcuni dibattiti con degli italiani che erano indignati per ciò che succede in Russia", racconta in diretta spiegando: "In un programma serale su Rete 4, abbastanza popolare, gettonato, ci accusavano di tutto. Io dico parliamone: i nazisti di Azov? E loro: i vostri soldati uccidono. Io li fermo: no, fatemi vedere le prove dei crimini dei nostri soldati, se li avete. Faccio notare che i soldati ucraini tagliano le gole ai prigionieri, faccio vedere le foto. E gli italiani fanno finta di non vedere".

Al termine del suo monologo è intervenuta una sua ospite che riassume il pensiero russo: "Il fatto che il mondo occidentale non li vede, anzi fa finta di non vedere, ma vede tutto: questa cosa li trasforma in mostri e canaglie, forse anche più degli ucraini". Il video tratto dalla trasmissione di Solovyev è stato pubblicato su Twitter da ZonaBianca: "Sentite come parla della nostra tv uno dei più famosi conduttori della tv russa, Vladimir Solovyev, dopo essere stato ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio". 

L'analista della BBC. “Cadaveri massacrati piazzati lì dagli inglesi”, la propaganda della tv russa sulla carneficina di Bucha.  Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

La televisione russa su Bucha “nega tutto e presenta la Russia come vittima, accusando l’Occidente di aver orchestrato una operazione speciale per screditare Mosca. Ci sono molte teorie cospirative: c’è perfino chi sostiene che Bucha sia stata scelta per una messa in scena perché la sua pronuncia ricorda la parola butcher, macellaio. Visto che Biden ha chiamato così Putin, questa location avrebbe fomentato ulteriori reazioni in Occidente. Un commentatore lo ha descritto come un lavoro di professionisti, forse inglesi. Sono i migliori in questo. Sanno come piazzare i corpi e creare un’immagine perfetta per colpire la coscienza”.

A dirlo in un’intervista al quotidiano Il Messaggero è Francis Scarr, giornalista di BBC Monitoring che si occupa di guardare, scandagliare, analizzare tutti i giorni quello che viene raccontato dalle televisioni russe. A Bucha, lo scorso fine settimana, è emerso un massacro che ha sconvolto il mondo: cadaveri per strada, ammassati in fosse comuni, corpi trovati con le mani legate dietro la schiena come in un’esecuzione. Dopo il ritiro dei russi dalla città alle porte di Kiev e il ritorno degli ucraini sono emerse le immagini.

Le truppe di Mosca si stanno concentrando in questa fase a sud e soprattutto nell’est del Paese, nel Donbass – cui porzioni di territorio sono state occupate nel 2014 da separatisti filo-russi che hanno auto-proclamato due repubbliche indipendenti riconosciute dal presidente Vladimir Putin solo due giorni prima l’annuncio dell'”operazione speciale” di “smilitarizzazione” e “denazificazione”. L’informazione in Russia ha subito un’ulteriore stretta dall’inizio dell’invasione. Parola vietata con un’altra: guerra. Chi diffonde quelle che il Cremlino considera fake news sul conflitto rischia fino a 15 anni, pena aumentata proprio nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina.

Scarr racconta che “da quando la guerra è iniziata il palinsesto è cambiato completamente. Prima c’erano un paio di talk show politici e il resto era intrattenimento. Dal 24 febbraio c’è solo propaganda, tra notiziari e approfondimento. Il copione è sempre lo stesso, un conduttore e quattro ospiti che portano avanti due temi: la de-nazificazione dell’Ucraina e le colpe dell’Occidente. Di recente si è intensificato l’uso del termine guerra riferita però al conflitto con l’Occidente sul piano delle sanzioni economiche e dell’informazione. Quindi i nemici siamo noi”. Particolare interessante: “Non vogliono apparire come isolati e citano i paesi che non hanno condannato l’aggressione promettendo che l’economia si risolleverà grazie a loro: Europa, Usa e Gran Bretagna, dicono di rappresentare la comunità globale ma non è vero perché il resto del mondo è dalla nostra parte”.

Circa due terzi dei russi formano la propria opinione, secondo l’analista, sulla televisione che resta la fonte primaria di informazione. “Gli ospiti vengono incoraggiati e diffondere teorie che più sono assurde e meglio è. Alcune sono perfino ridicole ma contribuiscono a creare questo senso di sfiducia verso di noi”. Il Cremlino nega ogni accusa su Bucha. Le autorità ucraine sostengono che in altri sobborghi alle porte di Kiev da dove i russi si sono ritirati su sarebbero tenuti altri massacri. Solo negli ultimi giorni i giornalisti inviati dalle testate sui posti stanno raggiungendo i luoghi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2022.

I macellai saranno contenti di saperlo. Nel dialetto meneghino ottocentesco, si legge nel glorioso Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (Milano, Imp. Regia Stamperia, vol. III, M-Q, 1841, p. 7), le «persone civili» preferivano macellar (e macell) al popolaresco becchée (e beccaria).

Quest' ultima parola, già documentata, nella sua schietta variante toscana, nel Purgatorio di Dante («Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi», XX, 52), aveva via via ceduto il passo a macellaio, e lo stesso era avvenuto per beccheria rispetto a macello: «Per Luogo dove si vende la carne macellata è oggidì voce usata in Toscana più comunem. che Beccherìa» (Dizionario universale critico-enciclopedico della lingua italiana dell'abbate D'Alberti di Villanuova, Lucca, Domenico Marescandoli, tomo quarto, K-O, 1803, s. v. macello).

I veneziani, dal canto loro, tenevano separato il luogo di macellazione delle carni (macello) dall'esercizio commerciale deputato alla loro vendita (beccheria): «In Venezia (...) si distingue il Macello dalla Beccheria. Il primo è il luogo dove propriamente si macellano gli animali, l'altra dicesi la Bottega dove si vende al minuto la carne macellata» (Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio, Venezia, Andrea Santini e Figlio, 1829, s. v. macèlo).

Macello discende dal latino macellum, designante in origine un mercato adibito alla vendita di carne e altri generi alimentari. Dalla voce latina, prestata all'antica lingua di Roma dal greco (mákellon, di probabile origine semitica), avrebbe quindi preso le mosse macellarium ("venditore di generi commestibili"), che si sarebbe poi sviluppato in macellaio (e varie altre forme, tra regionali e dialettali: da macellaro a mascellaio).

Sull'evoluzione semantica del termine, non bastasse la taccia di "persona bestiale o sanguinaria", o di "chirurgo maldestro o incapace", avrebbe pesato come un macigno anche Jacopone da Todi con la sua «lengua macellaia» ("bestemmiatrice, blasfema"). Ignorata, la categoria, anche da Numa Pompilio.

Il re, secondo la tradizione, aveva distribuito la popolazione plebea, artigiana e operaia in otto collegi, più un nono per le arti e i mestieri(minori)restanti: vasai(figuli) e calzolai (sutores); tintori (tinctores) e conciatori(coriarii); falegnami (fabrii tignarii) e orefici (aurifices); flautisti (tibicines) e lavoratori del rame (fabri aerarii). Assenti, coi tessitori e i lavandai, i panettieri e i lavoratori del ferro (fabri ferrarii), anche i poveri macellai.

Caro Liguori, la strage di Bucha è come il massacro di My Lay? Allora manifesta contro Putin! Secondo Paolo Liguori chiedere di processare Putin per la strage di Bucha è un’assurdità anglo-americana che ci allontana tutti dalla pace...di Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 aprile 2022.

Secondo Paolo Liguori, direttore editoriale del Riformista Tv, chiedere di processare Vladimir Putin per la strage di Bucha è un’assurdità anglo-americana che ci allontana tutti dalla pace. In altre parole non si può trattare il capo del Cremlino come un criminale di guerra, non si può metterlo in un angolo o addirittura sperare nella sua sconfitta militare perché questo «accanimento» (parole sue) porterebbe a una guerra infinita tra Russia e Occidente.

Con Putin bisogna trattare, negoziare, venire a patti. Zelensky e gli ucraini, invece, in un angolo possono finirci benissimo e possono compiere una sola scelta: arrendersi all’istante, magari nella speranza che i russi si mostrino clementi e rinuncino a qualche obiettivo minore, Poco conta che nel frattempo, gli stessi russi, da Mariupol a Karkhiv, da Bucha a Borodyanka si stiano macchiando di crimini atroci, come è stato documentato da centinaia di testimonianze.

Anche perché Liguori, evidentemente colpito dalla stessa sindrome dell’Anpi, di quei massacri si dice non così convinto e vorrebbe vederci chiaro. O meglio, li dà per buoni solo come ipotesi di scuola per corroborare il suo ragionamento. Che riposa su un ardito paragone storico con la strage di My Lay commessa dai marine americani in Vietnam nel lontano 1968: «Ammettiamo che a Bucha quel massacro sia andato veramente per come è stato ricostruito per le televisioni», scrive l’ex militante di Lotta Continua, spiegando che non ha senso incriminare il presidente russo perché per i fatti di My Lay «nessuno pensò che bisognava processare il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson neppure lo chiesero i vietnamiti. Perché subito dopo questi massacri aprirono un tavolo di trattative a Parigi e trattarono la pace con gli americani».

Strana similitudine, perché se ben ricordo dai manuali di storia, gli Usa in Vietnam non misero fine alla guerra dopo un negoziato o trattando direttamente con Ho Chi Min ma subirono una tremenda sconfitta militare, abbandonando Saigon con la coda tra le gambe e consegnando il paese asiatico ai vietcong. Allo stesso tempo nei paesi occidentali milioni di ragazzi e ragazze, tra cui senza dubbio un giovanissimo Paolo Liguori, sconvolti da carneficine come quella di My Lay scendevano in piazza gridando «yankee go home!»: il ritiro delle truppe Usa era la priorità della galassia pacifista (lo è stato anche per la guerra in Iraq) mentre i presidenti Johnson e Nixon erano considerati come i primi responsabili quei massacri. La stessa, derelitta, galassia pacifista che oggi intima agli ucraini di deporre le armi e accettare le condizioni dello zar per non “peggiorare le cose”.

Ma poi: se le fosse comuni e le stanze delle torture di Bucha sono degli orrori comparabili a quelli degli americani in Vietnam, perché il direttore editoriale del Riformista tv non va in piazza a manifestare per l’Ucraina e contro il criminale Vladimir Putin?

Anpi sotto accusa per il “negazionismo” sulla strage di Bucha. “Vergogna”. “Memoria corta”. Lucio Meo mercoledì 6 Aprile 2022 su Il Secolo D'Italia.  

Le strane idee dei partigiani italiani e di quel che resta dell’Anpi sulla guerra in Ucraina indignano e fanno discutere anche a sinistra. Quella nota dei partigiani sul massacro di Bucha, in cui si esprimono dubbi sui fatti e sulla matrice della strage russa, non poteva non far discutere.  “L’Anpi condanna fermamente il massacro di Bucha, in attesa di una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili”, è scritto nella nota nella quale si cerca uno strano esercizio di equidistanza, cosa mai accaduta, invece, nella lettura storica della guerra civile in Italia dopo la caduta del fascismo. La condanna generica dei fatti di Bucha, con quei dubbi sollevati dall’Anpi sulla matrice russa, indignano, e non solo a sinistra.

Le critiche dello storico De Bernardi all’Anpi su Bucha

“La posizione dell’Anpi fa specie rispetto ad altre posizioni perché viene da un’organizzazione nata per custodire la memoria partigiana e quella di altre vittime”. Alberto De Bernardi commenta così, con l’Adnkronos, le parole dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Secondo lo storico dell’Università di Bologna, l’eccidio nella cittadina ucraina e gli altri che si vanno via via scoprendo, sono un copione già visto, dato che “in Italia ci sono state centinaia di stragi, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema, durante la Seconda Guerra Mondiale ed è evidente che queste dinamiche storiche si stanno riproducendo in Ucraina. Quella in corso è una guerra ideologica, non una guerra fra Stati, che vuole negare l’esistenza dell’Ucraina. È l’invasione di un Paese civile, che voleva scegliere il proprio futuro, da parte di uno Stato imperiale. Ciò che sta succedendo è già accaduto, la guerra ai civili è parte integrante di tutte le guerre civili che si sono succedute nel corso del ‘900”.

“Uccidere i civili – spiega De Bernardi – fa parte integrante dello scontro, ucciderli fa parte di una strategia militare, per impressionare, spaventare, colpire i voltagabbana e vendicarsi in maniera vergognosa. Quanto al fatto che l’Anpi chiami in causa l’Onu, si ricordi che le Nazioni Unite e i Tribunali internazionali colpiscono i singoli responsabili e i processi sono verso i singoli colpevoli che si sono macchiati di delitti contro l’umanità: si tratta di processi individuali per appurare il ruolo e le responsabilità degli inputati in queste violenze. Ma tutto questo non c’entra con la constatazione dei fatti, che è del tutto incontrovertibile. Quello che è accaduto a Bucha ha riguardato un esercito in ritirata che ha commesso violenze contro i civili e questo ha come conseguenza la necessità di armare l’esercito ucraino, perché l’unico modo per far sì che queste cose non riaccadano è mettere gli ucraini nelle condizioni di difendersi”.

Le armi date dagli Alleati ai partigiani italiani…

“Parallelamente, devono andare avanti i negoziati e le trattative di pace – prosegue lo storico – ma prima di tutto bisogna fare in modo che in Ucraina ci siano le condizioni interne perché il Paese si possa difendere. La ritirate che stanno avvenendo da diverse città testimoniano che aiutare l’ucraina è stato utile e ha impedito l’invasione completa del Paese e che ciò che è avvenuto si riproducesse su scala più grande anche altrove. In tutto ciò, è sorprendente l’evocazione dell’Anpi del disarmo e della pace, quando i fatti testimoniano che, se gli ucraini non fossero stati armati, queste azioni si sarebbero riproposte su scala più grande. L’Anpi rappresenta la memoria dei partigiani, degli uomini e delle donne che hanno preso le armi per difendersi dai nazisti. Ma non solo: quelle armi glie le hanno date gli alleati. E’ successo in Italia, fra il ‘43 e il ‘45, esattamente quello che sta succedendo adesso in Ucraina e rispetto a cui oggi l’Anpi, invece di dire ‘aiutiamo gli ucraini nella loro resistenza’, prende una posizione attendista, senza chiamare in causa la propria identità storica, che dovrebbe collocarla in una posizione del tutto opposta”.

Le accuse di Boeri: “Anpi, che vergogna”

“Mi vergogno profondamente di leggere queste righe da parte di un’Associazione che sembra aver dimenticato che la Resistenza antifascista aveva scelto da che parte stare, chi fossero i nemici, dove e come riconoscere i colpevoli e le vittime”, attacca invece il presidente di Triennale Milano Stefano Boeri commentando la nota dell’Anpi che “condanna fermamente il massacro di Bucha, in attesa di una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché é avvenuto, chi sono i responsabili”.

Agnostici per Putin. Dubitare di tutto, comprese le stragi che abbiamo sotto gli occhi, non significa essere cartesiani, ma complici. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Ogni giorno, in ogni istante della nostra vita, volenti o nolenti, scegliamo cosa mettere in dubbio e cosa no. E lo dimostrano proprio tutte le cose di cui, a ben vedere, non dubitiamo mai.

L’ultima risorsa di chi non ha il coraggio di dare ragione a Putin, ma muore dalla voglia di dare torto a chi lo critica, persino dinanzi alle atrocità che ogni giorno di più vengono documentate, è il più vecchio e abusato degli espedienti retorici dall’invenzione degli asili. Ed è che bisogna sempre dubitare di tutto.

Non per niente, è esattamente a questo che mirano le campagne di disinformazione, da sempre. Non hanno nessun bisogno di costruire menzogne credibili, non lavorano sulla qualità, ma sulla quantità: a forza di ripetere ogni sorta di bufala, mettendo in dubbio anche i dati di fatto più evidenti, ottengono comunque l’effetto desiderato. Anzi, quanto più assurde e persino contraddittorie saranno le diverse versioni diffuse, tanto meglio: perché l’obiettivo dei disinformatori, il più delle volte, non è essere creduti, è far sì che non si creda più a niente e a nessuno. Non puntano tanto a convincerci della loro verità quanto dell’idea che non ci sia nessuna verità.

Disgraziatamente, in Italia come in gran parte dell’occidente, è molto diffusa una certa retorica liceale del pensiero critico che di fatto finisce per facilitare parecchio un simile lavoro. Occorre dunque prendere il toro per le corna, e ripartire dai fondamentali.

Tanto per cominciare, non è affatto vero che si debba dubitare di tutto, perché dubitare di tutto è impossibile. Di cosa dubitare e di cosa no, invece, è una scelta, che ognuno di noi compie ogni giorno, in ogni istante della sua vita.

Se si dubita di tutto, quale che sia la certezza di volta in volta messa in discussione, bisognerà dubitare anche della spiegazione, e poi della spiegazione della spiegazione, e così via. Se si dubita di tutto, è impossibile evitare il regresso all’infinito.

Tra persone adulte e in buona fede, non è una questione di cui valga nemmeno la pena di discutere, almeno dai tempi di Aristotele. Parafrasando il filosofo, infatti, potremmo dire che chi davvero dubitasse di tutto dovrebbe dubitare anche del suo stesso dubbio, prima ancora di formularlo, e di qualunque altra cosa volesse dire, dunque non potrebbe fare altro che tacere, il che lo renderebbe «simile a una pianta». E discutere con una pianta, evidentemente, non ha senso.

È vero che per Cartesio, come si studia al liceo, la filosofia comincia con il dubbio universale, ma già Charles Peirce aveva osservato che questo scetticismo iniziale «è un mero auto-inganno e non un dubbio reale» (mentre in politica, aggiungo io, molto spesso è un inganno e basta, senza auto). E proseguiva: «Nel corso dei suoi studi una persona può, è vero, trovar ragioni per dubitare di ciò in cui inizialmente credeva; ma in questi casi egli dubita perché ha una ragione positiva per farlo, e non sulla base della massima cartesiana. Non pretendiamo di dubitare in filosofia di ciò di cui non dubitiamo nel nostro animo».

Ecco, confesso di aver fatto tutta questa lunga divagazione solo per poter scrivere quest’ultima frase: non dubitiamo in filosofia – o in politica – di ciò di cui non dubitiamo nel nostro animo.

Dire che dobbiamo mettere in dubbio tutto, anche l’evidenza delle stragi di Bucha, perché la prima vittima della guerra è la verità e perché c’è anche una guerra di propaganda, nonostante la presenza di decine di inviati, testimoni, immagini, prove, vuol dire proclamare un’assurda equidistanza tra la verità e la menzogna, tra giornalisti indipendenti che hanno visto con i propri occhi e miserabili propagandisti che diffondono bufale come quella del cadavere semovente o dell’ospedale che sarebbe stato una base militare segreta.

Una variante appena più sofisticata di questo genere di obiezioni è quella di chi dice che non possiamo giudicare perché, sebbene le atrocità che abbiamo sotto gli occhi siano indubitabili, sebbene il fatto che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina e non viceversa sia indiscutibile, sebbene insomma tutti i dati essenziali della questione siano chiari e innegabili, tuttavia, questi non sarebbero tutti i termini della questione, ragion per cui il quadro sarebbe non falso, ma incompleto. E per giudicare, ovviamente, bisogna avere tutte le informazioni.

Se dunque quello che sta accadendo oggi è chiaro, c’è sempre però qualcosa che è accaduto ieri, l’anno scorso o nel 2015 che serve a dimostrare che le cose tanto chiare non sono. E quando si sarà replicato che i fatti del 2015 erano una conseguenza dei fatti del 2014, e ci s’illuderà di avere chiarito anche questo, puntualmente si verrà rintuzzati con i fatti del 2008, e poi del 2004, e così via, anche qui, all’infinito.

Diceva un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, che nel tennis non c’è una regola che stabilisca quanto in alto si possa lanciare una palla, semplicemente perché non serve. Dire che non possiamo dare un giudizio di quello che abbiamo sotto gli occhi perché non conosciamo a menadito la storia dei rapporti tra russi e ucraini dall’età della pietra a oggi, evidentemente, è come rifiutarsi di giocare a tennis perché non si sa fino a che altezza si possa lanciare la palla. Sarebbe più onesto ammettere di non volerlo fare.

Ognuno di noi, ogni giorno, volente o nolente, sceglie di cosa dubitare e di cosa no. E lo dimostrano proprio tutte le cose di cui, a ben vedere, non dubitiamo mai.

Lo dimostra, ad esempio, l’enorme quantità di incredibili fregnacce cui tanti dubbiosi intellettuali sono disposti a dar credito, si tratti delle più infondate e mille volte smentite fake news sui vaccini o dell’infame montatura secondo cui le stragi compiute dai russi sarebbero una messinscena e i morti ucraini sarebbero attori.

Lo dimostra il fatto che così numerose e autorevoli personalità, in tutte queste settimane di discussioni sulla guerra e sulla pace, tra tanto riflettere e problematizzare, pur di fronte a molteplici e convergenti indizi, mai siano apparse sfiorate dal dubbio di essere semplicemente degli stronzi.

Strage di Bucha, trovati 420 corpi di civili in pozzi, cortili e scantinati. Valentina Mericio su Notizie.it il 19/04/2022

"Più di 420 corpi sono stati trovati solo a Bucha", queste le drammatiche parole che arrivano dal capo della polizia Nebytov. 

Almeno 420 cadaveri sono stati trovati a Bucha nella regione di Kiev. Questa è la drammatica notizia che ha dato il capo della polizia della Andriy Nebytov attraverso un post su Facebook e come citato dal sito di informazione Ukrinform. Stando a quanto si apprende.

fino tre giorni fa le vittime civili ritrovate erano 350. Si tratta di numeri sempre più alti che ci raccontano molto di quello che sta succedendo in Ucraina. 

Strage di Bucha, ritrovati 420 cadaveri

Lo scenario descritto da Nebytov è dunque quanto mai tragico. A tale proposito ha spiegato: “A partire da sabato sera, più di 420 corpi sono stati trovati solo a Bucha. La gente torna a casa e trova tombe temporanee nei cortili, negli scantinati, nei pozzi”.

Ha poi aggiunto:  “Oltre 200 persone risultano scomparse, secondo quello che riferisce la gente che è tornata dopo che i russi hanno lasciato la zona. Più di 300 corpi, non sono ancora stati identificati”. 

Il capo della polizia della regione di Kiev: “La speranza è quella di identificare tutte le persone”

Nebytov ha infine spiegato quelle che sono le principali criticità nell’identificare i corpi. Molte delle persone che ne denunciano la scomparsa – ha osservato – si trovano all’estero “per questo non è ancora possibile prelevare da loro campioni di Dna.

La speranza è di riuscire a identificare il 100% di tutte le persone che sono state uccise dall’esercito russo nella regione di Kiev”, ha infine dichiarato. 

Bucha, le menzogne russe e l'orribile balletto dell'Onu sulle vittime innocenti: l'editoriale di Sallusti. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 07 aprile 2022.

La questione non è più essere pro o contro la guerra, né se tifare Ucraina o strizzare l'occhio a Putin. La questione è se i crimini contro i civili documentati a Bucha, periferia di Kiev - ma purtroppo diffusi anche altrove - sono tragicamente veri o, come sostengono i russi, una montatura della propaganda occidentale.

Tutte le analisi degli esperti, la comparazione con immagini precedenti, provano che si tratta del primo caso, cioè di macelleria russa. Le teorie dei complottisti filo Putin sono state smontate una a una, tutto - dai presunti movimenti dei cadaveri alla mancanza di pozzanghere di sangue - ha una spiegazione plausibile. Anche i sostenitori della tesi che l'uomo non è mai stato sulla Luna hanno sciorinato una serie di dubbi (le ombre, l'inclinazione della bandiera posata sul suo suolo e altre amenità) che sono stati poi scientificamente smontati al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ma esperti a parte basterebbe usare il buon senso. A Bucha vivono oltre ventimila persone che presumo si conoscano tra di loro, direttamente o indirettamente come capita in una nostra medio piccola città. Non avrebbe alcun senso allestire una sceneggiata di questa portata pensando di poterla fare franca: troppi testimoni, troppa gente avrebbe visto, saputo o intuito il macabro inganno. Parleremmo insomma di un segreto troppo grande e diffuso per sperare di tenerlo tale a lungo, prima o poi qualcuno parlerebbe e la verità verrebbe a galla essendo per di più la città invasa oltre che dal nemico anche da giornalisti di tutto il mondo.

No, troppo complicato e rischioso per essere vero. Se si scoprisse che Zelensky ha giocato con i suoi morti (nel caso di più, avrebbe fatto uccidere dei suoi vivi) la sua credibilità e autorevolezza internazionale crollerebbero all'istante, e con esse la possibilità che l'Ucraina in qualche modo e prima o poi esca in piedi dalla guerra. Non solo quindi mancano le prove della macchinazione, non c'è lo scopo né logica. Io mi fido di chi c'era, e le testimonianze dei superstiti sono chiare e convergenti: è stata una mattanza per mano russa. Tutto il resto è propaganda ed è orribile che financo l'Onu stia a guardare inscenando un balletto che sa tanto di danza su morti innocenti.

Il soldato russo picchia e terrorizza i prigionieri ucraini. Gianluca Di Feo per repubblica.it il 22 maggio 2022.  

Scene di brutalità dal fronte, ormai quotidiane ma che restano inaccettabili. Una pattuglia di soldati ucraini viene catturata dai russi: dall’equipaggiamento sembrano coscritti della milizia territoriale. 

Uno spetsnaz russo – le truppe scelte di Mosca – si avventa su un prigioniero: lo picchia con l’elmetto, gli punta un pugnale alla gola. Il prigioniero piange e urla. Poi il russo mostra il coltello alla telecamera. E si avvicina a un secondo prigioniero. 

Mentre l’ucraino viene interrogato e parla di armi americane, lo spetsnaz continua a stargli addosso con il pugnale, tagliandogli la sacchetta di pronto soccorso e deridendolo. Immagini di maltrattamenti sui militari catturati sono registrati in entrambi gli schieramenti: si spera che i responsabili vengano identificati e puniti. 

Il vescovo di Kiev e l'orrore: "Fossa comune con 500 morti. Mani legate e colpo in testa". Nino Materi il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

La testimonianza choc di monsignor Shevchuk: "Civili e bambini innocenti torturati e finiti con una pallottola".

In guerra l'orrore accomuna tutti, non guarda in guarda alle divise delle vittime. E ignora se quei morti la divisa ce l'hanno o no. Soldati (russi e ucraini) «gemellati» nel massacro, insieme con i cadaveri più innocenti di tutti: i corpi dilaniati dei civili. Vittime e carnefici, stesso destino insanguinato che il distopico «pacifismo delle armi» allungherà chissà fino a quando. Da una parte migliaia di soldati russi abbandonati senza sepoltura in neri sudari di plastica chiusi miseramente con la zip che ne cela il terribile contenuto; dall'altra parte fosse comuni con migliaia di cittadini ucraini torturati e uccisi solo perché colpevoli di essere dalla «parte sbagliata». Come se poi, in guerra, potesse mai esistesse una «parte giusta». I soldati ucraini caduti sul fronte, hanno almeno il conforto di un cimitero e di una croce, quelli russi marciscono invece in vagoni di treni scoperti qua e là o in altri luoghi con la stessa dignità di una discarica; del resto, cosa sono, in un conflitto bellico, i morti se non poveri «rifiuti»? Umani, certo, ma pur sempre «rifiuti». E ogni giorno i «rifiuti umani» aumentano, mentre la diplomazia di guerra - travestita da diplomazia di pace - seguita a giocare sporco. Sulla pelle dei «rifiuti», appunto. «In una fossa comune recentemente hanno scoperto 500 persone con le mani legate e con una pallottola nella testa. Vuol dire che sono state assassinate in un modo crudele, nello stesso modo in cui ai tempi di Stalin assassinarono gente innocente gettandola in fosse comuni», ha riferito l'arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, rendendo una testimonianza della situazione del suo Paese in video collegamento con il XXIII Convegno Nazionale per la Pastorale della Salute della Cei. «L'Ucraina sta vivendo un momento drammatico, con una guerra che ha comunque fatto cadere le maschere e mostrato tutti per quello che sono davvero», ha spiegato monsignor Shevchuk. Ma è davvero così? La guerra sta effettivamente «mostrando tutti per quello che sono»? La sensazione è invece che le «maschere» siano lungi dall'essere «cadute», anzi se ne stiano alzando sempre di più per nascondere realtà inconfessabili. La Chiesa sta cercando di rompere il business degli interessi economici, ma può poco dinanzi alla dittatura della geopolitica. Eppure, perfino in questo disastro, il primate della Chiesa greco-cattolica ucraina riesce - beato lui - a trovare motivi di speranza: «Non pensavo che sarei riuscito a sopravvivere perché la capitale in tre giorni era quasi circondata. L'esercito ucraino è stato capace di fermare i carri armati russi a 50 km dalla nostra cattedrale». Monsignor Shevchuk ha definito i 78 giorni di guerra, come «78 giorni di lacrime, di fiumi di sangue che scorrono sul terreno ucraino». Ha ripercorso le sue visite pastorali nella sua diocesi, ora «simile a un deserto», con città in gravissima distruzione come quella di Chernihiv dove i quartieri sono stati rasi al suolo e la scoperta di fosse comuni sempre più frequente. Durante la sessione di domande e risposte, l'arcivescovo ha sottolineato che in quella situazione di guerra «ci vuole la fede, perché per rimanere e dominare la tua stessa paura bisogna affidarsi completamente a Dio». E ha ricordato che «ci sono 12 milioni di profughi, 5 milioni sono fuori dall'Ucraina, ma ci sono anche migliaia di persone che devono essere curate per le ferite di guerra, devono sottoporsi a cure lunghe e riabilitazione». Per i morti, invece, non resta che pregare.

I retroscena della guerra. Strage di Bucha, tutto quello che non torna: è caccia ai collaborazionisti dei russi. Angela Nocioni su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

Sacchi di sabbia alle finestre e grandi teloni mimetici. Sta al centro di Kiev ed è la sede generale del Servizio di sicurezza dell’Ucraina. Da lì è uscito un mesetto fa Artiom Dehtiarenko, portavoce del Servizio segreto delle Informazioni ucraino, per annunciare che soltanto nella provincia di Kiev erano stati individuati 33 presunti collaborazionisti dei russi, già la settimana dopo il numero ufficiale degli arrestati con questa accusa era arrivato a 300.

Le notizie da città vicine alla frontiera raccontano di molte denunce. Ad Izyum, nella zona di Kharviv, vicino al confine russo, un abitante del posto è stato additato come collaborazionista, qualcuno ha detto che passava informazioni ai russi per aiutarli ad orientare i missili. Un giornale locale riporta la notizia della sua lapidazione in strada. Il suo cadavere è rimasto a terra per tre settimane. Il Servizio di sicurezza lavora con la polizia e con le unità di difesa territoriale per individuare presunti collaboratori e processarli per tradimento della patria. “Questi fatti esistono e stiamo lavorando su questo” su Kyiv Indipendent, un giornale locale, il capo della polizia del distretto di Buchanskyi nella provincia di Kiev. Si chiama Olexandr Omelienenko. A Bucha per esempio è stato portato via da militari ucraini un abitante sessantaduenne che è originario di Krivoi Rog, un paesino vicino alla frontiera con la Russia. I suoi vicini lo hanno indicato come la persona che avrebbe passato ai russi informazioni sulle posizioni dell’esercito ucraino, dicevano anche che aiutasse i russi nei pattugliamenti.

Di ricostruire la notizia delle retate di collaborazionisti a Bucha si è occupato l’inviato in Ucraina de El Pais Jacobo Garcia. Che da qualche giorno è arrivato ad Odessa: “La mia ricerca è partita dalla testimonianza di una donna – racconta al telefono – mi ha raccontato di essere certa che un suo vicino aveva indicato agli occupanti russi la sua casa. I russi sono arrivati in cinque, stavano cercando armi, erano certi di trovarle in casa. Diceva che sapevano che suo marito era militare perché un vicino gliel’aveva detto. Lei non ha denunciato il vicino agli ucraini come spia russa. Però da lì ho iniziato a verificare informazioni e ho trovato dati ufficiali che parlano di persone fermate con l’accusa di aver collaborato con i russi e ho incontrato una brigata di polizia locale che andava in giro per Bucha casa per casa cercando dati”.

Molti gli ucraini detenuti per essere stati segnalati come delatori? “I dati ufficiali confermano arresti di presunti collaborazionisti, sì. Quello che io ho avvertito è che c’è una atmosfera collettiva, tutti accusano tutti, siamo in un momento di massima tensione e s’è liberata una certa ossessione, una mania accusatoria di ciascuno contro l’altro. Si tratta di reali sospetti e anche necessità di vendetta, bisogno di spiegarsi in qualche modo fatti orribili. In qualche caso è vero, in altri no, è la condizione umana che produce questo fenomeno. L’atmosfera a Bucha è pesantissima. Se io e te passiamo lì tre giorni è molto probabile che qualcuno dica a qualcun altro che siamo collaboratori dei russi”. Cos’hai visto a Bucha? “Ho visto una pattuglia di polizia locale setacciare casa per casa. Entravano a parlare con gli abitanti di ogni casa per documentare quanti casi di violenza sessuale ci fossero stati, quanti altri tipi di aggressione e chiedendo poi: secondo voi qualcuno vi ha segnalato ai russi? Chi è stato secondo voi? Passavano per la strada di nome Yablonka, volevano sapere come i russi potessero aver stilato liste con nomi e indirizzi di abitanti leali ai soldati ucraini, con l‘aiuto di chi l’avessero fatto”.

Anche il sindaco di Bucha, Anatoli Fedoruk, è stato additato come sospetto. “Membri dei Comitati di difesa territoriale l’hanno accusato di essere sparito chissà dove durante i giorni terribili di marzo in cui a Bucha c’è stata l’occupazione più feroce. Che succede? Lui per alcuni giorni sparisce, nessuno sa dove sta. Spuntano allora molte voci su dove diavolo sia finito, sul sospetto che stia collaborando con i russi. Nessuna prova, che io sappia. Ho parlato con molta gente e mi è sembrato sinceramente che lui fosse terrorizzato dalla presenza dei russi in città e, siccome era riuscito a trovare un nascondiglio sicuro, c’è rimasto finché ha potuto. Non ho avuto modo di provarlo. Non ho dati reali per accusarlo di nulla, a me è sembrato un uomo morto di paura che s’era nascosto in un garage. Poi, uscendo, ha detto una frase idiota come se a Bucha non fosse successo niente quando invece erano accadute cose terribili. Il fatto che la Russia si sia attaccata a questo per dire non è successo nulla, lo ha esposto al sospetto. Il ministro degli esteri russo ha usato le parole di lui, sindaco di Bucha, per dire che i russi non hanno compiuto stragi a Bucha. Questo lo lascia agli occhi di molti molto compromesso”.

Come sono composti i Comitati di difesa territoriale? “Sono gruppi di civili organizzati dal potere militare, brigate di civili con armi, stanno in tutto il Paese, sono spesso persone di uno stesso quartiere, controllano di chi entra nel paese, perquisiscono le automobili, vanno a prendere pezzi per tappare le barricate, fanno bassa logistica e controllo, sono civili ma in uno stato di eccezione com’è quello che vige qui rispondono a superiori, non so se rispondono direttamente alla polizia o ai soldati. Per certi versi ricordano i Comitati di difesa della rivoluzione cubani, ma non sono né ben organizzati come i cubani né altrettanto sofisticati nelle funzioni. Questo lavoro di setaccio riguarda per quel che ho visto la zona di Bucha, dove più dolore c’è stato. Lì tutti sospettano di tutti, se sei sospettato di essere filorusso rischi tanto. Esiste in ogni caso ovunque la proibizione a tutti di dire qualcosa di positivo sulla Russia, tutto quel che è russo è vietatissimo. I prorussi sono vigilati. Ma i filorussi mi pare se ne siano già andati tutti altrove. Ora sono ad Odessa, la situazione molto pesante, piovono missili di notte, è stato il posto più castigato nell’anniversario di questo maledetto giorno della vittoria”.

Cosa ti dicono le persone comuni, vogliono vincere la guerra o vorrebbero trattare la pace? C’è gente che dice si tengano la Crimea basta che smettono di bombardarci? “C’è tanta esaltazione nazionalistica ancora, parlano di essere uniti, dicono difendiamo la patria, anche la gente che detestava Zelensky ora ne parla bene perché gli pare che sappia fronteggiare i russi, il clima è molto segnato da quanto male se la stanno passando città come Odessa che non erano abituate alla violenza. La novità è che non è più la guerra in posti remoti dell’est, l’entusiasmo patriottico che c’è non reggerà secondo me più di due mesi. Combattono giovani, non vogliono andare a morire, ci sono molti volontari che quando vedono come si muore hanno voglia di smettere. L’onda bellicista sta calando, l’unità patriottica è molto forte ma non durerà a lungo”.

C’è davvero questa resistenza di gente comune, camerieri, avvocati? “Sì, molti di quelli che non sono scappati aiutano, cuciono giacche antiproiettile, ho visto maestre che cuciono tele per coprire le barricate, un attore di teatro che fa logistica per i soldati, esiste nella società un coinvolgimento. Sono persone che non possono lavorare, non ci sono mezzi di trasporto. Nella scuola che ho visitato di 150 bambini ne sono rimasti 9. È un modo di canalizzare la frustrazione di chi è rimasto e non può lavorare, nella impossibilità di fare cose più importanti. A Zelensky mi pare che stiano chiedendo di vincere. Non sento nessuno dire: cambiamo rotta, dicono: dobbiamo annientare questi bastardi. Si lamentano che non si stia arrivando quel di cui hanno bisogno. Ma c’è una larga parte che si stanno cominciando a stancare”. Angela Nocioni

Niccolò Zancan per "La Stampa" il 12 maggio 2022.

C'è un modo per risalire ai massacratori di Bucha. Bisogna partire dagli unici tre soldati russi uccisi proprio qui, il 3 di marzo, quando tutto doveva ancora succedere. «Ecco le foto dei loro documenti», dice il vicesindaco della città Serhiy Shepitko. 

Nei corridoi del Comune il viavai è continuo. Sono persone in cerca d'aiuto. Chi non ha più la casa o ce l'ha danneggiata, chi da settimane non riesce ad avere notizie dei suoi parenti. 

Dall'inizio della guerra alla fine dell'occupazione, in questa piccola città di villeggiatura a un'ora di auto da Kiev sono state torturate e uccise 416 persone. Solo quattro di queste erano militari dell'esercito ucraino, tutti gli altri civili inermi.

Per esempio la signora Tamara Vasilinko di 68 anni, oppure un bambino di 3 anni. Sasha Yaremich, 40 anni, commesso di un supermercato, che nel telefono aveva una foto sbagliata: «Di chi è questo cellulare?». È stato portato fuori, almeno sei persone hanno sentito gli spari. 

Sono state esecuzioni, cadaveri con le mani legate dietro alla schiena. Sono stati corpi accatastati in cantine, oppure lasciati in mezzo alla strada.

Dita rotte, piedi tumefatti. Torture, stupri. Fosse comuni. La signora Valentina Siyun, di mestiere estetista, trucidata sulla porta del suo appartamento perché aveva guardato dritto negli occhi un soldato russo: «Cosa stai facendo?».

Trentadue vittime devono ancora essere identificate, per loro è stato richiesto l'esame del Dna nel tentativo di risalire ai parenti. A Bucha anche le peggiori regole della guerra sono state infrante. La procura di Kiev sta cercando di raccogliere e analizzare tutte le tracce lasciate dai soldati russi per identificare i responsabili.

Ecco perché sono importanti questi tre passaporti, che adesso il vicesindaco Shepitko ci mostra. Sono facce di ragazzini. Loktev Maksyn Vladymyrovich, 22 anni, nato a Privolzsk, nella regione di Ivanovsk. Ilyin Aleksander Valeryevich, 24 anni, nato a Bishaya Murta, nella regione di Krasnoyarsky. Polyansky Ivan Alekseevich, 19 anni, nato a Kamentsk-Uralsky, nella regione di Sverdlovska.

Sono soldati uccisi in un combattimento. Cadaveri che l'esercito russo si è lasciato alle spalle, e che invece l'esercito ucraino sta conservando in un camion frigorifero. Come le migliaia di corpi trovati in tutto il Paese. Le indagini nazionali e internazionali partono da questi nomi.

«Era il 3 marzo - spiega il vicesindaco Shepitko -. Il nostro esercito ha respinto un primo tentativo di occupazione sulla strada davanti alla stazione di Bucha. Lì sono stati uccisi quei tre soldati russi. Poi la città è stata presa. Dal giorno successivo sono incominciate le atrocità contro la popolazione civile. Io e il sindaco Anatoly Fedoryuk ci siamo dovuti rifugiare in un luogo segreto per alcuni giorni, solo il 12 marzo siamo riusciti a fuggire. I russi volevano sequestrarci».

Mentre parla il vicesindaco di Bucha continua a guardare di lato, come in preda a un riflesso condizionato. Nel suo ufficio manca la bandiera ucraina perché è stata portata via dai russi. Tutto il piano soprastante è stato devastato.

«Nessuno di noi potrà mai dimenticare strada Yublunska piena di cadaveri. Non ce li lasciavano seppellire. Se uscivi per raccoglierli, eri morto a tua volta. Prima a Bucha sono arrivati i soldati russi, poi i ceceni. Allora le cose sono peggiorate molto. Diversi conoscenti mi hanno raccontato che i ceceni rubavano nelle case, uccidevano i cani, picchiavano senza un motivo. Era ormai la fine di marzo. Sono stati quelli i giorni del massacro».

Dai tre soldati russi uccisi davanti alla stazione è stato possibile risalire al primo battaglione arrivato a Bucha, i satelliti hanno registrato gli spostamenti dei carri armati.

Alcuni post su Telegram hanno permesso di identificare altri soldati. Così come alcune scritte lasciate nella ritirata, che inneggiano al comandante ceceno Ramzan Kadyrov, hanno confermato l'arrivo dei ceceni. C'è anche una lettera d'amore scoperta dalla giornalista della Reuters Mari Saito, spedita al soldato Alexandr Logvinenko, paracadutista di Pskov in missione a Bucha: «Di notte sogno di noi, dei nostri baci. Ti amo follemente e mi manchi tanto. Ma stai servendo la madre patria e ci stai proteggendo. Sono orgogliosa di te».

Sono già dieci i soldati russi identificati e sospettati di aver commesso dei crimini a Bucha. Ma più ancora delle prove trovate sui cadaveri e delle tracce lasciate dai massacratori nelle case, contano le migliaia di testimonianze raccolte in queste settimane dagli investigatori. 

Sono le parole dei sopravvissuti che hanno permesso di aprire 323 procedimenti per crimini di guerra. «Se provavi a guardare fuori, i russi sparavano contro le tue finestre», dice il signor Mikhail Puzov.

«Sono venuti anche da me. Ho riconosciuto l'accento bielorusso di un soldato, allora si è calmato. Mi ha detto che era originario di Gomel, e anche io sono di quella zona. L'ho guardato negli occhi: "Ma cosa state facendo?". "Seguiamo le istruzioni", mi ha risposto. "Se non facciamo la guerra, ci uccideranno o ci metteranno in prigione". Il giorno dopo, io stesso ho seppellito quattro cadaveri dentro alla fossa di un garage in costruzione. Erano persone disarmate. Erano amici».

Il suono della città di Bucha è quello delle mine che esplodono nei boschi e nelle campagne, tutt' intorno. Anche questo è un lascito dei russi in ritirata. Squadre speciali stanno cercando di liberare i sentieri agricoli.

Era un posto di orti, di case di villeggiatura. Di cani liberi per le strade. Questo doveva sembrare il posto più pacifico del mondo prima del 23 di febbraio. Al cimitero un intero viale ha tombe di terra appena smossa, centinaia di metri. È la terra in cui riposano le vittime del massacro. 

I cadaveri adesso hanno un nome e un cognome. Ci sono fiori e bandiere. Sotto il sole a perpendicolo, il becchino Vitaly Kolyada sta scavando un'altra fossa. Per chi è? «Non lo sappiamo ancora. Ma sappiamo che servirà». 

Da blitzquotidiano.it il 12 maggio 2022.

Un video ripreso dalle telecamere di sorveglianza di una concessionaria di automobili alle porte di Kiev pubblicato dalla Cnn mostra cinque soldati russi che fanno irruzione e sparano senza motivo su due civili disarmati. I due sono morti. Un procuratore ucraino ha dichiarato di avere aperto un’indagine per crimini di guerra dopo avere visto il video ottenuto dalla Cnn. Le immagini risalgono al 16 marzo, il luogo è la strada principale verso la capitale ucraina, dove ci sono stati pesanti combattimenti in quei giorni. Il video mostra i soldati russi che cercano di fare irruzione nella concessionaria sparando alle serrature e rompendo i vetri. 

I soldati russi e i civili disarmati

Quando il proprietario si avvicina con le mani alzate, lo fermano e sembrano perquisirlo in cerca di armi. Arriva anche il guardiano e viene perquisito. C’è uno scambio di frasi, poi i soldati si allontanano e i due civili vanno verso il posto di guardia dell’attività: a quel punto almeno due soldati arrivano alle spalle degli uomini e aprono il fuoco. Entrambi i civili cadono a terra. 

Lasciati a terra agonizzanti

Una delle vittime era il proprietario della concessionaria, la cui famiglia ha chiesto di non essere citata. L’altro era Leonid Oleksiyovych Plyats, un uomo di 68 anni che lavorava come guardiano. Plyats era ancora vivo quando i soldati si sono allontanati per entrare nella concessionaria: il video lo fa vedere mentre si alza e va zoppicando al suo posto di guardia. Lì prende un telefono per chiedere aiuto. I volontari, a causa dei combattimenti in corso, non riescono ad arrivare subito. Infine quando riescono a raggiungerlo lo trascinano fuori, lasciando un’ampia striscia di sangue. L’uomo è morto lì, ormai dissanguato.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 14 maggio 2022.

Kiev Occhi bassi e mai una parola. Il sergente e presunto criminale di guerra Vadim Shishimarin è nella gabbia di vetro degli imputati, e davanti a quei vetri c'è un muro di telefonini e telecamere che lo riprendono.

È lui, l'uomo del giorno di questa guerra. Lui, con la sua felpa grigia e blu, con i suoi 21 anni, con i suoi capelli rasati e la sua faccia da bambino.

È accusato di «violazione delle leggi e dei costumi di guerra» e ieri ha visto per la prima volta i giudici della Solomianskyi District Court di Kiev all'udienza preliminare.

Saranno loro a stabilire quale debito dovrà pagare alla giustizia per aver fatto quello che ha fatto. E cioè sparare a un pover' uomo che ha avuto la disgrazia di capitare sulla sua stessa strada.

Era il 28 di febbraio, la guerra era cominciata da quattro giorni. Vadim era al comando dell'Unità 32010, Quarta divisione carri della Guardia Kantemirovskaja, regione di Mosca. Lui e i suoi uomini erano nel villaggio di Chupakhiva, nell'Oblast di Sumy, quando l'Unità è finita sotto attacco. Per scappare lui ed altri quattro hanno rubato un'auto, e mentre uscivano dal villaggio sono incappati in quell'uomo: un signore di 62 anni in bicicletta che pedalava verso casa sua, ormai a pochi metri da lui. Stava parlando al telefonino, quel tizio. E loro hanno creduto che avvisasse qualche soldato ucraino della loro presenza. Questo ha raccontato Vadim. E ha giurato che «mi hanno dato l'ordine di sparare e non potevo rifiutarmi. Ho sparato dal finestrino con il mio kalashnikov». 

Il giovane sergente russo rischia da dieci anni all'ergastolo. Quattro giorni fa era stata la procuratrice generale, Iryna Venediktova, ad annunciare la sua incriminazione pubblicando, come sempre, un riassunto delle accuse, l'identità e una fotografia dell'accusato.

È il primo processo aperto per crimini commessi durante questa guerra e la procuratrice ha fatto sapere nelle ultime ore che sono 600 i sospetti autori di crimini di guerra già identificati, mentre è salito a 10.700 il numero dei casi ai quali si sta ancora lavorando per risalire ai responsabili.

Come tanti altri militari catturati dall'esercito ucraino, anche Vadim Shishimarin è stato intervistato da Volodymyr Zolkin, blogger e giornalista che ha avuto il permesso di parlare con i prigionieri di guerra e di riprenderli in video. Nell'intervista lo si vede con la stessa felpa grigia e blu che indossava ieri. «Sono andato in guerra per aiutare mia madre che non ha soldi», dice ripetendo quel che aveva raccontato agli uomini dei servizi di sicurezza ucraini che lo avevano interrogato subito dopo la cattura.

E racconta che alla sua Unità avevano detto che si trattava di esercitazioni in una cittadina russa, non della guerra contro l'Ucraina. «Dovevano essere esercitazioni militari a Voronezh», dice. E invece eccolo qui. In gabbia, davanti alla giustizia di Kiev, che gli ha messo a disposizione un interprete russo e un avvocato. Prossima udienza: 18 maggio.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 16 maggio 2022.

Le giovani truppe dell’esercito russo catturate dagli ucraina hanno raccontato gli orrori delle loro truppe e dei comandanti che le dirigevano. Intervistati dal giornalista ucraino Volodymyr Zolkin di Open Media Ukraine, i soldati hanno spiegato che i loro comandanti «eliminavano le ferite». 

«Proprio così: un soldato giace a terra, ferito, e il comandante del battaglione gli spara a morte con una pistola. Era giovane, era ferito. Era a terra. Gli è stato chiesto se poteva camminare. Quando ha risposto “no”, è stato ucciso».

Un secondo soldato racconta ancora. «Non è stato un singolo caso. Un colonnello stava passeggiando…». E il terzo soldato: «Ha sparato a quattro o cinque in questo modo. Erano tutti giovani». «Potevano essere salvati, aiutati, portati fuori di lì. Semplicemente li ha uccisi a colpi di pistola». 

Nel video non si capisce né dove né quando sarebbero avvenuti questi omicidi. Il video con i racconti dei soldati è stato condiviso dall’esercito ucraino poco dopo aver denunciato che la Russa non recupera i suoi morti.  

Kiev, primo processo per crimini di guerra: è un sergente russo di 21 anni. Sembra un ragazzo come tanti altri, ma è il primo militare russo imputato di crimini di guerra e portato alla sbarra dalla giustizia. Lo accusano di aver giustiziato un civile nel villaggio di Chupakhivka. Il Dubbio il 13 maggio 2022.

Ha appena 21 anni, ma ne dimostra ancora di meno. E a vederlo così, solo e smarrito nell’aula del tribunale che dovrà giudicarlo, il sergente Vadim Shishimarin dell’unità 32010-quarta divisione Panzer Kantemirov non può che suscitare una gran pena. Sembra un ragazzo come tanti altri, ma è il primo militare russo imputato di crimini di guerra e portato alla sbarra dalla giustizia di Kiev. Lo accusano di aver giustiziato un civile nel villaggio di Chupakhivka, nella regione di Sumy, si tratta un uomo di 62 anni che tornava a casa con la sua bicicletta.

La procuratrice generale di Kiev Iryna Venediktova lo accusa di aver giustiziato un civile disarmato nel villaggio di Chupakhivka, nella regione di Sumy, si tratta un uomo di 62 anni che tornava a casa con la sua bicicletta. Il battaglione di Vadim era in fuga dopo aver perso uno scontro con un reggimento dell’esercito ucraino e il ragazzo avrebbe premuto il grilletto per evitare che l’uomo segnalasse la loro posizione al nemico. Un omicidio premeditato quindi, che nello scenario di occupazione militare si configura anche come un crimine di guerra: rischia da 15 anni di prigione all’ergastolo. Vadim ha ammesso di aver sparato contro il civile in bicicletta ma specificando di aver obbedito a un ordine di un suo superiore. In un’intervista rilasciata a un blogger ucraino dopo il suo arresto ha peraltro raccontato che non sapeva che sarebbe stato mandato a combattere ma solo di dover compiere un esercitazione al confine del Donbass. Anche lui, suo modo, è una vittima della guerra di Putin.

Da ansa.it il 18 maggio 2022.

Si è dichiarato colpevole il soldato russo, Vadim Shishimarin, 21 anni, accusato di crimini di guerra nel primo processo che si è aperto in un tribunale di Kiev dall'inizio dell'invasione di Mosca. 

Alla domanda in aula se fosse colpevole delle accuse, inclusi crimini di guerra e omicidio premeditato, il sergente ha risposto "sì". 

Il processo, che sarà seguito da molti altri, costituirà una sorta di test per il sistema giudiziario ucraino in un momento in cui anche le istituzioni internazionali stanno conducendo delle indagini sugli abusi commessi dalle forze militari russe.

Vadim Shishimarin era comparso in tribunale a Kiev il 13 maggio per l'udienza preliminare. È accusato di aver ucciso un uomo di 62 anni nel nord-est dell'Ucraina il 28 febbraio. Il giovane soldato originario di Irkutsk in Siberia, su cui pendono le accuse di crimini di guerra e omicidio premeditato, rischia l'ergastolo. 

Le autorità ucraine hanno detto che il giovane sta cooperando e ammettendo i fatti avvenuti appena pochi giorni dopo l'invasione russa. Secondo gli inquirenti Shishimarin era a capo di un'unità russa su una divisione di carrarmati quando il convoglio è stato attaccato.

Lui e altri 4 soldati hanno rubato una macchina e, mentre viaggiavano vicino al villaggio di Shupakhivka, nella regione di Sumy, avrebbero incontrato il 62enne su una bici. "Uno dei soldati ha ordinato all'accusato di uccidere il civile perché non li denunciasse", ha spiegato l'ufficio del procuratore. 

Shishimarin ha fatto fuoco da un Kalashnikov dal finestrino del veicolo e "l'uomo - aggiunge l'accusa - è morto all'istante, poche decine di metri dalla sua casa" 

Silvana Logozzo per Ansa il 19 maggio 2022.

Forse è questo il giorno più duro, anche più di quando arriverà la sentenza, per Vadim Shishimarin, il sergente russo di appena 21 anni accusato di crimini di guerra e omicidio premeditato di un civile disarmato in un villaggio di Sumy il 28 febbraio. Davanti ai giudici del tribunale di Kiev si è alzato in piedi per la deposizione, ha parlato in russo cercando di apparire calmo. Anche quando l'accusa ha chiesto per lui l'ergastolo. Ma Kateryna Shelipova, vedova dell'uomo che Shishimarin ha ammesso di avere ucciso a colpi di AK-47 mirando alla testa, ha preso coraggio e anche lei si è alzata guardandolo dritto negli occhi.

Gli ha chiesto che cosa avesse provato quando ha assassinato suo marito Oleksandr, 62 anni, che per lavoro guidava un trattore. Se si era pentito del suo crimine. "So che non sarete in grado di perdonarmi, ma comunque vi chiedo perdono", le ha risposto il soldato bambino. Kateryna ha voluto fargli ancora delle domande: "Dimmi per favore, perché siete venuti qui? Per proteggerci?", ha detto, ricordando la giustificazione di Vladimir Putin per l'invasione dell'Ucraina. "Siete venuti per proteggerci da chi? Mi avete protetto da mio marito che avete ucciso?". 

Shishimarin è rimasto in silenzio. Che cosa avrebbe potuto raccontare. Ma qualche altra frase a sua discolpa l'ha voluta pronunciare, vero o falso che sia: "All'inizio mi sono rifiutato di sparare, non volevo, ma mi è stato ordinato, sono stato minacciato da un altro soldato". Dentro il box di vetro e metallo, Vadim è apparso ancora più sparuto, chiuso nel suo spavento. Ha cercato di non mostrare sentimenti. Neanche quando Katerina ha detto che quel giorno ha sentito gli spari mentre era in casa, è uscita subito fuori e dal cancello ha visto quel soldato che aveva ancora l'arma in mano. Subito dopo ha trovato Oleksandr a terra in strada, morto. "La perdita di mio marito è tutto per me", ha dichiarato ai giudici, "era lui che mi proteggeva". 

Poi si è seduta sulla sua sedia in quell'aula di tribunale affollata di giornalisti, tutti gli occhi puntati su di lei e l'imputato, il viso arrossato, una fascia nera sul capo e le labbra strette per non dire più nulla. L'avvocato d'ufficio di Shishimarin, Volodymyr Ovsyannikov, ha dichiarato che solleverà la questione se il prigioniero di guerra chiamato a deporre stia fornendo la sua testimonianza di sua volontà. Il prossimo testimone sarà un altro soldato russo che si trovava nella macchina rubata dall'imputato e altri tre commilitoni quando le cose si erano messe male dopo quattro giorni di battaglia.

Secondo la ricostruzione della procura di Kiev, Shishimarin e gli altri sono riusciti ad arrivare nel villaggio di Chupakhivkai con la macchina appena sequestrata, lungo la strada hanno incrociato un uomo che stava tornando verso casa in bicicletta e parlava al cellulare. Il comandante ha ordinato di ucciderlo per evitare che li denunciasse ai militari ucraini. Vadim gli ha sparato. Il Cremlino ha dichiarato di non avere informazioni sul caso e naturalmente del processo che sta facendo il giro di tutti i media del mondo non c'è traccia su quelli russi.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2022. 

Imputato, si presenti. «Mi chiamo Vadim Shishimarin. Sono nato a Ust-Ilimsk. Sono sergente caposquadra della 4a divisione Kantemirovskaya». È sposato?

«No». Ha figli? «No». Ha condanne precedenti? «No». È consapevole delle accuse di crimini di guerra e d'omicidio premeditato che le sono rivolte? «Sì». Come si dichiara?

«Colpevole».

Nella piccola aula 14 tutta cristalli e acciaio del Tribunale di Solomiansky, alle 14 il sergente siberiano Vadim, un fisico minuto in una felpa troppo grande, rasato a zero e azzerato dai flash, sta seduto a testa bassa. S' alza solo quando i tre giudici gli danno la parola. E ne ha una sola: colpevole. D'aver partecipato all'uccisione d'un allevatore di 60 anni, bruciato vivo, e subito dopo d'aver eliminato a freddo il pensionato Oleksandr Shelipov, 62 anni, che passava in bicicletta pochi metri in là e aveva avuto l'imprudenza di chiamare qualcuno al cellulare. «M' è stato ordinato di sparargli e gli ho sparato - si difende il sergente Shishimarin -. È caduto. Siamo andati oltre». 

«È un ragazzino - è stupita Katerina, la vedova -, ma deve prendersi le responsabilità: le persone non s' uccidono in quel modo». Dopo tre mesi, e senza che s' intravveda una tregua, l'Ucraina accelera e porta in aula i russi che considera non solo prigionieri, ma anche criminali di guerra. 

Per il sergente Shishimarin, il primo della lista, allestisce un processo simbolico: «Un segnale - spiega la procuratrice Iryna Venediktova -, perché nessuno pensi di sfuggire alle responsabilità».

«È un caso senza precedenti nella nostra giustizia - ammette l'avvocato d'ufficio, Viktor Ovsyannikov -, il mio assistito ha accettato di collaborare. Non è buono, né cattivo: è un ragazzo. Chiedo che i giudici ascoltino la legge, non i loro sentimenti». 

Quando l'hanno catturato, i servizi ucraini hanno registrato la confessione di Shishimarin. Integrandola con le testimonianze: il 28 febbraio a Chupakhivka, regione di Sumy, molti videro i carrarmati russi scontrarsi con l'esercito ucraino. 

Sotto attacco, Shishimarin e altri quattro tentarono la fuga («volevamo chiedere aiuto»), rubando una Volkswagen bianca e uccidendo l'allevatore. Incrociato il pensionato in bici, eliminarono anche lui per paura d'essere denunciati. «Sciocchezze - è sprezzante il padre del sergente, Yevgeny -, la guerra è guerra e può succedere di tutto».

A inchiodare Shishimarin, sarebbero le perizie balistiche sul suo Ak-74: il russo avrebbe mirato alla testa, da distanza ravvicinata, abbassando il finestrino dell'auto. «Ero in cortile - ha raccontato la vedova -, l'ho visto che puntava l'arma anche verso di me. Quando se n'è andato, mio marito era a terra fra due prugni». Per il Cremlino, il processo di Kiev è una «messinscena inaccettabile, sono stati fabbricati molti falsi».

Shishimarin rischia dai dieci anni di carcere all'ergastolo, ma non è detto che li sconti. Molti prigionieri potrebbero entrare in un futuro scambio coi soldati di Azov, catturati nell'acciaieria: oggi andranno alla sbarra altri due militari russi accusati d'avere sparato su edifici civili a Kharkiv.

La procuratrice di Kiev anticipa che ci sono 10.700 dossier aperti, con almeno 600 sospettati. Il governo ucraino punta molto sulla giustizia domestica e ha già pronto l'elenco: 700 denunce al giorno e 43mila casi segnalati, 200 stupri («ci sono adolescenti incinte») e un milione 300mila deportati in Russia, 4.500 palazzi civili distrutti Dal Tribunale dell'Aja sono arrivati 42 investigatori, una task-force mai vista. Occorrerà tempo, prima che s' aprano inchieste internazionali e indipendenti. Ma c'è un giudice, a Kiev. E ha molta fretta.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 maggio 2022.

«Deve marcire in prigione». La vedova di Oleksandr Shelypov, il pensionato 62enne ucciso con quattro colpi alla testa nel villaggio nord-orientale di Chupakhivka, non ha dubbi sulla sorte che deve toccare a Vadim Shishimarin, il soldato russo 21enne che ieri, per quel delitto, è comparso in tribunale a Kiev accusato di crimini di guerra in Ucraina. 

Sì perché, come racconta Kateryn Shelypova, che per 39 anni è stata sua moglie, Shelypov era un «pensionato pacifico» e quel giorno, il 28 febbraio, stava tornando a casa in bicicletta quando ha incontrato la morte. A ucciderlo è stato il soldato Shishimarin, in fuga con la sua unità su un’auto rubata dopo che le forze ucraine avevano fatto saltare in aria il loro carro armato. Così, imbracciato il fucile d'assalto AK-47 dal finestrino aperto, ha puntato l’uomo e gli ha sparato.

E pensare che Shelypov aveva prestato servizio nell’esercito russo come guardia del corpo del Kgb per l’ex leader sovietico Leonid Brezhnev. «Sono venuta a vederlo di persona. Sembra un bambino, ma comunque riceverà la sua punizione». Ha definito la morte del marito «insensata», aggiungendo: «Era solo di passaggio, non rappresentava alcuna minaccia per nessuno». La donna ha raccontato che il marito era uscito perché incuriosito dal carro armato russo appena saltato per aria. «Ho litigato con lui, dicendogli che non era sicuro uscire», ha detto. E lui mi ha detto: "Starò bene, è solo dietro l'angolo, ci vediamo dopo". Quelle sono state le ultime parole che mi ha detto».

Parlando di Shishimarin, ha detto: «So che è un militare e stava seguendo gli ordini, ma perché non ha sparato a terra o in aria?». «Dovrebbe marcire in prigione e passare il resto dei suoi giorni a pensare a quello che ha fatto».   

Oggi Shishimarin e altri tre soldati russi che erano con lui in macchina dovrebbero testimoniare. Non appena arrestato, Shishimarin ha confessato l’omicidio, ma ha spiegato di aver solo eseguito un ordine. Lo ha confermato anche ieri in tribunale rispondendo al giudice. Ha aggiunto che gli era stato ordinato di uccidere il signor Shelypov perché si temeva che il pensionato, che aveva un telefono in mano, avesse individuato l'unità di carri armati in fuga e stesse per riferire la loro posizione alle truppe nemiche. 

Da ansa.it il 23 maggio 2022.

Vadim Shishimarin, 21 anni, è stato giudicato colpevole nel primo processo a Kiev per crimini di guerra ed è stato condannato all'ergastolo per aver ucciso un civile disarmato pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione russa. 

Lo annuncia la Bbc. 

Il tribunale di Kiev, spiegano i media ucraini, ha trovato prove contro Shishimarin e ha concluso che l'omicidio era premeditato. La corte ha respinto le argomentazioni della difesa secondo cui il soldato avrebbe eseguito l'ordine perché era stato impartito da un altro militare. Il tribunale inoltre non considera sincero il rimorso dell'imputato. 

Da ansa.it il 23 maggio 2022.

Il soldato russo riconosciuto colpevole di crimini di guerra e condannato all'ergastolo a Kiev farà appello contro la sentenza. Lo ha affermato il suo avvocato. «Questa è la sentenza più severa e qualsiasi persona equilibrata la contesterebbe», ha detto l'avvocato, Viktor Ovsyannikov, dopo l'udienza del tribunale, aggiungendo: «Chiederò l'annullamento del verdetto del tribunale». 

Il soldato, Vadim Shishimarin, 21 anni, è stato giudicato colpevole nel primo processo a Kiev per crimini di guerra ed è stato condannato all'ergastolo per aver ucciso un civile disarmato pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione russa.

Chi è Vadim Shishimarin, il giovane soldato russo condannato all’ergastolo. Sergio D'Elia su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

È una forma di giustizia che fa letteralmente pena quella dell’ergastolo inflitto al sergente Vadim Shishimarin, il primo soldato russo processato per crimini di guerra in Ucraina. Vadim ha commesso un fatto orribile: nei suoi primi giorni di guerra ha tolto la vita a un uomo inerme e sconosciuto. Lo stato ucraino, in un aberrante rendiconto, ha condannato alla pena di morte viva un uomo nei suoi primi vent’anni di vita.

È apparso in tribunale chiuso, inerme e spaurito come un passerotto in una gabbia. Alla violenza, al dolore, alla disperazione del crimine di guerra, si è corrisposto in proporzione uguale e contraria con il castigo esemplare, pacificatore. Con il fine pena mai, la pena terribile, senza fine, senza speranza, fino alla morte. Non c’è pace senza giustizia, è vero, è giusto dirlo. Ma se la giustizia è questa, la pace può essere terrificante quanto una guerra. Non si annuncia nulla di buono per il dopo-guerra che non sia stato pensato, pre-visto, fatto per bene e per il bene prima, molto tempo prima, quando ancora impera il male, la violenza, il terrore. Occorre pensare oggi, sentire oggi, agire oggi, vivere nel modo e nel senso in cui vogliamo domani accadano le cose.

Se la risposta al male è questo bene, se il corrispettivo del torto è questo diritto, se il contrappeso di un reato militare è questo giudizio civile, la pace che si annuncia sarà quella del deserto, della solitudine, dell’abbandono. La “geopolitica” – la politica della terra – che si invoca sarà quella della terra bruciata, della terra di nessuno, di un mondo senza vita, senza amore, senza speranza. Questo ergastolo è una pena, letteralmente, “diabolica”: essa pone in mezzo ostacoli, divide, separa, e sarà causa di ulteriori conflitti e divisioni. Questo ergastolo è davvero la “catena perpetua” – come lo traducono in Spagna – di un ciclo di odi, violenze e vendette senza fine. L’altra parte farà a suo modo giustizia, reagirà con altrettanto violenza, con pene di morte e pene fino alla morte.

Cosa occorreva fare nei confronti di Vadim? Condannarlo a vivere, non condannarlo a vita. Occorreva uscire dalla logica rettiliana della giustizia penale, del delitto e del castigo. Occorreva scongiurare la maledizione dei mezzi sbagliati che distruggono i fini giusti. Occorreva mettere in circolazione e usare parole e strumenti di segno diverso, coerenti coi fini che si vogliono affermare. A partire dal caso del povero Vadim, l’Ucraina avrebbe potuto mostrare, prefigurare e, forse, già costruire qualcosa di diverso dalla violenza omicida e suicida di chi l’ha aggredita. Invece di essere il cambiamento, il futuro, il diritto e la pace che vuole vedere affermati sulla sua terra e nel mondo, l’Ucraina ha pensato a un tribunale di guerra, a un processo popolare, a un giudizio esemplare e alla pena senza speranza, al fine pena mai.

Eppure, non occorreva andare a cercare nella notte dei tempi per scoprire qualcosa di meglio del diritto penale. Il motto visionario “nessuno tocchi Caino” della Genesi e l’imperativo messianico “non giudicare!” del Vangelo, si sono inverati in tempi molto più recenti, alla fine del genocidio in Ruanda nel 1994 e in Sudafrica nel 1995 alla fine dell’apartheid, quando per sanare le ferite del passato e ristorare le vittime di immani violenze, crimini di guerra e contro l’umanità, non sono stati edificati tribunali ma “commissioni verità e riconciliazione”. È in questa visione, letteralmente “religiosa”, dei fatti della vita e del mondo, che tende cioè a tenere insieme, legare vite e mondi diversi, che è possibile riconoscere lo spirito, lo stato di grazia che, forse, ci salveranno. Sergio D'Elia

È giusto processare i prigionieri di guerra durante la guerra? VITALBA AZZOLLINI, giurista, su Il Domani il 05 giugno 2022

Il diritto internazionale non vieta i processi per crimini di guerra durante le ostilità. Anzi, la terza Convenzione di Ginevra afferma espressamente che «ogni istruzione giudiziaria contro un prigioniero di guerra» va condotta «al più presto possibile».

Non è corretto affermare che la competenza a giudicare i crimini commessi in guerra spetta esclusivamente alla Corte penale internazionale, in quanto istituzione super partes. La Corte giudica tali crimini solo se uno stato non vuole o non può farlo (principio di complementarità).

Al di là dei profili di diritto, ci si chiede se le istituzioni di un paese che è parte di un conflitto atroce possano giudicare i prigionieri di guerra in modo equo e giusto, garantendo loro un processo regolare, nonostante il coinvolgimento emotivo.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 25 maggio 2022. 

Non parto dal diritto, dai codici, dalle leggi nazionali e internazionali. Parto da un uomo, anzi dall'assassino. Il sergente dell'esercito della federazione russa Vadim Shishimarin condannato come criminale di guerra per aver ucciso un civile ucraino il 28 febbraio scorso. Condannato all'ergastolo da una corte civile di Kiev, tre giorni di udienze, lui reo confesso. È il primo, annunciano gli ucraini, di una lunga serie di processi esemplari a militari russi, che hanno già pronti e contro cui sostengono di avere prove inconfutabili dei delitti degli invasori. 

Quindi parlo di un assassino, lo ha ammesso lui stesso. Per qualcosa che è più di un omicidio, «un crimine contro la pace, la sicurezza, l'umanità, e la giustizia internazionale» come recita la sentenza.

Ho visto molti altri sguardi come quello del sergente Shishimarin ripreso nella gabbia degli imputati durante le udienze. Non so come definirlo. In esso vi era il tormento e la stanchezza di un animale braccato. Occhi pieni di intensa disperazione, occhi di un quadro sulla resurrezione di Lazzaro: questi mentre tutti intorno a lui in aula esultano e si congratulano per la giustizia fatta, li guarda con gli occhi di chi ha già visto il volto della Morte. In questo caso quella dell'uomo che ha ucciso. 

In fondo le riflessioni che ne traggo non riguardano il fatto, che sono obbligato ad accettare nella sua feroce semplicità: una strada di una città sconvolta dalla invasione, un uomo anziano con una bicicletta e un telefono in mano, un altro uomo, in divisa, che spara e quell'uomo muore. È un quadro di Goya, il bubbone gonfio degli orrori della guerra.

Ci sono i giusdicenti in toga, un difensore, delle prove, una confessione, una sentenza. Che si chiede di più per «ius dire», perché almanaccare? Tutto a posto, dunque. Tutto regolato. Ma questo processo si svolge all'interno di una guerra feroce e crudele. Ci dobbiamo accontentare? Ci possiamo accontentare per poter esclamare: bene, la giustizia ha trionfato? 

La riflessione affonda nella definizione del carattere assoluto, direi sacro, della Giustizia, il suo dover essere senza pieghe e sfumature, perché altrimenti scivola in qualcosa che non le assomiglia e che la nega, la vendetta. O la dimostrazione strumentale della fondatezza della propria causa.

È proprio il fatto che il male con la M maiuscola, quasi mistico nella sua inesplicabilità, e che conosco bene, non mi mostri nel sergente assassino il suo grugno ributtante, ma soltanto la solitudine assoluta di un uomo che non ha nemmeno il conforto di aver peccato per una buona causa, che mi spinge alla domanda: è legittimo processare i nemici colpevoli di crimini di guerra mentre la guerra è in corso? 

Non ci sono, automaticamente, tecnicamente, nel farlo elementi che indeboliscono quelle sentenze sacrosante? E non sul piano della opportunità politica che è parola che non mi interessa, ma proprio sul piano assoluto della giustizia. Questo assoluto è possibile mentre giudici e imputati stanno combattendo?

Si può dire che gli ucraini nella giusta foga di dimostrare la ferocia dei russi, forse hanno commesso un errore, esponendo i loro eroi, i soldati che hanno difeso l'acciaieria di Mariupol, a un ancor più pericoloso destino, essere cioè processati a loro volta per ritorsione e contro propaganda. 

Ma questo è secondario, calcolo politico, soppesare vantaggi e svantaggi. L'Ucraina ha certo il diritto giurisdizionale di processare gli aggressori colpevoli di crimini di guerra commessi nel suo territorio. La possibilità di affidare i processi a una corte imparziale appare tecnicamente impervia poiché i due Paesi in guerra non hanno mai firmato lo statuto di Roma che ha istituito la corte penale internazionale.

Ma un processo che si svolge in un tribunale ucraino mentre la guerra infuria può essere un processo regolare? Ad esempio. Chi è accusato di un reato così grave come l'omicidio di un civile ha la possibilità di citare liberamente testimoni a sua difesa? Un soldato russo potrebbe sostenere che ha sparato perché era sotto la minaccia diretta, in caso di disobbedienza, di essere giustiziato o punito dei suoi commilitoni.

Per provarlo, anche se questo non cancella la colpa di aver ucciso, dovrebbe poter citare come testi quelli che erano con lui e che lo avrebbero spinto a sparare. Ma questo in un tribunale che giudica mentre la guerra è in corso non è evidentemente possibile. I testimoni stanno dall'altra parte del fronte e anche se per assurdo si presentassero in aula verrebbero immediatamente arrestati come complici e potenziali assassini. C'è poi il diritto intoccabile alla difesa. Perfino ai criminali nazisti a Norimberga venne riconosciuto la facoltà di nominare avvocati scelti da loro. Fu possibile perché la guerra era finita.

Anche Adolf Eichmann, il lugubre impiegato dell'Olocausto, nel processo in Israele poté scegliere un avvocato tedesco. Un legale ucraino, assegnato d'ufficio, è compatibile con un concetto di Giustizia? Avvocato non troppo garrulo, la cui strategia di difesa, tra l'altro, si è limitata alla constatazione del carattere orrendo del delitto commesso dal suo assistito. Esiste poi il principio generale della impossibilità di celebrare un processo davvero equo in un clima ostile. Il fatto che il processo, e quelli futuri, si svolgano in un regime di legge marziale non è certo un rimedio alla fretta.

La legge marziale vale nei confronti dei soldati ucraini per punire eventuali reati di diserzione o di favoreggiamento del nemico. Non per i soldati dell'esercito nemico che sono tutelati dalla convenzione di Ginevra. A costo di sembrare ingenui verrebbe da aggiungere che lo scopo dell'ordigno penale non è essere festa catartica o costruzione di una memoria collettiva: è la obbligatoria punizione della colpa e il porre le basi di una possibile ricomposizione della convivenza che il delitto ha lacerato. Processare il nemico in tempo di guerra raggiunge questo scopo?

Il processo stonato. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 18 maggio 2022.  

M i chiedo che senso abbia processare un soldato per crimini di guerra durante una guerra. Lasciamo perdere che, almeno nella mia testa, i criminali di guerra sono i politici e gli ufficiali che ordinano i massacri, mentre il primo soldato di Putin a finire davanti a una giuria di Kiev è il sergente ragazzino Vadim, il quale durante una ritirata precipitosa ha sparato a un pensionato in bicicletta che parlava al telefono, nel timore che stesse segnalando al comando ucraino la presenza dei soldati russi. Non intendo certo assolverlo: egli stesso si è dichiarato colpevole. Ma non avrei cominciato con lui e forse non avrei cominciato proprio con nessuno: non adesso, a guerra ancora in corso. Lo trovo sbagliato e anche un po’ stupido. Sbagliato perché nei processi bisogna maneggiare le leggi, non le emozioni, e durante un conflitto non esistono il distacco e la serenità necessari per distinguere i panni del giudice da quelli del carnefice. Ma lo trovo anche un po’ stupido perché finisce per danneggiare i militari e i civili ucraini nelle mani dei russi, esponendoli al rischio di ritorsioni e maltrattamenti persino peggiori di quelli che già staranno patendo. Non so cosa preveda la convenzione di Ginevra al riguardo, ma se potessi dare un consiglio a Zelensky, che è giustamente sempre prodigo di consigli per noi, gli suggerirei di sospendere il processo a carico del sergente Vadim. Di rinviarlo alla fine delle ostilità per non trasformarlo, a sua volta, in un atto di ostilità.

Letizia Tortello per “la Stampa” il 17 giugno 2022.

«Secondo l'indagine, Fassakhov Bulat Lenarovich, nel marzo 2022 durante l'occupazione nel distretto di Brovary, ha fatto irruzione in una casa privata. Ha ordinato a tutti i civili presenti, tranne una donna, di andare nel seminterrato, e lì li ha rinchiusi. Poi, ha minacciato la vittima con le armi e con violenze fisiche contro di lei e i suoi familiari. Infine, l'ha costretta a spogliarsi completamente e l'ha violentata». Basta la crudezza delle parole della Procura di Kiev per descrivere le atrocità della banalità del male.

Un soldato di Mosca, capelli corti e viso pulito, giovanissimo a giudicare dalla foto segnaletica, avrebbe commesso uno dei più orrendi crimini che anche questa guerra non ha risparmiato: lo stupro.

Torniamo indietro a marzo. Siamo in un villaggio nella regione di Kiev. C'è da poco stata l'invasione e le truppe del Cremlino stanno tentando con ogni mezzo di conquistare la campagna che circonda la capitale. Devastano, saccheggiano nelle abitazioni, interrogano sommariamente, stuprano, uccidono chiunque. Come questo militare russo della 30a brigata fucilieri, identificato come il presunto autore della barbarie su una donna, insieme ad un commilitone. Non si è limitato ad un abuso, no. «Pochi giorni dopo, con altri tre soldati, ha stuprato un'altra ragazza, minacciandola di ucciderla. L'hanno violata a turno», continua il rapporto degli inquirenti.

Il soldato Fassakhov è solo uno dei tanti Vadim che con buona probabilità finiranno a processo per uno degli 11.239 reati, orrori legati al conflitto, su cui stanno indagando i magistrati ucraini. Il primo caso, diventato famoso in tutto il mondo, è quello del sergente russo 21enne Vadim Shishimarin, processato a Kiev per crimini di guerra per l'uccisione a sangue freddo di un civile ucraino disarmato di 62 anni a Sumy, il 28 febbraio scorso. Si è dichiarato colpevole, Vadim, è già stato condannato all'ergastolo il 23 maggio. Fassakhov è il secondo accusato di cui si conoscono le generalità. Per ora, non è ancora a processo, le indagini continuano, mentre è partita la caccia per trovarlo.

Se la battaglia infuria in Donbass, da Severodonetsk a Mykolaiv, dove ieri i russi sono tornati a bombardare dopo una strenua controffensiva, sui tavoli degli uffici della Procura di Kiev si moltiplicano i fascicoli aperti. I fronti sono due: si indaga sui militari di Mosca sospettati di torture e atti indicibili contro i civili ucraini, e sugli stessi ucraini collaborazionisti, che per paura, per costrizione, per tentare di salvarsi la pelle, si sono consegnati al nemico tradendo i loro stessi compaesani, segnalando abitazioni da razziare, le più ricche o quelle abitate dalle persone più deboli, dando ospitalità ai russi o fornendogli cibo e aiuti. 

È il caso di un prete 75 anni, originario di Radomka, nella regione di Chernihiv, e residente ad Andriyivka, che ha addirittura benedetto pubblicamente le truppe nemiche, poi le ha informate su quali case depredare. Il sacerdote è stato arrestato. «Sono 13 gli ucraini che hanno presumibilmente collaborato col nemico», dice il capo della Polizia della regione della capitale, Andriy Nebytov. I casi toccano tutto il territorio. Raccontano di chi ha fornito anche informazioni sulle operazioni di sabotaggio, o sui movimenti delle truppe di Difesa territoriale, addirittura sugli spostamenti di deputati locali.

Tra i reati si parla di tortura e uccisioni sommarie a uomini disarmati, anche anziani. È quello che è capitato a un 96enne veterano della seconda guerra mondiale: i russi sarebbero entrati a casa sua e gli avrebbero rubato la corrente. Poi, il saccheggio indiscriminato, anche dei suoi cimeli di guerra, dei riconoscimenti ricevuti nell'Unione Sovietica, e negli ultimi anni da Ministero e Forze dell'ordine. I militari di Mosca l'avrebbero schernito, picchiato. Avrebbero scattato foto, per sfoggiarle sui social network come trofei della disumanità. Ad un altro uomo, sempre nello stesso villaggio avrebbero sparato alla testa, senza pietà.

Anche la polizia nazionale segue decine di casi di indagini a carico di latitanti. Uno per tutti è un soldato russo di 29 anni, che si sarebbe macchiato di orrendi crimini nel villaggio di Moshchun: detenzione di civili, furti di cellulari, cibo, armi e vestiti, violenze. Rischia da quindici anni di carcere fino all'ergastolo. È sospettato anche di due uccisioni. È un puzzle che si arricchisce ogni giorno di più quello dei crimini della guerra della Russia all'Ucraina. Dalle fosse comuni di Bucha agli stupri, ai rapimenti dei minori.

E proprio ieri gli inviati speciali delle Nazioni Unite hanno tenuto una conferenza stampa a Kiev, in cui hanno parlato di indagini «sull'adozione di bambini ucraini portati illegalmente in Russia», ha spiegato Anton Gerashchenko, consigliere ed ex viceministro dell'Interno. «L'Alto Commissario per i diritti umani sta indagando sul presunto invio di bambini ucraini in territorio russo», ha detto. Sarebbero piccoli rapiti dagli orfanotrofi in questi mesi, pronti per essere dati in adozione a famiglie russe, cancellando ogni traccia della loro identità, condannandoli per sempre a traumi senza guarigione.

Ucraina, chiude la famiglia nello scantinato e stupra la loro figlia: come hanno scoperto Fassakhov Bulat. Libero Quotidiano il 18 maggio 2022

È stato identificato il soldato russo che avrebbe stuprato una ragazza dopo aver chiuso la famiglia in uno scantinato. I servizi ucraini lo stanno cercando. Si tratta di Fassakhov Bulat Lenarovich, 21 anni, originario della Repubblica del Tatarstan, in Russia centrale. Le unità della Sbu, il servizio di sicurezza ucraino, lo accusano di aver commesso, insieme al suo commando, diverse atrocità nella regione attorno a Kiev. A quanto pare il militare avrebbe fatto irruzione in una casa proprio nelle vicinanze di Kiev. Una volta dentro, l'uomo ha imbracciato l'arma e ha condotto, sotto minaccia, l'intera famiglia nello scantinato. Ha rinchiuso tutti tranne la ragazza. Poi l'orrore, ed è scattata la terribile violenza sulla povera ragazza ucraina.

Ma non sarebbe finita qui. Dopo lo stupro sarebbero arrivati altri tre militari russi che avrebbero continuato le sevizie sulla donna. I testimoni hanno sentito le urla disperate della ragazza mentre si trovava sotto le indicibili violenze del commando russo.

E adesso il militare è accusato di una serie di crimini contro i civili e le foto fornite della Sbu sono già in giro per tutta l'Ucraina per poter mettere le mani su Lenarovich. Dalle immagini diramate dagli ucraini l'uomo appare come un ragazzo giovane serio in divisa. A quanto pare dietro quello sguardo si nasconderebbe un orco. 

Da ansa.it il 6 aprile 2022.

ORRORE SENZA FINE - La Russia sta usando la fame come arma nel suo tentativo di conquistare l'Ucraina, dice Zelensky in un videomessaggio al Parlamento irlandese. 

E afferma che le azioni russe porteranno a una carenza di prodotti alimentari e a costi altissimi per milioni di persone nel mondo.

E torna a chiedere di convincere l'Ue a inasprire le sanzioni contro Mosca per fermare la macchina da guerra russa, rimproverando gli europei per "l'indecisione" sulle sanzioni. 

"Dal 28 febbraio, dopo i primi giorni dell'occupazione militare russa a Gostomel, abbiamo cominciato a raccogliere le liste delle persone scomparse. Finora ne abbiamo contate oltre 400: si tratta di concittadini con cui non riusciamo a stabilire alcun contatto. Tra questi, ci sono finora anche una quindicina di bambini. 

Altri quindici civili, a quanto ci risulta da fonti investigative, sono stati rapiti". Lo ha detto il sindaco facente funzioni della città di Gostomel, Taras Dumenko, all'inviato dell'ANSA a Gostomel. Dumenko sostituisce il sindaco, che è stato ucciso durante l'occupazione.

Venticinque ragazze hanno raccontato di essere state violentate dalle forze russe a Bucha. E' quanto ha affermato alla Bbc un alto funzionario ucraino. Lyudmyla Denisova, commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino, ha affermato che un numero gratuito che offre supporto alle vittime di violenza sessuale ha ricevuto almeno 25 denunce di stupro di ragazze di età compresa tra i 14 e i 24 anni da parte dei soldati russi. "Le violenze sono avvenute un mese fa. Continueremo a documentare questi terribili crimini e ogni criminale sarà punito", ha detto Denisova mentre Mosca nega di aver compiuto atrocità a Bucha.

A Mariupol i soldati russi hanno allestito crematori mobili per bruciare i corpi degli abitanti uccisi e coprire le tracce dei crimini contro i civili. Lo riferisce il Comune di Mariupol su Telegram, citato da Unian. Testimoni oculari hanno detto che l'esercito di Mosca ha reclutato "terroristi locali" e di Donetsk in forze speciali per raccogliere e bruciare i corpi, cioè lasciando il lavoro sporco ai "collaboratori". "I russi hanno trasformato Mariupol in un campo di sterminio. L'analogia sta guadagnando terreno. Questa non è più la Cecenia o Aleppo: è la nuova Auschwitz". (…)

Lo shock delle prime immagini dei morti abbandonati lungo le strade di Bucha, che si è poi appreso essere stati lasciati li da giorni o settimane, come provano immagini scattate quasi un mese fa da satelliti Usa, si è poi allargata con l'annuncio di nuovi orrori emersi a Irpin e Borodyanka. 

Le agghiaccianti immagini di cadaveri carbonizzati o abbandonati alla decomposizione, stritolati dai carri armati o gettati in bidoni e tombini come spazzatura, mostrati nel video che ha accompagnato il 'j'accuse' del presidente ucraino Volodymyr Zelensky all'indirizzo del Consiglio di sicurezza dell'Onu, hanno fatto il resto. Ma il mosaico degli orrori si arricchisce via via di nuovi tessere. Come il sindaco di Bucha, Anatoly Fedoruk, che ha detto di stimare che i russi abbiano ucciso nella sua città almeno 320 persone, dicendo di aver assistito di persona ad alcune esecuzioni. 

Come quella di una donna incinta che cercava con altre persone di fuggire verso Kiev in auto, uccisa dai soldati russi. O come il filmato ripreso da un drone ucraino a fine febbraio e diffuso nelle ultime ore che mostra un ciclista che percorre solitario la strada, che successivamente sarà ripresa piena di cadaveri, e viene abbattuto dai colpi sparati appena svolta a un incrocio da un'autoblindo russo appostato sulla traversa. Il suo cadavere appare nella stessa posizione un mese dopo, accanto alla bicicletta.

O una foto postata sul Guardian che mostra una fossa comune appena scoperta nella città martire, accanto a una chiesa. O la denuncia di soldatesse prigioniere di guerra dei russi, poi liberate, che hanno detto di essere state umiliate, intimidite e costrette a denudarsi. Oggi, nel 42/esimo giorno di guerra, preannunciato nella notte da allarmi aerei a Zaporizhzhia e nella lontana Leopoli, la comunità internazionale si appresta a un'ulteriore stretta su Mosca: nuove sanzioni sono in programma da parte degli Stati Uniti contro altre banche e imprese statali.

Bucha, Alessandro Sallusti: "Da Putin una foto ricordo per voi". Lo scatto che spazza via pacifisti e traditori dell'Occidente. Libero Quotidiano il 04 aprile 2022.

Mosca smentisce, del resto nega pure di stare combattendo una guerra. Eppure le fotografie che arrivano dalle città ucraine distrutte, saccheggiate e poi abbandonate dai soldati russi parlano chiaro. Di fronte a corpi di civili inermi giustiziati per strada o nei ripari di fortuna - per esempio un tombino - qualcuno può ancora sostenere che Putin ha le sue buone ragioni per fare quello che ha fatto e che sta facendo? Ci sono fotografie che hanno cambiato il corso di una guerra, a volte la storia stessa.

Nel giugno del 1972 in un paesino vietnamita vicino al confine con la Cambogia aerei dell'aviazione sudvietnamita armata dagli Usa sganciarono bombe incendiarie al napalm. Kim Phúc, una bambina di 9 anni che si riparava da tre giorni in un tempio, rimase colpita: il suo braccio sinistro prese immediatamente fuoco, il suo vestito si distrusse in pochi secondi. Scappò dal tempio e cominciò a correre - gridando «Scotta! scotta!» - e un fotografo dell'Associated Press scattò una foto di lei nuda che fuggiva verso una improbabile salvezza (che in effetti miracolosamente trovò). In molti hanno sostenuto che quella foto contribuì ad accelerare la fine della guerra del Vietnam tanto fu l'emozione e lo sdegno nell'opinione pubblica americana e mondiale di fronte a tanto orrore. 

Tra la foto della piccola Kim e quelle che stanno arrivando in queste ore dall'Ucraina la differenza più importante è che la prima è stata sbattuta in faccia dalla stampa libera anche ai cittadini del paese considerato allora aggressore, gli Stati Uniti, mentre il popolo russo prigioniero della censura e della propaganda putiniana mai vedrà i massacri gratuiti commessi dai suoi soldati, mai potrà vergognarsi del proprio leader e quindi mai sentirà il bisogno di ribellarsi. Noi però quelle foto le possiamo vedere, l'Occidente certo non è un paradiso terrestre e avrà anche le sue colpe ma ha un'arma micidiale sconosciuta al nemico: la libertà dei suoi cittadini. E nessun uomo libero, di destra o di sinistra che sia, di fronte a queste immagini può girarsi dall'altra parte, fare finta di niente o collocarsi nella zona neutra del né con Putin né con gli ucraini. Fermare la ferocia russa è l'unica via per arrivare alla pace, quei corpi di civili a terra inutilmente crivellati ci dicono che gli ucraini mai potranno arrendersi, e noi con loro.

Da repubblica.it il 20 maggio 2022.

Emergono nuove prove delle atrocità commesse dai soldati russi a Bucha, cittadina a nord-ovest di Kiev. Le fornisce un'inchiesta del New York Times che ha diffuso dei video che mostrano come i russi abbiano giustiziato almeno 8 uomini ucraini nel sobborgo della capitale. 

I video ottenuti dal New York Times risalgono al 4 marzo. Nelle immagini si vedono le forze paracadutiste russe che catturano un gruppo di uomini ucraini che vengono condotti in fila verso un cortile dove poco dopo verranno giustiziati: gli uomini, se ne contano 9, camminano ricurvi, con un braccio sulla testa e l'altro a tenere la cintura del compagno davanti.

I video, spiega il quotidiano, sono stati girati da una telecamera di sicurezza e da un testimone in una casa vicina. 

Il video in cui si vedono gli uomini catturati termina, ma quello che è accaduto successivamente viene raccontato da alcuni testimoni, spiega il Nyt: i soldati hanno portato gli uomini dietro un vicino edificio che era stato occupato dai russi e lì ci sono stati degli spari: gli uomini catturati non sono tornati indietro.

Un video filmato da un drone il 5 marzo "fornisce la prima prova visiva che conferma il racconto dei testimoni: mostra i corpi morti a terra sul lato dello stesso edificio - spiega il quotidiano - mentre due soldati russi sono lì vicino di guardia". 

E nell’impegno della comunità internazionale per fare luce sui crimini di guerra commessi dai russi, arriva l’importante presa di posizione dei responsabili della giustizia di cinque paesi occidentali, che formano la cosiddetta alleanza "Five Eyes", e hanno annunciato di appoggiare l'azione legale dell'Ucraina. 

I ministri della Giustizia o procuratori generali di Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada e Nuova Zelanda hanno affermato in una dichiarazione di "sostenere" l'azione del procuratore generale dell'Ucraina Iryna Venediktova volta a ritenere responsabili i responsabili di "crimini di guerra commessi durante l'invasione russa".

L'Ucraina ha aperto migliaia di casi di crimini di guerra presumibilmente commessi da soldati russi dal 24 febbraio - e questa settimana è stato aperto un primo processo. "Sosteniamo la ricerca di giustizia dell'Ucraina e attraverso altre indagini internazionali, inclusa la Corte penale internazionale" e altri organi, hanno affermato nella loro dichiarazione congiunta.

“Condanniamo insieme le azioni del governo russo e lo invitiamo a cessare tutte le violazioni del diritto internazionale, a fermare la sua invasione illegale e a cooperare”. Il loro discorso arriva all'indomani del primo giorno del processo a un soldato russo, il primo ad essere processato in Ucraina per un crimine di guerra dall'inizio del conflitto. Vadim Shishimarin è accusato di aver ucciso lo scorso 28 febbraio nel nord-est del Paese Oleksandr Shelipov, un uomo di 62 anni. Ha ammesso i fatti e giovedì l'accusa ha chiesto l'ergastolo.

Bucha, i video inediti del New York Times: "Ecco le prove del massacro". La Repubblica il 20 Maggio 2022.

Alcuni video, ottenuti dal New York Times, mostrano come le forze paracadutiste russe abbiano catturato e giustiziato un gruppo di civili ucraini a Bucha, nei dintorni di Kiev, lo scorso 4 marzo. Nel primo video, registrato da una telecamera di sicurezza, i civili attraversano una strada in fila indiana sotto la minaccia di due militari armati. Tra gli uomini in ostaggio ce n'è uno con una maglia azzurra. Nel secondo video, ripreso da una casa vicina, quel gruppo di ostaggi viene fatto inginocchiare nel cortile di un edificio, anche lì si vede l'uomo con la maglietta azzurra. Secondo la ricostruzione del New York Times, i militari russi avrebbero condotto, a questo punto, i civili dietro il palazzo, uccidendoli, dopodiché si sono allontanati, come si vede nella terza sequenza in cui il plotone e un carro armato attraversano le strade di Bucha. Consapevoli delle loro azioni, sparano, come si vede, alle telecamere di sicurezza nel tentativo di cancellare le prove. Le tracce del loro eccidio restano tuttavia sul terreno, lo prova, a conferma della ricostruzione, la quarta sequenza catturata dal drone e ingrandita, in cui si vedono i corpi senza vita degli uomini uccisi, tra cui ben riconoscibile quello dell' uomo con una t-shirt azzurra. Ulteriori prove sono in alcune foto pubblicate sempre dal New York Times, in cui si vedono i corpi a terra, dei trucidati, tra cui quello dell'uomo con la maglietta azzurra.

Bucha, "cammina a destra putt***": poi la ammazza insieme ad altri 8 civili, il video dell'orrore. Libero Quotidiano il 20 maggio 2022

Un nuovo video inedito pubblicato dal New York Times mostra le atrocità commesse dalle forze militari russe a Bucha. Un filmato mostra un gruppo di civili ucraini in fila, costretti a marciare in una strada della cittadina alle porte di Kiev con il fucile puntato contro. Alcuni sono curvi, e con la mano si aggrappano alla cintura dell'uomo davanti a loro. Altri hanno le mani sulla testa. Le riprese delle telecamere di sicurezza riprendono la scena il 4 marzo scorso.

In tutto, ci sono nove persone. Gli ostaggi sono poi costretti a mettersi a terra, come segnala un secondo filmato, datato sempre il 4 marzo, girato da un testimone in una casa vicina. Fra loro, è ben visibile un civile con una felpa azzurra. "È l'ultima volta che questi uomini vengono visti vivi", si legge sul Nyt. "'Cammina a destra, putt***', ordina loro uno dei soldati".

"Gli uomini sono costretti a terra, incluso uno che indossa una felpa con cappuccio azzurra. Il video finisce. Ma otto testimoni hanno raccontato al Times cosa è successo dopo. I soldati hanno condotto i prigionieri dietro un vicino edificio che i russi avevano trasformato in una base improvvisata. Ci sono stati degli spari. I prigionieri non sono tornati". Le riprese di un drone il giorno successivo mostrano i corpi senza vita, fra cui uno con una felpa azzurra.

Le vittime si erano unite alle forze di difesa territoriale pochi giorni prima della loro esecuzione. Quasi tutti vivevano a poca distanza dal punto in cui sono stati uccisi. 

Civili giustiziati dai militari russi a Bucha: il New York Times pubblica video inediti. Il Dubbio il 20 maggio 2022.  

Gli ostaggi sono stati costretti a mettersi a terra, come segnala un secondo filmato, sempre il 4 marzo, girato da un testimone in una casa vicina.

Il New York Times pubblica video inediti di atrocità commesse dalle forze militari russe a Bucha. Un filmato mostra civili ucraini in fila, costretti a marciare in una strada della cittadina alle porte di Kiev con il fucile puntato. Alcuni sono curvi, e con la mano si aggrappano alla cintura dell’uomo avanti a loro. Altri hanno le mani sulla testa. Le riprese di telecamere di sicurezza riprendono la scena il quattro marzo. In tutto, ci sono nove persone.

Gli ostaggi sono poi costretti a mettersi a terra, come segnala un secondo filmato, sempre il 4 marzo, girato da un testimone in una casa vicina. Fra loro, è ben visibile un civile con una maglietta azzurra. Altri testimoni raccontando di aver udito degli spari. Le riprese di un drone il giorno successivo mostrano i corpi senza vita, fra cui uno con una maglia azzurra. Le vittime si erano unite alle forze di difesa territoriale pochi giorni prima la loro esecuzione. Quasi tutti vivevano a poca distanza dal punto in cui sono stati uccisi.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2022.  

Nove uomini in fila, curvi, che avanzano guardando l'asfalto e tenendosi per la cintura. Due soldati russi li tengono sotto tiro, li insultano, li guidano verso la morte.

Bucha, 4 marzo 2022. I carri armati e i paracadutisti putiniani sono tornati nel villaggio alle porte di Kiev. Gli ucraini li avevano già respinti e lo faranno anche questa volta. 

Di lì a pochi giorni si scopriranno le stragi di civili, di uomini, donne e bambini. Le fosse comuni, i cadaveri con le mani legate. L'inchiesta pubblicata ieri dal New York Times documenta uno di questi crimini: la fucilazione di prigionieri disarmati e inermi. 

I reporter del quotidiano americano hanno trascorso diverse settimane a Bucha, hanno raccolto testimonianze, documenti e, soprattutto, tre video girati da persone che abitavano vicino all'edificio di via Yablunska 144 trasformato dagli invasori in una specie di «Villa triste», dove assassinare i nemici.

La clip principale dura meno di un minuto. Comincia con la cattura di alcuni combattenti ucraini, identificati poi dal giornale. Non sono militari professionisti, ma semplici cittadini che hanno lasciato il lavoro in fabbrica, nei cantieri per unirsi alle milizie della resistenza.

Il 3 marzo le radio dell'esercito ucraino avvertono tutte le formazioni combattenti: attenzione i russi stanno tornando a Bucha. 

Un gruppo decide di abbandonare gli improvvisati e precari posti di blocco, protetti solo da qualche sacchetto di sabbia, e di rifugiarsi nella casa di Valera Kotenko, 53 anni. La mattina del 4 marzo scoprono di essere assediati. È solo questione di ore. Il New York Times pubblica gli ultimi messaggi inviati con i cellulari. 

Andriy Dvornikov, autista di una società di spedizioni, scrive alla moglie Yulia: «Non possiamo uscire. Ti chiamerò appena posso. Ti amo». Verso le 10.30 alcuni testimoni li vedono percorrere in fila indiana una delle strade principali di Bucha, scortati dai soldati russi. 

Tra i prigionieri spicca la felpa azzurra di Denys Rudenko: un dettaglio da tenere a mente.

I nove uomini vengono portati nella palazzina di via Yablunska 144. Ivan Skyba, 43 anni, costruttore, è l'unico sopravvissuto. Ecco il suo ricordo: «Mi trovo in una stanza con un mio compagno, Andriy Verbovyi. I russi ci picchiano, ci interrogano. A un certo punto sparano e uccidono Andriy. Poi veniamo a sapere che qualcuno ha confessato: "sì siamo dei combattenti". Il capo della pattuglia lo lascia andare. 

"Che ne facciamo degli altri?" chiede un soldato». La Convenzione di Ginevra garantisce a tutti i prigionieri «un trattamento umano». L'esecuzione sommaria è considerata un crimine di guerra. Skyba continua: «Il comandante risponde: "fateli fuori". Ci portano sul retro della casa, ci fanno inginocchiare e ci sparano addosso. Io vengo colpito al fianco. Cado. Non mi muovo. Non respiro. 

Dopo 15 minuti non sento più le voci dei militari. Mi rialzo e riesco a scappare». Il New York Times ha parlato con i medici che hanno curato Skyba. Poi ha confrontato le foto dei corpi abbandonati nel cortile di via Yablunska 144. Uno di loro indossa l'inconfondibile felpa azzurra di Denys.

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 21 maggio 2022.

Racconta che fin da ragazzino sognava di diventare un fotografo di guerra, Dmytro Kozatsky. Racconta che una volta, quando ancora studiava in Polonia, aveva sognato di mettere tanti libri in uno zaino e di correre a fotografare quello che accadeva al fronte. 

Strano sogno, che si è trasformato in una strana realtà: alla fine Dmytro, oggi 26enne, è diventato Orest: la guerra l'ha fatta, e l'ha anche fotografata, nel fronte più terribile del conflitto tra Russia e Ucraina, un fronte sotterraneo, nei labirinti di ferro e acciaio dell'immensa industria siderurgica Azovstal di Mariupol. In circa duemila hanno resistito per oltre 80 giorni agli attacchi dei russi.

Quando anche Denys Prokopenko, comandante del reggimento Azov, è stato costretto a dare l'ordine di «smettere di difendere la città» e di «salvare le vite», Orest ha fatto l'ultimo scatto, anzi un autoscatto: lui da solo, in piedi, in mezzo alle macerie, braccia aperte sotto un raggio di sole che penetra dal foro aperto da una bomba.

La bellezza quasi classica degli scatti di Orest, capace di ritrarre in primo piano arti amputati, volti sfigurati, con un straniante maestria, ha fatto il giro del mondo. Ieri, prima di tornare in superficie e arrendersi ai russi, ha deciso di lasciare al mondo tutto il lavoro svolto là sotto: le sue foto.

«Vi lascio le mie foto in alta definizione ha scritto su twitter inviatele a tutti i premi giornalistici e concorsi di fotografia, se riesco a vincere qualcosa, sarebbe niente male quando sarò di nuovo libero. Grazie a tutti per il sostegno che mi avete dato, a presto». 

La madre, Irina Yourchenko ha fatto sapere di non avere per ora visto il nome del figlio nella lista dei prigionieri ufficiali, né il suo volto nei filmati russi che ritraggono i militari ucraini disarmati in fila, o sui pullman che li portano nelle città occupate come Olenivka. «Non so dove sia ha detto la madre mi ha inviato un ultimo sms in cui diceva che era vivo».

Quasi 1700 sono i soldati ucraini già riemersi dai sotterranei di Azovstal, fra loro i militari di diverse unità dell'esercito, oltre al reggimento Azov, quello che raccoglie anche fazioni provenienti dall'ultradestra. Di Azov fa parte anche Dmytro. Sui suoi profili social non compare (o è stata eliminata) la propaganda spesso ultrà del reggimento. 

Le foto più vecchie sono lui in vacanza, al mare, a Kiev («La più bella città del mondo», scriveva). Ma è nel buio dei sotterranei di Azovstal che ha trovato l'ispirazione. Il 2 maggio, quando è cominciata l'ultima offensiva dei russi contro gli ucraini trincerati nell'acciaieria, Orest aveva postato un suo selfie vicino a un albero in fiore, là sopra, in mezzo alle fonderie: «Sarebbe perfetta come ultima foto, mi piacerebbe che tutti alla fine si ricordassero di me così.

È l'immagine che mi descrive meglio: anche nello scatto più orribile si può trovare qualcosa di meraviglioso. Ma voglio credere che questa foto non sarà l'ultima, ma soltanto un inizio». È seguito un reportage in diretta degno dei migliori fotografi di guerra. Colpiscono soprattutto i ritratti dei soldati. 

Sono i suoi compagni, militari volontari, molti arruolati da anni, probabilmente tra i più motivati dell'esercito ucraino e anche tra i più discussi, quelli che fanno dire ai russi «non accetteremo scambi di prigionieri, sono criminali di guerra», quelli che hanno dato il pretesto a Mosca di dire all'inizio dell'offensiva che c'era un'Ucraina da «de-nazificare»: eccoli davanti all'obiettivo di Orest, non hanno più braccia, alcuni non hanno gambe, uno è steso, ferito, sembra stia per piangere.

Uno solo trova la forza di sorridere e fa un segno della vittoria alzando una mano che sembra gli costi una fatica immensa, con l'altro braccio appeso al collo, ingessato in una complicata struttura di acciaio.

A commento del suo autoscatto, solo in un fascio di luce, Orest ha scritto che è il segno «che una via d'uscita da questo inferno buio esiste». «Prima di cominciare a scattare qua sotto, pensavo che avrei ripreso il dolore e la fragilità degli sguardi ha detto qualche giorno fa ma tutto quello che ho visto è determinazione, la determinazione di resistere»; la resistenza è finita ieri. 

Impossibile andare avanti per un esercito che non poteva più ricevere nessun tipo di rifornimento, né armi, né cibo, né medicine. Prima di andarsene, Orest ha detto addio al fronte anche a parole: «E questo è tutto. Grazie per avermi dato rifugio Azovstal, luogo della mia morte e della mia vita».

Se questa è Bucha. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2022.  

Sono sicuro che nelle prossime ore, ma forse già nei prossimi minuti, coloro che hanno messo in dubbio le responsabilità russe nei massacri di Bucha ammetteranno di essersi sbagliati. Non si pretende una retromarcia dal governo di Putin, che, essendo in guerra, è costretto a negare ogni verità che danneggi la sua propaganda. Ce la si aspetta da quanti in guerra non sono, se non sui giornali e nei talk, e hanno messo in dubbio la veridicità delle stragi, in qualche caso spingendosi a parlare di messinscena, ma più spesso sospendendo prudentemente (o pilatescamente?) il giudizio in attesa di prove inconfutabili. assomiglia molto a quel genere di prove. Documenta una delle esecuzioni compiute a Bucha dai russi in ritirata e mostra una fila di nove ucraini in abiti civili che camminano ricurvi verso la morte, tenendo un braccio sopra la testa e l’altro appoggiato alla cintura del compagno di sventura che li precede. Una testimonianza che dovrebbe azzerare i dubbi e le ricostruzioni spericolate, consentendo all’estenuante dibattito pubblico di fissare finalmente un punto condiviso. Si sono create fazioni contrapposte che tendono a esaltare le prove a favore della propria tesi e a minimizzare quelle che la mettono in cattiva luce. Riconoscere il marchio russo sugli orrori di Bucha sarebbe un gesto di onestà intellettuale e un segno di pace. Le ore e i minuti passano, ma attendiamo fiduciosi. 

Se questi sono uomini. di Paolo Di Paolo su La Repubblica il 20 maggio 2022.  

Le forze paracadutiste russe catturano un gruppo di uomini ucraini che vengono condotti in fila verso un cortile dove poco dopo verranno giustiziati: gli uomini - dice la didascalia - camminano ricurvi, con un braccio sulla testa e l'altro a tenere la cintura del compagno davanti.

Nessuna violenza somiglia a un’altra, nessun orrore è parente di un altro; la Storia si ripete ma non identica a sé stessa, e piuttosto occorre dire che, nel bene e nel male, si ripete l’umano. I paragoni e i paralleli non hanno senso. E chiedersi, davanti a immagini così, se questi siano uomini, presuppone - prima che la domanda tormentosa di Levi - la risposta implicita è inevitabile: sì, lo sono. Sono uomini.

C’è semmai - per stare alla riflessione che Levi porta all’estremo in quel libro ultimo e straordinario che è "I sommersi e i salvati" - da evocare la parola vergogna.

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. È stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che nessun uomo è un’isola, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato.

(ANSA il 20 maggio 2022. ) - I russi hanno completato la rimozione delle macerie del teatro di Mariupol bombardato a marzo, portando via i corpi di centinaia di civili. Lo ha affermato il consigliere del sindaco di Mariupol, Petro Andryushchenko, citato da Unian.

"Ora non sapremo mai quanti civili di Mariupol siano stati effettivamente uccisi dal bombardamento russo al Teatro d'arte drammatico. I morti sono stati sepolti in una fossa comune a Mangush", ha detto Andryushchenko, affermando che "è difficile immaginare un crimine di guerra e contro l'umanità più grande".

"Le 50 Bucha nascoste". Nino Materi il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr: "Eccidi in decine di villaggi. Un orrore che stiamo scoprendo man mano che i centri che erano in mano russa vengono liberati".

L'orrore di Bucha d'inizio aprile - com'era evidente senza paraocchi ideologici e complottistici - non era il semplice punto di arrivo di una guerra in cerca di pace, ma il ben più complesso punto di partenza di un conflitto proiettato su sempre nuove escalations di violenza. Nulla di casuale, tutto cinicamente calcolato a tavolino da chi (in testa Russia, Cina e Stati Uniti, con l'Europa in un ruolo ancillare) ha interesse che le bombe non vengano disinnescate dalla diplomazia. L'ennesima conferma - se mai ce ne fosse bisogno - viene dalla dichiarazioni di ieri rilasciate all'Ansa dal direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr, padre Vitalyi Uminskyi: «Ci sono una cinquantina di villaggi in Polyssia, regione nell'Ucraina del Nord ai confini con la Bielorussia, che hanno vissuto orrori come a Bucha». Parole che - a rischio di apparire cinici - potremmo dire che non sorprendono più di tanto: la realtà degli enormi interessi economici in campo e lo scenario geopolitico è infatti evidente e non appare tale solo a chi, strumentalmente, ha scelto di prestarsi al gioco incrociato delle propagande.

Poi ci sono le vittime vere (i soldati e, ancor peggio, i civili) maciullati dai razzi mentre i potenti si sfidano a Risiko. Una partita in cui sta cercando di inserirsi anche la Chiesa, con il Papa però molto incerto sul da farsi e i cui problemi di deambulazione sembrano essere la migliore metafora dell'incertezza su quale strada intraprendere. E allora ecco che la testimonianza di padre Vitalyi Uminskyi assume quasi il valore di un monito. Nell'ambito dell'incontro con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, il direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr ha denunciato «torture, uccisione di civili, distruzioni e saccheggi in almeno altri 50 villaggi in Polyssia. La stessa devastazione di Bucha, moltiplicata per cinquanta.

«Nel villaggio di Maryanivka - ha raccontato il religioso ucraino - sono morti cinque bambini che erano usciti dal rifugio della scuola che in quel momento è stata attaccata. I villaggi sono stati occupati dai russi per 47 giorni, ora liberati, ma solo in questi giorni sono stati raggiunti da Caritas, con grande difficoltà, perché quasi tutte le strade intorno sono minate». In questi giorni i volontari della Caritas stanno raggiungendo piccoli centri come Zirka, Lugovyky e Ragivka, portando per la prima volta aiuti resi possibili dalla protezione del militari di Zelensky che hanno liberato la zona. Fino a pochi giorni fa, l'intera area risultava infatti, irraggiungibile per strade interrotte e campi minati. Padre Uminskyi cita testimonianze dirette che parlano di «giovani soldati russi, spesso ubriachi, che hanno distrutto con l'ausilio di carri armati le case di civili saccheggiandole. Su alcune abitazioni i russi hanno scritto fascisti. Secondo gli abitanti della zona i russi sapevano chi cercare, soprattutto reduci della guerra del 2014 in Donbass che qui si sono trasferiti dopo il conflitto. I soldati avevano liste con i nomi di persone da colpire». «Tre di questi reduci - aggiunge il religioso a capo della Caritas locale - sono stati torturati con bruciature e uccisi». Una strage che si sarebbe consumata nel villaggio di Marianyvka: «Qui cinque bambini sono stati uccisi da un bombardamento russo nella scuola locale. I piccoli, al termine di un primo attacco, sono usciti dal loro rifugio rimanendo uccisi da un altro missile lanciato che ha colpito anche la struttura scolastica. I corpi dei bimbi sono stati sepolti nel cortile della scuola perché i russi non hanno dato il permesso di rimuovere i cadaveri». Altri testimoni citati da padre Uminsky aggiungono morte a morte: «Due giovani catturati, torturati e uccisi dai russi. I loro corpi sono stati ritrovati in questi giorni in una fossa scavata nei boschi». Immagini che fanno tornare alla memoria lo scempio di Bucha, che qualcuno ha perfino avuto il coraggio di definire «una messinscena». Invece quelle decine di corpi abbandonati lungo le strade o gettati nelle fosse comuni erano paurosamente «veri». Ma oggi come allora Mosca respinge le accuse di aver ucciso civili a Bucha, come ribadisce il ministero degli Esteri russo, Sergej Lavrov, bollando le foto ed i video sui morti di Bucha come «fake prodotti da Kiev e dai media occidentali». Qualcuno, forse, un giorno glielo rinfaccerà. Magari nel corso di un'intervista. Vera, possibilmente.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 6 maggio 2022.

Torture, mutilazioni, stupri, esecuzioni di civili inermi. Migliaia di crimini di guerra, ma anche l'ipotesi di genocidio. Ancora ieri mattina, mentre i 45 colleghi dei Paesi membri del Consiglio d'Europa si riunivano a Palermo, non era chiaro se e come Iryna Venediktova, procuratrice generale dell'Ucraina, sarebbe riuscita a collegarsi.

Ma quando la sua voce per dodici minuti è risuonata da Kiev nella sala d'Ercole di Palazzo dei Normanni, non si è trattato solo di un «very special intervention», ma di un atto d'accusa contro la Russia in un consesso internazionale.

La massima autorità giudiziaria ucraina ha ricostruito la tattica delle forze armate russe come emerge dalle prime indagini: prima le cose, poi le persone. «Fin dai primi giorni hanno preso di mira 5.137 edifici civili con bombardamenti indiscriminati» che hanno già distrutto 1.584 istituzioni educative e 340 strutture mediche.

«Ma quando è diventato evidente che non potevano prendere il controllo della capitale e decapitare il governo, hanno iniziato a colpire massicciamente i civili come forma di punizione, seminando paura e terrore con atrocità di portata crescente». 

Oltre a Kiev, Bucha, Irpin, Borodianka, Hostomel, «abbiamo situazioni simili in altre aree, e solide prove che i civili siano intenzionalmente presi di mira in modo diffuso e sistematico», anche se i russi si stanno attivando «per coprire le tracce e depistare le indagini».

Il catalogo delle brutalità comprende «corpi che giacciono allineati nelle strade, con mani legate e chiari segni di torture e mutilazioni; alcuni ancora con le biciclette o i cani, altri colpiti mentre cucinavano su fuochi di fortuna. Corpi di donne e bambini violentati e parzialmente bruciati sull'asfalto. Una camera di tortura a Bucha, per civili disarmati prima seviziati e poi fucilati. E violenze sessuali documentate con prove crescenti nelle regioni di Donetsk, Zaporizhia, Kiev, Lugansk, Kharkiv e Kherson».

Tra le 25 vittime di stupri, una è un minore. Altre otto indagini riguardano la deportazione in Russia e Bielorussia di 2.420 bambini. Nelle zone prese d'assedio «le forze russe stanno deliberatamente bloccando i corridoi umanitari per la consegna di cibo e medicine, nonché l'evacuazione di donne, bambini e anziani».

Caso limite è Mariupol, «una volta bella» e ora distrutta per il 90%, «con centinaia di civili e 500 soldati feriti ancora intrappolati nell'acciaieria Azovstal». La magistratura ucraina indaga su quasi 10 mila segnalazioni di crimini di guerra «e il numero cresce ogni giorno».

Quindici russi sono formalmente incriminati. Una separata inchiesta ipotizza il reato più grave del diritto umanitario: il genocidio. Ma da soli non ce la facciamo, avverte la procuratrice.

Difficile individuare colpevoli e testimoni (molti fuggiti all'estero), nonché trovare attrezzature di medicina legale e tecnologie informatiche per gestire la massa di denunce.

La cooperazione internazionale è necessaria «per farla finita con l'impunità dei colpevoli a tre livelli: soldati, capi militari, leader politici». Corte penale internazionale ed Eurojust collaborano; Polonia e Lituania hanno avviato indagini congiunte. Altri 16 Stati hanno aperto inchieste autonome. 

«Mi appello a voi, non perdete l'attimo, contiamo sul vostro aiuto», conclude Venediktova. «Vi aiuteremo in questo compito difficile», chiosa il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Parole e applausi tutt'altro che di circostanza.

Le prove di Bucha. Il gioco della propaganda putiniana e la comparsa dei fatti. Iuri Maria Prado L'Inkiesta il 21 maggio 2022.

Finora nessuno ha impedito ai parolai dei talk show di propugnare strampalate teorie senza avere contraddittorio. Ma ora che ci sono evidenze degli orrori commessi dai soldati russi in Ucraina, i filo Cremlino non possono più nascondersi dietro facili speculazioni.

Ammettiamo pure – ma ci sarebbe margine per discuterne – che sia parimenti dignitoso qualsiasi giudizio sulla pace e su come si debba ottenere, sulla guerra e su chi ne sia responsabile, sulla Russia e su Volodymyr Zelensky, sulla Nato e su Joe Biden, sulla Unione europea e sui doveri costituzionali dell’Italia. Ci sarebbe da discuterne perché un conto è che sia legittimo esprimersi in un senso o nell’altro (e su questo non ci piove), ma un altro conto è accreditare il principio per cui un giudizio vale l’altro, senza che chi osserva abbia il diritto – ma direi il dovere – di sbertucciare quello che platealmente si fonda sulla contraffazione, sulla menzogna, sulla censura del fatto vero e sullo spaccio di quello falso.

Detto questo (ma va detto, altrimenti la piattaforma del discorso resta sbilenca) qualsiasi giudizio ci si faccia sulle origini, sulla storia e sulle responsabilità della guerra all’Ucraina conserva un residuo di dignità a una condizione: e cioè che non ci si nasconda e non si neghi l’esistenza del corteo di fatti cui abbiamo assistito, e che non poco ha influito nell’orientare in malo modo il dibattito pubblico.

Vuoi dire che la guerra l’ha fatta Biden per venderci il suo gas? Bene, padronissimo. Vuoi dire che c’è dietro la finanza usuraia? Nessun problema, accomodati. Vuoi dire che i Protocolli dei Savi di Kiev sono i punti di riferimento fortissimo di tutte le storiografie democratiche e anti-imperialiste? Per carità, non te lo impedisce nessuno. Però nel propugnare queste raffinate teorie, please, i fatti non li nascondi. E, quando ne sei responsabile, ne rispondi.

E i fatti sono che, dall’esordio delle “operazioni speciali”, non nei bar di periferia ma dai palchi dell’informazione coi fiocchi, pensosa, democratica, perbene, ci si premurava di avvisare che i russi dopotutto procedevano con cautela, “per non spaventare la gente”. Se un ospedale era bombardato, sempre da lì si spiegava che bisognava vederci chiaro, perché magari l’avevano colpito per sbaglio, e poi i russi (bisogna far sentire tutte le voci, giusto?) dicono che era un covo di nazisti.

Se arrivava la notizia di uno stupro di massa, ci si affrettava a buttar lì che d’accordo, può anche darsi, ma insomma c’è propaganda da tutte le parti e quindi vai a sapere. Se circolavano le fotografie di una donna incinta tra le macerie, partiva la girandola dei post social che la ritraevano qualche mese prima in posa da modella, pagata allora per pubblicizzare rossetti e ora per pitturarsi la faccia di rosso a simulazione di ferite in realtà farlocche.

Se arrivavano le immagini di uno slalom di blindati tra una fila di cadaveri con un colpo alla nuca e le mani legate dietro alla schiena, i reporter di guerra embedded in talk show si mobilitavano per denunciare che a Bucha c’era qualcosa che non filava per il verso giusto, perché un cadavere non sta in quelle condizioni dopo tanti giorni, perché non c’erano bossoli, perché chi l’ha detto che li hanno ammazzati i russi, e se poi un satellite conferma tutto bisogna andarci piano lo stesso, perché la Spectre fa questo e altro. E poi il missile che fa strage alla stazione, mah, siamo sicuri che l’han tirato i russi? Piano, prima di tirare conclusioni: che pare non fosse più in dotazione di quelli lì, e semmai è probabile che sia un residuo bellico rimasto in mano agli Ucraini che fanno strategia della tensione. E via di questo passo.

Dopo di che continua pure a spiegarci che Zelensky ha regalato un lettone a Draghi e che a Palazzo Chigi c’è il traffico d’armi: ma dopo. Prima ci spieghi se è decente l’informazione con la Z: e se la tua legittimissima propaganda non se ne avvale.

Ecco le prove di Amnesty: crimini di guerra sistematici. Francesco De Remigis il 7 Maggio 2022 su Il Giornale.

La ong: "C’è uno schema, immagini di fosse comuni a Bucha". Il capo della Chiesa greco-cattolica: "Manuale del genocidio". 

Da un lato il tavolo negoziale che si allunga e si accorcia come una molla. Dall'altro il banco degli (ipotetici) imputati di crimini di guerra; su cui però difficilmente la comunità internazionale riuscirà a portare Vladimir Putin. Le modalità con cui il suo esercito agisce lo tengono al riparo da accuse dirette, e al massimo la procura di Kiev ha i volti di una novantina di militari dell'Armata rossa sospettati di atrocità contro villaggi inermi. Eppure, dice da Kiev la segretaria generale di Amnesty International, Agnès Callamard, «i crimini commessi dalle forze russe documentati in Ucraina includono sia attacchi illegali che uccisioni volontarie di civili».

Con sé, Callamard ha il plico con l'esito delle ultime ricerche sul campo. Indaga già da due mesi la Corte dell'Aja su richiesta delle autorità ucraine: che citano almeno 7.280 crimini di guerra riconducibili ai russi, mentre altri inquirenti in Svizzera, Polonia, Germania, Lituania, Lettonia, Estonia, Francia, Slovacchia, Svezia e Norvegia hanno aperto fascicoli basati sulle testimonianze dei rifugiati. Amnesty esprime però un giudizio terzo rispetto agli Stati coinvolti di riffa o di raffa nel conflitto; per esempio, l'ambasciatrice Usa all'Onu Linda Thomas-Greenfield vanta il possesso di «immagini che confermano fosse comuni a Bucha»; e visti i precedenti statunitensi, la cautela è d'obbligo. «Fatti orribili con cui il mondo deve fare i conti», insiste la diplomatica al Consiglio di Sicurezza.

L'Ong parla più nel dettaglio, e per la prima volta, di uno «schema», di «esecuzioni extragiudiziarie» da parte dei soldati di Mosca, «bombe a grappolo» e «bombardamenti sui civili». Nel mosaico dell'orrore realizzato in 12 giorni di analisi di centinaia di indizi, guidati da interviste, per Amnesty, il 1° e il 2 marzo «attacchi aerei russi» centrano 8 palazzi a Borodyanka in cui c'erano oltre 600 persone. Assalti «illegali» documentati anche in altre città e villaggi «a nord-ovest di Kiev»: Andriivka, Zdvyzhivka, Vorzel e soprattutto Bucha. Qui trovati due proiettili 9×39 millimetri perforanti a punta nera, che possono essere stati esplosi solo da armi particolari in dotazione a unità speciali delle forze russe, comprese quelle che operavano a Bucha tra il 4 e il 19 marzo.

«I responsabili, compresa la catena di comando, siano assicurati alla giustizia», insiste Callamard, che ammette però di non aver sufficienti elementi per sostenere che certi ordini siano partiti direttamente dallo Zar; il quale, dietro lo schermo dell'operazione speciale, si tiene al riparo anche dai «cavilli» che una guerra dichiarata comporta.

Stanare gli artefici dei massacri è un'impresa che richiede tempo e precisione, oltreché prudenza. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dice che i russi pensano di restare impuniti perché hanno il potere di uno stato nucleare. Il primo passo è individuare le forze militari presenti quando le atrocità si sono verificate e sotto quale comando, e in parte questo lavoro è stato fatto dalla Reuters a Bucha: documenti, immagini, nomi. Ma salire fino agli apparati del Cremlino, e a Putin, è ancora quasi impossibile. Amnesty invita intanto il Tribunale penale internazionale a conservare le prove per future indagini.

Mosca è anche nel visore dell'Osce, che il 5 aprile ha licenziato un report che non sottovaluta neppure le accuse di abusi rivolte a Kiev. La pressione degli ispettori di ogni Paese (anche italiani) si intensifica. L'impresa è collegare le scene dei crimini con gli alti dirigenti del Cremlino: a chi ha impartito gli ordini, se qualcuno lo ha fatto. «Oltre ai corpi massacrati, c'è il dramma degli stupri», denuncia il capo della Chiesa greco-cattolica Ucraina, l'arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk; le istruzioni date su cosa fare nei villaggi possono essere paragonate a «un manuale del genocidio», «l'intero popolo doveva essere eliminato», sostiene.

La pagina dei massacri è affrontata anche dall'Onu. L'ufficio dell'Alta commissaria per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha documentato «detenzioni arbitrarie» e «sparizioni forzate» di funzionari locali, giornalisti, attivisti, forze armate in pensione; a opera delle truppe russe e dei gruppi affiliati. «Al 4 maggio, 180 casi di sparizione», ha detto Bachelet. Il suo staff ha raccolto informazioni anche su donne violentate dalle forze russe. E a Mariupol civili ancora «intrappolati, in condizioni orribili», racconta il portavoce del segretario del Palazzo di Vetro Stephane Dujarric. Allarme condiviso dalla commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmila Denisova, che parla di «diritto alla vita minacciato a Popasna, Berezhna e nelle regioni di Donetsk e Lugansk, dove non ci sono più scorte di cibo e medicine, distrutte o sequestrate dai russi; 1,6 milioni di cittadini non hanno acqua potabile; 4,7 milioni quasi nella stessa situazione».

Ora negazionisti, pseudopacifisti e complottisti non hanno più scuse. Andrea Indini il 4 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'orrore di Bucha inchioda Putin ai suoi crimini di guerra ma talk show e social veicolano ancora distinguo pericolosi. Di cos'altro hanno bisogno i filorussi per accettare la realtà e condannare lo Zar?

Di cos'altro hanno bisogno per condannare Vladimir Putin? Cosa serve ai nagazionisti della "Commissione Dubbio e Precauzione", ai complottisti che affollano i talk show in prima serata, ai "professori del distinguo" come Alessandro Orsini che indagano ancora le ragioni dello Zar, agli pseudo pacifisti che votano contro l'aumento delle spese militari o che protestano contro l'invio di mezzi militari in Ucraina, agli anti-atlantisti che ancora militano nelle file dell'Anpi, ai pasdaran filorussi del calibro del grillino Vito Petrocelli, ai codardi che sin dall'inizio del conflitto suggeriscono a Volodymyr Zelensky di arrendersi per evitare la morte di altri innocenti, ai tiepidi che, pur deprecando le violenze perpetrate dal Cremlino, non sono ancora disposti a implicarsi fino in fondo?

Nemmeno la pioggia di fuoco sull'ospedale pediatrico di Mariupol aveva aperto i loro occhi. C'è ancora in giro chi parla, senza vergognarsi, di propaganda, di fiction. Già quelle immagini avrebbero dovuto inchiodarli alla realtà e obbligarli a vedere Putin per quello che davvero è, e cioè un criminale di guerra. Così non è stato. Davanti ai video, alle fotografie e alle testimonianze circolate dopo la barbarie di Mariupol, si era scatenato il solito circo dei distinguo, della "contro informazione" (come amano chiamarla), degli attacchi alla "narrazione mainstream" (altro termine che vanno sbandierando appena possono). Succederà lo stesso davanti all'orrore di Bucha? Ora che l'Armata russa si è ritirata e che dalle fosse comuni riaffiorano i corpi senza vita (cadaveri con le mani legate e un foro di proiettile nella nuca, uomini e donne, bambini e anziani) qualcosa, in loro, finalmente cambierà? Riusciranno a smetterla di gridare "Complotto!" e a silenziare, una volta per tutte, i distinguo per lasciar spazio alla verità?

A Mosca negano che alle porte di Kiev i loro soldati abbiano fatto carne da macello dei civili. Dicono che si tratta di provocazioni messe in giro dagli ucraini per bloccare i negoziati. Cos'altro avremmo mai potuto aspettarci da Putin e dai suoi uomini, gente che non ha mai ammesso di aver iniziato la guerra? Nulla di più. Il punto di rottura, però, non sono i russi, che negano le esecuzioni sommarie di Bucha, ma tutti quegli occidentali che vanno dietro alle menzone del Cremlino, che fanno da cassa di risonanza alla propaganda russa, che nei talk show e sui social network urlano contro gli Stati Uniti e la Nato, che in Aula voltano le spalle all'esercito di Zelensky sventolando bandierine della pace consumate e impolverate, che in piazza si richiamano a papa Francesco per non prendere posizione contro lo Zar. È da loro che, dopo quaranta giorni di brutali massacri, vorremmo sapere di cos'altro hanno bisogno per condannare, senza se e senza ma, Putin e ammettere che, se vogliamo davvero la pace, bisogna essere disposti a fare di tutto pur di fermarlo.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 4 aprile 2022.

Ha consigliato l'altro giorno Massimo Cacciari nell'assemblea del Dubbio e della Precauzione (DuPre) di «stare attenti ai toni»: nel senso, s' immagina di abbassarli, moderarli, raffreddarli. Ma è possibile? Detto senza ipocrisia, il problema è se al giorno d'oggi, per essere ascoltati, lui e gli altri intellettuali non siano invece costretti ad alzarli, a radicalizzarli e a infuocarli, questi benedetti toni. 

Nel dicembre del 2001, tre mesi dopo l'11 settembre, cominciarono ad andare moltissimo gli islamici, tanto più incendiari quanto più richiesti nei talk-show. Una volta, a Porta a Porta, proprio Cacciari se ne trovò a fianco uno particolarmente feroce che fece dei numeri terribili, sembra di ricordare anche a proposito del crocifisso. Durante un momento di silenzio, il filosofo si rivolse a Vespa: «Ma questo - disse incredulo - dove l'avete preso?».

Oltre vent' anni sono passati e in tutta onestà, all'insegna del dubbio e un po' anche della prudenza, la sensazione è che le condizioni del discorso mediatico non solo paiono decisamente peggiorate, ma la stessa vita pubblica si è in qualche modo trasformata in una gigantesca attività di casting. 

Di Carlo Freccero, altro esponente DuPre, si può pensare il meglio e il peggio, e lui è il primo a saperlo fin troppo bene. Per mantenersi bassi, si tratta certo di un uomo che sa sbalordire la platea, acclarato e anche acclamato performer perfino nelle aule parlamentari: messo sotto accusa in Commissione Rai, finì che il tribunalino lo congedò con applausi e abbracci. Insieme con la moglie, Daniela Strumia, ha scritto la prefazione alla Società dello spettacolo e ai successivi Commentari di Guy Debord (Baldini&Castoldi, 1997). 

Ebbene, così come gli scoppi d'ira televisiva di Cacciari sono uno spettacolo ipnotico, le provocazioni culturali di Freccero, la sua istrionica brillantezza nell'evocare e combinare teorie, simboli, figurazioni e apparenti bizzarrie, sono un gustosissimo bocconcino per ascoltatori, telespettatori e, come dimostra anche questo articolo, lettori. La pandemia ieri, la guerra oggi. 

Ma allungando la memoria si troverà che tanto Cacciari quanto Freccero hanno usato l'enfasi, i volti e i loro stessi personaggi per affermare opinioni e affermarsi come figure di primo piano nell'immaginario di questo tempo; è il loro mestiere e in fondo la loro vita. Non è pensabile che smettano, anche se una volta messi insieme l'effetto non è aggiuntivo, ma moltiplicatorio.

Con l'Ucraina l'algebra delle opinioni, ma più ancora delle visioni a distanza li ha messi in connessione con la nuova stella del professor Orsini, messia dell'analisi geostrategica ad alto impatto emotivo, ideale per il crash-show. Non si cadrà qui nella trappola se egli sia il pifferaio o meno di Putin, innanzitutto perché lontano dai teatri di guerra, e soprattutto in Italia, la rappresentazione con le sue maschere è ben più forte della politica; e poi anche perché dall'altra parte, quanto a pifferi "armiamoci e partite" non è che si scherzi tanto. Ma la risorsa scenica e generazionale di Orsini fa leva sull'ego, io qui, io là, io sento, tutti contro di me, ciao come sto. Anche questo sembra un effetto indotto.

Se troppo potere fa perdere la testa, troppa tv altera i sentimenti per cui a un indubbio sfoggio di competenze corrisponde una tenuta psicologica che sembra costantemente sull'orlo di una crisi di nervi - cosa che in prima e soprattutto in seconda serata è apprezzatissima, essendo il sonno il vero nemico. Molto altro naturalmente contribuisce al degradarsi del dibattito pubblico: il diluvio di parole, moltissime superflue, la quantità di immagini false, il narcisismo e la militarizzazione delle credenze, l'arcigna semplificazione e la necessità di costruirsi un pubblico. 

Il guaio vero è che nelle epidemie e nelle guerre tutto questo accelera la discesa giù per la china, al fondo della quale inesorabilmente qui da noi s' incontra il grottesco. Un baratro è l'uomo e il suo cuore un abisso, si legge nei Salmi (63,7): «Beati i perplessi » sospirava Guido Ceronetti.

Guerra in Ucraina, Kyrill Martynov parla delle fosse comuni a Bucha. Il Tempo il 03 aprile 2022.

Kyrill Martynov è il vicedirettore della Novaja Gazeta, il giornale recentemente chiuso dal regime di Putin perché diventato troppo scomodo per la propaganda del Cremlino. Nel corso della puntata di "Mezz'ora in più" in onda domenica 3 aprile, il vicedirettore elenca tutte le bugie dette dal regime di Putin dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina. Ultima solo in ordine di tempo quella sul massacro compiuto a Bucha, dove sono state commessi massacri e omicidi di massa con cadaveri gettate in fosse comuni.

"Poco prima dello scoppio della guerra, le autorità russe avevano detto ufficialmente di non avere nessun piano di attaccare - ha detto Martynov alla Annunziata - Era una menzogna. Dopo aver lanciato missili su Kiev e su altre città ucraine, le autorità russe hanno detto che non c'era una guerra in corso, che non avevano attaccato nessuno e che si stavano soltanto difendendo e che volevano fermare un qualche tipo di neonazismo. Adesso, dopo più di un mese di guerra, secondo le autorità russe l'Ucraina è quasi neonazista e continuano a dire di non aver attaccato nessuno e che tutta la guerra è una menzogna perché non dobbiamo credere che ci siano state fosse comuni e omicidi di massa a Bucha. Sono di nuovo parole delle autorità russe. Non so se ci sia un russo al mondo che possa credere alle parole pronunciate dalle autorità russe in questi giorni".    

Il vicedirettore della Novaja Gazeta affronta anche il tema della propaganda interna alla Russia. "Chi crede in questa guerra ha interessi comuni con Putin - prosegue Martynov - La visione del presidente russo è molto semplice: è convinto che soltanto le grandi potenze hanno una sovranità politica. Secondo Putin l'Europa è un fantoccio degli Stati Uniti. Il problema cruciale è quello che succederà nella regione del Donbass. La gente si sta nascondendo, c'è stata una campagna di mobilitazione forzata. Se questi territori resteranno alla Russia non ci sarà alcuna legge. Ora sappiamo la verità su questa guerra. Putin ha deciso scelto di attaccare. Abbiamo visto il ritiro delle forze russe da Kiev, lasciandosi alle spalle fosse comuni e commettendo crimini di guerra".

Ucraina, Ursula von der Leyen chiede inchiesta sui crimini di guerra. Il Tempo il 03 aprile 2022.

Le atrocità commesse dai russi a Bucha fanno insorgere la comunità internazionale. La presidente della commissione europea chiede di fare luce sugli autori dei massacri commessi in Ucraina nelle ultime settimane. «È necessaria con urgenza una inchiesta indipendente - ha scritto in un tweet la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, denunciando «gli orrori indicibili nelle zone da cui la Russia si sta ritirando. Gli autori di crimini di guerra saranno chiamati a rispondere», ha aggiunto.

E anche dall'Italia si fanno sentire voci che chiedono«Intollerabili le atrocità a Bucha e nelle altre aree da cui la Russia si sta ritirando. Bene Von der Leyen: serve un’inchiesta indipendente, i crimini di guerra non devono restare impuniti. Siamo con il popolo ucraino, contro l’orrore». Così su Twitter il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta 

La strage dei civili a Bucha: la lunga fila di cadaveri legati e la straziante fossa comune. Il Tempo il 03 aprile 2022.

Le forze ucraine hanno trovato a Bucha, abbandonati, in fila, su un’unica strada, la Yabluska, i cadaveri di almeno 20 uomini, civili. Alcuni di loro con le mani legati dietro la schiena con degli stracci e un colpo d’arma da fuoco sulla nuca. Il sindaco della cittadina a nord ovest di Kiev, Anatoly Fedoruk ha denunciato che i civili uccisi sono stati trattati dai russi in modo disumano e la presenza di almeno altri 280 corpi senza vita in fosse comuni in città. 

“Queste persone non erano militari. Non avevano armi. Non ponevano una minaccia. Quanti casi come questi ci sono nei territori occupati? Non chiediamo a nessuno di combattere la Russia con noi. Domandiamo solo una cosa, dateci le armi per proteggere i civili. Tutto il resto lo faremo da soli», ha scritto il consigliere del presidente Zelensky, Mykhailo Podolyak. I militari russi, testimoniano gli abitanti di Bucha citati dalla Bbc, hanno del tutto sfondato le porte delle case abbandonate dagli ucraini che erano fuggiti. 

Stupri a bambine, atrocità e crimini di guerra: la crudeltà senza fine nel conflitto in Ucraina. Il Tempo il 03 aprile 2022.

I ministri degli esteri di Gran Bretagna e Italia a muso duro contro la Russia. Le immagini dei corpi ammassati sulle strade di Bucha e le numerose segnalazioni di stupri su donne inermi da parte dell’esercito russo hanno scatenato la reazione mediatica dell’Occidente. “Lo stupro è un'arma di guerra. Nonostante non sappiamo ancora la portata totale di questo uso in Ucraina, è già chiaro che faceva parte dell'arsenale della Russia. Donne stuprate davanti ai loro figli, bambine davanti alle loro famiglie, come deliberato atto di soggiogamento. Lo stupro è un crimine di guerra” la durissima accusa su Twitter dell'ambasciatrice del Regno Unito in Ucraina, Melinda Simmons.

Anche Luigi Di Maio, rappresentante del governo italiano, ha usato il social network per esprimere il proprio dissenso: “Da Bucha immagini agghiaccianti. Corpi di civili ucraini a terra, uccisi, con le mani legate. Crudeltà, morte, orrore. Accertare il prima possibile l'esistenza di crimini di guerra. Queste atrocità non possono restare impunite. Con il popolo ucraino, la guerra russa va fermata”.

Nel frattempo diversi missili russi hanno colpito il porto ucraino di Mykolaiv, sul Mar Nero. Lo riferisce Anton Gerashchenko, collaboratore del ministero dell'Interno ucraino, citato dal Guardian. Le forze russe hanno attaccato diversi porti del sud dell'Ucraina, compresi Odessa, Mykolaiv e Mariupol, mentre provano a isolare l'Ucraina dal Mar Nero e creare un corridoio terrestre dalla Russia alla Crimea.

"Decine di stupri ai bimbi": l'accusa choc sui crimini dei russi. Alessandro Ferro su Il Giornale il 18 maggio 2022.

I crimini di guerra compiuti dai russi di Putin si arricchiscono sempre più di indelebili pagine dell'orrore impensabili per gli essere umani. Oltre alle 700 telefonate quotidiane che riceve il Commissario per i Diritti Umani dell'Ucraina, Lyudmila Denisova, con le denunce di violenze sessuali sui cittadini (più di 200) e i 43mila crimini compiuti in quasi tre mesi, la follia e lo schifo della guerra giungono al punto peggiore quando si apprende che almeno 60 casi di violenza riguardano i bimbi, stuprati e violentati.

La Denisova, che oggi si trova a Roma, ha specificato che nelle chiamate vengono segnalati "crimini atroci, come aver assistito a uccisioni di propri familiari. Ciò spinge alla disperazione, e per questo - ha aggiunto - è a disposizione una linea telefonica anche per il supporto psicologico: abbiamo già ricevuto 1.100 chiamate". La cosa più scandalosa è che "in almeno 104 casi su 400 segnalazioni di assassinii di familiari ci è arrivata la conferma della presenza di bambini". I russi uccidono e stuprano i bambini, ecco l'altra faccia della guerra di Putin. E a Kharkiv, per vendetta contro gli ucraini che si sono riappropriati del loro territorio, l'esercito russo sta compiendo nuovi crimini di guerra come racconta il Commissario. "In un'ora, due giorni fa, ne sono arrivate 10. Per 8 di queste si tratta di violenze su minori e in due casi su bambini di 10 anni". 

È comunque definito "agghiacciante" il racconto sui minorenni vittime di violenza sessuale, spesso anche al di sotto dei 14 anni. Il lavoro è lungo e difficile ma l'Ufficio legislativo ucraino competente ha già aperto procedimenti penali per verificare tutte le notifiche di violenza sessuale dei russi pubblicati su tutti i media e sui canali ufficiali della Denisova.

L'ideologia sanguinaria di Putin

L'obiettivo di quelli che la Denisova chiama "rashisti", ossia la sanguinosa ideologia della Russia di Putin, è quello di "estinguere il popolo ucraino e cancellare l'Ucraina dalla faccia della terra con bombardamenti dei quartieri residenziali e stupri in massa di donne e ragazze. Per dimostrare che gli ucraini non hanno diritto di vivere", spiega senza usare mezzi termini ad AdnKronos. Come abbiamo visto sul Giornale.it, torture e stupri sono iniziati ormai diverse settimane fa in città ucraine quali Bucka e Makariv per fare due degli esempi più lampanti, le cui vittime sono state quasi sempre le donne "che donano la vita, e attraverso i bambini garantiscono il futuro del mondo". Secondo il ragionamento di prima, ecco il perché di tanto accanimento da parte dei russi. "Dai sobborghi di Kiev, Chernhiv ed ora dai centri abitati di Kharkiv, Kherson, Zaporizhzhia in totale abbiamo ricevuto 900 denunce. In 135 casi ci sarà bisogno di sostegno psicologico a lungo termine".

Le testimonianze choc

E dopo la liberazione di Mariupol e Melitopol che adesso sono in mani russe, la situazione potrebbe peggiorare. Secondo l'Ufficio della Denisova, alcune testimonianze contro i militari russi raccontanto delle condizioni di alcune donne e ragazze ucraine violentate "che le avrebbero stuprate al punto che non avrebbero più potuto avere rapporti con nessun altro uomo". Gli stupri, spesso di massa, sono attuati oltre che contro le donne "anche su uomini, anziani e bambini piccoli", come scrive il lungo report dell'Ufficio del Commissario per i Diritti Umani. Accanto a chi parla, c'è chi ha paura e non racconta le violenze subìte: le testimonianze, infatti, sono soltanto una parte della realtà, non certamente il suo totale. "La violenza sessuale è uno dei crimini più taciuti durante la guerra. Le vittime non parlano. Hanno paura e si vergognano di chiedere aiuto, figuriamoci rivolgersi alle forze dell'ordine per denunciare il crimine".

La paura più grande riguarda eventuali ritorsioni ma anche il chiacchiericcio oltre alla disillusione che i colpevoli vengano davvero puniti. Le donne ucraine sono stuprate dal 2014, dall'epoca della Crimea, ma le informazioni non sono state diffuse in maniera quantomeno sufficiente e "per molto tempo il fenomeno è rimasto invisibile. Oggi è necessario parlarne affinché le vittime si sentano al sicuro e capiscano che lo stato e la società si prenderanno cura di loro".

Rula Jebreal per “La Stampa” il 28 maggio 2022.

L'otto febbraio, durante una conferenza stampa che rimarrà nella storia, Putin ha dichiarato guerra all'Ucraina paragonandola a una donna morta, sottoposta a uno stupro. Per farlo, ha usato alcuni versi agghiaccianti della canzone russa «La bella addormentata», un inno rap allo stupro e alla necrofilia. «Che ti piaccia o no è il tuo dovere bellezza mia». 

Una frase che, riascoltata oggi, alla luce del novantunesimo giorno di guerra, risulta premonitrice e allude all'intento genocida del dittatore russo.

Le donne ucraine hanno subito compreso il significato di quelle parole e hanno fondato una chat sui social riguardante gli stupri da parte dei soldati russi. La giornalista Olga Tokariuk mi ha raccontato telefonicamente che, su varie chat e social media, molte donne in Ucraina raccontano di essersi attivate per l'uso della spirale, così da non rimanere incinte in caso di stupro. 

Le parole di Putin erano un codice militare, un ordine ai soldati di incominciare la compagna di stupri di massa, a danno delle donne ucraine. Infatti, tre mesi dopo l'inizio dell'invasione le autorità ucraine hanno raccolto centinaia di testimonianze di donne e ragazze catturate e violentate dei soldati russi.

Nelle telefonate intercettate di alcuni soldati russi, in molti si vantano e ammettono di aver abusato sessualmente di donne e bambini, nonostante il Cremlino continui a smentire.

La commissaria ucraina per i diritti umani ha raccolto testimonianze delle vittime e ha stilato un rapporto che denuncia stupri di bambini, violentati dai soldati russi davanti alle loro madri. 

Il rapporto dettagliato descrive lesioni genitali gravissime di una bambina di nove mesi violentata con una candela, e di un altro bambino di un anno violentato con un fucile da ben due soldati russi e deceduto in seguito alla brutalizzazione. E di una terza bambina di due anni, sempre stuprata da due soldati russi.

Bambini sodomizzati e torturati da un gruppo di soldati mentre un secondo gruppo stuprava le madri davanti a loro. Anche donne e uomini anziani ucraini hanno testimoniato di essere stati abusati dai soldati invasori russi. Dopo il massacro di Bucha furono ritrovate venticinque bambine e ragazze, catturate e trattenute in schiavitù sessuale, per ben tre settimane. 

Il rapporto conclude che quello che sta accadendo in Ucraina è a tutti gli effetti un genocidio. Gli stupri di massa sono un'arma di guerra che insieme ai bombardamenti a tappeto, ai massacri, alle fosse comuni, alle torture e alle deportazioni mirano a distruggere le identità di un popolo sovrano.

Gli stupri sistematici di massa sono diventati il simbolo del genocidio sia in Bosnia ed Erzegovina sia in Rwanda. Centinaia di migliaia di donne furono stuprate in questi due Paesi. In Bosnia, i criminali di guerra Milosevic e Mladic istituirono veri e propri campi di stupro. Questo accadde nel cuore dell'Europa negli anni Novanta. La comunità internazionale dovette attendere la fine di queste due guerre per approvare il riconoscimento dello stupro come arma di guerra; questo fu il motore dietro al quale nacque la dottrina della responsabilità di proteggere. 

Oggi siamo davanti a migliaia di testimonianze, prove inconfutabili e segnalazioni documentate, molto simili a quelle già viste nei due esempi precedentemente menzionati.

I leader politici di destra e gli opinionisti che sostengono che la sottomissione e la cessione di una fetta del territorio ucraino a Putin porterebbe alla pace dovrebbero sapere che questo equivale a dire che non ci interessano i diritti umani e non ci interessa il numero di cittadini ucraini torturati, deportati, stuprati e uccisi dalle milizie russe. 

È un fallimento morale e politico chiedere all'Ucraina di accettare quello che nessuno Stato sovrano accetterebbe. Lo stupro è uno degli aspetti di questo conflitto che continua ad essere totalmente ignorato.

Questa è una guerra feroce voluta da un uomo, un dittatore che ha già dimostrato, negli ultimi vent' anni al potere, che nessuna trattativa, dialogo, o accordo può fermare la sua sete di conquiste imperialistiche. Conquiste per le quali è disposto a usare qualsiasi arma. «Non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese» sarà lo slogan di questa guerra: sono le parole di un diplomatico russo che coraggiosamente si è dimesso in protesta contro questa invasione e Putin.

Le giornaliste ucraine che hanno vinto il premio Pulitzer e che denunciano su tutte le televisioni mondiali i crimini di guerra russi hanno dichiarato in un'intervista al giornale statunitense più influente «Politico» che con tristezza rinunciano e condannano il giornalismo televisivo in Italia. 

Queste donne coraggiose, che rischiano la vita ogni giorno raccontando gli orrori di questa guerra, si sono trovate costrette a rinunciare ad apparire nei programmi televisivi italiani a causa della ormai dilagata propaganda russa e al numero allarmante di talk show che prediligono gli share e la spettacolarizzazione della guerra alla verità e che concedono colpevolmente spazio a opinioni o teorie palesemente illogiche, contraddittorie o persino ipocrite.

Questa è una denuncia grave che dovrebbe farci riflettere e che pone un interrogativo importante: davanti a tutti questi crimini di guerra orchestrati e ordinati da Putin chi siamo noi e fin quando continueremo ad accettare lo stupro semplicemente come uno dei danni collaterali di questa guerra? Specialmente dopo aver assistito alla premiazione dei soldati che portano avanti questi atti brutali. L'ennesima dimostrazione che Putin sta esportando la sua natura con le bombe, con gli stupri, con il ricatto energetico e alimentare con la propaganda e la corruzione. Coloro che continuano ad ignorare le atrocità e il menù di barbarie che i russi stanno imponendo al popolo ucraino stanno abdicando alla loro responsabilità morale, barattando la democrazia, sottomettendosi al regime autocratico di Mosca che mira a convincerci che l'Italia dei diritti è una causa persa.

Report agghiacciante: "I soldati russi stuprano le donne ucraine per cancellare il popolo del futuro". Il Tempo il 18 maggio 2022

«Obiettivo dei rashisti è estinguere il popolo ucraino e cancellare l’Ucraina dalla faccia della terra con bombardamenti dei quartieri residenziali e stupri in massa di donne e ragazze. Per dimostrare che gli ucraini non hanno diritto di vivere». È il report fornito dall’ufficio del Commissario per i diritti umani del Parlamento dell’Ucraina, Lyudmila Denisova, che comunica: «Ciò spiega in modo evidente la ragione per cui la categoria delle vittime privilegiate dai militari russi risulta essere quella delle donne, che donano la vita, e attraverso i bambini garantiscono il futuro del mondo».

«Dai sobborghi di Kiev - spiega ancora Denisova all'AdnKronos - Chernhiv ed ora dai centri abitati di Kharkiv, Kherson, Zaporizhzhia in totale abbiamo ricevuto 900 denunce. In 135 casi ci sarà bisogno di sostegno psicologico a lungo termine. Ci aspettiamo un quadro ancor più brutale dopo la liberazione di Mariupol e Melitopol, adesso in mano ai russi». Secondo l’ufficio della Denisova, ci sono testimonianze raccolte che denunciano militari russi, accusati di aver detto ad alcune donne e ragazze ucraine violentate «che le avrebbero stuprate al punto che non avrebbero più potuto avere rapporti con nessun altro uomo».

«L’obiettivo sotteso è impedire loro di procreare, mettere al mondo bambini ucraini. Perché la violenza sessuale è l’arma in arsenale della Federazione russa per eseguire il genocidio del nostro popolo». Gli stupri, quasi sempre di massa, sono perpetrati oltre che contro le donne «anche su uomini, anziani e bambini piccoli», si legge nella relazione dell’Ufficio del Commissario per i diritti umani. Un fatto «confermato dai dati in mano all’Ufficio del procuratore generale che tuttavia non è ancora in grado di stabilire il numero esatto delle vittime» poiché i territori occupati sono inaccessibili, le forze dell’ordine non possono raccogliere le prove sui luoghi del crimine e tra l’altro «molte persone che hanno subito una violenza sessuale da parte dei militari russi potrebbero essere state uccise durante l’occupazione».

A complicare le indagini, il procedimento ed il "censimento" dei casi di stupro (di competenza delle forze dell’ordine, dell’ufficio del procuratore generale, del servizio di sicurezza dell’Ucraina, della polizia nazionale, disciplinati secondo l’art. 438 del Codice Penale dell’Ucraina - violazione delle usanze e tradizioni di guerra) è la reticenza di molte vittime. Secondo quanto si apprende, «la violenza sessuale è uno dei crimini più taciuti durante la guerra. Le vittime non parlano. Hanno paura e si vergognano di chiedere aiuto, figuriamoci rivolgersi alle forze dell’ordine per denunciare il crimine. Non vogliono che si sappia; temono i pettegolezzi e di essere in qualche modo stigmatizzate anche perché spesso semplicemente non credono che lo stupratore sia mai punito».

I casi di stupro e torture contro le donne ucraine si registrano dal 2014, ma «all’epoca il problema non è stato coperto in maniera massiccia dai media; le informazioni non sono state diffuse a sufficienza e per questo per molto tempo il fenomeno è rimasto invisibile. Oggi è necessario parlarne affinché le vittime si sentano al sicuro e capiscano che lo stato e la società si prenderanno cura di loro».

Da open.online il 20 maggio 2022.

La commissaria parlamentare per i diritti umani dell’Ucraina Lyudmyla Denisova accusa oggi in un’intervista a La Stampa i soldati russi di aver commesso stupri e violenze sulla popolazione civile. Secondo Denisova sono 80 mila le denunce presentate e le violenze sessuali contro le donne fanno parte di una strategia che ha come obiettivo il genocidio del popolo ucraino. 

«A partire dal 24 febbraio abbiamo attivato una linea verde. È attiva 24 ore su 24. Sono arrivate 43 mila telefonate per denunciare crimini su 82mila persone. Dopo la liberazione di Bucha del 31 marzo abbiamo iniziato a ricevere anche segnalazioni sulle difficoltà psicologiche delle vittime delle violenze. Abbiamo istituito un’altra linea telefonica». 

E i numeri sono impressionanti: «Sono arrivate 1100 telefonate per denunciare torture, stupri, violenze. In 400 ci hanno anche confessato di volersi uccidere. In 100 hanno denunciato violenze contro i minori. 200 hanno denunciato stupri e, di questi, 60 sono stati commessi su minori. Ieri (mercoledì, n.d.r.) in appena un’ora, dieci persone hanno denunciato. Otto erano minorenni».

Denisova, che aveva documentato anche 25 casi di persone tenute rinchiuse in uno scantinato e sistematicamente violentate a Bucha, dice anche che per molte rimaste incinte è diventato difficile ottenere l’interruzione di gravidanza: «È capitato per esempio a una ragazza di 14 anni violentata da tre russi e rimasta incinta. In Ucraina il medico le aveva consigliato di non abortire perché sarebbe diventata sterile. La giovane ha poi parlato con uno psicologo e alla fine ha deciso di abortire comunque ma all’estero per evitare che i suoi conoscenti lo sapessero. È andata in Polonia dove ha ottenuto l’interruzione di gravidanza». 

Il mondo indignato per il massacro di Bucha. Kiev: corpi in strada "anche 57 persone in una fossa comune". Per il ministero della Difesa russo sarebbero "una provocazione". Il Dubbio il 4 aprile 2022.

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha accusato la Russia di essere responsabile di un «genocidio» in Ucraina per eliminare «l’intera nazione», dopo il ritrovamento di fosse comuni a Bucha.«Sì, questo è un genocidio. L’eliminazione dell’intera nazione e del popolo ucraino. In Ucraina abbiamo cittadini di più di100 nazionalità. Si tratta della distruzione e dello sterminio di tutte queste nazionalità», ha detto in un’intervista al canale Usa Cbs.

I corpi di 57 persone sono stati trovati in una fossa comune a Bucha, città nella regione di Kiev riconquistata in settimana dalle forze ucraine. Lo ha denunciato il capo dei soccorritori, Serhii Kaplychny, mostrando il sito alla France Press. Erano visibili una decina di cadaveri, alcuni solo parzialmente sepolti. «Qui sono sepolte 57 persone», ha detto Kaplychnyi, che coordina le operazioni per il recupero dei corpi.

La reazione al massacro di Bucha non si è fatta attendere. Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba su Twitter ha scritto: «Dimostra che l’odio dei russi contro gli ucraini va oltre qualsiasi cosa l’Europa abbia visto dalla seconda guerra mondiale. La sola maniera di fermarlo è questa: aiutare l’Ucraina a liberarsi della Russia il prima possibile. I partner conoscono i nostri bisogni, carri armati, aerei da combattimento, sistemi di difesa antiaerea».

Le violenze imputate alle forze russe a Bucha, nella regione di Kiev, «sono un pugno nello stomaco» ha affermato il segretario di Stato Usa Antony Blinken su Cnn. «È la realtà di ogni giorno – ha detto Blinken, fino a quando proseguirà la brutalità della Russia contro l’Ucraina». Gli Stati Uniti, ha aggiunto, continueranno a «documentare» eventuali «crimini di guerra di cui i responsabili dovranno rendere conto». Per il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg «si tratta di una brutalità contro civili che non vedeva in Europa da decenni».

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, su Twitter si è detta: «inorridita dalle notizie di orrori indicibili nelle aree da cui la Russia si sta ritirando. Urge un’indagine indipendente. Gli autori di crimini di guerra saranno ritenuti responsabili».

«Sono scioccato dalle immagini inquietanti delle atrocità commesse dall’esercito russo nella regione liberata di Kiev», ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, usando l’hashtag “Massacro di Bucha”.

Anche il presidente francese Emmanuel Macron affida a Twitter il suo pensireo: «Le immagini che ci giungono da Bucha, una città liberata vicino a Kiev, sono insopportabili. Per le strade, centinaia di civili assassinati vigliaccamente. La mia compassione per le vittime, la mia solidarietà agli ucraini. Le autorità russe dovranno rispondere di questi crimini», ha affermato.

I  media tedeschi riferiscono che il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha chiesto chiarimenti sui «crimini dell’esercito russo», dopo le «spaventose» immagini del massacro di civili a Bucha.  Lapidario il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni: «Strazio per le vittime. Vergogna e disonore per i responsabili».

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha dichiarato: «Le immagini dei crimini commessi a Bucha e nelle altre aree liberate dall’esercito ucraino lasciano attoniti. La crudeltà dei massacri di civili inermi è spaventosa e insopportabile. Le autorità russe devono cessare subito le ostilità, interrompere le violenze contro i civili, e dovranno rendere conto di quanto accaduto. L’Italia condanna con assoluta fermezza questi orrori, e esprime piena vicinanza e solidarietà all’Ucraina e ai suoi cittadini».

Il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio sempre su Twitter ha scritto: “Da Bucha immagini agghiaccianti. Corpi di civili ucraini a terra, uccisi, con le mani legate. Crudeltà, morte, orrore. Accertare il prima possibile l’esistenza di crimini di guerra. Queste atrocità non possono restare impunite. Con il popolo ucraino, la guerra russa va fermata”.

«Noi stiamo col popolo. Noi stiamo contro la barbarie della guerra di Putin. Quante Bucha devono esserci prima di passare a un embargo completo su petrolio e gas dalla Russia? Il tempo è finito». », ha scritto sui social il segretario del Pd, Enrico Letta.

E il leader del Movimento 5Stelle Giuseppe Conte ha aggiunto: «L’orrore delle immagini che giungono da Bucha ricorda i tempi più cupi della nostra storia. Non dobbiamo rassegnarci all’ineluttabilità della guerra, non possiamo accettare questa carneficina. Non dobbiamo tacere difronte a queste violenze».

Per Mariastella Gelmini, ministro per gli Affari regionali e le autonomie le immagini che arrivano da Bucha «sono un pugno nello stomaco. I corpi dei civili abbandonati per le strade, le loro mani legate, la loro assurda uccisione. Occorre accertare e punire i crimini di guerra dei soldati russi». E il suo collega di partito Renato Brunetta, ministro perla Pubblica amministrazione aggiunge: «Intollerabili le atrocità a Bucha e nelle altre aree da cui la Russia si sta ritirando. Bene von der Leyen: serve un’inchiesta indipendente, i crimini di guerra non devono restare impuniti. Siamo con il popolo ucraino, contro l’orrore».

Per Carlo Calenda, leader di Azione,  le sanzioni «vanno incrementate. Dobbiamo però avere chiaro che il primo obiettivo deve rimanere quello di evitare un’escalation. Dobbiamo aumentare la pressione sulla Russia, non far scoppiare un conflitto mondiale».

La responsabile Esteri del Pd, Lia Quartapelle ribadisce che «l’orrore va fermato, continuando a sostenere la resistenza ucraina». Per il vicesegretario Piero De Luca «l’Europa e l’intera comunità internazionale devono fare il massimo per porre fine a questo conflitto drammatico».

Per il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra «Massacrare i civili, uomini, donne e bambini per strada come ha fatto l’esercito russo a Bucha è un atto criminale che ricorda gli orrori dell’ultima guerra. La Ue deve sostenere il popolo ucraino senza se e senza ma, intensificando le sanzioni e gli sforzi per far cessare questa strage».

«Questo orrore va fermato! Le atrocità di Bucha umiliano l’umanità e resteranno sempre come simbolo della vergogna di cui si è macchiato Putin. L’occidente vuole continuare a voltarsi da un’altra parte? Facciamo ancora finta di niente? Vogliamo trovare alibi e nuove giustificazioni? Quei morti ucraini ci chiamano a un sussulto di dignità!», ha scritto su Instagram Pier Ferdinando Casini.

Sull’orrore di Bucha è intervenuta la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: «Lasciano senza fiato le immagini dei civili giustiziati per le strade e delle fosse comuni, che arrivano da Bucha dopo il ritiro delle truppe di invasione di Putin. Una barbarie che riemerge dalle epoche più buie della storia europea e che speravamo di non rivedere mai più. Va fatto ogni sforzo per la pace e per fermare l’aggressione all’Ucraina».

Secondo quanto riporta Ria Novosti la posizione del ministero della Difesa russo, secondo cui «tutte le fotografie e i materiali video pubblicati dal regime di Kiev, che mostrano una sorta di’crimini da parte del personale militare russo nella città di Bucha, nella regione di Kiev, sono un’altra provocazione. Durante il periodo in cui Bucha era sotto il controllo delle forze armate russe, nessun residente locale ha subito azioni violente».

L'orrore in Ucraina. Il massacro di Bucha tra morti in strada, fosse comuni e cittadini giustiziati: “Crimini di guerra russi”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Aprile 2022. 

La scoperta dell’orrore della guerra dopo la ‘ritirata’ russa, il riposizionamento delle truppe fedeli al Cremlino che stanno tornando nell’Est dell’Ucraina per consolidare il controllo del Donbass e preparare probabilmente una nuova offensiva nel Paese.

A Bucha, sobborgo di Kiev dove le truppe russe sono entrate il 25 febbraio (secondo giorno di guerra) e sono rimaste fino al 31 marzo, quando il sindaco Fedoruk ha annunciato la liberazione della città, la fuga dei militari mostra il massacro e la ferocia messa in campo dalle truppe di Mosca nel tentativo di assalto alla capitale.

Violenze gratuite e deliberate che spingono il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko, a parlare di “genocidio”, di “crudeli crimini di guerra” la cui responsabilità è da attribuire a Vladimir Putin.

Secondo quanto denunciato da Human Rights Watch, che ha chiesto un’indagine sulle violenze in Ucraina, a Bucha, a circa 30 chilometri a nord-ovest di Kiev, vi è stata “crudeltà folle e deliberata e violenze contro i civili ucraini da parte delle forze russe”, scrive lo European Media Director di Hrw, Andrew Stroehlein.

La fuga dei russi, ‘coperta’ lasciando migliaia di mine sul terreno, ha svelato i massacri compiuti nei giorni scorsi. Fosse comuni, cadaveri di civili per la strada, gente fucilata con le mani legate dietro la schiena: è questo il “repertorio” delle violenze di Mosca, oltre ovviamente ai palazzi distrutti da artiglieria e aviazione. 

Secondo quanto ricostruito da Human Rights Watch in un report, il 4 marzo le forze russe a Bucha hanno arrestato cinque uomini e ne hanno giustiziato sommariamente uno. Un testimone ha detto a Human Rights Watch che i soldati hanno costretto i cinque uomini a inginocchiarsi sul ciglio della strada, coprendosi la testa con le loro magliette e sparando a uno di loro dietro la testa.

Il sindaco di Bucha, Anatolii Fedoruk, ha denunciato in una intervista alla Reuters che la città è letteralmente “cosparsa di cadaveri”, con decine di corpi senza vita che giacciono nelle strade. Corrispondenti di AFP hanno confermato di averne visti oltre venti solo in una delle strade della città.

Fedoruk ha anche aggiunto che le autorità ucraine hanno seppellito 280 persone in fosse comuni a Bucha dopo aver ripreso il controllo dei territori. Nell’intervista con Reuters ha stimato il bilancio delle vittime ad oltre 300 persone.

Mikhail Podolyak, consigliere del capo dell’ufficio del presidente dell’Ucraina, ha invece definito quanto accaduto a Bucha “l’inferno del 21° secolo”. “Corpi di uomini e donne giustiziati con le mani legate. I peggiori crimini del nazismo sono di nuovo in Europa. Ciò è stato deliberatamente compiuto dalla Russia. Bisogna imporre un embargo sulle risorse energetiche, chiudere i porti. Smettetela di uccidere adesso”, è la richiesta ucraina.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

(ANSA il 3 aprile 2022) - La resistenza dei civili ucraini torna ad usare cibo avvelenato per fermare gli invasori. Due soldati russi sono infatti morti ed altri 28 sono finiti in ospedale nell'area assediata di Kharkiv, vittime di alcuni dolci tossici offerti loro dalla popolazione civile. Lo riporta il ministero della difesa ucraino. I due militari rimasti uccisi avrebbero ingerito alcune ciambelle rivelatesi letali, mentre i 28 intossicati, tutti ricoverati in terapia intensiva, avrebbero mangiato alcuni dolcetti anch'essi contenenti sostanze velenose. L'episodio dopo la notizia dei giorni scorsi secondo cui oltre 500 soldati russi nella città di Izium, conosciuta come 'il gioiello del Mar Nero', sono finiti in ospedale per aver bevuto dell'alcol contenente veleno offerto loro dai civili. 

Ucraine prese come "schiave dai soldati russi", l'ultimo orrore di Bucha. Zelensky sul luogo del massacro. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Nuove terrificanti accuse arrivano da Bucha, centro situato a una trentina di chilometri dalla capitale Kiev da cui le forze armate russe si sono ritirate nei giorni scorsi e in cui sono stati scoperti cumuli di cadaveri e fosse comuni. "In questo mese di occupazione i russi hanno preso alcune donne, sui trent'anni, e le hanno portate nel loro quartier generale qui a Bucha, facendole schiave. A loro serviva che cucinassero e facessero tutto ciò che veniva loro ordinato", ha detto una testimone, Alina, all'inviato dell'Ansa, come riporta il sito dell'agenzia. Un'altra donna, che si chiama Tamara, ha spiegato invece che "l'orrore nel nostro villaggio è cominciato il pomeriggio del 4 marzo, quando una ventina di tank russi hanno attraversato questa strada incolonnati e hanno cominciato a sparare con i kalashnikov all'impazzata sulle nostre case e sulle macchine che incrociavano, schiacciandole. Non evacuavano, sparavano. E con alcuni tank hanno sfondato le case".

Il prete della chiesa ortodossa del villaggio ha parlato di 68 corpi senza vita portati nel luogo di culto: "Donne, uomini, bambini, molti non identificabili per i colpi inferti ai loro corpi martoriati".

Mentre Mosca respinge le accuse di crimini di guerra parlando di messinscena,  il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky si è recato oggi in visita a  Bucha. Stando alle denunce del governo ucraino, centinaia di persone sono state uccise dall’esercito di Mosca nei giorni di occupazione della zona. Video che mostrano cadaveri ai margini delle strade sono stati rilanciati dai media locali e poi da quelli internazionali. Stando a quanto riferito dal quotidiano Ukrainska Pravda il capo dello Stato, scortato dai militari, ha ispezionato i mezzi militari russi distrutti e ha parlato con alcuni residenti. Zelensky ha detto che le forze di Mosca hanno commesso crimini di guerra e di genocidio. Sollecitato sui negoziati col governo del presidente russo Vladimir Putin, Zelensky ha affermato che l’Ucraina continuerà a parteciparvi "perché deve ottenere la pace", e ha inoltre sottolineato che Kiev "continuerà i suoi sforzi diplomatici e militari".

Pietà l'è morta. Paolo Di Paolo su La Repubblica il 4 Aprile 2022.  

"E sia strazio a vedersi", dice un verso di Sofocle. È Creonte a parlare, e evoca i corpi di chi resta insepolto, per qualche presunta colpa contro la Città - senza onori, senza lacrime, senza tumulo. Si oppone Antigone, lei sola; sfida il potere che "gode tra i vantaggi, / anche che può dire e fare quel che vuole".

Solo la pietà di Antigone riesco a immaginare, davanti a questi corpi. La terra e la polvere ne rendono quasi irriconoscibili i tratti. Sono la capovillaggio Olya Sutlilenko e tre membri della sua famiglia, trovati in una fossa nel villaggio di Motyzhyn, periferia di Kiev.

E sia strazio a vedersi, dice il verso di Sofocle - e dà voce al sovrano che conosce il peso di quella umiliazione. E Antigone difende leggi non scritte, leggi innate:

Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove.

Sono le leggi della pietà umana, che anche questa guerra ignora, brutalizza, cancella.  

Massacro Bucha, parla l’italiano fuggito dal massacro russo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Aprile 2022.

"Immagini agghiaccianti di distruzione e morte, hanno sparato ai bambini. Il mio cervello è ancora sotto shock e 'per me è impossibile dimenticare quello che ho visto, anche se le immagini di Bucha circolate in questi giorni rappresentano ''l'1 per cento della realtà orribile che sta vivendo l'Ucraina''.

Le ”persone morte per la strada”, le ”macchine che saltavano in aria” e ”la paura dei cecchini nascosti dappertutto’‘ in quella che era diventata ”una città fantasma”. Questo il massacro di Bucha, ”una catastrofe indescrivibile”, vista dall’imprenditore torinese Gianluca Miglietta quando, dopo sei giorni e sei notti nello scantinato del condominio dove viveva alle porte di Kiev, ha deciso di uscire per mettersi in salvo. Lo racconta all’ AdnKronos dalla provincia di Torino dove ora si trova insieme alla moglie Iryna e ai loro due cani: ”Una decisione difficile, poteva essere il mio momento e invece grazie a Dio ce l’abbiamo fatta, ma per altri non è stato così’. Il mio cervello è ancora sotto shock” e ”per me è impossibile dimenticare quello che ho visto”, anche se le immagini di Bucha circolate in questi giorni rappresentano ”l’1 per cento della realtà orribile che sta vivendo l’Ucraina”. 

Cita, a proposito, ”il massacro delle donne, stuprate e uccise. Poi gli passano sopra con il carro armato, come si può definire tutto questo?’‘. Per Miglietta, che in Ucraina aveva fondato l’azienda di cosmesi ‘Naturelle Haute Cosmetique‘, quello in atto è ‘‘un genocidio, vogliono sterminare un intero popolo, quello ucraino”.

Dalle immagini viste dall’Italia, Miglietta ha riconosciuto ”la mia chiesa, quella di fronte a casa mia a Bucha, dove andavo il sabato o la domenica. C’era un prato, lo stavano sistemando prima della guerra, e ora c’è una fossa comune, sacchi neri con dentro corpi”. E poi ci sono ‘‘le madri e i figli che vengono seppelliti nei terreni di fronte ai condomini. Non sono più persone, non ci sono più i visi, non hanno più le identità, non sono più riconoscibili. E’ atroce”. Il suo pensiero va a quel 2 marzo in cui è riuscito a uscire dallo scantinato. 

”Mi sono trovato davanti agli occhi delle scene agghiaccianti di distruzione e morte. A terra c’era di tutto. C’erano corpi, ragazzini, hanno sparato ai bambini”, racconta. ”Solo ieri hanno ucciso un ragazzino di 14 anni con la fascia bianca al braccio per segnalare che era un civile. Ma allora cosa dice il sindaco che Bucha è stata liberata?”, prosegue, aggiungendo però che ‘‘ci vorrà tempo prima che davvero sia libera dai russi, magari ce ne sono ancora di nascosti, ‘travestiti’ da civili’‘. 

Intanto ”la realtà è che sparano, missili dappertutto, missili anche sugli anziani. Io sono stato nascosto il più possibile, poi ho deciso di tentare il viaggio della speranza’‘, ma ”in quei momenti c’è poca lucidità. Vedi i carri armati rotti, i cadaveri per la strada, i posti di blocco, sono momenti di panico e pensi solo a correre, a cercare la strada migliore’‘. Miglietta dice che ”ho azzardato e ho avuto coraggio, ma ho anche avuto più fortuna di altri. In quei momenti è l’adrenalina che comanda”. Agli altri, quelli rimasti a Bucha, l’imprenditore non smette di pensare. ”E’ da due settimane che non riesco a mettermi in contatto con 40, 50 persone che conosco e che sono rimaste lì. C’è l’anziano Oleg, che ha deciso di restare nella sua città, ma che non mi risponde da un po’. E ci sono le donne, giovani e anziane, che erano come me nello scantinato’‘, racconta. C’è anche chi ce l’ha fatta, ”due donne, con i loro bambini, ora sono al sicuro in Germania”. Per gli altri contatti, ‘‘spero che non siano tra i morti’‘

Redazione CdG 1947

Brunella Giovara per “la Repubblica” il 4 aprile 2022.

Vladislav Kozlovskiy ha visto il peggio: «Hanno ucciso un uomo anziano, uno che non conoscevo. Era davanti a me, seduto su una panchina. Un russo si è avvicinato e gli ha sparato in testa, poi se ne è andato ». Kozlovskiy ha 28 anni e faceva il manager di un ristorante nel centro di Bucha, prima dell'occupazione. È stato ostaggio per circa un mese, assieme a un centinaio di persone, in un rifugio antimissili che è diventato la loro prigione. 

È un testimone diretto degli orrori di cui adesso vediamo le prime immagini.

Lui ha visto con i suoi occhi, sa cosa vuol dire essere sull'orlo, di qua la vita, di là la morte: «Un giorno mi hanno puntato la mitragliatrice alla testa, poi hanno sparato un colpo singolo vicino all'orecchio senza colpirmi. Infine mi hanno dato un calcio in testa e mi hanno lasciato lì».

E da dove venivano queste truppe che hanno massacrato la città? Dall'accento ha riconosciuto «soldati bielorussi, russi e della Buriazia. Erano squadre speciali». Chiede se si può diffondere il suo racconto, «voglio che tutto il mondo sappia cosa ci hanno fatto». I bambini e le donne uccisi a sangue freddo, un colpo alla nuca. Gli uomini rastrellati, un colpo alla nuca. Le fosse comuni, «hanno messo i cadaveri nella pala di un escavatore, il buco era già stato fatto, li hanno scaricati e coperti di terra».

Altri corpi sono stati seppelliti dai cittadini, «ogni giorno c'era da seppellire qualcuno, venivamo fatti uscire e lavorare. Erano tutti colpiti alla nuca, avevano le facce tagliate e altre ferite sul corpo». Quindi, torturati e poi giustiziati, come si vede anche in un video diffuso dall'esercito ucraino, la prima perlustrazione della città dopo l'uscita degli occupanti. 

Nella stanza di una caserma, la luce di una pila illumina una fila di grossi fagotti, uno ha la giacca a vento rossa, sono uomini. Hanno le mani legate dietro la schiena, ed erano in ginocchio con la faccia contro il muro, nel momento dello sparo. Difficile sostenere che sia tutta una messinscena. Un teatro, organizzato dagli ucraini per far passare i russi come sterminatori, così come sostengono i russi.

Una donna anziana, Tania, racconta di aver perso il marito nel caos dell'occupazione, e di averlo cercato a lungo, «infine sono andata alla Croce Rossa. Una donna mi ha detto che avevano dei cadaveri nel seminterrato, di andare a vedere lì. C'era. L'ho riconosciuto dalle scarpe e dai pantaloni. Allora sono andata a cercare un amico che mi aiutasse a girarlo, perché aveva la faccia sul cemento e non volevo che stesse così. Era lui, pieno di sangue secco. Lì dentro c'era un odore forte di morti, e una grande puzza di urina».

Un uomo spiega che «la loro artiglieria era piazzata nel cortile della scuola, il quartier generale al sesto piano di un altro edificio che era anche l'asilo dei bambini». La gente sperava che arrivassero i liberatori, «ma eravamo scudi umani, così ci hanno usato per un mese». 

Sulla via Kirova, una ventina di cadaveri. Più o meno, un chilometro di morti. Questi sono stati lasciati lì, nessuno ha avuto il coraggio di andarli a prendere, e sono stata l'ultima fiammata dei russi che abbandonavano Bucha. La mitragliata finale, questa volta a raffica. Altri corpi sono stati seppelliti nei giardini davanti alle case, perché il cimitero era troppo lontano. Seppelliti alla buona, da parenti terrorizzati, in buche scavate in fretta, di notte, nella terra gelata. 

Altri testimoni raccontano di case vandalizzate, di perquisizioni alla ricerca di soldi, gioielli, cibo. Ma questo è niente, visto che alcuni soldati hanno ucciso gli abitanti di una casa, «hanno buttato i cadaveri giù dai letti e si sono messi a dormire lì». 

E tornando a Vladislav, ci sono stati anche dei russi "buoni", se così si può dire. «Il 2 marzo ci eravamo rifugiati nel bunker collettivo, che è vicino alla vetreria. Ma ci hanno trovati subito. Battevano contro le porte, alla fine abbiamo aperto. Quei primi soldati non ci hanno fatto niente, ci hanno promesso di farci uscire dopo due giorni, e dato persino le loro razioni perché mangiassimo. Il sesto giorno siamo usciti. Le donne con i bambini e gli anziani sono stati rilasciati, noi siamo rimasti in quindici, tutti uomini. Era un reparto speciale. Uomini aggressivi, violenti. Ci hanno portato via i telefoni, ci hanno fatti mettere in ginocchio ». Poi, uno a uno, fatti spogliare. «Cercavano i tatuaggi, i simboli, le rune, ma nessuno di noi li aveva».

Nei telefoni però c'erano messaggi, foto e chat sospette, «due ragazzi sono stati uccisi subito. Un altro, colpito al fianco. Gli hanno urlato "adesso corri a casa!". E noi sopravvissuti, ci hanno picchiato, volevano sapere dov' erano i partigiani. In quel momento mi hanno puntato la mitragliatrice alla testa». Dei quindici che erano, «siamo rimasti in sei. Ero incredulo di essere vivo, ero sotto shock». Ma libero, vivo, incredibilmente vivo.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 4 aprile 2022.

«Ero lì. So chi sono. C'erano russi, kadyroviti, buriati. Gli hanno sparato alla nuca e al cuore». Il metodo russo è questo: sparano alla nuca di persone disarmate. I buriati, russi delle regioni siberiane. I kadyroviti. E ci sono anche soldati bielorussi. Questa che scriviamo è solo la storia di una foto. Non certo un quadro di tutti gli orrori avvenuti a Bucha, meno che mai (per quello purtroppo ci vorrà tempo) in tutte le città occupate dai russi in Ucraina. La foto con otto uomini ammazzati e gettati in un cortile, dove sono stati ritrovati giorni dopo, quando Bucha è stata liberata. A raccontarla è, al collettivo giornalistico Vot Tak, un ucraino che era lì, Vladislav Kozlovsky, che ha vissuto nella città occupata per un mese.

«L'anno scorso ho vissuto e lavorato come sommelier a Kiev, ma dopo lo scoppio della guerra sono tornato nella zona di Steklozavod (Bucha), dove vivono mia madre e mia nonna. Il 2 marzo le truppe occupanti sono entrate nella nostra città, ero vicino al quartier generale della difesa territoriale con diversi amici. A tutti quelli che non avevano armi è stato ordinato di nascondersi in un rifugio antiaereo vicino alla base». Poi sono arrivati loro, e «tra loro c'erano per lo più russi e bielorussi, sono facili da riconoscere dal loro caratteristico dialetto». «Eravamo seduti nella completa oscurità. Non c'era luce, acqua o calore, ovviamente. Poi altri hanno preso il loro posto». E son stati i peggiori.

«Il 7 marzo hanno fatto uscire prima donne e bambini, poi uomini. Ci hanno messo in ginocchio e hanno iniziato a perquisirci. Avevo i miei soldi e il mio orologio con me. Hanno preso tutto, proprio come gli altri, quindi mi hanno derubato. Cercavano "i nazisti", ma in realtà sono stati fucilati anche quelli che avevano lo stemma ufficiale dell'Ucraina». 

I dettagli dell'esecuzione sono crimini di guerra: «Gli hanno sparato alla nuca o al cuore. Tra loro c'erano russi e, ritengo dall'aspetto, buriati». Kozlovsky ha visto proprio quegli otto, «penso che otto di loro siano stati uccisi. Ieri ho visto i loro corpi dietro un edificio di pietra in un mucchio di roba in una delle foto di Bucha. Quando sono riuscito a tornare a Kiev, non dimenticherò come la gente piangeva alla vista del pane, perché da tempo morivano di fame». 

Il sindaco di Bucha: «I russi ci hanno uccisi per rabbia o per divertimento». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

Anatoly Fedoruk, primo cittadino dal 1998 della città a 37 chilometri da Kiev: i soldati russi si sono voluti vendicare della nostra resistenza. 

L’ultima foto che circola nelle chat è quella di una famiglia trucidata. Si vede un lettone e quattro corpi. In basso c’è la figlia, avrà 6 anni. È senza vestiti, le mani legate da quella che sembra una garza bianca, la stessa che le avvolge la bocca e il mento. Non si vede il volto, ma solo il buco del proiettile dritto nel cuore. «Perché questa cattiveria?», si chiede Anatoly Fedoruk, dal 1998 sindaco di Bucha, la città a 37 chilometri da Kiev diventata il teatro dell’inimmaginabile. Il bilancio delle vittime non è ancora chiaro, «ma si parla di centinaia di persone trucidate, torturate, buttate in fosse comuni», racconta Fedoruk.

Ora dove si trova?

«A Bucha. Non abbiamo né linea, né elettricità, né gas. La temperatura è sotto zero».

Aveva capito che si trattava di un massacro?

«Sì, ma non pensavo che la mia gente sarebbe stata uccisa per divertimento o per rabbia. I russi hanno sparato a tutto ciò che si muoveva: passanti, persone in bicicletta, alle auto con la scritta “bambini”. Bucha è la vendetta dei russi alla resistenza ucraina».

A Mosca dicono che sono immagini false.

«Che vengano qui di persona a vedere di chi sono le armi, di chi sono le mani, da quanti giorni i corpi giacciono nelle strade».

Lei ha visto prima di tutti le immagini che hanno sconvolto il mondo. «Non le scorderò mai. Hanno trasformato intere parti della città in un campo di concentramento. Le persone sono state chiuse negli scantinati per settimane, senza acqua e cibo. Chi usciva a cercarne veniva ucciso».

Cosa la fa arrabbiare di più?

«Il cinismo. Questo è il secondo esercito al mondo, dei professionisti. Ma siccome non sono riusciti nell’operazione militare hanno organizzato un “safari” sui civili».

I media russi, rilanciati dai social, la accusano di non aver segnalato subito il massacro quando ha annunciato la liberazione della città, come prova di una messa in scena. Cosa risponde?

«Questo lo apprendo da lei, è assurdo. La città è stata tagliata fuori dal mondo per settimane. Solo quando l’hanno liberata abbiamo potuto vedere la realtà e renderci conto della dimensione dell’orrore. Appena ho visto e capito ho raccontato».

Lei dove ha passato quest’ultimo mese?

«A casa mia. Un giorno i soldati sono entrati e mi hanno puntato una mitragliatrice alla testa. Hanno chiesto di me ma non mi hanno riconosciuto, non avevo il passaporto. Poi sono stato ospitato dai cittadini».

Zelensky è venuto da voi.

«Il suo sostegno è fondamentale. Ci serve anche quello dell’Europa e degli Usa. Speriamo che Putin e i suoi criminali vengano puniti».

Che cosa farà ora?

«Prima di ricostruire penso a dare un nome a ogni morto».

Le testimonianze dall'inferno. Donne “sparate nelle parti intime”, bimbi “giustiziati con le mani legate”, le torture dei ‘macellai’ russi a Bucha: “Ucciso con soddisfazione”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

I corpi di donne martoriati con colpi d’arma da fuoco nelle parti intime e parzialmente carbonizzati. Quelli di una decina di uomini, con le mani legate dietro la schiena, uccisi nel giardino di un condominio in quella che sembra essere una esecuzione. E poi ancora: ”Bambini con le mani legate dietro la schiena e un colpo di pistola sparato in testa. Stiamo parlando di bambini” e altre accuse relative a ”donne stuprate e uccise, fatte a pezzi”. E’ l’orrore commesso dai soldati russi a Bucha, cittadina di circa 30mila abitanti che si trova nella zona nord-occidentale della regione di Kiev. Orrore che le truppe di Mosca, che continua a negare quanto accaduto, hanno commesso dal 24 febbraio a pochi giorni fa, quando hanno lasciato la città e lungo la strada decine di cadaveri di civili, le cui immagini hanno sconvolto il mondo. Al momento un bilancio delle vittime non è stato ancora ufficializzato ma sarebbero centinaia, molte delle quali ritrovate in fosse comuni.

Sono raggelanti alcune dichiarazioni rilasciate da una fonte della sicurezza ucraina all’agenzia Adnkronos che ha anche preso visione di ulteriori immagini del massacro russo, decidendo di non pubblicarle. ”Le immagini che stanno circolando in queste ore sui media internazionali sono solo il 10 per cento dello scenario reale a Bucha” spiega la fonte che poi fornisce una serie di dettagli da brividi. Oltre ad alcuni bambini uccisi (con le mani legate dietro la schiena) e alle donne sparate nelle parti intime, i russi “hanno provato a dare fuoco ai cadaveri, volevano bruciarli per nascondere le prove dei crimini commessi”.

CITTADINO BUCHA: “ORRORE DAL 24 FEBBRAIO, CECENI UBRIACHI”

Sergiy Prylucki, un residente di Bucha, raggiunto nei pressi dell’aeroporto dall’AdnKronos, racconta che la cittadina “è stata torturata e devastata dal 24 febbraio. Io ho visto l’orrore e posso testimoniarlo. I media lo hanno scoperto soltanto adesso”. Qui “non si poteva restare. Siamo scappati a casa di amici, con mia moglie e mio figlio in una zona della città che fortunatamente non ha conosciuto le violenze dell’esercito russo, anche se era vicino. Lì siamo rimasti due settimane”, poi l’11 marzo Sergiy è fuggito verso Kiev e quindi Ternopil, dove si trova adesso mentre moglie e figlio sono rifugiati in Polonia.

“Durante l’evacuazione abbiamo visto l’orrore. Auto con all’interno corpi di persone morte. Distruzione. Quello che voi giornalisti state documentando non è avvenuto in questi ultimi giorni con la ritirata dei russi. Ma giorno dopo giorno, dal 24 febbraio”. Poi aggiunge ulteriori particolari su quanto visto in questo mese e mezzo di guerra: “Ho visto i carri armati ed altri veicoli russi entrare a Bucha, stazionare vicino alle nostre abitazioni; aerei bombardare le nostre case; i corpi dei miei concittadini morti nelle loro auto; ho raccolto le testimonianze di chi ha subito le razzie dei ceceni ubriachi nei negozi, le loro gozzoviglie nelle case e le torture e le uccisioni. Vicino a casa mia hanno torturato e ucciso in un summer camp per bambini chi si trovava lì. Hanno ucciso civili dentro le loro case. Hanno saccheggiato abitazioni private. Sono entrati anche nella mia – conclude all’Adnkronos – So che hanno spalancato le porte e preso …non so cosa”.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in visita a Bucha, ha accusato i soldati russi di essere dei “macellai”, termine utilizzato anche a Varsavia dal presidente Usa Joe Biden per il presidente russo Vladimir Putin. In un videomessaggio – così come riferisce l’agenzia Ansa – Zelensky ha definito le forze armate russe “assassini, torturatori, stupratori, saccheggiatori” e poi, rivolgendosi alle madri dei soldati russi e facendo riferimento a quanto avvenuto a Bucha, ha aggiunto: “Anche se avete cresciuto dei saccheggiatori, come possono essere diventati anche dei macellai?… Hanno ucciso deliberatamente e con soddisfazione”.

IL SINDACO DI BUCHA: “SOLDATI IN ‘SAFARI’ IN UCRAINA”

Intervistato dalla Cnn, il sindaco di Bucha, Anatoly Fedoruk, sostiene che il massacro avvenuto nella sua cittadina sia stato ordinato dai vertici russi: “Avevamo l’impressione che i russi avessero la luce verde da Putin e Shoigu (ministro della Difesa, ndr) per un ‘safari’ in Ucraina. Non hanno potuto conquistare Kiev e così hanno sfogato la loro rabbia su Bucha e i suoi dintorni”. Tra le vittime  vi sono anche alcuni bambini ed adolescenti, ha detto ancora. “Non rappresentavano nessuna minaccia per le truppe russe – ha continuato – e non era possibile che non rendersi conto che erano bambini, non vedere una mamma con un bambino. Non li perdoneremo mai per questo e non saranno mai perdonati né in cielo né in terra”. Poi conclude: “E’ questo il loro modo di procedere, questa è la denazificazione di cui parla Putin, ma in verità è la disumanizzazione dell’Ucraina”.

“Hanno ucciso un uomo anziano, uno che non conoscevo. Era davanti a me, seduto su una panchina. Un russo si è avvicinato e gli ha sparato in testa, poi se ne è andato”, racconta Vladislav Kozlovskiy, 28 anni, manager di un ristornate a Bucha prima che la guerra si prendesse la sua vita. Il suo racconto è riportato da Repubblica. Il giovane è stato ostaggio per circa un mese insieme ad altre 100 persone in un rifugio antimissili che però era diventata la loro prigione.

“Un giorno mi hanno puntato la mitragliatrice alla testa, poi hanno sparato un colpo singolo vicino all’orecchio senza colpirmi. Infine mi hanno dato un calcio in testa e mi hanno lasciato lì”, continua il racconto. “Voglio che tutto il mondo sappia cosa ci hanno fatto”, dice. E racconta di bambini e donne uccisi a sangue freddo, un colpo alla nuca. Poi il dramma delle fosse comuni: “hanno messo i cadaveri nella pala di un escavatore, il buco era già stato fatto, li hanno scaricati e coperti di terra”. Altri corpi sono stati seppelliti dai cittadini, “ogni giorno c’era da seppellire qualcuno, venivamo fatti uscire e lavorare. Erano tutti colpiti alla nuca, avevano le facce tagliate e altre ferite sul corpo”.

“BAMBINI UTILIZZATI COME SCUDI UMANI”

Nei giorni scorsi altre accuse sono state rivolte ai soldati russi che avrebbero coperto la loro fuga ‘grazie’ all’utilizzo di bambini ucraini come scudi umani, in modo tale da non essere colpito dall’esercito nemico. A riferirlo fonti intelligence del ministero della Difesa che avrebbe registrato casi analoghi nelle regioni di Sumy, Kiev, Chernihiv e Zaporizhia. In particolare, secondo i residenti, nel villaggio di Novy Bykiv (Chernihiv), i russi hanno messo bambini del posto nei camion per assicurare un convoglio di equipaggiamento militare, impendendo così alla popolazione locale di fornire le coordinate dei loro movimenti all’esercito ucraino. Testimoni hanno raccontato di passeggini posizionati davanti ai carri armati nel villaggio di Novyi Bykiv. La moglie di Zelensky, Olena Zelenska, in una intervista a Repubblica, ha dichiarato: “I civili non devono diventare scudi umani o vittime. E poi, se qui restano molti civili, risulta difficile per i militari proteggere le città. E’ necessario che le famiglie, in particolare i bambini e gli anziani, lascino la zona di guerra. Meglio essere un rifugiato che morire”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La mia vita a Bucha. I russi ci uccidono e ci negano il diritto di provare dolore. Yaryna Grusha Possamai su Linkiesta il 4 Aprile 2022.

La loro crudeltà li spinge oltre il massacro, perché negano le loro colpe e ci accusano perfino di avere inscenato il nostro lutto.

Leggere i nomi delle città liberate è premere i punti dolenti sulla pelle della memoria. Bucha è la città dove vivono i miei zii Lisa e Paša, dove piangevo in cucina perché avevo diciassette anni e dovevo iniziare l’università in una grande città di tre milioni di abitanti e prima avevo vissuto soltanto in un paesino di 200 persone. Avevo paura. Guardavo Bucha dal settimo piano dell’appartamento di mia zia, una città che si stava allargando per diventare a misura d’uomo e di famiglie, vicina alla capitale e con parchi e villette, con scuole e stadi.

L’altra mia zia Tanya, la moglie dello zio Vasja, era incinta di mio cugino e ci stava preparando il caffè. Dopo poco è nato Bòhdan Bohdàn, per distinguere il nome dal cognome si doveva solo spostare l’accento. Li salutai e presi il treno verso la capitale. Condividere la paura mi fece sentire più tranquilla, coccolata da mia zia che ha solo nove anni più di me.

Come chiamare il sentimento che hanno provato tutti loro in quel mese passato sotto occupazione? Paura? Non lo so. Come non so neanche come siano riusciti a sopravvivere.

Zia Tanya e zio Vasja, insieme con il cugino Bohdàn, sono fuggiti da Bucha. Zia Lisa è rimasta col marito e il figlio Stas in carrozzina. Hanno deciso di non rischiare? A leggere le testimonianze spostarsi in macchina era impossibile. Spingere la carrozzina di mio cugino che ha 25 anni forse ancora più impossibile. I soldati russi hanno sequestrato e rotto il cellulare di mio zio e non hanno fatto niente di più. Hanno provato pietà per mio cugino in carrozzina? Ma non hanno provato pietà per tanti adolescenti trovati con le mani legate.

Come chiamare questa selezione? Fortuna? Grazia di Dio? Allora la fortuna è razzista, perché evidentemente 410 vittime di Bucha non l’hanno meritata. Che colpa avevano loro? Hanno pregato un Dio sbagliato?

Non ho le risposte a queste domande, perché le uniche notizie che mi giungono sono che sono vivi e che per campare hanno cucinato un mese il cibo in cortile sul fuoco vivo, mentre per scaldarsi in casa portavano dentro i mattoni riscaldati nel fuoco del cortile. Nel cortile di quella villetta che hanno costruito da poco mattone su mattone. Mia zia aveva una piccola agenzia di eventi, organizzava le feste a Bucha insieme con un gruppo di ragazze che cantavano e ballavano. Ci saranno ancora feste a Bucha dopo questo massacro? Sono vive le ragazze di mia zia?

A Velyka Dymerka hanno trovato i corpi di donne nude per strada. È il paese originario di mia nonna, quella che è ancora viva. Quella che stava con il figlio, fratello di mia mamma, mentre i soldati russi bussavano alla sua porta e volevano sparare perché nessuno gli apriva. La voce del vicino è arrivata da oltre il recinto, dove abita una signora anziana, magari non ha sentito e quelli hanno deciso di andare via. Fortuna?

A Rahivka, il paese dove andavamo a fare i concertini scolastici, dove c’erano le discoteche più belle nella zona, dove viveva il mio primo fidanzatino, i ragazzi che portavano il pane sono saltati in aria su una mina. Perché i soldati russi, ritirandosi, hanno disseminato le strade di mine in modo che la morte possa durare a lungo, anche dopo il loro ritiro. E il trauma ancora di più.

Io non so come dovrò parlare ai miei zii, perché tutte le parole mi sembrano aver perso il senso e poi apro internet e leggo le notizie che la propaganda russa accusa gli ucraini e i loro alleati di aver orchestrato il teatro d’inferno a Bucha. Agli ucraini viene negata l’esistenza fisica e perfino il dolore, il lutto e il diritto di piangere i loro morti. Quasi cento anni fa alla nonna era stato proibito di piangere suo padre, fucilato dall’NKVD per aver cercato di sfamare la sua famiglia. L’hanno etichettata come «la figlia del nemico del popolo», era sbagliata, suo padre era sbagliato e il suo dolore era sbagliato.

Sono passati cento anni e la storia si ripete, ci fanno sentire sbagliati per il solo provare a piangere i nostri morti, per elaborare il lutto. Vogliono accertarsi se siamo stati noi a orchestrare tutto. Vogliono esaminare il nostro dolore per capire se stiamo soffrendo abbastanza e se ci si possa fidare fidare del nostro dolore, se è autentico o no, se stiamo facendo finta da più di un mese.

La rete del dolore dilaga su tutta la mappa dell’Ucraina: Mariupol’, Volnovakha,Rubizhne, Kherson…

“Ero a Bucha, vi racconto cosa ho visto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Aprile 2022.  

Un inviato dell'agenzia France Presse è stato il primo a entrare nel sobborgo di Kiev teatro del massacro che ha indignato l'Occidente. Smentisce con decisione, intervistato dall'AGI , chi parla di 'comparse' e 'morti che si muovono' e riguardo le responsabilità di ciò che è successo...

Ci sono volute tre settimane per entrare a Bucha. Settimane trascorse a Irpin, tentando tutte le strade per avvicinarsi alle zone in cui i combattimenti tra truppe ucraine e russe erano più furiosi. Settimane passate a cercare di passare attraverso i posti di blocco eretti dall’esercito di Kiev per proteggere la capitale e per tenere i civili lontani dal fronte. Il fronte, quello che nell’immaginario collettivo è una lunga trincea scavata sul fianco di una collina e che in questa guerra passa attraverso villette a schiera sfondate dai colpi di mortaio, supermercati saccheggiati e centri commerciali devastati dagli incendi.

Alla fine il giornalista Danny Kemp e la sua squadra dell’agenzia France Presse riescono a trovare il modo per entrare a Bucha e sono loro le immagini che abbiamo visto passare e ripassare in tv, le clip e le foto che hanno invaso i feed dei social network, i racconti che abbiamo letto e ascoltato. Sono quelli delle prime persone a mettere piede in questo sobborgo di Kiev trasformato in un mattatoio. Kemp non si sbilancia a fare ipotesi sulle responsabilità. Con l’AGI, che lo ha intervistato ora che ha lasciato la zona di guerra, usa la cautela dettata dalla probabilità che sia uno dei testimoni chiamati dalla commissione di inchiesta che dovrà a far luce su cosa è accaduto in questo agglomerato di case in cui fino al 24 febbraio vivevano meno di trentamila persone e che tre giorni dopo l’inizio dell’invasione è caduto nelle mani dei russi. 

“Quello che posso dire è quello che ho visto” dice Kemp, “e quello che ho visto non era una messa in scena e di certo i corpi che ho incontrato non si sono rialzati dopo il nostro passaggio”. Il riferimento è alla propaganda filorussa che ha cercato di bollare come falsi foto e video del massacro e su cui proprio la squadra di Kemp ha fatto ‘debunking’, ristabilendo almeno la verità sull’autenticità delle immagini. 

Rimettiamo un pò di ordine nei fatti: il 2 aprile, Kemp è con altri cinque colleghi della Afp a bordo di due Suv che riescono a entrare a Bucha. Sono giornalisti, videoreporter, fotografi, l’autista e un consulente per la sicurezza: un espatriato ucraino che viaggia con loro dall’inizio della missione, disarmato. Hanno provato più volte a passare quando la città era in mano ai russi, ma senza successo. Ora che i bombardamenti sono cessati e dalla parte di Kiev si può attraversare Irpin e arrivare nel sobborgo, finalmente possono documentare cosa è accaduto.

Viaggiano da soli: non sono scortati né dalle forze ucraine né da nessun altro. Sono liberi di muoversi dove vogliono, racconta Kemp, e quando incontrano il primo gruppo di civili, uno di loro gli dice che poco lontano da lì c’è una via piena di cadaveri. Il convoglio si rimette in marcia lungo strade che portano i segni di un mese di violenti scontri. C’è la devastazione portata dai bombardamenti – case devastate, crateri – e quella dei combattimenti casa per casa: muri crivellati di colpi, auto rovesciate per creare barricate.

Immagini devastanti dell’orrore che arrivano al cuore. Che è una via di un quartiere residenziale, anonima, come ce ne sono innumerevoli nei sobborghi di tutta Europa. Casette a schiera, villette, cortili e vialetti. Solo che qui sono piene di corpi. Tantissimi corpi. “Abbiamo fermato le auto e siamo scesi” racconta Kemp, “È stata una visione scioccante. La strada si stendeva per 400 metri e da ogni parte c’erano cadaveri. Alcuni isolati, altri in piccoli gruppi. I primi che abbiamo incontrato erano tre, nel vialetto di una casa: uno aveva le mani legate dietro la schiena. Altri sull’asfalto in mezzo alla strada, altri con le gambe incastrate sotto la bicicletta. L’impressione è che siano stati uccisi mentre erano in giro per le loro attività quotidiane: accanto ad alcuni erano rovesciate le buste per la spesa“. 

Ne contano ventidue e almeno due hanno accanto il passaporto ucraino aperto, come se qualcuno prima di ucciderli li abbia identificati . Due hanno una fascia bianca al braccio. Cosa significhi, il giornalista della Afp sa dirlo. “Solo nei giorni successivi ho sentito che potrebbe essere un segno distintivo dei filorussi”, spiega.

Tra i corpi si aggirano quattro civili ucraini. Sembrano sotto choc, non parlano, quasi nemmeno fanno caso al gruppo di stranieri che scatta foto, riprende, prende appunti. “Dovevamo fare in fretta” racconta Kemp, “avevamo l’urgenza di documentare quello che vedevamo e andare via da lì prima possibile”. Non parlano con nessuno, non incontrano militari, né di Mosca né di Kiev, fino a quando non si spostano verso il centro di Bucha e trovano soldati ucraini impegnati a cercare mine tra i rottami e le macerie. “Nelle tre settimane che abbiamo passato tra Kiev, Irpin e Bucha non abbiamo incontrato un solo russo” racconta Kemp, “giusto qualche pattuglia di ucraini”.

Un altro collega dell’agenzia Afp arriva alla fossa comune in cui le autorità ucraine dichiarano di aver trovato centinaia di corpi, peraltro confermati dalle fotografie circolanti. Chi li abbia uccisi, chi li abbia gettati lì è ancora da chiarire e anche su questo punto Kemp al momento preferisce non fare ipotesi. 

Nel frattempo la propaganda russa è stata veloce ad attivarsi e seminare dubbi. Se il ministro degli Esteri Serghei Lavrov si espone in prima persona, accusando Kiev di aver creato una messinscena a beneficio dei media occidentali, ecco che sui social arrivano i teorici del complotto che mettono in dubbio l’autenticità delle immagini delle stragi, arrivando a sostenere che i corpi si muovono. Ma ancora una volta è sempre il giornalista francese Kemp a sbugiardarli. “Nei post della propaganda, i video sono rallentati e di scarsa qualità” scrive il giornalista nel suo articolo di debunking, “ma osservando da vicino la sequenza con una qualità migliore, questi corpi non si muovono”.

Non c’è un cadavere che alza la mano: “si tratta in realtà di una goccia sul parabrezza del veicolo che riprende la scena”. Riguardo alla “comparsa che si alza” citata in alcune testate, compare due volte, a terra e due secondi dopo nello specchietto retrovisore del veicolo in un video del 2 aprile, ma anche lui è stato fotografato 24 ore dopo, il 3 aprile, dall’AFP nella stessa posizione e nello stesso luogo. Il 2 aprile, aggiunge Kemp, “abbiamo camminato per l’intera strada due volte. Abbiamo contato i corpi. In nessun momento abbiamo visto uno di loro muoversi. Avevano la pelle giallastra e cerosa e le dita rigide, alcune con le unghie scolorite. Erano chiaramente morti da diversi giorni, se non di più”.  

Redazione CdG 1947

Mauro Evangelisti per il Messaggero il 6 aprile 2022.

Fosse comuni, torture, stupri, esecuzioni di civili. «Numerosi bambini stuprati e torturati a Irpin», denunciano gli ucraini. La ritirata dell'esercito di Putin dall'area attorno a Kiev sta lasciando dietro di sè una scia di dolore, atrocità e distruzione. I russi contestano, negano anche ciò che immagini e testimonianze dimostrano. Ma una cosa è indubitabile: l'esercito di Putin dal 24 febbraio ha superato i confini dell'Ucraina, ha raggiunto le cittadine a ridosso di Kiev, le ha occupate, le ha bombardate. 

Dove sono passati i soldati russi oggi ci sono cadaveri e macerie. Il padre di tutti i lapsus freudiani lo commette l'ambasciatore russo alle Nazioni unite, Vasily Nebenzya, che prende la parola e dice per negare le atrocità commesse dai suoi connazionali a Bucha: «I cadaveri che giacevano nelle strade non esistevano prima dell'arrivo delle truppe russe...». Si accorge di avere di fatto ammesso le responsabilità dell'esercito di Putin e subito si corregge: «Volevo dire prima che i soldati russi se ne andassero, scusate».

TESTIMONI Gaffe a parte, la linea difensiva di Mosca è chiara: i cadaveri a Bucha sono stati messi dagli ucraini, è una mistificazione. Il problema - il tragico problema - è che le immagini ormai cominciano a essere troppo numerose e dettagliate, troppe le interviste raccolte dalle Tv di tutto il mondo corse nelle città degli orrori, per potere realisticamente pensare a una montatura. 

E le immagini del satellite testimoniano come sulle strade i cadaveri fossero giù presenti l'11 marzo, mentre l'esercito russo ha abbandonato la città il 30. Il quotidiano britannico The Telegraph ha raccontato una testimonianza: a Bucha a un uomo è stata tagliata una guancia, un altro è stato bruciato con il lanciafiamme, nei sotterranei di un ospedale pediatrico c'era una camera delle torture. Il video mostrato da Zelensky alle Nazioni unite mostra corpi carbonizzati sulle strade, alcuni sembrano bambini.

L'ufficio del procuratore generale dell'Ucraina fa anche sapere: a Bucha le truppe occupanti hanno cercato di bruciare i corpi di sei civili per nascondere le tracce delle torture. E si aggiunge: «Durante l'occupazione, i militari delle forze armate della Federazione Russa, in violazione del diritto umanitario internazionale, hanno ucciso civili e dato fuoco ai loro corpi per coprire il crimine». E purtroppo i racconti di atrocità commessi dagli occupanti stanno aumentando e spiegano anche perché 4 milioni tra donne e bambini sono fuggiti dall'Ucraina da quando è cominciata l'invasione ordinata da Vladimir Putin. Scrive su Telegram il difensore civico ucraino Lyudmila Denisova: «Numerosi casi di tortura di civili si registrano nei territori liberati dagli occupanti. Bambini di meno di 10 anni uccisi con segni di stupro e tortura sono stati trovati nella città di Irpin. Nella regione di Kiev, il campo per bambini di Prolisok ha ospitato per tre settimane la base di un'unità dell'esercito razzista.

Nel seminterrato sono stati trovati cinque cadaveri di uomini con le mani legate dietro la schiena. Sono stati torturati e poi uccisi a sangue freddo. Una delle vittime aveva il cranio schiacciato. 

Altri uomini sono stati uccisi con un colpo alla parte posteriore della testa o del torace». Irpin è a Nord-ovest di Kiev, a 30 chilometri. Nel villaggio di Viktorivka, nella regione di Chernihiv, «hanno tenuto la gente in ostaggio nei sotterranei, compresi anziani e neonati. I residenti venivano scortati anche per raccogliere un secchio d'acqua. Non venivano fornite cure, nemmeno a quelli la cui vita dipendeva da trattamenti medici». Secondo la commissaria agli Affari Interni della Unione europea, Ylva Johansson, «l'esercito russo ha ucciso 158 bambini e feriti tanti altri.

Questi crimini non possono restare impuniti». In serata nuovo bilancio del procuratore ucraino: i minori uccisi sono 165. Proprio ieri, dall'altra parte del mondo, è giunta la notizia dal Mali che mercenari russi della brigata Wagner in Africa hanno partecipato a un'operazione che ha causato 300 morti tra i civili. 

A Bucha sono stati trovati almeno 350 corpi. Ci sono le fosse comuni, ma anche le immagini, che probabilmente saranno ricordate a lungo anche in futuro quando si parlerà dell'invasione russa in Ucraina nei libri di storia, dei cadaveri con le mani legate sul ciglio della strada, a volte giustiziati con un colpo alla testa. Ma è in tutta l'area attorno a Kiev, quella a lungo occupata dall'esercito russo, che sono segnalati di atrocità. Secondo Zelensky a Borodjanka, a 25 chilometri da Bucha, il bilancio delle vittime potrebbe essere anche peggiore. I bombardamenti degli aerei russi hanno distrutto quasi tutti i palazzi, tra le macerie ci sono decine di corpi. Su un cadavere, trovato con le mani legate, i segni di torture. Racconta all'Ansa il sindaco della cittadina, Georgiy Erko: «Ci sono i corpi di circa 200 civili sotto le macerie dei palazzi colpiti a Borodjanka dalle bombe dei russi. Il 24 febbraio siamo stati la prima città ad essere bombardata. Stiamo cominciando adesso a portare via i cadaveri perché i russi non ce lo hanno permesso fino a quando c'è stata l'occupazione.

Ci hanno detto che potevamo evacuare, ma sparavano a chiunque uscisse in strada, affiggendo cartelli affinché restassimo in casa e disegnando il simbolo dell'occupazione ovunque». Il procuratore generale Iryna Venediktova: «Siamo convinti che il numero delle vittime a Borodjanka sarà più alto di quello di Bucha». A Motyzhyn, quarantacinque chilometri a Ovest della Capitale, le autorità ucraine parlano del ritrovamento di cinque cadaveri, con le mani legate. Tra di loro la sindaca Olga Suchenko, il marito e il figlio. «Hanno torturato e ucciso l'intera famiglia». Più a Èst, a 280 chilometri da Kiev, c'è una città di 90mila abitanti, Konotop. Siamo nella regione di Sumy il cui governatore, Dmytro Zhyvytsky, ha raccontato: sono stati trovati i corpi di tre civili uccisi e torturati.

FUTURO La linea difensiva dei russi è nota, punta a discreditare le immagini che arrivano dalle città che hanno abbandonato. Ma è ondivaga. In alcune occasioni sostengono che le morti di Bucha sono state causate dalle azioni dell'esercito ucraino, in altre parlano di messinscena, recita, di cadaveri che in realtà nei video si muovono. Tutte le verifiche indipendenti, che hanno passato al setaccio i video, hanno invece dimostrato che sono credibili, mentre le immagini satellitari dimostrano che nel caso più importante di Bucha i cadaveri per strada c'erano anche prima della ritirata dell'esercito di Putin. 

Secondo gli ucraini ora Mosca sta preparando una massiccia operazione di mistificazione, una campagna di disinformazione «per nascondere la loro colpa per le uccisioni di massa di civili a Mariupol». Secondo Zelensky «cercheranno di nascondere le tracce dei loro crimini. Non lo hanno fatto a Bucha, quando si sono ritirati. Ma ora stanno cercando di distorcere i fatti. Non saranno in grado di ingannare il mondo intero». A Bucha il sindaco Anatoliy Fedoruk dice che la città sta reagendo: «Già oggi potranno tornare medici e servizi pubblici. Spero che tra una settimana potremo riprendere lentamente la vita normale».

Bucha: "Quella mano è di Iryna Filykina, donna forte e gentile che amava la vita". Ilaria Carra su La Repubblica il 6 Aprile 2022.  

Una delle vittime della strage riconosciuta dalla sua insegnante di trucco per via dello smalto rosso acceso sulle unghie.

Le unghie ben curate, laccate, di un rosso acceso. Manicure perfetta. Un dettaglio vivace, di fervore, come il cuore stilizzato che si riconosce sull'anulare della mano adagiata sull'asfalto, a pugno mezzo chiuso, le dita ricoperte di terra. Un segno di vita che la morte sembra non aver cancellato. E' questo particolare, di cura e di colore, che ha permesso di dare un nome a uno dei tanti corpi delle vittime della strage di Bucha, cittadina di 36 mila abitanti a 37 chilometri a nord ovest di Kiev, uno dei tanti scoperti per le strade, nelle case, negli scantinati, dopo la ritirata dei russi lo scorso 1 aprile.

Chi è la donna della foto simbolo dell’orrore a Bucha: Irina riconosciuta per lo smalto sulle unghie. Ida Artiaco su Fanpage.it il 6 aprile 2022.

Iryna Filykina è la donna della foto simbolo del massacro consumatosi a Bucha, in Ucraina, nei giorni scorsi. Ad identificarla è stata la sua estetista Anastasia che l’ha riconosciuta tramite lo smalto che aveva sulle unghie: “Puniremo gli animali che hanno fatto questo”. 

Si chiamava Iryna Filykina la donna della foto simbolo del massacro consumatosi a Bucha, in Ucraina, nei giorni scorsi. La sua mano ricoperta di fango adagiata a terra, immortalata da un fotografo della Reuters, ha fatto il giro del mondo. È stato grazie allo smalto rosso acceso che aveva sulle unghie, tranne una su cui era disegnato un piccolo cuore, che è stata identificata. A riconoscerla è stata la sua estetista, Anastasia Subacheva, citata anche dall'agenzia di stampa Unian. Secondo quanto racconta Anastasia, la donna era una cliente che era andata da lei per una lezione di trucco l'ultima volta il 23 febbraio, alla vigilia dello scoppio della guerra.

"Mi ha raccontato di come il suo trucco è stato apprezzato e di quanto si sentisse bene. Stava andando al concerto di Polyakova, ha aperto un account su Instagram e ha condiviso tutti i suoi fantastici eventi e momenti di gioia. Mi ha tenuto la mano e ha detto: ‘Donya, nella mia vecchiaia ho finalmente capito la cosa più importante: devi amare te stesso e vivere per te stesso! E finalmente vivrò come voglio!'", ha scritto Subacheva su Facebook. E poi ancora: "Ricorderò per sempre le sue parole e i suoi consigli, ricorderò sempre che bisogna apprezzare la vita e godersi ogni momento, perché la vita è una sola. Lei rimarrà nella mia anima per sempre. Puniremo gli animali che hanno fatto questo. Li puniremo tutti. Non dimenticheremo e non perdoneremo". 

In un altro post, scritto qualche giorno fa, Anastasia ha aggiunto: "Sono orgogliosa che Irina sia diventata un simbolo dell'Ucraina, che in questo momento viene torturata e uccisa, così come i suoi cittadini. Lei è un grande messaggio per il mondo e le sue ingiustizie. Dovete punire la Russia per tutto questo". Poco altro si sa di Irina, se non che fosse single e con una figlia adolescente, Olga, sta lanciando sui social una raccolta fondi in memoria della madre per aiutare i bambini "che continuano a soffrire in Ucraina come risultato delle atrocità e dei massacri delle nostre famiglie". Il suo corpo era tra le decine abbandonati in strada a Bucha e scoperti dopo la liberazione della città il primo aprile scorso.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 aprile 2022.

Mentre le autorità ucraine continuano a contare i morti di Bucha, le loro storie vengono a galla. Come quella protagonista di una delle foto più strazianti del massacro, in cui si intravede la mano curata di una donna uccisa durante l’occupazione russa. 

Il suo corpo è stato trovato sdraiato sul ciglio della strada accanto alla sua bicicletta, il braccio teso lungo il fianco. Le sue unghie rosse e rosa spiccavano in mezzo alla terra. 

La foto è stata ampiamente condivisa sui social media e mentre venivano alla luce i tragici eventi all'interno della città, una truccatrice della vicina Gospel ha riconosciuto in quelle mani e nel modo in cui le unghie erano smaltate Iryna Filkina, 52 anni, aspirante truccatrice e blogger che pubblicava tutorial sui social.

Anastasiia Subacheva ha raccontato al New York Times di aver riconosciuto immediatamente le mani e le unghie distintive della signora Filkina dai suoi video, perché spesso erano protagoniste dei tutorial. 

Subacheva ha detto che il suo cuore si è spezzato quando ha visto la fotografia. Conosceva molte donne di Bucha perché si recava spesso in città per truccare molte donne lì. «Quando l'ho visto, mi sentivo fisicamente come se il mio cuore avesse iniziato a spezzarsi», ha detto al Times. 

Ha detto che Filkina l'aveva contattata a febbraio chiedendole dei corsi di trucco perché il suo sogno era diventare un'artista popolare e aumentare il suo seguito su Instagram. Subacheva doveva aiutarla a diventare bella e alla moda. La truccatrice ha detto che la sua cliente era particolarmente entusiasta per uno spettacolo imminente, per il quale voleva apparire al meglio. 

Subacheva ha ricordato che Filkina, che è stata uccisa a colpi di arma da fuoco il 5 marzo mentre tornava dal lavoro in bicicletta, una volta le disse: «Finalmente ho capito la cosa più importante: devi amare te stessa e vivere per te stessa». 

Il New York Times ha raccontato che la figlia, Olha Shchyruk, era fuggita da Bucha subito dopo l'invasione di Vladimir Putin il 24 febbraio, ma la mamma era rimasta indietro. 

Le forze russe si sono trasferite nella regione pochi giorni dopo. Dopo pesanti combattimenti, la città è stata persa. Shchyruk è stata informata della morte di sua madre il 6 marzo, ma su un canale Telegram ha scritto che sperava fosse ancora viva.

«Sapevo che non era possibile, perché non la sentivo da un mese», ha scritto in un post la scorsa settimana. «Ma un figlio aspetterà sempre sua madre». Venerdì le è stato inviato un video che mostrava sua madre sdraiata a terra. La figlia ha detto che anche senza le unghie, non avrebbe avuto problemi a identificare sua madre. 

Secondo la Nuova voce dell'Ucraina, ora sta aspettando di seppellire il corpo di sua madre. 

Bucha, la storia di Iryna, riconosciuta dallo smalto rosso. La sua mano compare in quella che ormai è diventata una delle strazianti foto simbolo della strage. La figlia Olga e la sua insegnante di trucco l’hanno riconosciuta. MONICA COVIELLO su Vanity Fair il 7 aprile 2022.

La sua insegnante di trucco, la make up artist Anastasia Subacheva, l’ha riconosciuta dalla manicure. È di una donna di nome Iryna Filykina la mano femminile – con lo smalto rosso e un cuore stilizzato sull’unghia dell’anulare – di una vittima del massacro di Bucha, che compare in quella che ormai è diventata una delle strazianti foto simbolo della strage. 

Iryna è stata un’allieva di Anastasia fino all’ultimo giorno di lezione, il 23 febbraio, vigilia dell’invasione russa. La make up artist, citata anche dall'agenzia di stampa Unian, lo ha raccontato su Instagram, per ricordare che, dietro ognuno di quei corpi martoriati, c’era una vita, una persona con la sua storia, i suoi affetti e le sue passioni. Iryna «ci aveva messo molto tempo a scegliere un rosso adatto, luminoso come lei», che «con la sua voglia di vita, forza, energia e gentilezza mi ha conquistata». 

Iryna era una persona solare ed entusiasta: «Saltava di gioia» quando arrivavano i cosmetici per il corso, e «ogni volta che si sedeva e si metteva al lavoro, svolgeva le nostre lezioni come nessun altro». Stava bene, era felice, «andava a concerti, aveva aperto un canale Instagram» su cui pubblicava «i suoi fantastici eventi e le sue gioie». 

Ad Anastasia aveva confessato: «Sono alla vecchiaia e finalmente ho capito la cosa più importante: devi amarti e vivere per te stessa! E finalmente vivrò come voglio! Quindi vivi ora come vuole la tua anima, non per un uomo, ma per te stessa!». Anastasia lo ricorderà: «Ricorderò per sempre le sue parole e i suoi consigli, ricorderò sempre che bisogna apprezzare la vita e godersi ogni momento, perché la vita è una sola. Lei è nella mia anima per sempre». L’ultima volta che si sono viste, «mi ha abbracciata e mi ha chiesto di prendermi cura di me, mi ha detto che persona meravigliosa sono. Era una guaritrice, sentiva me e i miei dolori. Quanto mi fa male non aver sentito il suo dolore».

Iryna era single e aveva una figlia adolescente, Olga. «Oggi è esattamente un mese dal giorno in cui è stata uccisa. E tutto quello che posso fare è piangere, e a volte non basta nemmeno», ha scritto sui suoi social, spiegando che i russi hanno sparato a Irina a 15 minuti da casa sua. 

Claudia Guasco per il Messaggero il 6 aprile 2022.

All'alba del 24 febbraio Vladimir Putin ordina all'esercito russo di invadere l'Ucraina. Lo stesso giorno Aleksandra Makoviy, detta Sasha, prende una penna e scrive sulla schiena della figlia Vira quelle poche informazioni essenziali che possono salvarla: la data di nascita, 10-11-19, i numeri di telefono di mama (mamma) e nana (papà). Poi prepara un altro biglietto da metterle in tasca, con qualche informazione in più in inglese e in ucraino. 

La bimba ha due anni e mezzo, i capelli biondi e il pannolino, se il conflitto li avesse separati o i genitori fossero morti sotto le bombe sarebbe stata in grado a malapena di dire il suo nome. Così Sasha ha pensato che l'unico modo per risparmiare alla bimba il destino di sommersa, senza nome né parenti che potessero prendersi cura di lei, era trasformare la sua schiena in una carta d'identità, «nel caso ci fosse successo qualcosa e qualcuno l'accogliesse come sopravvissuta».

Sasha ha postato l'immagine sulla sua pagina Instagram tre giorni fa, Vira è nella sua cameretta e sta disegnando. «Ho passato cinque minuti a fissare il pulsante pubblica post. Pensieri e sentimenti si accavallavano, non trovavo la forza di inviarlo. Ma dovevo parlarne, prima di tutto a me stessa. Fa male scorrere la galleria fotografica, c'è una vita meravigliosa che abbiamo avuto». 

Nella foto, scrive Sasha, «Vira è tornata al primo giorno di guerra. Le ho scritto sulla schiena con le mani che tremavano. Ma perché raccontartelo, figlia mia? Sai già com' è svegliarsi con i suoni assordanti e potenti delle esplosioni che si sentono per decine di chilometri. Nelle prime ore tremavo come te». L'angoscia per il destino della bambina, dice, «mi fa balenare un pensiero folle nella mente: perché non tatuarle queste informazioni?».

Ma anche una biro può salvare. «Le ho scritto sulla schiena nel caso si fosse persa. Eventualità che, secondo la mia logica, poteva succedere solo se fossi morta». Di quei numeri di telefono non c'è stato bisogno. Nello scatto successivo Vira, con un abitino di tulle rosa da ballerina, è accanto a un vaso di fiori gialli. «Io e Vira siamo al sicuro. Siamo fuggite all'estero e siamo nel sud della Francia. 

Vira indossa un vestito che i genitori francesi hanno preparato con cura. Sono molto commossa e non riesco a capire come nel mondo possano esserci allo stesso tempo questo male che ha invaso le nostre città e questo bene sconfinato». Sasha e la figlia ce l'hanno fatta, ma dall'inizio della guerra sono fuggiti dall'Ucraina due milioni di bambini e «molti di loro non sono accompagnati, ciò li espone al rischio di traffico illegale di minori», è l'allarme dell'Unione europea. La Lituania sta indagando sul caso di 43 piccoli sottratti per adozioni fuorilegge, fino a oggi l'esercito russo «ha ucciso 158 bimbi e ne ha feriti molti altri. Crimini che non possono restare impuniti».

In un mese di guerra, segnala l'Unicef, dall'Ucraina sono scappati 4,3 milioni di minori, più della metà dei 7,5 milioni del Paese. «L'invasione ha causato uno dei più rapidi sfollamenti su larga scala di bambini dalla Seconda guerra mondiale», afferma il direttore generale Catherine Russell.

TARGHETTE E BRACCIALETTI Il post di Sasha ha svelato un mondo. Mamme che scrivono sulla pelle dei loro figli, cuciono biglietti nei vestiti, attaccano pezze adesive sulle giacche con il gruppo sanguigno, fanno incidere medagliette e bracciali con i loro dati essenziali. Anche Anastasia Budilova ha scelto la soluzione estrema, le informazioni tracciate sulla schiena. «Quando l'ho fatto ero terrorizzata, ho pianto di nascosto perché il mio bambino non mi vedesse».

Margo Vyazhu ha messo in tasca alla figlia una fotocopia del passaporto e «sul retro ho segnato i telefoni di mamma, papà e fratello. Le ho fatto ripetere cento volte che è impossibile perdere un pezzo di carta. E se mamma e papà non si trovano, non potevo dirle che potevamo essere morti, allora cerca tuo fratello maggiore. Ha 21 anni e vive in un'altra città, la mia bambina ne ha 9». La sera del primo giorno di guerra Liliya Aksenenko si è organizzata: «Ho fatto incidere delle targhette di metallo, come quelle dei militari, con il gruppo sanguigno. Ho fatto uno zainetto per ogni figlio, dove ho messo una fotocopia dei certificati di nascita. Sentiamo solo le sirene, non so cosa accadrà domani, quindi non tocco nulla dalle tasche».

Anche Orobra Serce consiglia le medagliette, «una intorno al collo l'altra in un altro posto. Sono più affidabili. Il tessuto si bagna e si disfa, la scritta sulla pelle si cancella. I documenti, anche plastificati, possono danneggiarsi. La targhetta resta». È dal 21 febbraio, dal discorso di Putin, che le mamme ucraine si preparano al peggio, confrontandosi su Facebook sul punto migliore per attaccare gli adesivi con il gruppo sanguigno sui vestiti dei figli. Le scuole lo hanno reso obbligatorio. Ora i contatti dei familiari vengono scritti direttamente sulla pelle e «l'Europa sta ancora discutendo del gas», commenta amara Anastasiia Lapatina, giornalista del Kyiv Independent. 

Le intercettazioni dell'Armata rossa "Ho sparato io all'uomo sulla bici" "Prima li torturo..." Daniel Mosseri l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Un rapporto riservato degli 007 tedeschi con le voci dopo Bucha. Il sindaco: "Il 90% dei morti uccisi da proiettili, non da schegge".

Berlino. Sangue a Borodyanka e orrore a Hostomel. Dopo Bucha, almeno altri due villaggi nell'immediata periferia settentrionale di Kiev occupati dai russi nelle scorse settimane sarebbero diventati il teatro di crimini odiosi commessi dai militari russi contro la popolazione civile. Notizie che cominciano a circolare dopo che nei giorni scorsi il Cremlino ha annunciato un ridispiegamento delle proprie truppe, richiamate dal Nord dell'Ucraina per aumentare la potenza di fuoco a Sud, lungo le coste del Mar Nero, e sul Donbass.

Per Borodyanka, dove ieri sono stati trovati 26 cadaveri sotto le macerie di due edifici bombardati, ha parlato il consigliere del ministro degli affari interni dell'Ucraina, Anton Gerashchenko, secondo cui dal villaggio di 12mila anime mancano all'appello 200 persone. Situazione analoga nella vicina Hostomel: gran parte dei suoi 16mila abitanti sono fuggiti ma 400 locali risultano scomparsi nel nulla mentre 11 corpi sono stati trovati in un garage del villaggio.

«Non potete capire - ha detto il ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba riferendosi a Bucha - come ci si sente nell'apprendere che una persona che conosci è stata violentata per giorni e quando finalmente è arrivata a Kiev è andata direttamente in psichiatria. O cosa si prova davanti al fatto che i soldati russi hanno violentato i bambini». Il sindaco Anatoly Fedoruk ha parlato invece di 320 cadaveri contati dagli esperti forensi dopo le ricerche delle ultime ore. «Quasi nel 90 per cento dei casi sono ferite da proiettili, non schegge», ha affermato rivolto alla tv ucraina Dw.

Dalla Germania rimbalzano notizie di atrocità attribuite ai russi in guerra. Lo Spiegel riporta il contenuto di un rapporto riservato che il servizio di intelligence tedesco Bnd ha illustrato alla commissione Servizi del Bundestag. Il Bnd avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Tra i dialoghi via radio tra i militari c'è quello di un soldato che dice a un commilitone che lui e i suoi colleghi hanno sparato all'uomo in bici. In un'altra intercettazione viene invece indicato il metodo da seguire con i militari ucraini: prima si interrogano i soldati, poi si spara. E il materiale dimostrerebbe anche che membri delle truppe mercenarie russe «Wagner» erano significativamente coinvolti nelle atrocità. Bucha insomma sarebbe lo specchio di una strategia per diffondere paura e terrore tra la popolazione civile e soffocare la resistenza. E così il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha sostenuto che la Russia sta blocca i corridoi umanitari a Mariupol al solo fine di nascondere le prove delle «migliaia» di persone uccise nella città meridionale ucraina assediata. «Hanno paura che il mondo possa vedere cosa sta succedendo lì», ha affermato alla TV turca Habertürk.

Per capire le ragioni del comportamento sanguinario attribuito ai militari russi in Ucraina, il canale tedesco Ntv ha intervistato Jörg Baberowski dell'Università Humboldt di Berlino, considerato il massimo esperto di storia dell'Urss e di violenza stalinista. «Noi che viviamo in pace crediamo nel processo di civilizzazione, consideriamo impossibile il ripetersi di atrocità». Invece, ha spiegato, quello di Bucha «è un modello ricorrente in tutte le guerre: dal terrore francese in Algeria a quello americano nel carcere iracheno di Abu Ghraib». Baberowski riconosce poi una specificità dei soldati russi che sarebbero male equipaggiati, male addestrati, affamati, senza ricovero e sottoposti a una dura disciplina. Una miscela che esplode quando viene data loro carta bianca. Sorprendente, sottolinea ancora Baberowski, è invece come in 80 anni non sia cambiato nulla. «Le guerre in Cecenia hanno seguito lo stesso schema. Alla fine, l'esercito russo rase al suolo la capitale Grozny, ci furono stupri, massacri e abusi. La violenza si nutre della loro stessa umiliazione. I soldati umiliati sono tentati di elaborare le proprie esperienze in un modo che umilia gli altri. Questo è purtroppo un continuum nella storia della violenza russa. L'esercito russo è una prigione. Non mi sorprende che si verifichi una tale brutalità».

Alessandro Ferro per ilgiornale.it il 7 aprile 2022.

ll Bundesnachrichtendienst (Bnd), il servizio di intelligence tedesco, ha acquisito nuove e raccapriccianti informazioni sulle atrocità commesse dalle forze militari russe nella città di Bucha, vicino alla capitale ucraina Kiev. Il quotidiano Der Spiegel ha appreso che i servizi segreti tedeschi hanno intercettato il traffico radiofonico militare russo in cui si discuteva dell'omicidio di civili a Bucha. Sembra che gran parte del traffico radio intercettato, possa essere direttamente collegato ai cadaveri che sono stati fotografati nella città ucraina dove si sono compiuti autentici massacri.

In seguito al ritiro dell'esercito russo dalla città durante il fine settimana, è stata scoperta una fossa comune e i corpi di diverse dozzine di civili morti lasciati per le strade. Le mani di alcune delle vittime erano state legate, mentre altri corpi mostravano segni di tortura. 

Secondo quanto riferito, tra le vittime ci sarebbero anche numerose donne e bambini. Il governo russo ha negato con veemenza che l'esercito di Putin sia responsabile di questi crimini di guerra. Diverse affermazioni, del tutto infondate, sono state avanzate secondo cui i presunti crimini di guerra sarebbero stati inscenati dall'Ucraina.

Queste affermazioni, però, sono contraddette dalle dichiarazioni di numerosi testimoni intervistati dai giornalisti di Der Spiegel e da altri organi di informazione nella città di Bucha. 

I commenti intercettati, come se ce ne fosse bisogno, smentiscono completamente le affermazioni della Russia. Il quotidiano tedesco ha appreso che il Bnd ha informato i parlamentari sui propri risultati: una parte del traffico intercettato corrisponde esattamente alla posizione dei corpi trovati lungo la strada principale che attraversa la città.

In uno di essi, come riporta La Repubblica, un soldato ha detto a un suo compagno di aver appena sparato a una persona in bicicletta. L'affermazione trova conferma nella foto del cadavere sdraiato accanto a una bicicletta che è stata condivisa in tutto il mondo. In un'altra conversazione intercettata, un uomo avrebbe detto: «prima interroghi i soldati, poi gli spari». 

Il materiale dei servizi segreti tedeschi fornisce anche le prove che i membri dell'unità mercenaria russa chiamata "Wagner Group" hanno svolto un ruolo di primo piano nelle atrocità. Come abbiamo visto sul Giornale.it, il gruppo è noto per aver perpetrato atrocità simili in Siria.

Testimoni oculari hanno raccontato che la forza di occupazione a Bucha era inizialmente composta da "giovani soldati": una volta che sono stati sostituiti da altre unità, hanno detto i testimoni, gli attacchi ai civili sono diventati più frequenti. Altri ancora, invece, hanno riferito che in città c'erano unità cecene: i resoconti hanno sollevato la questione se questa progressione facesse parte del piano di occupazione ordinato da Putin. 

Il traffico radiofonico intercettato dal Bnd fa sembrare che le atrocità perpetrate sui civili a Bucha non fossero né atti casuali né il prodotto di singoli soldati sfuggiti di mano. Piuttosto, le fonti che hanno familiarità con gli audio, sottolineano che le truppe parlavano delle atrocità commesse come se stessero semplicemente discutendo della loro vita quotidiana.

Questo dimostra ancora una volta che l'omicidio di civili è diventato un elemento standard dell'attività militare russa, potenzialmente anche parte di una strategia più ampia: l'intenzione è quella di diffondere la paura tra la popolazione civile e ridurre in questo modo la volontà di resistere.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.

I soldati russi usano spesso radio non criptate per comunicare tra loro e telefonini comuni per parlare con casa. Per i servizi segreti occidentali è stato facile intercettare comandi tattici e trasmetterli in tempo reale agli ucraini. Per le compagnie telefoniche del Paese è stato ancora più semplice tenere sotto controllo le sim che chiamavano numeri russi. Ne è uscito un quadro sconvolgente della loro condizione di vittime oltre che di carnefici della guerra.

I servizi segreti tedeschi, Bnd, sono riusciti ad accoppiare le loro intercettazioni radio con il video registrato da un drone che aveva già sconvolto il mondo. Combaciano l'ora e la geolocalizzazione. Il filmato mostra un carro armato che mira e centra un civile che si muove tra le macerie del villaggio. Ha le mani sul manubrio, non appare minimamente in grado di nuocere al corazzato. Anche così, dalle immagini mute in bianco e nero, appare un'esecuzione crudele e ingiustificata.

L'intercettazione tedesca rende ancora più assurdo quel colpo: pochi secondi o minuti dopo l'orario segnato sul film del drone, dallo stesso luogo, un soldato comunica euforico ad un collega «abbiamo sparato a un ciclista». Come si trattasse di un successo al tiro a segno.

Le intercettazioni tedesche, visionate da Der Spiegel , sembrano mostrare un modus operandi per il quale le stragi immaginate guardando i cadaveri di Bucha e Borodyanka non sono affatto il risultato di schegge impazzite o reparti fuori controllo.

Dagli accenti e dai nomi dei soldati intercettati, appare che dopo la conquista compiuta da militari molto giovani, siano arrivati anche elementi più anziani, sicuramente ceceni e forse anche mercenari del gruppo Wagner. Nelle conversazioni dei soldati le atrocità sono descritte come giochi o come banali ordini portati a termine. La violenza che semina terrore diventa così arma di guerra per piegare la volontà di resistenza del popolo e dei militari. La regola, spiegata da un soldato all'altro, era «prima si interrogano i soldati prigionieri, poi si spara».

Dai cellulari dei soldati russi, emergono attraverso l'intelligence ucraina, racconti di un abbruttimento umano che lascia sgomenti. Un militare delle milizie indipendentiste filorusse telefona alla compagna che sembra vivere in un'area occupata dalle truppe di Mosca. Lui parla in russo, lei gli risponde, piangendo, in ucraino. «Serghey, tu non puoi capire quel che sta succedendo qui. I soldati ammazzano, sparano, violentano anche i bambini». «Lo dici per sentito dire o perché l'hai visto?» «Non volevo dirtelo, ma non riesco più a stare zitta.

Quando sono arrivati, gli abbiamo aperto la porta, gli abbiamo dato pane e salame. Ma poi di notte sono tornati con delle taniche di benzina. Ve le diamo in cambio delle due ragazze. Capisci? Avevano 13 e 15 anni». «Ma chi ha fatto una roba del genere?» «Non lo so. Avevano la fascia rossa».

I russi chiamano spesso con disprezzo gli ucraini «kholki». È un riferimento all'immagine folklorica degli antichi cosacchi con i baffoni e il ciuffo sulla testa rasata. Un soldato telefona a quella che sembra la moglie. Entrambi infilano una parolaccia dietro l'altra che, qui, sono lasciate all'immaginazione. «Questi khokli ci fanno soffrire». «Ho paura, guarda che sono già andata al funerale di tre tuoi coscritti. Non farti fregare». 

«A me lo dici? Il comandante ha detto che meritiamo la medaglia, ma io gli ho risposto di tenersela e di rimandarmi a casa». «Ma perché non li sterminate tutti questi khokli?» «Credi sia facile? Non è mica un film questo. Da quando sono qui, non ho visto ancora un soldato ucraino. Gli spariamo le cannonate. Mica è semplice beccarli».

Nel gergo militare, sin dai tempi sovietici, i russi si riferiscono alle perdite come «carico 200» e ai feriti come «carico 300». In questa intercettazione, sempre zeppa di volgarità, un soldato sembra parlare con la sua compagna. «Eravamo 80 e siamo rimasti in 13. Da giorni non faccio altro che caricare cadaveri. Carico 200 e carico 300». «Tu però stai attento?». «È da due settimane che vivo sottoterra. Ho paura di ogni rumore che sento. Quando torno, se torno, penso che dovrei chiedere di andare a lavorare al camposanto. Al carico 200 ormai sono abituato e almeno lì c'è silenzio. Guarda, a Capodanno non voglio neanche sentire i fuochi d'artificio. Penso che mi chiuderò in cantina».

Lui chiama la moglie. «Ho già sentito la mamma e mi ha raccontato della bambina. È vero che a scuola hanno fatto una colletta per i soldati al fronte?». «Sì è vero, ma non solo soldi, anche oggetti, cibo, regali». «La bambina ha preparato dei guanti per me, mi ha detto mamma». «Ti ha anche spiegato cos' ha scritto sul bigliettino?». «No, cosa?». «Papà, devi sbrigarti ad uccidere tutti gli ucraini così torni presto a casa». I due genitori ridono.

Un soldato telefona al padre. Hanno entrambi l'accento delle estreme regioni orientali della Federazione russa. Potrebbero essere di Buriazia e Carcassia confinanti con la Cina. In quelle steppe i molossi turkmeni, gli alabai, sono cani diffusi, utili per difendere le greggi e le case dai lupi. «Avete da mangiare? Siete a posto?» «Sì, sì, siamo a posto. Abbiamo tutto. Anzi ieri abbiamo anche mangiato un alabai». «Davvero? Un alabai? Era buono?». «Eccome. E comunque ho trovato anche una sorpresa per la mamma e un iPad per mia moglie».

(ANSA il 7 aprile 2022) - "Fino a ieri sera erano 320 i civili trovati uccisi. Gli specialisti stanno ora lavorando sui corpi: specialisti forensi, agenti delle forze dell'ordine, ma il numero di corpi scoperti cresce ogni giorno. Si trovano in tenute private, parchi, piazze, dove era possibile, quando non c'erano bombardamenti, seppellire i corpi. La gente cercava di seppellire i morti in modo che i cani non li portassero via. Quasi nel 90 per cento dei casi sono ferite da proiettili, non schegge". Lo afferma il sindaco di Bucha Anatoly Fedoruk in un'intervista alla tv ucraina Dw.

Alla domanda su dove sono stati trovati i cadaveri, il sindaco spiega che "sono stati trovati tre luoghi a Bucha: il territorio dell'impresa Ukragrosnab, dove gli invasori russi hanno scaricato i corpi delle persone con le mani legate come legna da ardere. Poi le strade di Vokzalnaya, Yablunskaya e il campo per bambini 'Promenisty', dove hanno anche trovato persone con le mani legate e ferite da proiettili". Fedoruk racconta che "sia prima che durante l'occupazione, sono stato con la comunità, come dovrebbe essere.

Personalmente ho visto tre episodi in un unico luogo. Mi trovavo in una casa privata, accanto alla quale avvenivano le esecuzioni. Questa è Lech Kachinsky Street, dove si trova l'impresa Yuzhteploenergomontazh, c'era solo un posto di blocco degli invasori russi e hanno sparato a tre auto a un certo intervallo di tempo. 

C'erano quattro persone in una macchina: un uomo, una donna incinta e bambini, tre di loro sono stati uccisi. Il corpo della donna è stato sepolto dal marito nella trincea che gli occupanti russi avevano scavato per ripararsi. Invece di una croce, ha installato la targa dell'auto su cui viaggiavano e i corpi dei bambini sono stati portati in chiesa e sepolti. Non so se quell'uomo sia sopravvissuto e quale sia il suo destino".

Quanto alle abitazioni, il sindaco elenca: "112 case private sono state rase al suolo e non possono essere restaurate, altre un centinaio furono danneggiate. Inoltre, 18 condomini sono stati gravemente danneggiati e bruciati a causa dei bombardamenti". Fino ad oggi compreso a Bucha vige il coprifuoco, quindi il sindaco consiglia ai civili di non tornare in città "fino alla decisione finale": "Ciò è particolarmente vero per donne e bambini. Perché finora in città non c'è elettricità, acqua, gas".

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 7 aprile 2022.

Un mazzo di tulipani rosa su una chiazza di sangue rosso rappreso, tutto intorno le impronte di chi ha calpestato quella pozza durante la fuga. Piange i suoi 10 morti Mykolaiv colpita tre giorni fa con una pioggia di cluster bombs. Bombe a grappolo, sparate da sud, dalla strada che porta verso Kherson, lanciate contro obiettivi civili. 

I segni nel porto cantieristico del Mar Nero sono ovunque, i frammenti anche. Schegge di metallo, fori nei vetri, buchi nelle facciate delle case. E nei parchi giochi, davanti all'ospedale infantile, a quello oncologico e contro un supermercato. A terra, piccole buche, con fori intorno, a raggiera. Come i danni fatti dall'artiglieria ma più letali.

«Hanno colpito anche vicino a casa mia, i vetri ora sono tutti distrutti». Si dispera Oleg, 42 anni, che sta preparando i bagagli per andarsene. «All'inizio pensavo fosse dentro il mio appartamento, mi sono buttato in corridoio, poi ho capito che veniva da fuori. Ho sentito una forte esplosione in cielo e dopo 30-40 boati a terra, tremava tutto».

Quattro del pomeriggio di lunedì. Fuori dalla sua finestra, in Victory Square, le persone stanno passeggiando, qualcuno sta facendo la spesa, altri sono in fila alla fermata dell'autobus. Poi le bombe toccano terra e detonano facendo rimbalzare tutto intorno frammenti di metallo che l'esplosivo trasforma in proiettili. Le più potenti vengono sganciate con piccoli paracaduti in modo che centrino l'obiettivo.

«Le ho viste anche la settimana scorsa. Senti un fischio, pensi ad un missile. Ma dopo pochi secondi, i botti e tutto intorno il caos». È così dall'inizio della guerra. I russi stanno gettando le bombe a grappolo su tutta l'Ucraina. Ma negli ultimi giorni contro Mykolaiv hanno adottato una chiara strategia. 

Dopo il missile che ha squarciato in due il palazzo del governatorato, luogo simbolo del potere, ora si attacca la popolazione. «Noi cerchiamo di resistere e di fare del nostro meglio bonificando le aree colpite ma non sempre riusciamo a mettere in sicurezza. E ci aspettiamo che bombardino ancora», spiega il sindaco Oleksandr Senkevych che se ne gira per la città con il suo kalashnikov nuovo augurandosi di non doverlo usare. Mandiamo le immagini degli ordigni che abbiamo visto al direttore della campagna anti mine, Giuseppe Schiavello che, con l'aiuto di Human Rights Watch, ci aiuta a identificarle.

«La più pericolosa è la 9M54 soprattutto se resta inesplosa a terra. Ed è proibita dalle convenzioni internazionali di Dublino e Oslo, cui né Russia né Ucraina hanno aderito». Il danno, oltre alle vittime, sono gli effetti di lungo periodo «perché sono difficili da disinnescare e possono esplodere anche a settimane di distanza». Sui corpi delle vittime restano i segni di queste bombe, più fori, come se fossero stati attraversati da proiettili.

Anche a Bashtanka, 70 chilometri più a nord, i segni della distruzione sono evidenti.

Case completamente esplose, farmacie e negozi bruciati. Ma ce ne sono altri forse ancora più devastanti. Masha, 4 anni e mezzo, sale sul girello nel parco giochi, pallida non dice una parola per un'ora. «Ha visto i missili russi cadere nel fiume davanti alla finestra. Le tremano spesso le mani. E non parla praticamente più», racconta la madre Irina.

Esplosivo e narcisi gialli Bash in ucraino significa anguria. Quando i russi sono entrati qui i primi di marzo Bashtanka era una tranquilla cittadina su un fiume. Poi è diventata il punto strategico del fronte Sud. I russi hanno cercato di sfondare qui per accerchiare Mykolaiv da nord. Sono stati in città per una settimana. Abbastanza per terrorizzare tutti e distruggere quello che trovavano sul loro cammino. E abbastanza per togliere il sonno a Olga che ora vive in una casa colpita da 5 missili di cui è rimasta in piedi solo la parte inferiore.

«Non riesco più a dormire e non voglio più parlare di guerra», dice mentre le scendono le lacrime. «Io quest' estate voglio tornare a mangiare in giardino con i miei nipoti». Poi con una mano indica i narcisi gialli fioriti nell'aiuola, «almeno qualcosa è rimasto». Per terra però c'era anche altro. Sono i resti di un missile grad. Ripieno di esplosivo e pezzi di metallo per fare ancora più danni e uccidere.

Il massacro di Borodyanka, i racconti: sepolti vivi nelle cantine, morti come topi. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.  

«I russi hanno paura e quando sono spaventati diventano cattivi, crudeli, minacciano, uccidono e non hanno rispetto per la vita. Ci hanno impedito di salvare i nostri amici che chiedevano aiuto per giorni da sotto le macerie». Incontriamo la sedicenne Victoria Kasmirenko davanti alla sua casa di legno, una delle poche rimaste in piedi in questa città di rovine. Parla bene italiano. «Ogni anno vengo in vacanza da una famiglia di amici in Puglia». Non vuole esagerare, precisa più volte, solo dire al mondo che cosa è successo qui davanti a casa sua: «I soldati russi erano tutti molto giovani. Avevano piazzato il posto di blocco proprio di fronte alla nostra porta, ci parlavamo tutti i giorni. Era chiaro che erano terrorizzati. Giovani reclute che pensavano di dover fare delle esercitazioni militari a Karsoyak, in Bielorussia, e dalla mattina alla sera si sono trovati a combattere qui da noi». Lei non li giustifica. Anzi: «Noi a loro non avevamo fatto nulla. Ma continuavano a minacciarci senza motivo. Mio padre mi teneva chiusa in casa, temeva violenze sessuali, come sappiamo sono capitate qui attorno».

Borodyanka viene catturata subito dalle colonne russe in avanzata verso Kiev. Il 25 febbraio si combatte nelle periferie. Bruciano i palazzi più alti, le strade si riempiono di crateri di granate e macerie. Il traffico è paralizzato, i russi sparano a bruciapelo contro le auto di chi scappa, come testimoniano le carcasse abbandonate e poi schiacciate dai carri armati. «I pochi civili rimasti in città si sono nascosti come noi nelle cantine. Qui vicino stava anche Youra Kholavko, che ha 45 anni, assieme alla moglie Alona. Li conosciamo molto bene, mia mamma Ludmilla era sua amica sin dai tempi in cui erano compagne di scuola. Il 27 febbraio ci hanno telefonato, chiedevano aiuto, dicevano che una cannonata aveva abbattuto il loro palazzo e loro con altre quattro o cinque persone erano rimasti intrappolati in cantina. Sepolti vivi. Noi siamo corsi fuori, ma i russi non ci hanno lasciato andare. Per oltre una settimana ogni tanto chiamavano, erano disperati, morivano di fame e sete. La morte del topo. Ma i russi non ci hanno mai permesso di aiutarli. Adesso i pompieri tireranno fuori i loro cadaveri», dice piangendo di fronte alle macerie, che vengono scavate con cautela dalle squadre di soccorso. Una storia tragica tra le tante. Non è difficile raccoglierne in questi centri urbani distrutti.

«Dei russi non voglio parlare. Sono animali!», sibila Yulia, una ragazza seduta in un’auto che finalmente dovrebbe portarla via dopo quattro settimane in cantina. «La violenza non era sistematica. Dipendeva dalla disciplina e dai comandanti. Qui attorno ci sono due villaggi, Drusnia e Zahalzi, sappiamo che là ci sono stati tanti stupri», rivela Evjenii, un dipendente della municipalità che adesso aiuta la protezione civile. Uno dei racconti più drammatici, e proprio per questo necessita di conferme, riguarda i «forni crematori mobili», che i russi userebbero per bruciare i cadaveri e allo stesso tempo occultare le prove dei loro crimini. Uno dei primi a svelarlo è stato il sindaco di Mariupol, la città sul Mar Nero dove la dimensione del massacro potrebbe offuscare tutto ciò che è emerso dai dintorni di Kiev sino ad oggi. Vadym Boychenko parla di «deliberata distruzione della popolazione civile» e sostiene adesso che il bilancio dei morti supera quota 5.000, di cui 210 bambini. «Quasi 50 persone sono bruciate vive nel bombardamento di un ospedale pediatrico» ha detto ieri all’agenzia ucraina Unian. Nelle ultime ore la vicepremier, Iryna Vereshchuk, ha specificato che i forni mobili verrebbero usati anche per cremare i soldati russi: «Il Cremlino non vuole mostrare i morti per evitare la crescita del malcontento in patria». Si fanno più circostanziate anche le accuse di stupri contro gli invasori. Lo ha detto alla Bbc la commissaria per i diritti umani al Parlamento di Kiev, Ludmyla Denisova. Sarebbe accaduto a 25 donne di età compresa tra i 14 e 24 anni a Bucha: «Stiamo documentando ogni caso, nessun crimine sarà impunito». Mosca nega e accusa le autorità ucraine di «fabbricare» lo scandalo come arma di propaganda.

Il calcolo delle vittime di queste sei settimane di guerra resta ancora elusivo. Ora che le strade diventano più agibili grazie al fatto che le unità russe che stavano nella regione di Kiev sono uscite dal Paese, ed è possibile raggiungere località sino a ieri paralizzate dal conflitto, emergono ovunque realtà di violenze e orrori che vanno capite e quantificate. Secondo gli abitanti a Borodyanka, i cadaveri sotto le macerie o sparsi nei campi potrebbero essere centinaia. Ci sono villaggi che non sono stati ancora visitati dalle squadre di soccorso. Secondo il sindaco di Hostomel, Taras Dumenko, mancherebbero all’appello 400 suoi cittadini, una quindicina bambini. «Potrebbero essere morti, ma alcuni anche rapiti», dice Dumenko, che sostituisce il sindaco eletto, assassinato dai russi all’inizio della guerra. 

Morto il piccolo Sasha. Il grido della mamma: “L’hanno ucciso i russi”. Brunella Giovara su La Repubblica il 6 aprile 2022.

Il miracolo non c’è stato, il bambino è morto. «Sono stati i russi, me lo hanno ucciso loro», questa donna non si dà pace. Anna Yakhno, madre di Sasha Zdanovych, 4 anni, disperso dallo scorso 10 marzo nelle acque del Dniepr, in una fuga disperata a bordo di una barca. L’unico giubbotto salvagente era per Sasha, ma questo non lo ha salvato. Anna ha fatto appelli, lo ha cercato ovunque, ha diffuso sui social cento foto di questo bambino biondo, poi si è arresa. 

Il corpo del bambino è stato trovato dopo quasi un mese d’acqua e fango, e perciò quasi irriconoscibile. Ma era lui, e così è stato restituito alla famiglia. Ed è morto perché colpito da proiettili russi, non per annegamento. Una mitragliata ha ucciso tutti subito, quel giorno. Chi ha trovato il corpo ha parlato di colpi di arma da fuoco, il ministro dell’Istruzione ucraino Inna Sovsun ha confermato la notizia. Perciò Anna maledice i russi, capaci di sparare a un bambino, «tutta colpa della guerra» scatenata da Putin, se 3 milioni di persone hanno dovuto lasciare l’Ucraina, e sappiamo che la metà sono bambini. Sasha è finito in questa giostra di viaggi pericolosi, il suo poi lo è stato al massimo, visto che della barca su cui erano saliti in otto — più due cani — tre sono i morti sicuri, gli altri dispersi.

Dunque il bambino era sfollato da Kiev alla casa della nonna paterna Zoya, 60 anni, a sud della capitale. Meglio in campagna che in città, ma poi la guerra è scoppiata e si è avvicinata sempre più, quello che sembrava un posto sicuro era invece una trappola, e racconta Anna che la casa era in un piccolissimo paese con soli due negozi, e due giorni dopo il cibo era già finito, e che pur essendoci nei dintorni «alcuni villaggi, come Tolokun e Sukholuchye, ben presto è mancata per tutti l’elettricità, e poi anche le linee di comunicazione». I russi stavano avanzando velocemente, e senza cibo, senza possibilità di stare in contatto con Kiev, infine Zoya ha preso la sua decisione. Partire, assieme a un gruppo di vicini, anche loro nelle stesse condizioni.

Racconta Anna che «più volte abbiamo provato a raggiungerli in auto, per portarli via da lì, ma ogni volta siamo dovuti tornare indietro a causa dei bombardamenti». Così, il gruppo ha trovato la barca, e sono partiti per attraversare il fiume. Non ci sono testimoni dei fatti, ma il giorno dopo «hanno recuperato il cadavere di mia suocera e quello di un’amica». Nessuna traccia degli altri, ma Anna ha voluto credere che Sasha fosse vivo e ha continuato a cercarlo fino a ieri.

«La speranza non ci ha mai abbandonato, abbiamo sempre sperato nel miracolo» che non c’è stato. La speranza che fosse stato raccolto vivo da altri profughi, e con loro si fosse messo in salvo. Gli appelli sui social, a cui hanno risposto in migliaia da tutto il mondo, anche solo per dirle che speravano nel miracolo. E in Europa, quando hanno segnalato Sasha in Romania, in Bielorussia, in Polonia, e anche in Russia. La guardia di frontiera ucraina e quella polacca lo hanno cercato tra migliaia di bambini che in quei giorni stavano attraversando la barriera verso ovest, «un bambino piccolo, con i capelli biondi lunghi tagliati a caschetto». Ma Sasha non c’era, e se ne trovavano uno che gli somigliava, non era mai lui. E comunque, nel caos e nella fiumana di gente in fuga verso la Polonia, sarebbe stato davvero difficile rintracciarlo. «Sasenka, il mio piccolo angelo, adesso è in paradiso», ha scritto Anna su Instagram. Nato il 4 marzo 2018, morto il 10 marzo 2022, 4 anni e 6 giorni buttati via così.

Mauro Evangelisti per il Messaggero il 7 aprile 2022.  

Alle porte di Kiev, alle porte della barbarie. La ritirata dell'esercito di Putin disvela le violenze e le brutalità commessi in varie cittadine come Bucha, Gostomel, Irpin, Borodyanka. Si è andati ben oltre il triste e prevedibile lascito di una guerra di cui, tra l'altro, si fatica a capire il senso perché l'esercito russo di fatto non ha ottenuto alcun risultato strategico. Anche il tentativo di Putin e del suo entourage di smentire il video con i cadaveri di Bucha - prima dicendo che erano attori, poi affermando che erano stati uccisi dagli ucraini - mostra la goffaggine di chi è abituato a comunicare in un ambiente sterilizzato, la Russia, in cui i media sono di fatto narcotizzati dal Cremlino.

Dal New York Times a El Pais, i media internazionali hanno incrociato i video a disposizione e le immagini satellitari smentendo, oltre ogni ragionevole dubbio, le smentite di Mosca. Da Mariupol, invece, a Est dell'Ucraina, una città distrutta al 90 per cento dove, secondo Kiev, i russi hanno forni crematori per eliminare i cadaveri, si rischia di assistere a un'anticipazione di ciò che potrebbe succedere nelle altre città che stanno resistendo all'avanzata dell'esercito di Putin. Esecuzioni, stupri, fosse comuni. Le autorità ucraine - certo, di parte, ma anche rappresentanti di un Paese aggredito, non aggressore - ora parlano di 5.000 crimini di guerra indagati dal procuratore generale Irina Venediktova. Che ha spiegato: «Anche in questa situazione così crudele, i crimini di guerra sono i primi ad apparire, seguiti dai crimini contro l'umanità e dal genocidio».

Marco Evangelisti per il Messaggero il 7 aprile 2022.  

(...) Secondo la Denisova, a Bucha, ma non solo a Bucha, lo stupro è stato usato come «una nuova arma» dagli invasori. «È successo per un mese, per tutta la durata dell'occupazione della cittadina. Continueremo a documentare questi crimini. E chi li ha commessi sarà trovato e punito». 

ARRIVATI DA EST Nella cittadina alle porte di Kiev agiva l'unità militare 51460 arrivata, da una regione della Federazione Russa ai confini con Nord Corea e Cina, da un altro mondo a estremo oriente che dista 8.500 chilometri da Bucha. Lineamenti asiatici, secondo gli ucraini erano comandati dal tenente colonnello Omurbekov Asankebovich, già definito il boia di Bucha. Saranno però le indagini a verificare se davvero abbia dato lui il via libera alle atrocità, visto che in zona operavano anche i ceceni di Kadyrov. E il precedente del conflitto in Cecenia fa riflettere. Ciò che ora si può dire è che Bucha, insieme a Mariupol e a Irpin, è una delle città martiri di questa invasione ordinata da Vladimir Putin. Nel mese di occupazione sono morti almeno in 400. Il sindaco ha denunciato che i russi prima di partire hanno lasciato mine ovunque, perfino nei cadaveri. 

Alcuni media locali spiegano che chi aveva tra i 50 e i 70 anni è stato ucciso per strada, come mostrano i corpi trovati con un foro di proiettile in testa, i più giovani nei cortili delle loro case, perché i russi cercavano in modo sistematico coloro che avevano l'età per combattere. Un'azione irrazionale, inutilmente feroce, visto che poi i russi hanno abbandonato Bucha. Quei morti sono fonte di dolore e orrore, ma dal punto di vista strategico non spostano nulla. Una violenza cieca fine a se stessa. 

Anatoliy Fedoruk, sindaco di Bucha, ha raccontato alla Bbc: «Dalle nostre case abbiamo visto le persone brutalmente colpite dai russi anche mentre cercavano di scappare in automobile.

C'era una donna incinta, suo marito urlava, chiedeva di non spararle, ma i soldati russi non hanno avuto pietà e li hanno uccisi. 

Ho dovuto seppellire la donna sulla strada laterale, invece di una croce ho messo la targa della sua automobile». (...)

Mauro Evangelisti per il Messaggero il 7 aprile 2022.   

«Gli assassini coprono le tracce. Usano crematori mobili per bruciare i cadaveri». Mariupol, città martire, affacciata sul Mar d'Azov, a Sud-Est, non lontano dal confine, è in agonia da un mese, ha visto bombardare il suo teatro, i suoi ospedali, radere al suolo gran parte degli edifici. 

Nella città in cui fino al 24 febbraio abitavano e conducevano una vita normale 430mila persone, si muore ogni giorno, a causa dei combattimenti violenti, delle esecuzioni, ma anche della fame e della sete perché non è rimasto più nulla. Qui, secondo il consiglio comunale cittadino che ieri ha scritto un post sui social, i russi non vogliono commettere gli stessi errori di Bucha. Non vogliono lasciare i segni del loro passaggio. Non vogliono cadaveri, che siano quelli dei cittadini di Mariupol uccisi o dei soldati di Putin caduti in battaglia. Si legge nel post: «I crematori mobili russi hanno iniziato a funzionare.

Dopo l'ampia pubblicità internazionale del genocidio di Bucha, i vertici della Federazione russa hanno ordinato la distruzione di qualsiasi prova di crimini del suo esercito a Mariupol». Secondo gli amministratori locali filo ucraini, a Mariupol «una settimana fa stime prudenti hanno portato il bilancio delle vittime a 5.000. Ma date le dimensioni della città, la distruzione catastrofica, la durata del blocco e la dura resistenza, decine di migliaia di civili di Mariupol potrebbero essere caduti vittime degli occupanti. Ecco perché la Russia non ha fretta di dare il via libera alla missione umanitaria turca e ad altre iniziative per salvare e completare l'evacuazione di Mariupol. Inoltre, tutti i potenziali testimoni delle atrocità degli occupanti vengono identificati ed eliminati». (...)

Marco Evangelisti per il Messaggero il 7 aprile 2022.  

Li hanno rapiti o uccisi. O molto più probabilmente prima li hanno rapiti, poi li hanno uccisi e hanno fatto sparire i cadaveri. «Conosciamo le persone che sono state uccise, ci sono conferme, foto e registrazioni video. Ma ancora non riusciamo a trovare i cadaveri».

Taras Dumenko, capo dell'amministrazione militare nel villaggio di Hostomel, parla alla radio pubblica dell'Ucraina e racconta la storia di 400 dispersi. 

Tra di loro anche bambini

Quattrocento cittadini spariti nel nulla, in un paese, a Nord di Kiev, con appena 14.000 abitanti. Dopo l'invasione, però, molti erano andati via e si calcola che ci fossero ancora 5.000 residenti a Hostomel.

Di fatto, con 400 spariti, significa che una persona su 12 non si trova, è desaparecida si direbbe in un'altra parte del pianeta. Certo, può essere che una parte sia riuscita a fuggire, ma le testimonianze raccolte, ma anche foto e video, mostrano anche altro: purtroppo l'esercito russo ha ucciso molti cittadini di Hostomel. Si tratta di una ricostruzione opera degli ucraini, vero. Ma il precedente di Bucha, dove le smentite dei russi sono state smontate da tutte le ricostruzioni indipendenti, rendono più credibile la versione di Kiev. 

Scrive il quotidiano Ukraine Pravda citando il capo dell'amministrazione militare locale: «Sappiamo che i russi hanno rapito un uomo e un figlio e ancora non sono stati trovati. Stiamo anche cercando il corpo del capo dei vigili del fuoco dell'aeroporto di Hostomel. Le truppe russe hanno ucciso il capo del villaggio, Yuri Prilipko, e hanno ucciso Ruslan Karpenko e Ivan Zorya, i cui corpi sono stati trovati». 

Come mai, a differenza di Bucha che dista appena quattro chilometri da Hostamel, qui i cadaveri non si trovano? Secondo Dumenko «i russi hanno ripulito le tracce delle loro atrocità. Alcune persone, anche bambini, sono state uccise a colpi di arma da fuoco sulle loro auto, lungo la strada, mentre se ne andavano. Più gli occupanti si sentivano al sicuro, lontani dalla prima linea, più accuratamente coprivano le loro tracce».

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2022.

Non c'è limite al peggio. Adesso emerge che gli orrori di Borodyanka possono essere anche più gravi di quelli di Bucha. C'è ancora tanto da scoprire nelle zone appena abbandonate dall'esercito russo.

Appena prima di raggiungere Bucha si scorgono tra le campagne segni di distruzioni e morte che due giorni fa non avevamo notato, nella foga di arrivare il prima possibile a quello che ci era stato descritto come il luogo dove più gravi sono state le stragi di civili.

Ci sono gruppi di ville e alcuni capannoni colpiti dalle bombe e completamente bruciati. E nelle macchie di bosco attorno si distinguono dedali di trincee, bunker scavati nella terra scura e alberi abbattuti con tracce profonde di cingoli che vanno a perdersi tra la vegetazione.

«I carristi russi cercavano il riparo dei pini per sfuggire ai nostri droni. Non è escluso ci portassero anche i loro prigionieri. Molti sono poi stati attaccati dall'aria. La zona va ancora perlustrata», ammette un ufficiale ucraino.

Nei villaggi attorno a Kiev stanno emergendo segni di torture sui civili, e i dirigenti del governo Zelensky sostengono che atrocità terribili sono state individuate nella cittadina di Borodyanka, una ventina di chilometri a nordest di Bucha e una cinquantina dalla capitale.

«Gran parte degli edifici sono stati distrutti, stimiamo vi siano 200 morti sotto le macerie, nelle cantine e nei giardini. La nostra area fu la prima ad essere occupata dalle truppe russe il 24 febbraio mentre marciavano su Kiev ed è stata liberata solo domenica scorsa, va ancora pulita e bonificata. Come a Bucha, stiamo cercando le fosse comuni», sostiene il sindaco di Borodyanka, Georgiy Erko.

Lo stesso Zelensky ne ha parlato ieri nel suo discorso-appello all'Onu. Il calvario La zona era stata investita dalla violenza della guerra proprio all'inizio dell'attacco sulla capitale. Le colonne russe erano passate da qui arrivando da Chernobyl e per unirsi alle truppe aviotrasportate che erano asserragliate nell'aeroporto di Hostomel.

Ma l'intera operazione era fallita, causando molte vittime tra i russi. Non è da escludere che proprio in questa fase anche diversi civili ucraini siano stati uccisi o feriti. Fu allora che iniziò il calvario di Borodyanka: l'intero centro è sventrato e il numero di palazzi colpiti o bruciati sia superiore all'80% dell'area urbana.

Alcuni reporter hanno scorto vestiti e coperte scaraventati sulle cime delle piante dalla violenza delle esplosioni. 

Massacri nelle cittadine

Notizie di massacri provengono anche dalle cittadine attorno a Kharkiv, dalle quali i russi stanno ritirandosi in modo sempre più rapido, e inoltre a Chernihiv, sulla strada che da Kiev porta in Russia, e quindi a Sumy e Izyum, dove i comandi di Putin cercano di riorganizzare le truppe per stringere d'assedio i contingenti ucraini impegnati per contenere l'avanzata nemica dal Donbass. E occorre ancora attendere per capire cosa sia davvero accaduto nel mattatoio di Mariupol.

Ieri abbiamo potuto girare almeno tre ore in libertà per le strade sporche di guerra a Bucha. I corpi individuati nei giorni scorsi erano stati tutti raccolti e i poliziotti stavano documentando e fotografando le macchie di sangue sul terreno assieme ad ogni resto che potesse aiutare l'inchiesta in vista della scelta ucraina di accusare i russi di «crimini di guerra» al tribunale internazionale dell'Aja.

Nei pressi di un centro commerciale Gennady Chernasky, un imprenditore di 47 anni, mostra dove assieme ai 13 famigliari sono riusciti a sopravvivere. «In giardino avevamo raccolto tanta legna e secchi d'acqua per cucinare.

La notte non accendevamo alcuna candela, temevamo che i russi potessero fare irruzione», spiega. Le sue parole sono fattuali. «Qui hanno sparato con eguale intensità russi e ucraini. I comandi russi stavano vicino alla stazione elettrica e nei palazzi più alti, gli ucraini hanno bombardato a tappeto, anche molte nostre automobili sono andate distrutte dai loro colpi», racconta.

Spari sulle famiglie

Però non esita anche a sottolineare che i russi sparavano contro le famiglie che cercavano di fuggire in auto, mostra il suv del suo vicino ridotto in un colabrodo di buchi di proiettili. Quanto ai furti da parte dei russi, lui dice che gli appartamenti abbandonati sono stati metodicamente setacciati.

«Hanno portato via tutto. Nel circolo dei nostri palazzi siamo rimaste in 4 famiglie su 124, i russi avevano raccolto un bottino gigantesco», ricorda. Stessa fine pare abbiano fatto i negozi e i grandi magazzini, ma non i supermarket e gli alimentari, dove la popolazione ucraina affamata ha letteralmente fatto a gara con i russi per accaparrarsi tutto ciò di commestibile che restava.

Il 42enne Valery ha invece una testimonianza particolare: «Con mia mamma Sofia, di 75 anni, eravamo chiusi nel nostro piccolo appartamento quando la mattina del 12 marzo dieci soldati russi hanno fatto irruzione. Volevano il mio portatile, ho risposto che non l'avevo.

Se ne sono andati, ma a fine marzo sono tornati, hanno chiuso mia madre in bagno accusandomi di essere una spia, hanno sparato in aria, volevano uccidermi in garage. Io mi sono inginocchiato di fronte a loro pregando in russo il loro Dio, visto che io appartengo alla chiesa del patriarcato di Mosca. Allora hanno minacciato che sarebbero tornati il giorno dopo. Ma la stessa sera se ne sono andati».

A Irpin affiorano i corpi dei bimbi violentati. La superstite: "Stuprata di fianco a mia madre agonizzante".  Brunella Giovara su La Repubblica il 6 Aprile 2022.

Nelle zone liberate intorno a Kiev i corpi delle vittime marchiati da svastiche e "Z". Qualcuno ha urlato? No, perché il più delle volte li hanno imbavagliati. Possiamo immaginare il terrore, e il dolore, sofferto dai bambini di Irpin. Di alcuni si sanno anche i nomi, perché man mano che i loro cadaveri vengono ritrovati e in qualche modo ricomposti, i parenti possono riconoscerli, sempre che siano ancora vivi.

Nuove immagini girate da un drone delle forze ucraine mostrano le forze russe sparare su un ciclista a Bucha, in via Yablunska alle coordinate GPS 50.54148, 30.228898, dove sono stati filmati e fotografati più cadaveri. La veridicità del video è stato confermato da 'Bellingcat', gruppo di giornalismo investigativo con sede nei Paesi Bassi specializzato in verifica dei fatti e intelligence open source, e da VoxCheck, progetto di fact-checking ucraino.

I massacratori di Bucha in fila per spedire a casa i beni razziati ai morti. Daniele Raineri La Repubblica il 6 Aprile 2022.  

Le telecamere di un ufficio di spedizioni in Bielorussia hanno ripreso i militari di Mosca mentre si preparavano a inviare il bottino dei saccheggi: televisioni, vestiti, casse audio e tavoli.  

Kiev - Alla fine di marzo i reparti militari russi che per cinque settimane hanno tentato di assediare la capitale Kiev si ritirano dall’Ucraina, varcano il confine e arrivano in Bielorussia nella città di Mazyr. Tra loro ci sono anche soldati che occupavano le posizioni tra Bucha e Hostomel e che in questi giorni sono accusati di avere commesso crimini di guerra. 

Vittorio Sabadin per “il Messaggero” il 5 aprile 2022.

Tutti i soldati portano a casa un ricordo quando vanno in guerra. Ma i soldati russi hanno deciso di fare di meglio: nella città bielorussa di Narovlya, subito dopo il confine con l'Ucraina, hanno aperto un vero e proprio bazar nel quale raccolgono e vendono le merci saccheggiate nelle abitazioni dei civili. Vi si trova di tutto: frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, gioielli, opere d'arte, cosmetici, giocattoli, auto, bici, moto, tappeti, piatti, posate, scarpe e vestiti.

Gran parte della merce viene inviata in Russia, utilizzando anche il servizio di consegna espresso russo Sdek, che ha un ufficio in Bielorussia ed è contento di avere l'opportunità di migliorare il fatturato. Anche le mogli dei soldati sono felici di ricevere la merce, che ha il vantaggio di essere di ottima qualità e di non costare nulla. La Ukrayinska Pravda ha pubblicato la conversazione telefonica tra una giovane donna e il marito al fronte. Un'intercettazione choc, registrata mentre lei gli suggeriva cosa prendere in base alle sue necessità e a quelle della figlia.

Il semplice passaggio di un esercito in un territorio, si sa, è sempre una grave disgrazia per gli abitanti, ma stavolta si è superato ogni limite. Dopo avere bombardato, devastato e ucciso i civili, i soldati russi hanno completato l'opera passando al saccheggio sistematico, come facevano i barbari ai tempi dell'antica Roma. Poiché non potevano portare con sé gli oggetti dei quali si sono impadroniti, i militari hanno creato, con l'evidente aiuto di molti graduati, un deposito oltre il confine. Le merci viaggiano sui camion Kamaz dell'esercito, robusti, indistruttibili e protagonisti persino della Parigi-Dakar, che hanno vinto 18 volte su 43 edizioni disputate.

 Decine di Kamaz stracarichi di merce sono stati visti nella cittadina ucraina di Buryn, al confine con la Russia, e altri camion si concentrano a Mazyr in Bielorussia, dove vengono scaricati.

Gli oggetti più ingombranti finiscono al bazar di Narovlya, gli altri proseguono verso Mosca.

Nelle abitazioni i soldati hanno spesso rubato anche denaro, dollari ed euro, che ora è più difficile smerciare a causa delle restrizioni interne. Si può sempre andare in una banca bielorussa, dunque, ma almeno questo è vietato dal comando militare.

«Mentre le truppe russe si ritirano dalla regione di Kiev dopo aver subito perdite immense, stanno saccheggiando case di gente comune - ha scritto su Twitter il portavoce del ministero degli Esteri ucraino, Oleg Nikolenko -. Elettronica, vestiti, scarpe, cosmetici. Questo non è un esercito. Questa è una vergogna. Non dimenticheremo mai e non perdoneremo mai».

I soldati russi non sembrano però provare alcuna vergogna, come dimostra proprio la telefonata intercettata dai servizi di sicurezza ucraini e pubblicata dalla Ukrayinska Pravda. Un militare di nome Andrej parla con la moglie e si vanta dei cosmetici, delle scarpe da ginnastica di marca e delle magliette di qualità che ha rubato in una casa. Invece di domandargli come gli sia venuto in mente di diventare ladro e saccheggiatore, la moglie gli ha chiesto di guardare meglio, per verificare se non trovava anche un laptop e delle tute sportive di cui aveva bisogno.

Nella telefonata Andrej aggiunge che i residenti della casa erano benestanti, prendevano vitamine costose e avevano anche una sauna che i soldati hanno utilizzato più volte. Poi dice alla moglie: «Ci sono scarpe da ginnastica da donna. Beh, sono New Balance, sono di marca, tutto qui lo è. Misura 38. Sono assolutamente fantastiche». 

Il soldato spiega che «tutto viene portato via dai soldati in buste piene» e che se ne avesse avuto l'opportunità avrebbe preso anche un laptop. La moglie lo sollecita a farlo: «Beh, pensaci, Sofia sta andando a scuola, anche lei avrà bisogno di un computer». E aggiunge: «Bene, prendi tutto. Anche le magliette sono utili». Andrej descrive la casa, bellissima e «ricoperta di pietra». La moglie sembra invidiosa: «Come vivevano vero? E come viviamo noi È per questo che combattono».

Al momento dei saluti, come una moglie che parla con il marito andato a fare acquisti in centro, gli chiede: «C'erano delle tute per caso? Avresti potuto prendere delle tute belle». Le bombe, le stragi, le esecuzioni, gli stupri, le devastazioni sembrano non contare nulla, ma forse in Russia nessuno ne sa niente. Quando Andrej tornerà a casa, la moglie gli chiederà com' è andata, come fosse il ritorno da una gita. E se si è ricordato delle tute.

Dal profilo Twitter di Luigi De Biase l'8 aprile 2022.

Quelli nella foto dovrebbero essere gli autori della strage di Bucha. La foto l'hanno pubblicata molti quotidiani martedì. Sono riuscito a parlare con due di loro. Vivono in Yakutia. 

Hanno lasciato l'esercito da mesi. Non hanno mai messo piede in Ucraina. Neanche da civili. 

Questo naturalmente non riduce le responsabilità russe. Anzi. Le testimonianze raccolte a Bucha e le intercettazioni dell'intelligence tedesca confermano il metodo e portano nel quadro il Gruppo Wagner. Ma è chiaro a tutti che per ricostruire i fatti servono elementi certi.

Uno dei militari nell'immagine, Vladimir Osipov, vent'anni, mi ha detto che la foto l'hanno scattata a Khabarovsk nel 2019 all'inizio della leva. Lo hanno congedato a dicembre. Da allora è tornato in Yakutia. Vive con la famiglia. L'intervista è qui. 

Osipov ha servito nella 64esima brigata fra il 2019 e il 2021. Quelli nella foto sono coscritti yakuti. Mi ha detto che, per quel che ne sa, tutti hanno lasciato l'esercito a dicembre. 

Un altro dei soldati, Andrey, mi ha chiesto di essere indicato soltanto con il nome. Questo perché assieme alla foto nei giorni scorsi sono stati resi pubblici su internet e sui social tutti i suoi dati personali.

Da allora riceve messaggi di insulti e minacce. Anche Andrey vive in Yakutia. Al telefono in videochiamata mi ha confermato la versione di Osipov. 

Come sono arrivato a questi individui? Nel modo più normale che esista. Attraverso contatti personali. Frequento la Yakutia da anni, ogni anno. Non si può fare seriamente questo lavoro stando sempre seduti al computer o solamente leggendo quello che altri scrivono. 

Ricostruire il percorso di quella foto non è semplice. Alcuni elementi sono, però, certi. Lunedì il governo ucraino ha diffuso le sigle delle brigate russe che hanno occupato Bucha. La prima dell'elenco era quella in cui Osipov ha prestato servizio fino allo scorso dicembre. 

Dopodiché il sito InformNapalm ha messo a disposizione i dati di centomila cittadini russi che svolgono o hanno svolto il servizio militare. Con un avvertimento: alcune tabelle potrebbero essere vecchie, usatele con cautela. Forse qualcuno ha ignorato il consiglio. 

Un cantante ucraino, Oleksii Potapov, ha pubblicato lo stesso giorno su Instagram le foto degli yakuti con un messaggio che diceva: stupratori e assassini, presto conosceremo i vostri nomi. Potapov ha due milioni di followers. Il post centomila like.

E così, credo, quella foto ha acquisito rapidamente credibilità. Come detto prima, le responsabilità russe in Ucraina sono fuori discussione. Ma molto probabilmente quelli che abbiamo visto sui giornali non sono i volti degli assassini di Bucha.

Luigi de Biase per ilmanifesto.it l'8 aprile 2022.  

L’immagine oramai è nota perché molti quotidiani l’hanno pubblicata e commentata. Ci sono una trentina di ventenni in uniforme. Posano per una foto ricordo. Uno di loro tiene in mano una bandiera. La bandiera è della Repubblica Sakha, o Yakutia, nell’estremo oriente della Federazione russa.

Quelli sarebbero «i killer di Bucha», come ha scritto martedì il Corriere della Sera, oppure gli uomini del «battaglione siberiano, ultimo mostro del putinismo», per riprendere il titolo ancora più efficace scelto dalla Stampa. 

MA CON OGNI PROBABILITÀ nessuno di quei militari ha mai messo piede in Ucraina. Neanche in abiti civili. «La foto l’abbiamo scattata nel 2019, a Khabarovsk, all’inizio della leva», dice Vladimir Osipov, vent’anni, macchinista nel distretto di Namsky, un gruppo di villaggi e di case isolate tenuto insieme da una strada bianca a un paio di ore d’auto dalla capitale della Yakutia, Yakutsk.

È da lì che riceve la videochiamata, che mostra la sua casa, che spiega come ha passato gli ultimi mesi. «In Ucraina non sono mai stato. Non ho mai preso parte ad alcun combattimento. Il servizio è durato due anni e l’ho svolto con la 64esima brigata, a Khabarovsk, nella base di Knyaze Volkonskoye. Ma la leva è finita a dicembre e io da allora ho sempre vissuto qui con la mia famiglia». Osipov è in quella fotografia, si trova al centro, nell’ultima fila. «Tutti coetanei e tutti yakuti. Per quel che ne so, tutti in congedo da dicembre». Con i terribili fatti accaduti a Bucha, ripete al telefono, «io non ho nulla a che fare».

Insomma, l’immagine che decine di quotidiani, non solo in Italia, hanno usato per dare un volto agli assassini di Bucha non mostrerebbe affatto i veri autori della strage. Il che non esclude e non riduce il ruolo dell’esercito russo in questa terrificante vicenda. Anzi. Le testimonianze raccolte proprio a Bucha negli ultimi giorni e le trasmissioni radio intercettate dall’intelligence tedesca che Spiegel ha riportato ieri confermano il metodo seguito sul territorio dell’Ucraina e portano nel quadro anche le truppe mercenarie del Gruppo Wagner. È chiaro a tutti, però, che la ricostruzione degli eventi e l’attribuzione delle responsabilità debbano necessariamente essere basate su elementi certi e concreti.

OGGI RICOSTRUIRE IL PERCORSO di quella foto è complesso. Alcuni punti sono, tuttavia, piuttosto evidenti. Il 4 aprile a Kiev Aleksey Arestovich, consigliere del presidente, Volodymyr Zelensky, e negoziatore al tavolo con i russi, ha diffuso l’elenco dei reparti che hanno occupato Bucha. L’elenco comprendeva una dozzina di sigle. La prima era proprio quella del reparto in cui è stato in servizio Osipov. Lo stesso giorno il portale di informazione InformNapalm, specializzato sulla guerra in Ucraina, ha reso accessibile un file con i dati di centomila cittadini russi che hanno svolto il servizio militare negli ultimi anni.

CON UN AVVERTIMENTO: queste tabelle contengono anche dati vecchi, quindi «dovrebbero essere trattate con cautela». È possibile immaginare che non tutti abbiano seguito il consiglio. Sempre il 4 aprile il musicista ucraino Oleksii Potapenko ha pubblicato sul suo profilo Instagram diverse immagini di Osipov, trovate forse attraverso i social network, compresa quella che è finita poi sui quotidiani. 

In calce Potapenko ha scritto un messaggio: «Ecco una foto dei soldati dell’unità militare 51460 del villaggio di Knyaz-Volkonskoye, nel territorio di Khabarovsk. Erano a Bucha. Presto tutti questi assassini, stupratori e predoni saranno conosciuti per nome». Il suo profilo Instagram ha due milioni di iscritti. Quel messaggio oltre centomila “mi piace”.

UNO DEI COMMILITONI di Osipov, un altro ventenne di nome Andrey, accetta di parlare a patto che non siano rivelati né il cognome, né il patronimico, né la località in cui si trova, sempre in Yakutia. La conversazione in video dura una decina di minuti. Anche lui è stato per due anni a Khabarovsk con la 64esima. Anche lui a dicembre ha lasciato l’esercito per fare ritorno alla vita civile. Nella foto è il terzo da sinistra. In testa indossa un berretto. «Assieme a quella fotografia, giorni fa, sono stati resi pubblici i miei dati personali. I primi ad accorgersene sono stati alcuni amici. Mi hanno avvertito. Mi hanno chiesto che cosa stesse succedendo. Ho ricevuto messaggi con insulti e minacce. Ero sotto shock. Come potete capire è una brutta situazione».

«Ecco gli sciacalli»: il vicepremier ucraino Fedorov mette alla gogna su Twitter i soldati russi. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Non solo i soldati della strage di Bucha. Kiev vuole identificare tutti gli autori degli sciacallaggi che hanno rivenduto gli oggetti rubati ai civili.

Il viceministro della Trasformazione digitale Mykhailo Fedorov ha deciso di utilizzare il suo profilo di Twitter per pubblicare nomi e cognomi dei soldati russi che si sono resi protagonisti dei saccheggi che hanno colpito le città ucraine negli ultimi giorni, soprattutto i palcoscenici delle stragi come quella di Bucha. Gli invasori avrebbero infatti sistematicamente depredato negozi, luoghi di interesse e abitazioni delle vittime per recuperare grandi quantità di vestiario e oggetti vari, di maggiore o minore valore, da spedire in Bielorussia, per quello che si è rivelata una vera e propria fonte di lucro abusiva. Alcuni li hanno spediti nelle proprie città di provenienza in Russia, altri ne hanno fatto un’opportunità di guadagno, rivendendo le merci anche a prezzi maggiorati, perché considerate «trofei di guerra in territorio nemico e dei quali andare orgogliosi». Per questo motivo Fedorov, sfruttando mezzi tecnologici non precisati, ha dato vita a una vera e propria gogna social e mediatica per tutti i soldati che sono risultati autori di questo sciacallaggio. In un tweet il viceministro ha scritto così: «Voglio lanciare l’hashtag #russianlooters (saccheggi russi) dopo quanto accaduto a Bucha. La nostra tecnologia è in grado di identificare soldati come Shchebenkov Vadym, che ha rubato più di 100 kg di vestiti alle famiglie ucraine e le ha inviate in Bielorussia, nella sua città natale di Chita, a 7mila km di distanza». In precedenza aveva twittato anche di come gli autori delle stragi di Bucha, Irpin e Hostomel si fossero sistematicamente organizzati per inviare migliaia di questi oggetti e capi d’abbigliamento, come si trattasse di un’attività premeditata e ben congeniata.

L'inchiesta giornalistica

Qualche giorno prima, un gruppo di giornalisti d’opposizione in Bielorussia aveva pubblicato il risultato di un’inchiesta che ha messo in evidenza nomi, cognomi e riferimenti di molti soldati che avevano svolto questa pratica durante le operazioni militari nel territorio ucraino, anche a seguito delle stragi che hanno colpito i civili ucraini che non erano riusciti a fuggire. Il progetto giornalistico, ribattezzato «Belaruski Haiun» e riportato dal sito d’informazione ucraino Pravda , ha spiegato come molte di queste spedizioni fossero addirittura destinate alla città siberiana di Rubtsovsk, tutte merci rubate alle vittime della guerra, ma anche a Mosca e altre città, per un peso che supera le due tonnellate (tra vestiti, oggetti preziosi ed effetti personali dei civili). Tra gli autori dei furti vengono pubblicati i nomi di molti soldati. Tra questi, Kovalenko Evgeny Evgenyevich avrebbe spedito 450kg di attrezzatura elettronica, sia per ascoltare la musica che mobilio di vario tipo, per un valore superiore ai mille euro. Lazarev Artem Petrovich ha inviato a Rubtsovsk 255kg di ricambi di scooter, moto e forse automobili per centinaia di euro. Terzo e ultimo esempio tra i tanti, Nikolaev Pavel, che avrebbe inviato 205kg di televisori, monitor, accessori elettronici e anche una poltrona. Nella maggior parte dei casi si tratta invece di vestiario, anche divise sportive della nazionale ucraina rivendute online a caro prezzo, perché da considerare capi e testimonianze di un momento storico e glorioso da ricordare.

Il mercato degli sciacalli

Sullo stesso argomento, il Jerusalem Post ha pubblicato un articolo relativo alla realizzazione di un vero e proprio bazaar per tutte le merci saccheggiate nelle città ucraine invase. Il tema del saccheggio è stato sempre presente all’interno dei conflitti, ma mai come in questo caso il fenomeno si era presentato in modo tanto sistematico e organizzato anche attraverso canali di ecommerce, stando anche a quanto scrivono molti utenti che hanno commentato i recenti tweet del viceministro Federov sul tema. L’Intelligence Directorate ucraino (Gur) parla di «bigiotteria, elettrodomestici, lavatrici, frigoriferi, biciclette, giocattoli e cosmetici, di fatto qualsiasi tipo di oggetto fa parte della vendita abusiva, anche online, per la quale i soldati chiedono pagamenti in euro o in dollari. Un sistema di convogli ben orchestrato che porta tutti questi oggetti in Russia e Bielorussia, una volta che la merce viene inscatolata e impacchettata».

Il sito per le segnalazioni

Per far fronte a questo fenomeno il viceministro ucraino non vuole però sfruttare solo Twitter, ma ha aperto negli ultimi giorni un sito web che permetta ai cittadini di denunciare gli autori dei saccheggi identificati. In altri casi sono i sistemi del governo di Intelligenza Artificiale a identificare i soldati, dal momento che, sfruttando la tecnologia, gli sciacalli si rendono anche molto più facilmente rintracciabili. Per quanto riguarda dispositivi elettronici come quelli della Apple, in molti casi è stata d’aiuto anche la funzione di geolocalizzazione del dispositivo stesso, tecnologia in genere utilizzata per ritrovarlo in caso di smarrimento. «Molte foto e video», ha spiegato Fedorov, «sono già stati sottoposti a un processo di riconoscimento, così avremo modo di pubblicare tanti altri nomi. Troveremo questi criminali uno per uno». Lo sciacallaggio durante un conflitto è stato ufficialmente vietato dalla quarta Convenzione di Ginevra del 1949, ma è da sempre considerato un crimine per la consuetudine del diritto internazionale.

Giovanni Ruggiero per open.online il 10 aprile 2022.  

Nei saccheggi commessi dai soldati russi durante la ritirata dalla regione di Kiev non è stato risparmiato neanche il seminario cattolico di Vorzel, vicino la capitale ucraina. Qui, racconta il vescovo di Kiev Vitaliy Kryvytskyi, i russi hanno rubato qualsiasi cosa capitasse a tiro, compreso un calice commemorativo che papa Giovanni Paolo II aveva usato durante la messa del 2001, in occasione della sua visita in Ucraina.

«I predoni – così il vescovo chiama i soldati russi – hanno aperto i cancelli per entrare nel seminario. Hanno tirato fuori ciò che può essere venduto: condizionatori d’aria, lavatrici, computer, router, attrezzature da cucina, fino alle vecchie scarpe da ginnastica del rettore. Sono stati trafugati anche alcuni oggetti liturgici».

I ceceni di Kadyrov e le atrocità di un esercito poco motivato. Stefano Pontecorvo La Repubblica il 6 Aprile 2022.

Il ruolo nelle violenze dei soldati di etnia non russa: rappresentano la maggioranza delle truppe ma sono male addestrati e non sentono propria la guerra.

Nell'ospedale militare di Rostov, città della Russia meridionale, sono ricoverati i feriti della centocinquantesima divisione di fanteria rimpatriati dai combattimenti in Ucraina. Nei letti spartani del nosocomio, al secondo piano, riposano i soldati dell'armata russa Mohamed, Mansour, Seidullah, Bislan, Zaur, Saikhan, Rahman, Rizwan, Abdullah, Ahmed, Abubacar. Sui 45 nomi che compongono la lista dei feriti vi sono anche Stanislav, Igor, Volodia, Dimitri, Alexej, Sergiey, Vadim, ma sono in netta minoranza.

Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera il 10 aprile 2022.

Repressione, torture, violenze sessuali e assassinii in serie contro i civili ucraini sono diventati via via sempre più diffusi e gravi man mano che crescevano tra le truppe russe la paura e l'incapacità di reagire alla risposta militare nemica, assieme alla consapevolezza che la popolazione locale non li accoglieva con i fiori, bensì li considerava invasori. 

Un esercito impreparato alla missione che gli era stata affidata, che si sbanda nell'indisciplina più crudele ai danni di inermi di fronte alle difficoltà e infine si ritira lasciando alle sue spalle orrori e morte. È questo il quadro che esce anche dalla cittadina di Makariv, un altro dei centri urbani occupati poco dopo l'invasione russa nella regione di Kiev dal 24 febbraio e abbandonati ai primi di aprile, dove oggi la gente può finalmente raccontare.

«Nelle ultime 24 ore abbiamo trovato i corpi di almeno 132 civili, tra questi ci sono due donne stuprate e poi uccise. Molti uomini avevano le mani legate dietro la schiena e segni di torture. La maggioranza era gettata in fosse comuni, ma ci sono anche sepolture isolate, che sono le più difficili da individuare», ha detto l'altra notte il sindaco, Vadym Tokar. Ieri mattina i giornalisti locali hanno visto diverse auto sulla strada che conduce a Makariv che erano ferme con le portiere spalancate, fori di proiettili in entrata sulle carrozzerie, finestrini infranti e larghe macchie di sangue rappreso sui sedili. 

Tutto lascia credere che i russi abbiano sparato a bruciapelo contro chiunque cercasse di fuggire: famiglie intere sterminate in pochi secondi. Si stanno cercando i corpi tra le macchie d'alberi e gli acquitrini delle periferie. Stas Kosliuk, un reporter di Kiev, si è spinto più a occidente verso Zhytomyr e ha trovato piccoli villaggi totalmente abbandonati, ma con evidenti tracce di massacri. Qui nelle auto bruciate sono stati rinvenuti resti umani. Nella foresta che circonda il villaggio di Ozera, il reporter si è imbattuto nel cadavere riverso al suolo di un uomo cui erano state legate le mani con nastro adesivo bianco e accanto a lui le sue cose: borsa da lavoro, occhiali, la fodera della carta d'identità.

I responsabili Makariv, come Bucha (qui la conta dei morti è passata in 24 ore da 320 a 360), Irpin, Hostomel, Borodyanka e l'altra trentina di nuclei urbani devastati attorno a Kiev. Ancora secondo il sindaco Tokar, suoi circa 15.000 abitanti di Makariv prima della guerra, ne erano rimasti un migliaio al momento dell'arrivo dei russi. E sono i sopravvissuti tra loro che danno le testimonianze più gravi. 

C'è chi parla di «attacchi con le bombe a mano tirate direttamente contro le cantine e i ricoveri pieni di gente, oltre a mitragliate a bruciapelo senza alcun motivo». Non mancano versioni contraddittorie, o comunque ancora da capire. Secondo alcuni testimoni furono le reclute russe più giovani a «perdere il controllo a causa del panico per una guerra cui non erano preparati»: crudeltà e indisciplina di un esercito in rotta.

D'altro canto, è possibile raccogliere testimonianze diverse, secondo le quali in alcuni casi sarebbero stati gli stessi soldati di leva a mettere in guardia la popolazione contro la presenza di unità della polizia politica a caccia di nazionalisti ucraini e inclini a utilizzare le maniere forti, oltre a uomini delle udmurt e buryat , come qui chiamano le brigate provenienti dalle province della Russia asiatica. Sono unità brutali che si erano già tristemente distinte nelle battaglie del 2014-15, non ultima quella per la cittadina di Debaltsevo nel Donbass. 

Kiev replica accusando. Il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, spiega che si sta organizzando un archivio online per documentare i crimini di guerra russi. Alla lista degli abusi si aggiunge anche quello, denunciato dalla commissaria per i diritti umani Lyudmyla Denisova, di torturare e uccidere giornalisti, fotografi e registi venuti a raccontare il conflitto. Il presidente Volodymyr Zelensky condanna con forza, afferma di non avere più lacrime per piangere i suoi concittadini morti, ma alla conferenza stampa con il cancelliere austriaco Karl Nehammer, anche lui in visita a Kiev, si dice «sempre pronto a cercare vie diplomatiche per fermare questo conflitto».

Bucha, l'ombra dell'Isis e il rischio dell'escalation fatale: il sospetto sugli orrori (e quelle voci su Volodymyr Zelensky).  Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 04 aprile 2022.

Il "massacro di Bucha", trentadue chilometri a ovest di Kiev, un teatro di corpi civili smembrati o trafitti al suolo dalle pallottole dei soldati russi che l'hanno da poco evacuata, è la Guernica di Vladimir Putin ma non avrà un Pablo Picasso a compendiarne la macelleria umana in un olio su tela. A differenza del bombardamento hitleriano che rase al suolo la città basca nel 1937, durante la guerra civile spagnola, stavolta l'orrore senza ritorno è tutto sotto i nostri occhi in tempo reale. Ed è un sommario di decomposizione fisica e morale che imprime una traccia indelebile nella narrazione di questa guerra che si vorrebbe dire assurda e invece è puro cinismo sanguinolento e crimine contro l'umanità. Le foto e video che ci giungono dal sobborgo ucraino hanno il colore dell'oltretomba e come colonna sonora uno spettrale abbaiare di cani nel silenzio dei cadaveri pietrificati da giorni. C'è quello corpulento e seminudo di un uomo freddato in tombino; quello di un giovane riverso a terra che ancora inforca disperato la sua inutile bicicletta; quelli di centinaia fra donne e uomini che punteggiano strade e cortili con le mani ancora legate dietro la schiena o che spuntano - sotto forma di teste, mani, tronchi mozzati - da una specie di maldestra fossa comune improvvisata nel terriccio stepposo inumidito dalla pioggia.

VALORE SIMBOLICO - Fra le numerose testimonianze, colpiscono per valore simbolico i dettagli delle mani ripiegate nel rigor mortis, in particolare quella di una donna la cui unica sopravvivenza non annerita sta nella solitaria macchia rosa di smalto su un'unghia. Il rosa della seduzione femminile in mezzo alle venature rossastre del sangue rappreso sul selciato. È la rappresentazione di una verità oscena che il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, offre con parole nitide alla Corte penale internazionale chiedendone l'intervento urgente: un atto deliberato di ferocia contro civili inermi... come l'Isis... peggio dell'Isis. Che la guerra non sia una cena di gala non lo scopriamo certo adesso, essendo tutti a vario grado imparentati per lo meno con la barbarie del Novecento e i suoi stermini di massa. Ma il punto qui non è tanto che cosa vogliamo dire o essere al cospetto del passato. Il punto è che nel presente l'esercito di Mosca sta lasciando dietro di sé le tracce di un'orda stragista e predatoria il cui spirito non ha alcunché di denazificante, di strettamente bellico e circoscritto come ha provato a raccontare lo Zar del Cremlino con la sua retorica imperiale sovietica. Non esiste giustificazione, ma neppure possibilità di comprensione, al cospetto di Bucha e della sua gratuita mattanza d'innocenti che, a proposito dei riferimenti biblico-manichei largheggiante nei fronti in lotta, richiama piuttosto la massima enunciata da André Glucksmann nel suo Undicesimo Comandamento: «Nulla di ciò che è inumano ti sia estraneo». Per guardarlo sempre da vicino, suggeriva il filosofo francese, e combatterlo anzitutto dentro te stesso.

Come si possa giudicare il campionario di sadismo omicida perpetrato al dettaglio e all'ingrosso dall'Armata rossa è una domanda che il popolo ucraino non ha nemmeno il tempo di porsi, dovendo imbracciare le armi dai 18 anni in su oppure nascondersi e fuggire in un posto meno pericoloso della propria casa incenerita. Ma dal nostro angolo visuale la dismisura tra la fatalità delle armi e la volontà di annientamento indiscriminato è ormai evidentissima. Vista dall'alto dell'Occidente solidale con Kiev, la questione può essere risolta con l'aumento nella fornitura delle armi, con l'embargo sul petrolio, il gas e il carbone, la chiusura di tutti i porti a navi e beni russi, la disconnessione di tutte le banche russe dal circuito Swift; come del resto chiede con lancinante insistenza il Paese aggredito. Posto sempre che un intervento più deciso, per esempio la no fly zone pretesa inizialmente dal presidente Zelensky, comporterebbe l'escalation fatale che ciascuno di noi teme più d'ogni altra evenienza. Agli occhi della storia, invece, Bucha verrà probabilmente rubricata fra le figure retoriche della disumanità possibile e di quella reale, come Sabra e Shatila e appunto Guernica. I cadaveri appena scoperti, e quelli che ancora dobbiamo incontrare, non potranno mai dire la loro al riguardo.

Da blitzquotidiano.it il 5 aprile 2022.

Ucraina, il boia di Bucha è Omurbekov Azatbek Asanbekovich. Ha un nome e un volto il comandante delle truppe russe che il 31 marzo hanno smobilitato da Bucha lasciandosi alle spalle cadaveri di civili per strada, nelle fosse comuni, ucraini giustiziati con un colpo alla nuca e le mani legate. 

Ucraina, il boia di Bucha è il tenente colonnello Asanbekovich

I volontari del progetto InformNapalm hanno trovato e pubblicato su Telegram i dati del comandante dell’unità militare 51460, 64/a brigata di fucilieri motorizzati, coinvolta in crimini di guerra a Bucha, nella regione di Kiev. Lo riferisce l’Agenzia Unian.

“Siamo riusciti a trovare anche l’indirizzo di casa del boia russo”

Si tratta del tenente colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich. Su Telegram è stato pubblicato anche l’indirizzo email e il numero di telefono di Asanbekovich. 

Di Asanbekovich, comandante dell’unità militare 51460, 64ma brigata di fucilieri motorizzati, è stata pubblicata anche la foto.

Giovane, in tuta mimetica, un carrarmato alle spalle, le labbra carnose, gli occhi allungati dei buriati, la più grande minoranza etnica di origine mongola della Siberia. Da dove è partita per muovere guerra all’Ucraina l’unità 51460, esattamente da Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Khabarovsk, nell’estrema Russia orientale. 

“Siamo riusciti a trovare anche l’indirizzo di casa del boia russo”, hanno scritto i volontari di InformNapalm, citati da Unian. Annunciando la pubblicazione di dati, archivi e spiegazioni su come trovare il comandante russo.

“Ogni ucraino dovrebbe conoscere i loro nomi. Ricordate. Tutti i criminali di guerra saranno processati e assicurati alla giustizia per i crimini commessi contro i civili dell’Ucraina”, si legge nella dichiarazione della Direzione principale dell’intelligence del Ministero della Difesa dell’Ucraina, pubblicata sul suo sito.

InformNapalm punta il dito contro il comandante. Massacro di Bucha, il ‘boia’ russo sarebbe Omurbekov Asanbekovich: l’accusa contro il battaglione siberiano. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Aprile 2022.

È Omurbekov Azatbek Asanbekovich il ‘boia’ di Bucha? Il tenente colonnello a capo dell’unità militare 51460, della 64esima brigata di artiglieria motorizzata russa, sarebbe l’equivalente russo di Ratko Mladic, il responsabile dell’eccidio di Srebrenica, non a caso episodio utilizzato come termine di paragone dal capo delegazione ucraino Mikhailo Podolyak.

A fare il suo nome come responsabile del massacro di Bucha, la città a pochi chilometri a nord della capitale ucraina Kiev, teatro dell’orrore di crimini di guerra russi contro civili, sono gli attivisti di InformNapalm, ripresi poi dai principali media ucraini e da Anonymous.

I reporter e volontari di InformNapalm hanno anche trovato e pubblicato via Telegram i dati del comandante dell’unità, rendendo noto anche l’indirizzo email e il numero di telefono di Asanbekovich. “Siamo riusciti a trovare anche l’indirizzo di casa del boia russo”, hanno scritto gli attivisti di InformNapalm. Dai dati emergerebbe un’età di circa 40 anni del tenente colonnello russo.

Omurekov Azatbek Asanbekovich e i suoi uomini sarebbero arrivati in Ucraina dal villaggio di Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Chabarovsk, nell’estremo oriente russo al confine con Cina e Corea del Nord. Secondo InformNapalm erano i militari dell’unità militare 51460 quelli ‘di stanza’ a Bucha: in alcune foto diffuse su Twitter si vedono i membri del battaglione sventolare anche una bandiera della repubblica di Sacha, o Jacuzia, che si trova nella Siberia orientale.

Al momento comunque il governo ucraino non ha confermato le informazioni diffuse da InformNapalm sulla responsabilità del massacro da attribuire a Omurekov Azatbek Asanbekovich e ai suoi uomini.

Contro tale ipotesi vi sarebbe anche la strana scelta da parte del Cremlino di affidare una zona ‘sensibile’ come Bucha, a pochi chilometri dalla capitale Kiev, ad un ‘semplice’ tenente colonnello. Anche la brutalità utilizzata contro i civili, uccisi con le mani legate o trovati morti all’interno di stanze di tortura, sembrerebbe essere più “compatibile” col modus operandi dei miliziani ceceni di Ramzan Kadyrov.

La Russia nega le responsabilità

Dopo la pubblicazionE di foto e video del massacro di Bucha, le principali autorità russe in coro hanno respinto ogni accusa di responsabilità della strage nella città a nord di Kiev. Non solo. Il Cremlino ha anche annunciato un’inchiesta sulle uccisioni di civili, col presidente del Comitato investigativo russo, Alexander Bastrykin, che ha detto che Kiev punta a “screditare” l’esercito russo e che ha fatto circolare informazioni “deliberatamente false” sulle forze armate russe su quanto avvenuto nella cittadina alle porte della capitale e che tutti i materiali, video e foto, sono “provocatori”.

Governo russo che ha chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e che tramite portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha accusato Kiev di diffondere fake news con l’obiettivo di “interrompere i colloqui di pace”. “Il significato del crimine del regime di Kiev è l’interruzione dei negoziati di pace e l’escalation della violenza”, ha scritto Zakharova nel suo canale Telegram.

Responsabilità del massacro respinte anche dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: “Respingiamo categoricamente tutte le accuse”, ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa. Peskov ha specificato che esperti del ministero della Difesa russo hanno trovato segni di “manomissione dei video” e “falsi” nei filmati che le autorità di Kiev hanno presentato pubblicamente come prova delle atrocità commesse dalla Russia.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Dietro la strage di Bucha ci sarebbe un’unità di artiglieria proveniente dalla Siberia orientale: l’accusa degli attivisti di InformNapalm. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Secondo fonti ucraine, i responsabili del massacro avvenuto alla periferia di Kiev sarebbero il tenente colonnello russo Omurekov Azatbek Asanbekovich e la sua unità 51460. Un report di Human Rights Watch conferma «apparenti» crimini di guerra. 

I corpi abbandonati lungo la strada di Bucha, davanti alle case, i civili uccisi mentre pedalano in bicicletta. E poi una fossa comune lunga 13 metri scavata nel giardino della chiesa e ripresa dalle immagini satellitari di Maxar Technologies: questo scavo conterebbe centinaia di civili che, secondo gli ucraini, in gran parte sono stati freddati, o assassinati con le mani legate dietro la schiena, oppure spazzati via dalla battaglia. Secondo gli attivisti che hanno setacciato dati e immagini disponibili, i responsabili del massacro di Bucha sarebbero il tenente colonnello russo Omurekov Azatbek Asanbekovich e la sua unità 51460, la 64esima brigata di artiglieria motorizzata arrivata in Ucraina dal villaggio di Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Chabarovsk, oltre la Cina e la Corea del Nord. L’unità 51460 era di stanza a Bucha, sostengono i volontari del progetto InformNapalm, che hanno pubblicato su Telegram i dati del comandante, ripresi — e poi censurati — anche su Reddit. Nelle immagini pubblicate online (e nella foto sopra), alcuni soldati del battaglione sventolano anche una bandiera della repubblica di Sacha — o Jacuzia — che si trova nella Siberia orientale.

«Siamo riusciti a trovare anche l’indirizzo di casa del boia russo», hanno scritto gli attivisti di InformNapalm, mostrandone l’email — dalla quale si potrebbe dedurre che Omurbekov ha 40 anni — e il numero di telefono, e dichiarandosi pronti a rendere pubblici tutti i nomi di «questi assassini e stupratori». Le informazioni sono state rilanciate anche dagli attivisti di Anonymous e sembrerebbero provenire dalla lista (parziale) dei 120 mila soldati dispiegati in Ucraina pubblicata il 1° marzo dalla Pravda di Kiev, da cui emergeva che a nordovest della capitale erano impiegati i soldati del distretto militare orientale. Nell’area, notano inoltre gli osservatori, erano stazionati anche carristi della Guardia (36esima armata del distretto dell’Estremo Oriente russo) ed elementi del 331esimo Reggimento parà della 98esima divisione aerotrasportata.

«Questa non è un’operazione militare speciale», ha affermato da Bucha Wladimir Klitschko, ex pugile e fratello del sindaco di Kiev Vitali. «Questo è genocidio». Se in passato era difficile — soprattutto a caldo — ricostruire le responsabilità e la dinamica di un crimine di guerra, in questo conflitto la «nebbia» che di norma avvolge i combattimenti si è diradata: tutto è pubblico, visibile attraverso le immagini satellitari, i social network, i dati open source e le ricognizioni dell’intelligence. Queste informazioni, tuttavia, possono ingannare e vanno prese con cautela, verificate: il ruolo di Omurbekov e dei suoi uomini arrivati dall’estremo Oriente per combattere in Ucraina va confermato, ma è sorprendente come siano bastate poche ore per rintracciare l’unità russa che operava a Bucha prima della ritirata del 30 marzo.

Di certo c’è però un report di Human Rights Watch, che conferma «apparenti» crimini di guerra nelle aree controllate dai russi, nelle regioni di Chernihiv, Kharkiv e Kiev: stupri, esecuzioni sommarie e di massa, violenze e minacce ai civili, episodi documentati fra il 27 febbraio e il 14 marzo. Proprio a Bucha,un testimone ha riferito di un’esecuzione avvenuta la mattina del 4 marzo: cinque uomini vennero fatti inginocchiare ai margini della strada, con la maglietta a coprire il volto, e uno di loro fu colpito con un colpo di pistola alla testa. «Questi casi — spiega il direttore di Hrw per l’Europa e l’Asia Centrale, Hugh Williams — evidenziano una violenza e una crudeltà deliberata nei confronti dei civili ucraini».

Bucha, chi sono e da dove vengono i soldati al servizio del boia Omurbekov: la foto che spiega tutto. Libero Quotidiano il 04 aprile 2022.

Il giorno dopo la scoperta degli orrori di Bucha, cittadina vicina alla capitale Kiev, si cerca di risalire agli autori di una vera e propria strage, con decine e decine di civili giustiziati e lasciati per strada o gettati in una fossa comune. I volontari del progetto InformNapalm avrebbero già individuato i responsabili del massacro: si tratterebbe del tenente colonnato russo Azatbek Omurbekov e della sua unità 51460.

In pratica le forze armate russe avrebbero giustiziato tutti i civili che hanno incontrato per strada: a salvarsi solo chi è rimasto nascosto negli scantinati delle case, mentre chi provava a ripararsi semplicemente nella propria abitazione veniva costretto ad uscire sotto la minaccia delle granate. “Siamo riusciti a trovare anche l’indirizzo di casa del boia russo”, hanno riportato gli attivisti di InformNapalm, che hanno setacciato dati e immagini disponibili, riuscendo a risalire agli autori del massacro. Tra l’altro l’unità di Omurbekov è arrivata in Ucraina dal villaggio di Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Chabarovsk, oltre la Cina e la Corea del Nord. 

Più che russi questi sono asiatici: alcuni soldati del battaglione nelle immagini disponibili in rete sventolano la bandiera della repubblica di Sacha, situata nella Siberia Orientale. L’intelligence ucraina ha pubblicato un lungo elenco, composto da 78 pagine, con i nomi di oltre 1.600 soldati russi ritenuti coinvolti nel massacro: “Tutti i criminali di guerra saranno assicurati alla giustizia per i crimini commessi contro la popolazione civile ucraina”. 

Il giallo dei presunti “boia di Bucha”: “Mai stati in Ucraina”. Federico Giuliani su Inside Over  il 12 aprile 2022.

La foto ha fatto il giro del mondo. Una trentina di ragazzi, per la precisione 26, tutti giovanissimi, posano sorridenti in abiti militari. In primo piano c’è il volto di quello che sembra essere il capo, occhi allungati e tratti tipici della Russia profonda, quella che sconfina nell’Asia e si tuffa nella Siberia. Uno di loro, sigaretta in bocca, tiene tra le mani la bandiera della Repubblica Sakha, o Yakutia, il luogo di provenienza della brigata. Per giorni questa immagine ha immortalato i presunti responsabili dei massacri sui civili andati in scena a Bucha, cittadina ucraina non distante da Kiev.

Li hanno chiamati “boia russi” ma anche “macellai siberiani”. Secondo quanto riportato da InformNapalm, che ha pubblicato un documento di 87 pagine contenente oltre 1.600 nomi e dati personali di soldati russi, i giovani avrebbero fatto parte dell’unità 51460, 64esima brigata di fucilieri motorizzati, e sono guidati dal tenente colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich. Eppure, sono emersi degli indizi che potrebbero smontare questa narrazione. Già, perché due di loro hanno dichiarato di aver lasciato l’esercito da mesi e di non esser mai stati spediti in Ucraina.

Com’è strutturato l’esercito di Mosca

Cos’è successo a Bucha? 

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“Mai stato in Ucraina”

Il giornalista Luigi De Biase ha raccontato di aver rintracciato due dei ragazzi immortalati nella foto sopra citata. A quanto pare, nessuno dei due avrebbe mai messo piede a Kiev e dintorni. Non solo: avrebbero lasciato l’esercito da mesi, così come sarebbero in congedo gli altri compagni. De Biase è riuscito a parlare con due di quei ragazzi. Entrambi vivono in Yakutia ma “hanno lasciato l’esercito da mesi” e “non hanno mai messo piede in Ucraina neanche da civili”, ha specificato il giornalista, aggiungendo che “questo naturalmente non riduce le responsabilità russe”.

Nel caso in cui la notizia dovesse trovare ulteriori riscontri, allora i famigerati “boia di Bucha” non sarebbero più quei giovanissimi. ormai finiti nelle prime pagine dei giornali dei cinque continenti. Uno dei ragazzi si chiamerebbe Vladimir Osipov e avrebbe 20 anni. “Mi ha detto che la foto l’hanno scattata a Khabarovsk nel 2019 all’inizio della leva. Lo hanno congedato a dicembre. Da allora è tornato in Yakutia. Vive con la famiglia”, ha scritto De Biase. Osipov ha servito nella 64esima brigata fra il 2019 e il 2021 mentre gli altri soldati presenti nella foto sono coscritti yakuti. “Mi ha detto che, per quel che ne sa, tutti hanno lasciato l’esercito a dicembre”, si legge ancora sul profilo Twitter del giornalista.

Il mistero dei soldati di Bucha

L’altro soldato ha chiesto di essere indicato soltanto con il nome, Andrey, e questo perché “assieme alla foto nei giorni scorsi sono stati resi pubblici su internet e sui social tutti i suoi dati personali”, ha fatto sapere De Biase, il quale ha specificato che il giovane, da allora, riceve messaggi di insulti e minacce. “Come sono arrivato a questi individui? Nel modo più normale che esista. Attraverso contatti personali. Frequento la Yakutia da anni, ogni anno. Non si può fare seriamente questo lavoro stando sempre seduti al computer o solamente leggendo quello che altri scrivono”, ha evidenziato.

Il governo ucraino ha diffuso le sigle delle brigate russe che avrebbero occupato Bucha. In un secondo momento il sito InformNapalm ha condiviso i dati di decine e decine di migliaia di cittadini russi che svolgono o hanno svolto il servizio militare. “Con un avvertimento: alcune tabelle potrebbero essere vecchie, usatele con cautela. Forse qualcuno ha ignorato il consiglio”, ha concluso De Biase.

“La foto l’abbiamo scattata nel 2019, a Khabarovsk, all’inizio della leva”, ha detto, secondo quanto riportato da Il Manifesto, Vladimir Osipov, vent’anni, e macchinista nel distretto di Namsky, ad un paio di ore della Yakutia. “In Ucraina non sono mai stato. Non ho mai preso parte ad alcun combattimento. Il servizio è durato due anni e l’ho svolto con la 64esima brigata, a Khabarovsk, nella base di Knyaze Volkonskoye. Ma la leva è finita a dicembre e io da allora ho sempre vissuto qui con la mia famiglia”, ha chiarito lo stesso Osipov. “Assieme a quella fotografia, giorni fa, sono stati resi pubblici i miei dati personali. I primi ad accorgersene sono stati alcuni amici. Mi hanno avvertito. Mi hanno chiesto che cosa stesse succedendo. Ho ricevuto messaggi con insulti e minacce. Ero sotto shock. Come potete capire è una brutta situazione”, ha aggiunto Andrey. I due ragazzi, dunque, potrebbero aver smentito la versione diffusa da Kiev. E, in base alle loro affermazioni, allora i (presunti) boia di Bucha potrebbero non essere i soldati russi immortalati nella suddetta foto.

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Selfie dopo la strage. Mirino degli ucraini sui boia della 51460 e il capo Omurbekov. Francesco De Remigis il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

Gli attivisti: i responsabili sono dei siberiani. E sventolano una bandiera della Jacuzia.

Un selfie, la smania di immortalare se stessi; anche prima di ritirarsi. Dopo le immagini dei cadaveri torturati e gettati ai lati delle strade di Bucha, ecco i volti di soldati poco più che ventenni spediti dalla Federazione russa ad attuare uno sconfinamento palese, dalla guerra a qualcosa di più simile a una pulizia etnica. Sbucano dall'ombra di uno scatto. Visi sorridenti (e perlopiù asiatici) di un battaglione in divisa responsabile potenziale del massacro nella città a 30 km da Kiev. «Spettacolo», che Zelensky ha definito ieri «più di un genocidio».

I tratti somatici dell'unità militare 51460 smascherano Mosca, e le parole del Cremlino: «Nessuna violenza dai militari russi a Bucha». Chi ha sfregiato e ucciso, dunque? I pezzi del macabro puzzle hanno ancora poche certezze, e costringono il presidente americano Joe Biden a un alert: «Dobbiamo raccogliere informazioni, tutti i dettagli perché possa configurarsi come crimine di guerra». Tutto sta nell'occhio di Mosca, che evidentemente non riconosce come russi i siberiani al suo servizio, o militari di etnia asiatica, mongola o caucasica. Di certo gli abitanti di Bucha sono rimasti 38 giorni prigionieri delle cantine. Uscendo, l'orrore. Chi ha armato quelle mani? Chi ha deciso la strategia di ingresso a Bucha? Chi ha chiesto a quei soldati, se qualcuno lo ha fatto, di azionare repulisti nelle case, ostacolare ogni comunicazione con l'esterno e infine massacrare la popolazione?

Un nome e un volto l'hanno dato gli attivisti di InformNapalm pubblicando anche mail e telefono del tenente colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich, comandante delle truppe russe che il 30 marzo hanno smobilitato da Bucha. Di Asanbekovich, a capo dell'unità 51460, 64esima brigata di fucilieri motorizzati, c'è la foto in mimetica, berretto e un tank alle spalle. Lineamenti inconfondibili. Nel selfie di gruppo, alcuni soldati sventolano una bandiera della repubblica di Sacha (Jacuzia). Labbra carnose e occhi allungati tipici dei buriati, riconducono alla più grande minoranza di origine mongola nella Siberia orientale. Sarebbe infatti partita dalla remota regione Knyaze-Volkonskoye, la truppa 51460, dal territorio di Khabarovsk oltre la Cina e la Corea; confermando quel che molti 007 sostengono da tempo, e cioè che circa il 60% della fanteria non è composta da russi «tipici». Ma da un'armata con cognomi stranieri dalle province più povere.

Del già ribattezzato boia-capo di Bucha, su Telegram è apparso pure il numero di telefono; poi disattivato. Ma «siamo riusciti a trovare anche l'indirizzo di casa», scrive InformNapalm, annunciando altri dettagli su come prendere il comandante 34enne. «Ogni ucraino dovrebbe conoscere i loro nomi, saranno processati», dichiara il vertice dell'intelligence del ministero della Difesa ucraino, che confida su 87 pagine con generalità e grado degli oltre 1.600 russi ritenuti coinvolti nel massacro. Nell'area di Bucha sono infatti passati anche carristi della 36esima armata del distretto dell'estremo oriente russo e membri del 331° Reggimento parà della 98esima divisione aerotrasportata. Tutti al soldo del Cremlino. Ma se gli americani vogliono investigare sui crimini di guerra, dice la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova, «comincino da Jugoslavia e Irak, e appena finiscono passino al Giappone». Una non smentita dell'eccidio che sa di ammissione: di una Russia impantanata che ha trasformato ragazzini in aguzzini. Stando alle autorità ucraine, Mosca starebbe ora sostituendo le pedine: altri 60mila nuovi soldati. E stavolta la «selezione» dà priorità a chi ha già esperienza di combattimenti. Riservisti più esperti mobilitati da Krasnodar Krai, Perm Krai, dalle repubbliche autonome del Daghestan, Ingushetia, Kalmykia. Urge rimpolpare. Battaglioni prosciugati da 18 mila vittime russe, secondo Kiev. Ecco allora l'altra mobilitazione segreta: per una guerra non più chirurgica, se nei piani lo sia mai stata; con nuovi «macellai» e un migliaio di mercenari della compagnia Wagner (alti ranghi, per l'intelligence di Londra) pronti a uccidere il nemico che resiste da 40 giorni. La promessa? «Incentivi finanziari». Più forti della propaganda inefficace, viste le fughe di giovani verso Estonia e Finlandia delle ultime settimane.

Caccia ai "macellai di Bucha", gli ucraini pubblicano nomi, foto, indirizzi e numeri di telefono dei soldati russi. Il Tempo il 05 aprile 2022.

Nomi, indirizzi, foto, le informazioni relative al passaporto. Sono stati resi pubblici i dati dei soldati russi che hanno occupato Bucha fino al 31 amaro e che, dopo il ripiegamento, si sarebbero lasciati alle spalle centinaia di cadaveri di civili. L’intelligence ucraina ha pubblicato nomi, i gradi e i dettagli del passaporto dei russi in servizio nella 64a brigata: "Tutti i criminali di guerra saranno processati e perseguiti per crimini contro la popolazione civile ucraina", sottolinea l’intelligence ucraino in una nota. Poi i volontari del progetto InformNapalm hanno pubblicato su Telegram i dati del comandante dell'unità militare 51460 di fucilieri motorizzati, accusati del massacro.

"Siamo riusciti a trovare anche l'indirizzo di casa del boia russo", scrivono gli attivisti su Twitter secondo quanto riporta l'agenzia Unian. Si tratta del tenente colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich, d cui sono stati resi noti indirizzo email e il numero di telefono e una foto risalente a qualche anno fa.  L'elenco dei "macellai", così sono definiti dagli attivisti, è composto da 87 pagine con i nomi degli oltre 1.600 soldati russi ritenuti coinvolti nel massacro di Bucha. 

Cesare Martinetti per “la Stampa” il 5 aprile 2022.

Guardate quella faccia da ragazzo insieme a quegli altri ragazzi, uno tiene la bandiera, a bande orizzontali, una larga e azzurra, le altre più strette, bianca rossa e verde. Al centro una palla bianca (il sole? la luna?). Questi ragazzi hanno gli occhi "stretti e lunghi", come quelli dei soldati russi che i testimoni sopravvissuti alla strage di Bucha hanno visto entrare nei cortili delle loro case e ammazzare i loro cari, alcuni con le mani legate dietro la schiena, poveri sacchi umani accartocciati nel fango. 

Sono loro i responsabili del massacro che sta dando una piega simbolica e - se possibile - ancora più disumana all'atroce guerra ucraina. Il sito di news ucraino Obozrevatel ha dato un nome al loro comandante e un'identità di gruppo, Omurbekov Azatbek Asanbekovich, 41 anni, responsabile dell'unità militare 51460 della 64esima brigata fucilieri motorizzati. Non sappiamo se sono stati loro, forse un'indagine e la storia lo diranno.

Ma in quelle loro facce sorridenti c'è una delle verità nascoste di questa guerra, la miscela umana che si combina e precipita nella violenza gratuita davanti alle povere case di un sobborgo di Kiev. Quel comandante e quei ragazzi, come racconta quella bandiera, vengono dalla repubblica di Sacha, Yakutia, lontana sette fusi orari ad est di Bucha, una degli ottantacinque "soggetti" amministrativi della Federazione Russa, che banalmente chiamiamo tutto insieme Siberia, evocando ad un tempo il grande freddo, i mammut, infinite riserve di gas, i depositi d'oro e di diamanti, naturalmente il Gulag di Solzhenicyn e la Kolyma di Shalamov. È l'entità amministrativa più estesa nel mondo, 3 milioni di chilometri quadrati (dieci volte l'Italia) abitata da russi e ucraini arrivati laggiù come coloni fin dai tempi dello zar.

E poi naturalmente ci sono loro, con gli occhi stretti e lunghi e quei sorrisi che nascondono la "spietatezza indiscriminata" che appartiene alla pratica russa della guerra e rivelano - come ha scritto Vladimir Pashtukov, su uno degli ultimi numeri della Navaja Gazeta - il «militarismo come una manifestazione dell'essenza del putinismo». 

Ma cosa può essere successo a Bucha? Non è difficile da immaginare, lo leggiamo in un articolo di Anna Politkovskaja del febbraio 2004, quando reparti di Omon e del Guvd di San Pietroburgo e di Rjazan hanno rastrellato via Choperskaja, a Novye Aldy, sobborgo di Grozny, Cecenia: «Sono entrati nel cortile numero 27, avevano già ammazzato i fratelli Arsamurzaev, il vecchio Abulchanov, marito di Ajna, davanti agli occhi della loro figlia Luisa di 9 anni, a cui aveva regalato una scatola di carne stufata, ordinandole di non gridare. Avevano ucciso anche Chasan Estamirov, di un anno, insieme alla mamma Tojta, al nono mese di gravidanza, al padre e al nonno. I testimoni raccontano che dopo aver ucciso i carnefici brindavano con la vodka che si erano portati dietro sui veicoli blindati».

Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta, è stata uccisa il 7 ottobre 2006, all'ingresso di casa sua, a Mosca. Le indagini non hanno mai trovato i responsabili dell'omicidio né i mandanti, ma le sue denunce sugli orrori dei russi in Cecenia con gli squadroni del ras locale Ramzan Kadyrov (oggi uno dei più fedeli alleati di Putin) hanno inquadrato testimonianze precise. 

Tra l'altro Kadyrov ha schierato i suoi uomini in Ucraina, nell'assedio di Mariupol e non soltanto. E da giorni sui media russi compare con dichiarazioni minacciose nei confronti del capo della delegazione russa ai negoziati Vladimir Medinskij. E sempre lui, nei giorni in cui l'esercito russo ripiegava dalla capitale, ha lanciato una specie di grido di battaglia: «Dobbiamo arrivare a Kiev e finire il lavoro».

Non sappiamo se quei ragazzi che sorridono nella foto dietro il loro colonnello Asanbekovich, siano cresciuti nella tradizionale crudeltà della formazione militare russa. Ma possiamo averne un'idea rileggendo una pagina della premio Nobel Svetlana Aleksievic (da I ragazzi di zinco) nella sua storica inchiesta sui reduci dell'Afghanistan: «Nella mia sezione ero l'unico pivello - racconta un artigliere puntatore -, dieci "nonni" e un solo pivello Dormivo solo tre ore lavavo i piatti di tutti, mi occupavo della legna. Con loro non c'erano ragioni, m' avrebbero pestato, in un anno sono diventato distrofico, mi picchiavano di notte, non potevo dirlo, sarei diventato una spia, era una legge e non potevo infrangerla. Verso la fine del servizio ho perfino cercato di picchiare a mia volta un pivello ma non ce l'ho fatta».

Anna Politkovskaja aveva trovato anche la testimonianza di un carnefice pentito, Igor Onishenko, funzionario dei servizi segreti russi: «Sono andato in missione in Ingushezia, e la mia coscienza mi tormenta. Il capo, Korjakov, ci costringeva a picchiare sistematicamente tutti quelli che fermavamo. 

Avevamo un programma: far fuori almeno cinque persone alla settimana, ingusci o ceceni, tutti vermi uguali. Io e Serghei abbiamo reso invalide più di cinquanta persone e ne abbiamo sotterrate trentacinque. Mi hanno decorato per l'irreprensibile lavoro svolto. Nell'ultima operazione ho spezzato gambe e braccia al procuratore locale che aveva documenti compromettenti sul nostro reparto». La denuncia è del 16 aprile 2004. Nessuno è mai stato punito. Che ne sarà di Bucha?

Bombe sull'ospedale pediatrico di Mykolaiv: "Bambini uccisi e munizioni vietate", l'Ucraina accusa la Russia. Il Tempo il 05 aprile 2022.

Le forze militari russe continuano a martellare in Ucraina. L'esercito di Mosca ha bombardato "Mykolaiv con munizioni vietate dalla Convenzione di Ginevra. Quartieri civili e istituzioni mediche, in particolare l’ospedale pediatrico era sotto il fuoco nemico. Ci sono morti e feriti, compresi i bambini", ha detto il ministero della Difesa ucraino. Tornano a suonare gli allarmi delle sirene antiaeree in molte zone dell'Ucraina, all’alba del 41esimesimo giorno di guerra. Secondo The Kyiv Independent le sirene dei raid aerei sono risuonate in "quasi tutte le regioni", «a Cherkasy, Chernivtsi, Dnipropetrovsk, Donetsk, Ivano-Frankivsk, Kharkiv, Khmelnytsky, Kirovohrad, Kiev, Leopoli, 

Mykolaiv, Odesa, Poltava, Rivne, Sumy, Ternopil, Vinnytsia, Volyn, Zakarpattya, Zaporizhzhia, Zhytomyr".

A Mylkolaiv il sindaco della città, Oleksandr Senkevich ha parlato di dieci civili sono stati uccisi e altri 46 sono feriti nel bombardamento russo di ieri. Intanto a Konotop, nella regione di Sumy nel nordest dell’Ucraina, sono stati trovati almeno tre corpi di civili con evidenti segni di torture. Lo ha denunciato il governatore regionale di Sumy, Dmytro Zhyvytsky, spiegando che le vittime sono state ritrovate dai militari ucraini. Il ritrovamento è avvenuto nelle zone dalle quali i russi si sono ritirati due giorni fa. 

Crimini di guerra in Ucraina, il medico legale: «Il mio sospetto è che qui sia stato usato del fosforo». Marta Serafini su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Le torture, le cluster bomb, il sospetto che i russi abbiano usato bombe al fosforo o iperbariche: «I corpi non sono in posizione fetale e i denti sono bruciati». L’analisi del medico legale, che commenta: «Mai visto nulla di simile».

«Ho lavorato come medico volontario durante la guerra in Bosnia, pensavo di aver visto di tutto. Ma non era così». Georhiy Alexandrovich è medico legale dell’obitorio di Mykolaiv. Da una settimana si è preso una pausa. Sua moglie è in ospedale. Ferita nel bombardamento con le cluster bomb che lunedì scorso sono piovute sulla città. Ora vuole starle vicino. Per un mese Georhiy ha esaminato i corpi delle vittime di Mykolaiv e dintorni.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

«È difficile lavorare quando si tratta di persone che sono amiche dei tuoi vicini di casa. È difficile quando senti gridare nella stanza dell’obitorio una madre cui hanno appena detto che è morta la figlia. È un urlo che assomiglia a quello di qualcuno cui hanno appena spezzato un braccio», spiega offrendo del cognac fatto in casa seduto nella cucina di casa sua. Fin qui però Georhiy Alexandrovich ha stilato rapporti che potrebbero finire davanti alle corti dell’Aja. «Sono consapevole, abbiamo continuato a lavorare nel modo più rigoroso possibile, anche se fuori bombardavano e suonavano le sirene».

Investigatori privati

Secondo il Washington Post in Ucraina stanno lavorando almeno 50 mila investigatori inviati dalla procura generale per indagare sui crimini di guerra. Versa un altro bicchiere di cognac. Georhiy Alexandrovich, che fa questo mestiere da 20 anni, guadagna 1.000 dollari al mese. Due i casi di cui ha accettato di parlarci. Il primo riguarda due sorelle. Una di tre anni e mezzo e l’altra di 11. Uccise entrambe in un villaggio vicino a Mykolaiv. «Ho esaminato il corpo della più piccola il 10 marzo. Nel rapporto ho scritto che è stata uccisa da ferite multiple di proiettili, compatibili con l’uso di cluster bomb. Nella stanza di fianco il mio collega stava lavorando sul corpo della più grande, stesse ferite».

Tira fuori il telefono. Mostra le immagini. Potrebbe perdere il posto di lavoro per questo. «Ma ho una nipote della stessa età». Fori che hanno crivellato tutto il corpo come proiettili. Il secondo caso riguarda due uomini, uno di 23 anni, l’altro di 35. Sono stati uccisi entrambi a Kulbanika, distretto di Mykolaiv. «Ho esaminato i loro corpi il 27 di febbraio. Il più giovane aveva lo sterno fratturato probabilmente dal calcio di un fucile. Poi un braccio spezzato, le dita rotte, una coltellata nel collo e un proiettile in testa. Il più anziano un proiettile in testa. Entrambi erano con le mani legate dietro la schiena». Georhiy fa una pausa. Beve e versa un altro bicchiere di cognac. «Credo che il più giovane sia stato torturato per far parlare il secondo». Ma perché accoltellare qualcuno per poi sparargli un colpo in testa? «Non sono riuscito a stabilire se la coltellata fosse precedente o successiva al decesso ma accade spesso che i militari si accaniscano sui corpi dopo l’esecuzione».

Le immagini dei corpi

Georhiy ci mostra anche delle immagini che gli hanno girato del bombardamento di una base nella regione, agli inizi della guerra. Per terra almeno una cinquantina di corpi di militari. «Io sospetto che qui sia stato usato del fosforo, o una bomba iperbarica. Lo dico perché i cadaveri non sono in posizione fetale come nel caso di un incendio o di un bombardamento e perché i denti sono bruciati. Ma non ho esaminato io i corpi, dovete chiedere a un tossicologo solo così si può stabilire la presenza di agenti chimici».

L’obitorio

Obitorio di Mykolaiv. Arriva un camion che trasporta corpi. All’ingresso il rotolo di sacchi neri pronto per raccoglierli, le piastrelle delle scale sono rotte. Andriy, tossicologo, si toglie il camice e si abbassa la mascherina. «Andiamo a parlare fuori». Sul retro non ci sono i parenti. «Fin qui non ho riscontrato evidenze di uso di armi chimiche. Ma non stiamo lavorando in condizioni “normali”». Un esame che fino a un mese e mezzo fa richiedeva una settimana di attesa per risultati ora ha tempi più che raddoppiati. «E mancano gli agenti chimici per le analisi», spiega. Poi ritira su la mascherina. «Scusate ma ora ho del lavoro da fare».

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.  

Di prima mattina Joe Biden si avvicina ai giornalisti in attesa e coglie un'amara rivincita: «Ho un'osservazione da fare prima di iniziare la giornata. 

Ricorderete che mi hanno criticato perché ho definito Putin "un criminale di guerra"...Avete visto quello che è accaduto a Bucha: Putin è "criminale di guerra"».

Venerdì 25 marzo, a Varsavia, il presidente americano aveva dato anche del «macellaio» al leader russo. Emanuel Macron aveva preso le distanze: «Non avrei usato quella parola». 

Ma ora il presidente francese dichiara: «A Bucha ci sono prove evidenti di crimini di guerra». 

La reazione degli europei è compatta. La ministra degli esteri tedesca, Annalena Baerbock: «Le immagini dall'Ucraina rivelano l'incredibile brutalità della leadership russa e di tutti coloro che seguono la sua propaganda». 

Il premier polacco, Mateusz Morawiechi, conferma i giudizi espressi fin dall'inizio della guerra: «La Russia è un stato fascista-totalitario. Vorrei dire a Macron: lei tratterebbe con Hitler, con Stalin, con Pol Pot?». 

Quali saranno le risposte concrete dell'Occidente? Biden annuncia che chiederà «un processo per crimini di guerra». Il dipartimento di Stato sta raccogliendo le prove, in coordinamento con l'intelligence ucraina e con diverse organizzazioni internazionali. 

La Corte internazionale dell'Aja ha già iniziato l'istruttoria. Da Mosca il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov commenta: «È tutta una messinscena, una provocazione anti russa».

La sua portavoce Maria Zacharova aggiunge:«Ottima idea questa del processo. Possono iniziare con i bombardamenti della Jugoslavia e l'occupazione dell'Iraq; quando hanno finito possono passare alle bombe nucleari sul Giappone». 

La Gran Bretagna, in qualità di presidente di turno, ha convocato per oggi il Consiglio di sicurezza dell'Onu, ma non con l'approccio chiesto dal Cremlino, cioè discutere della «montatura di Bucha». 

«Affronteremo le crescenti prove sui crimini di guerra, compresi quelli di Bucha», ha twittato la rappresentante britannica Barbara Woodward. E sempre al Consiglio di sicurezza è previsto per oggi l'intervento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

In parallelo l'ambasciatrice Usa Linda Thomas-Greenfield chiederà la sospensione della Russia dal Consiglio Onu per i diritti umani. Operazione non facile: occorre il consenso dei due terzi dell'Assemblea dell'Onu, composta da 193 Paesi. 

Con una notazione necessaria: questo organismo fu istituito il 15 marzo 2006. Stati Uniti e Israele votarono contro, prevedendo quello che sarebbe successo il 30 giugno dello stesso anno: il Consiglio si pronunciò contro la violazione dei diritti umani dei palestinesi nei Territori occupati dagli israeliani.

L'ostilità americana verso l'organismo ha raggiunto il picco durante la presidenza di Donald Trump. Ma la guerra in Ucraina ha cambiato anche questo. Il vero problema di Biden, comunque, ora è un altro. Il leader Usa ha detto che ci saranno «altre sanzioni» e «altre forniture di armi all'Ucraina». 

L'amministrazione Usa ha preso atto che le misure restrittive non hanno dato i risultati sperati nel breve termine. Il rublo ha recuperato valore, tornando ai livelli precedenti alla guerra. La popolarità interna di Putin, stando ai sondaggi, sembra salda. Il Congresso spinge per sanzioni drastiche, definitive: per esempio interrompere le relazioni commerciali con la Russia.

Tutti, però, sono consapevoli che esiste solo un provvedimento in grado di dare un colpo immediato al Cremlino: l'embargo su gas e petrolio. La Casa Bianca, quindi, tornerà a premere con i partner europei. Biden, inoltre, dovrà rispondere alle richieste di Zelensky: servono mezzi e armi più pesanti. 

Il Pentagono prevede nuovi rischi. L'esercito ucraino rischia di rimanere intrappolato nella zona centro-orientale del Paese, tra Dnipro e Kharkiv. Per spezzare la tenaglia dei russi occorrono aerei, droni, carri armati e artiglieria pesante. Biden, finora, ha dato il via libera all'invio di tank di fabbricazione sovietica. Ma non basta.

Una nuova Bucha? Strage a Kramatorks, bombe sulla stazione dei civili da evacuare: su un razzo la scritta in russo “Per i bambini”. Carmine Di Niro su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Dopo Bucha è la città di Kramatorks, nell’Ucraina orientale, il nuovo ‘scenario’ dell’orrore della guerra. Questa mattina due razzi hanno colpito la stazione ferroviaria della città, provocando almeno 35 vittime, tra cui due bambini, e oltre cento feriti.

A denunciare l’attacco è stato in un primo momento il presidente delle Ferrovie ucraine, Oleksandr Kamyshin, accusando le forze armate russe dell’eccidio e parlando di due missili che avevano provocato la morte di “più di 30 persone”. “Questo è un attacco deliberato all’infrastruttura passeggeri della ferrovia e ai residenti di Kramatorsk”, aveva sottolineato Kamyshin.

Su uno dei due missili lanciati contro la stazione, come sottolineato da reporter stranieri presenti sul posto, si legge la scritta in russo “Per i bambini”, disegnata col colore bianco in cirillico.

Strage di Bucha, il massacro dei militari russi intercettato dall’intelligence tedesca: “Ho sparato a un civile in bicicletta”

Al momento dell’attacco erano migliaia le persone presenti alla stazione, pronte per essere evacuate verso regioni dell’Ucraina più sicure mentre la Russia sta concentrando da giorni le sue truppe nel Donbass e nella parte est del Paese, pronta ad una nuova offensiva e a rafforzare il controllo su Donetsk e Lugansk.

Durissima la condanna da parte ucraina. Tetiana Ihnatchenko, portavoce dell’amministrazione regionale di Donetsk, ha sottolineato alla tv ucraina che le evacuazioni da Kramatorsk “sono in corso dal 26 febbraio, e i russi sapevano che migliaia di persone sono lì ogni giorno. Credo che questo sia quello su cui contavano“.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky su Telegram ha denunciato che “i russi disumani non abbandonano i loro metodi. Non avendo la forza e il coraggio di opporsi a noi sul campo di battaglia, stanno cinicamente distruggendo la popolazione civile. Questo è un male che non ha limiti. E se non viene punito, non si fermerà mai”.

Dall’altra parte, come già accaduto con Bucha, da Mosca si nega ogni coinvolgimento nella strage della stazione ferroviaria. Le forze separatiste filo-russe di Donetsk hanno incolpato l’esercito ucraino dell’attacco. Secondo la milizia separatista della sedicente Repubblica popolare di Donetsk, citata dalla Tass, nella zona dell’attacco sono stati rinvenuti “frammenti di un razzo Tochka-U”, che non è nella disponibilità delle forze russe o filo-russe, “ma è utilizzato attivamente dall’esercito ucraino”.

Anche il ministero della Difesa di Mosca ha smentito che l’esercito russo abbia bombardato la stazione di Kramatorsk parlando di “provocazione” degli ucraini. “Si sottolinea in particolare – spiega una nota del ministero – che i missili tattici Tochka-U, il cui relitto è stato trovato vicino alla stazione ferroviaria di Kramatorsk e pubblicati da testimoni oculari, sono usati solo dalle forze armate ucraine. Il 14 marzo 2022, un simile missile Tochka-U della Divisione della 19a Brigata Missilistica Separata delle Forze Armate ucraine ha colpito il centro di Donetsk, uccidendo 17 persone sul posto e ferendo altri 36 civili”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

(ANSA l'8 aprile 2022) - "Gli ospedali non possono far fronte al numero di persone ferite nell'attacco russo alla stazione". 

Lo ha riferito il sindaco della città Oleksander Honcharenko, citato dal Guardian che riprende un tweet della giornalista Katerina Sergatskova. In un post online, il governatore regionale Pavlo Kyrylenko ha detto che molti dei feriti sono in gravi condizioni, riferisce Reuters, citata dal Guardian.

Da ansa.it l'8 aprile 2022.

Nuova strage di civili in Ucraina. Razzi russi hanno colpito la stazione di Kramatorsk, nella regione di Donetsk, causando almeno 39 morti - fra i quali 4 bambini - e 100 feriti fra le migliaia di profughi che aspettavano per essere evacuati. 

La tv Ukraine 24 pubblica le immagini di uno dei missili sul quale si vede la scritta in russo 'per i bambini'.

'In questo modo la Russia protegge i russofoni nell'Ucraina orientale? Qualcuno può spiegare perché sparare ai civili con i missili?', ha detto il presidente Zelenskyi. 'Un massacro deliberato', per il ministro degli Esteri Kuleba. 

Mosca nega la responsabilità dell'attacco che, secondo il ministero della Difesa, è stato compiuto da un battaglione missilistico ucraino dalla località di Dobropolye per 'impedire ai civili di partire e usarli come scudi umani'. 

UN'ALTRA STRAGE - Un  attacco russo contro la stazione ferroviaria di Kramatorsk nella regione di Donetsk ha provocato almeno 39 morti: 4 bambini tra le vittime, secondo il servizio di sicurezza dell'Ucraina citato da Ukrainska Pravda. "Per ogni vita uccisa, la Russia risponderà davanti alla legge", ha affermato Kiev. 

"(Le evacuazioni) sono in corso dal 26 febbraio, e i russi - ha detto Tetiana Ihnatchenko, portavoce dell'amministrazione regionale di Donetsk alla tv ucraina - sapevano che migliaia di persone sono lì ogni giorno". "Credo che questo sia quello su cui contavano". Sul missile si legge la scritta, in russo, "per i bambini": lo denuncia la televisione ucraina Ukraine 24 su Telegram, pubblicando un video in cui si vede il missile, parzialmente distrutto, con la scritta bianca in cirillico. E' impossibile al momento stabilire chi abbia scritto la frase sul razzo.

"Gli occupanti hanno colpito la stazione ferroviaria di Kramatorsk Point U - ha commentato il presidente Zelensky -, dove migliaia di pacifici ucraini stavano aspettando di essere evacuati... Circa 30 persone sono morte, circa 100 persone sono rimaste ferite in varia misura. 

Sul posto sono già presenti polizia e soccorritori. I russi disumani non abbandonano i loro metodi - dice -. Non avendo la forza e il coraggio di opporsi a noi sul campo di battaglia, stanno cinicamente distruggendo la popolazione civile. Questo è un male che non ha limiti. E se non viene punito, non si fermerà mai".

 "Quella di Kramatorsk era solo la solita stazione ferroviaria nell'Ucraina orientale dove le persone si erano radunate in attesa dell'evacuazione. In questo modo la Russia protegge i russofoni nell'Ucraina orientale?", ha detto ancora Zelensky in un messaggio video rivolto al parlamento finlandese. "Qualcuno può spiegare perché la Russia ha bisogno di questa guerra? Perché sparare ai civili con i missili? Perché questa crudeltà?" ha chiesto Zelensky.

La replica della Russia. Il ministero della Difesa di Mosca ha smentito che l'esercito russo abbia bombardato la stazione di Kramatorsk parlando di "provocazione" degli ucraini, riferisce la Tass. I frammenti del missile che appaiono in un video vicino alla stazione di Kramatorsk appartengono ad un vettore Tochka-U, "utilizzato solo dalle forze ucraine", ha affermato il ministero della Difesa russo, respingendo le accuse delle autorità di Kiev, riferisce l'agenzia Interfax. Sempre secondo il ministero della Difesa russo, l'attacco è stato compiuto da un battaglione missilistico ucraino dalla località di Dobropolye. Lo scopo, aggiunge il ministero, era "impedire ai civili di partire" per usarli come "scudi umani" da parte dell'esercito ucraino: lo riferisce la Tass.

Sulla stazione ferroviaria di Kramatorsk sono stati usati missili russi ad alta precisione Iskander, ha sostenuto invece la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmyla Denisova. "L'esercito criminale russo ha usato un missile a grappolo ad alta precisione 'Iskander'", afferma su Telegram. 

"I russi sapevano che la stazione ferroviaria di Kramatorsk era piena di civili in attesa di essere evacuati - ha detto il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba -. Eppure l'hanno colpita con un missile balistico, uccidendo almeno 30 e ferendo almeno un centinaio di persone. Questo è stato un massacro deliberato. Consegneremo ogni criminale di guerra alla giustizia".

"È orribile vedere che la Russia ha colpito una delle principali stazioni usate dai civili che evacuano la regione dove Mosca sta intensificando il suo attacco - ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Ue Charles Michel -. È necessario agire: più sanzioni alla Russia e più armi all'Ucraina sono in arrivo dall'Ue: il 5/o pacchetto di sanzioni Ue è stato appena approvato". 

"Condanno fermamente -  dice Borrell su Twitter - l'attacco indiscriminato di questa mattina contro una stazione ferroviaria di Kramatorsk da parte della Russia, che ha ucciso decine di persone e lasciato molti altri feriti. Questo è un altro tentativo di chiudere le vie di fuga per coloro che fuggono da questa guerra ingiustificata e causano sofferenze umane".

"Ancora orrori in Ucraina -  scrive su Twitter il ministro degli Esteri Luigi Di Maio -. Altri civili morti, anche bambini. Le bombe sulla stazione di Kramatorsk sono l'ennesima dimostrazione che la guerra russa è reale, le vittime sono vere. Ferma condanna. Tutti vogliamo la pace, non c'è più tempo da perdere: subito un cessate il fuoco". 

 "L'attacco missilistico di questa mattina alla stazione usata per evacuare civili in Ucraina è spregevole. Sono sconvolta e offrirò personalmente le mie condoglianze al presidente Zelensky. I miei pensieri vanno alle famiglie delle vittime". Lo scrive in un tweet la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen

Intanto la Russia - ha detto   il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, citato dalla Tass - "spera di mettere fine all'operazione speciale in Ucraina in un futuro prevedibile" 

INCONTRO VON DER LEYEN-ZELENSKY - In mattinata il post su Twitter di Von der Leyen "Looking forward to Kyiv" (verso Kiev) e una foto all'uscita da un treno con i colori giallo e azzurro dell'Ucraina, accanto al primo ministro slovacco Eduard Heger, e al seguito Borrell. Anche Borrell sul suo profilo ha scritto "sulla strada per Kiev" in inglese e in ucraino, con una foto insieme a von der Leyen mentre camminano seguiti dalle scorte.

"Oggi posso annunciare che l'Ue sta tornando, letteralmente: il capo della nostra delegazione è sulla strada per Kiev, ora potremo lavorare in maniera ancora più diretta e più stretta assieme", ha detto l'Alto Rappresentante per la Politica Estera Ue Josep Borrell in punto stampa.

Da corriere.it il 9 aprile 2022.

Le forniture di armi e munizioni all’Ucraina da parte dell’Occidente causano «ulteriore spargimento di sangue», sono «pericolose e provocatorie» e possono portare «gli Stati Uniti e la Federazione Russa sulla via del confronto militare diretto». A dirlo — in un messaggio che alza ulteriormente il livello della tensione, mai così alta da decenni, tra Mosca e Washington — è stato, in un’intervista a Newsweek, l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov. Secondo Antonov, Mosca «fa tutto il possibile per evitare vittime civili e danni all’infrastruttura dell’Ucraina» — una frase in palese contrasto con le immagini di violenze sui civili e deliberata distruzione di infrastrutture non militari da parte della Russia in Ucraina

CRISTIANO TINAZZI, DAVIDE ARCURI per il Messaggero il 9 aprile 2022.

Aspettavano il treno della salvezza, sono stati investiti dalla morte. A metà mattina a Kramatorsk il massacro è già compiuto: cinquanta civili uccisi, cinquanta vite, principalmente donne e anziani in fuga e anche cinque bambini. Non centravano nulla con il conflitto, volevano solo mettersi in salvo, avevano deciso di abbandonare la loro terra per scappare lontano dall'orrore della guerra. 

Ma alle 10.35 quello stesso orrore gli è piombato sulla testa: un missile Tochka, forse due, è esploso sopra la stazione ferroviaria di Kramatorsk, nel Donbass. Un missile a corto raggio in grado di trasportare anche testate nucleari: 7 metri di lunghezza e 2mila chilogrammi di morte. Nel piazzale di fronte ci sono ancora i resti dell'ordigno, sul fianco un messaggio eloquente pitturato in bianco: «Per i nostri bambini». Su chi abbia scagliato l'attacco inizia il solito scambio di accuse. La Russia indiziata numero uno, ma fa sapere di aver dismesso quel tipo di missile. 

L'ATTACCO Il fumo nero è visibile dalla strada sopraelevata che porta verso la stazione di Kramatorsk. Un fumo denso nero. Julia, una volontaria che si trova lì per aiutare i civili a prendere i treni di evacuazione, manda un video. Dura pochi secondi. Si vedono delle alte fiamme. Come ogni mattina, migliaia di persone sono in attesa di partire, dirette verso l'ovest del paese. In maggioranza donne, bambini e anziani in fuga dall'arrivo dei soldati russi.

Le autorità ucraine da giorni hanno chiesto alla popolazione di lasciare la città nel timore che i centri di Sloviansk e Kramatorsk, città strategiche per conquistare la regione del Donbass, diventino il teatro di furiosi combattimenti. Il giorno precedente i russi avevano bombardato la ferrovia e nessun treno era potuto partire. Ma i ferrovieri sono riusciti a riparare i binari. Tre treni possono muoversi. E almeno 4 mila persone sono assiepate davanti alle porte della stazione. Alle dieci e trenta succede il peggio. 

È un massacro. Decine di corpi martoriati, feriti, urla, grida di disperazione e di dolore. Sangue dappertutto. Soldati, poliziotti e semplici civili cercano di fare quello che possono per portare aiuto all'enorme numero di persone ferite, tagliate, mutilate dalle taglienti schegge di ferro (…)

MAURO EVANGELISTI per il Messaggero il 9 aprile 2022.

Doppio mistero: chi ha lanciato il missile sulla stazione e cosa significa la scritta «per i bambini»? Ci sono cinquanta cadaveri, nuova tragedia di questa guerra iniziata da Vladimir Putin. C'è l'orrore del bombardamento di una stazione ferroviaria dove migliaia di civili cercavano un treno per fuggire da Kramatorsk, la cittadina nell'oblast di Doneck, nell'Est dell'Ucraina, dove si stanno concentrando le forze russe, a sostegno anche delle truppe indipendentiste. 

Ma c'è anche una sequela di dubbi lasciata dalle accuse reciproche. A partire dalla scritta (in russo), trovata sul missile. Za detey, «per i bambini». Non è facile interpretarla, perché potrebbe avere due significati: «a sostegno dei nostri bambini», «per vendicare i nostri bambini».

Dunque, non intendeva: «per colpire i bambini» (come purtroppo è avvenuto visto che ce ne sono tra le vittime). Il pensiero va anche alla scritta «bambini» che campeggiava sul teatro di Mariupol che fu colpito dai russi. Ma le due ipotesi di significato reale del messaggio tracciato sul missile di Kramatorsk possono far pensare anche all'azione dei separatisti, alla luce delle ferite aperte in una guerra che in quel pezzo di Ucraina va avanti dal decennio scorso. Ecco, la domanda più importante: chi ha bombardato la stazione? Dal punto di vista logico, tutto fa pensare che il missile sia stato lanciato dai russi (o dalle truppe filo Putin), però Mosca ha risposto: non siamo stati noi, quel tipo di missile non lo usiamo più, ce l'hanno solo gli ucraini. Va detto: prima del 24 febbraio i russi hanno giurato che non avrebbero invaso l'Ucraina, poi hanno negato qualsiasi azione militare, anche dove erano evidenti le loro responsabilità, per cui è naturale una certa diffidenza di fronte alle versioni del Cremlino. Secondo gli Usa la stazione di Kramatorsk «è stata colpita dai russi da un missile balistico a corto raggio». Lo ha detto John Kirby, portavoce del Pentagono che ha aggiunto: «È ancora una volta espressione della brutalità della Russia».

I NODI Però in una guerra le due propagande sono sempre al lavoro, è giusto tentare di capire ciò che è successo. 

Prima di tutto: il sistema missilistico utilizzato si chiama Tocka-u. Sviluppato oltre 50 anni fa, in Unione Sovietica, dalla Kbm Kolomna, per la prima volta fu lanciato nel 1971. È stato usato in vari conflitti, ad esempio in Cecenia e in Siria. Dice il Ministero della Difesa russo: «Noi dal 2020 non utilizziamo più questo tipo di missili ormai superati, a sferrare l'attacco sono stati gli ucraini che ancora li usano». 

Nella risposta, Kiev ha fatto anche confusione. La commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmyla Denisova, ha scritto su Telegram: «L'esercito criminale russo ha usato un missile a grappolo ad alta precisione Iskander». L'Iskander, in effetti, è in dotazione alle forze armate di Mosca, ma le immagini mostrano che in realtà si tratta di un Tocka-U. Tesi dei russi: è stato lanciato da Sud-Ovest, da Dobropolye, controllata dagli ucraini.

Molte analisi indipendenti però hanno smontato questa ricostruzione. Secondo Cit (Conflict intelligence team), piattaforma che fa capo a un gruppo russo, ma di opposizione, all'interno del raggio di azione del missile (120 chilometri), sempre a Sud o Sud-Ovest, «ci sono posizioni di forze russe o separatiste, il lancio può benissimo essere stato effettuato da lì, ad esempio da Shakhtersk», che è controllata dai separatisti filo Putin. Più fonti confermano che in realtà i missili Toiscka-U, come mostrano molti video e foto, sono ancora in dotazione all'esercito russo. 

C'è anche un video che mostra questo tipo di missili trasportati dai russi proprio in Ucraina. Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana difesa, dice: «Dalle foto dell'attacco a Kramatorsk emerge che si tratta di un Tochka-U, che non sembra abbattuto da contraerea. Il missile è in dotazione sia alle forze ucraine sia a quelle russe. I russi lo avevano tolto dal servizio qualche anno fa, ma poiché i più moderni Iskander stavano finendo, l'hanno rimesso in servizio ed il suo impiego è già documentato in altre occasioni in Ucraina».

Altri dettagli confermano la responsabilità del Cremlino: un'agenzia di stampa russa, ieri mattina, aveva dato notizia dell'attacco alla stazione di Kramatorsk da parte dell'esercito di Putin per distruggere «armi ed equipaggiamento militare delle truppe nemiche». «Parlare di provocazione degli ucraini non ha senso - si legge nell'analisi di Cit - non rinuncerebbero a una stazione così importante solo per una provocazione, quando ormai le prove di bombardamenti russi ad aree residenziali sono ben più che sufficienti».

Kramatorsk, mattinata di tragedia: razzi sulla stazione durante l'evacuazione dei civili. Morti e feriti. Il Tempo l'08 aprile 2022.

Mentre suonano le sirene in tutta l'Ucraina sotto attacco russo si consuma l'ennesima mattinata di tragedia e l'evacuazione di civili finisce nel sangue. Sarebbero almeno 30 le persone uccise dopo l'attaccodi Mosca contro la stazione ferroviaria di Kramatorsk nella regione di Donetsk. Morti e feriti per il missile caduto in mezzo alla folla, anche anziani e bambini, durante la fuga dalla guerra secondo quanto riporta il presidente della società ferroviaria ucraina Alexander Kamyshin, citato da Unian. 

"Migliaia di persone erano alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, nella regione di Donetsk, al momento dell'attacco russo, preparandosi a evacuare verso regioni più sicure mentre la Russia concentra le sue truppe nell'Ucraina orientale" ha riferito il governatore della regione Pavlo Kyrylenko.

Dopo l'attacco il ministero della Difesa russo ha negato il coinvolgimento nell'attacco alla stazione di Kramatorsk e - secondo quanto riporta l'agenzia russa Tass - ha riferito che sul sito sono stati trovati frammenti del missile tochka-U, che viene utilizzato dalle forze armate dell'Ucraina.

Tuona il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky parlando al parlamento della Finlandia.  "L'esercito russo ha colpito la stazione di Kramatorsk, ha colpito le persone con missili, persone che stavano aspettando i treni per andare in una zona sicura. Ci sono testimoni, ci sono video - denuncia Zelensky - È così che la Russia è arrivata a difendere il Donbass. È così che la Russia è arrivata a proteggere i russofoni?".

Kramatorsk e il Tochka, l’arma d’altri tempi che lascia sempre la firma dei massacri. Gianluca Di Feo su La Repubblica l'8 aprile 2022.  

Devastanti e imprecisi, questo genere di ordigni seminano una pioggia di schegge: entrambi gli eserciti li hanno ereditati dall’Urss

Nella carneficina di questo conflitto, un missile venuto dal passato si sta trasformando nel protagonista degli episodi più feroci e controversi. Il Tochka — che la Nato chiama Scarab ossia scarabeo perché il suo lanciatore semovente somiglia all’insetto — è un ordigno concepito negli anni Sessanta, con una tecnologia non molto lontana dalle V-2 hitleriane: una sigla che in tedesco significava “arma di rappresaglia” e che prosegue ancora oggi questo ruolo, come la macabra scritta «per i bambini» sembra testimoniare.

Missili Tochka-U e la strage a Kramatorsk: che cosa sono, chi li utilizza e la differenza con gli Iskander. Il Tempo l'08 aprile 2022.

Le forze armate russe e i separatisti del Donetsk negano di essere responsabili dell’attacco alla stazione di Kramatorsk, che ha causato oltre 30 morti, affermando che lo scalo ferroviario è stato colpito da un Tochka-U, un missile tattico ora in dotazione solo all’esercito ucraino. I missili Tochka sono stati ufficialmente dismessi dalle forze armate russe nel 2020, quando furono sostituiti dai più moderni sistemi Iskander. E fonti di Kiev hanno ribattuto che è stato proprio un Iskander, e non un Tochka-U, a causare la strage. Non sono però al momento disponibili analisi di fonti terze che abbiano valutato l’identità del missile caduto sulla stazione.

Adoperato in anni recenti anche nelle guerre civili in Yemen e in Siria, il sistema di missili balistici a corto raggio su piattaforma mobile Tochka entrò in servizio nel 1975. Dispiegato nella Germania dell’Est, fu poi sviluppato dalla difesa sovietica in due versioni che garantivano una gittata maggiore dei 70 chilometri originari: il Tochka-U (fino a 120 chilometri di gittata) e il Tochka-P (fino a 185 chilometri di gittata), entrate in servizio rispettivamente alla fine degli anni ’80 e negli anni ’90. Dotato di una testata a frammentazione (che può essere sostituita da una testata nucleare, biologica o chimica), il Tochka-U garantisce una notevole precisione nel raggiungimento dell’obiettivo, grazie a una probabilità di errore circolare (ovvero il raggio della circonferenza incentrata sul bersaglio entro la quale cade il 50% dei proiettili sparati contro di esso) tra i 10 e i 165 metri, superiore a quella tra i 50 e i 250 metri della versione originaria.

Dopo essere stato mandato in pensione da Mosca, che lo aveva utilizzato in diversi teatri di guerra anche dopo la caduta dell’Urss, a partire dal conflitto in Cecenia, il Tochka-U è comunque rimasto nell’arsenale di diverse repubbliche ex sovietiche. Nello specifico, a possederlo sono la Bielorussia, il Kazakistan, l’Armenia e l’Azerbaigian (l’arma è stata vista più volte in azione nei conflitti tra Erevan e Baku per il Nagorno-Karabakh) e la stessa Ucraina. Il think tank statunitense Global Security stima che Kiev conti su circa 90 sistemi di lancio Tochka-U, dopo aver venduto all’esercito yemenita parte della dotazione ricevuta in eredità dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Secondo i separatisti filorussi del Donbass, furono i frammenti di un Tochka-U lanciato dall’Ucraina e intercettato dalla contraerea secessionista a colpire un quartiere residenziale di Donetsk lo scorso 14 marzo, uccidendo 20 persone. In quel caso, Kiev negò ogni responsabilità ma non arrivò a sostenere in modo esplicito che anche i separatisti contino su batterie missilistiche di questa categoria. Un Tockha-U sarebbe poi stato utilizzato dalle forze ucraine lo scorso 24 marzo per l’affondamento della nave da sbarco russa Saratov, ormeggiata al porto di Beryansk.

“La Nato sa e tace”. L'orribile scenario per Toni Capuozzo: la verità che non ci dicono su Kramatorsk. Il Tempo l'08 aprile 2022.

Toni Capuozzo dice la sua sulla strage di Kramatorsk. Il giornalista e storico inviato di guerra si pone diversi interrogativi in alcuni post su Facebook, tracciando un quadro di quelle che possono essere le diverse verità su chi ha lanciato il missile che ha causato le numerose vittime della stazione: “Sono 39, e tra loro 4 bambini, le vittime del missile sulla stazione di Kramatorsk.  Sul motore del missile appare una scritta in russo che suona come ‘a causa dei bambini’. È un'arma di produzione russa, ma non più in uso dal 2019 nell'esercito russo, e ora in dotazione dell'esercito ucraino. La domanda più logica ‘perché?’ è sepolta dalla follia della guerra. La seconda domanda ‘chi è stato?’ ha una risposta, se confidiamo nella lealtà di quella che non è una parte terza, nel conflitto. La Nato sa, perché monitora tutti i lanci di missili e dunque sa da dove è partito”. 

Come detto dopo il primo post sul social network Capuozzo va più a fondo nella questione: “La stampa popolare inglese assegna la responsabilità della strage alla stazione alla Russia. Zelensky su Instagram dice che ‘i russi stanno cinicamente colpendo la popolazione civile. E' un male senza freni, se non verrà punito’. Il sindaco Oleksander Honcharenko dice che c'erano quattromila persone alla stazione quando è stata colpita da due missili. La Nato - la sottolineatura di Capuozzo - tace. C'è un'altra ipotesi: si tratta di un missile ucraino diretto verso posizioni russe, intercettato e caduto disgraziatamente proprio su civili innocenti. Il colpevole? La guerra. PS. Un'altra ipotesi è un malfunzionamento del missile, dovuto a un'elettronica antiquata, che l'ha fatto precipitare, più che esplodere. Fosse esploso avrebbe fatto vittime nel raggio di un chilometro”. Sarà ancora una volta inondato di insulti per le sue posizioni e per le sue domande sul conflitto?

Toni Capuozzo, "il relitto fotografato a Kramatorsk": i dubbi sulla strage alla stazione. Libero Quotidiano il 09 aprile 2022.

Toni Capuozzo ha pubblicato diversi post su Facebook riguardanti quanto accaduto alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, dove il bilancio delle vittime è salito a 50, con più di 100 feriti. Innanzitutto il giornalista si è posto delle domande: “Quella più logica - perché? - è sepolta dalla follia della guerra. La seconda domanda - chi è stato? - ha una risposta, se confidiamo nella lealtà di quella che non è una parte terza, nel conflitto. La Nato sa, perché monitora tutti i lanci di missili e dunque sa da dove è partito”.

Successivamente Capuozzo ha riportato alcuni lanci del Corriere della Sera sulla strage di Kramatorsk: “Non è ancora chiaro quale tipo di proiettili abbia colpito la stazione. Potrebbe trattarsi di un missile Iskander, in dotazione ai russi; oppure un Tochka-U che è principalmente in dotazione agli ucraini. Mosca aveva dichiarato di aver attaccato ‘con missili di precisione’ tre stazioni nel Donbass. Ma dopo l’emergere della strage ha negato la paternità dell’attacco a Kramatorsk”.

Poi il focus sui missili Tochka-U, di concezione sovietica: “A questa categoria sembra appartenere il ‘relitto’ fotografato a Kramatorsk. Sono stati ufficialmente dismessi dall’esercito russo nel 2020. Ma secondo alcuni analisti militari negli arsenali di Mosca ce ne sono ancora alcuni esemplari riattivati proprio in occasione della guerra in Ucraina.  Alcune immagini relative a esercitazioni militari del febbraio scorso confermano l’uso dei Tochka da parte dei russi”.

Toni Capuozzo, "la Nato sa ma tace": chi è il vero colpevole della strage di Kramatorsk. Libero Quotidiano l'8 aprile 2022.

Toni Capuozzo ha pubblicato sui social alcun post in cui si occupa di quanto accaduto alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, situata in Ucraina orientale e colpita da uno o più razzi che hanno causato almeno 39 vittime civili, tra cui 5 bambine, ma il bilancio potrebbe essere destinato ad aumentare in maniera drammatica. La responsabilità della strage è stata assegnata alla Russia, che dal canto suo descrive le accuse come “provocazioni”. 

Capuozzo ha riportato le dichiarazioni di Volodymyr Zelensky (i russi stanno cinicamente colpendo la popolazione civile. È un male senza freni, se non verrà punito”. E poi quelle del sindaco Oleksander Honcharenko, secondo cui c’erano quattromila persone alla stazione quando è stata colpita da due missili. “La Nato tace - fa notare Capuozzo - c’è un’altra ipotesi: si tratta di un missile ucraino diretto verso posizioni russe, intercettato e caduto disgraziatamente proprio su civili innocenti. Il colpevole? La guerra. Un’altra ipotesi è un malfunzionamento del missile, dovuto a un’elettronica antiquata, che l’ha fatta precipitare, più che esplodere. Fosse esploso avrebbe fatto vittime nel raggio di un chilometro”. 

Poi Capuozzo si è occupato del dettaglio della scritta in russo su un missile, recitante “per i bambini”: “È un’arma di produzione russa, ma non più in uso dal 2019 nell’esercito russo, e ora in dotazione dell’esercito ucraino. La domanda più logica - perché? - è sepolta dalla follia della guerra. La seconda domanda - chi è stato? - ha una risposta, se confidiamo nella lealtà di quella che non è una parte terza nel conflitto. La Nato sa, perché monitora tutti i lanci di missili e dunque sa da dove è partito”.

Quarta Repubblica, il sospetto di Toni Capuozzo sul missile di Kramatorsk: ma farsi domande è rischioso...Il Tempo l'11 aprile 2022.

A Quarta Repubblica vengono trasmesse le drammatiche immagine della strage di Kramatorsk, avvenuta l'8 aprile scorso, quando un Tochka-U, missile balistico a corto raggio, ha colpito la locale stazione ferroviaria uccidendo numerosi civili ucraini che cercavano di lasciare la città. Nella puntata di lunedì 11 aprile Nicola Porro chiede a Toni Capuozzo, veterano degli inviati di guerra finito al centro di un'aspra polemica per i dubbi sulla ricostruzione del massacro di Bucha, altro eccidio visto nella guerra tra Russia e Ucraina, un commento. 

Per il giornalista si tratta di "una strage orrenda" che ha colpito "civili che stavano cercando di scappare. Le altre domande preferisco non farmele, è rischioso farlo" è il commento amaro del giornalista accusato di essere filo-russo e filo-Putin. Ma Capuozzo qualche domanda se la fa anche in questo caso: "Ho visto che i numeri scritti sul motore del missile che è rimasto secondo alcuni in rete sembrano rimandare a depositi ucraini, o che sono simili a un missile ucraino che ha colpito a Donetsk, in mano ai secessionisti. Ma vedo che la grande informazione dà per scontato che sia un missile russo, meglio non farsi domande...". 

Porro sottolinea che un giornalista non può essere silenziato da "quattro pazzi" sui social. "Siamo già arruolati. Quando uno inizia a disumanizzare il nemico, e non ci si pone più il problema" di stabilire la verità su un missile o su una strage, è segnale che il clima è irrespirabile, èi il pensiero del giornalista. "Sei filo-Putin se poni dubbi, sei il  sabotatore del clima, difendi un nemico che sgozza ee che uccide, e vuoi negare i carri armati agli ucraini". Insomma, in questo clima bisogna dire che è un missile sicuramente russi perché i russi fanno queste cose, riassume in un paradosso Capuozzo. Ma "la propaganda esiste su tutti i i lati. I russi la fanno perché ce l'hanno nel Dna", ma anche l'Occidente non scherza. Basti pensare che Ursula Von Der Leyen, ricorda il giornalista, ha detto in tutti i modi che bisogna aiutare l'Ucraina a vincere la guerra.  

Interviene nel dibattito Alessandro Sallusti, direttore di Libero. "L’accertamento della verità è fondamentale per noi occidentali. Lo sapremo chi ha lanciato quel missile, ma la risposta a questa domanda non deve cambiare di un millimetro il fatto che questa è una guerra dichiarata da Putin e abbiamo il dovere di difendere l'Ucraina. Poi possono esserci criminali di guerra anche tra gli ucraini e saranno processati, ma è come non credere in dio se scopri che il prete è pedofilo", è il ragionamento di Sallusti. 

Ma l'amarezza di Capuozzo è troppo grande e sottolinea alcuni aspetti. Il primo è che nella grande informazione c'è il trionfo di una sola verità, e che su Bucha ha dovuto ingoiare accuse di negazionismo solo per aver posto dei dubbi con prove documentali. E sul missile di Kramatorsk rilancia: "La Nato sa perfettamente da dove è partito". 

"Farsi domande oggi è rischioso". Toni Capuozzo reagisce agli attacchi. Francesca Galici il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il giornalista, ex inviato di guerra, è stato più volte attaccato per i suoi dubbi sulla guerra in Ucraina e ha reagito con amarezza rivendicando il diritto di porsi domande.

Continua il dibattito sulla guerra in Ucraina sulle reti televisive e anche Quarta Repubblica prosegue nella sua analisi del conflitto con un parterre variegato che mette in campo posizioni diverse per una discussione che affronti il tema da più punti di vista possibili. Ospite fisso della trasmissione Toni Capuozzo, fortemente attaccato da una parte dell'opinione pubblica per il suo approccio critico al dibattito sul conflitto in Ucraina.

Il giornalista, ex inviato di guerra, è entrato nel dibattito in un primo tempo per dare la sua opinione sulla nuova fase del conflitto, con il ripiegamento delle truppe russe nel sud-est dell'Ucraina dopo le operazioni fallimentari a Kiev e nelle altre zone del Paese. Ma il discorso di Capuozzo è stato molto più ampio e ha preso in considerazione anche il ruolo dell'Occidente in questa guerra, con la fornitura di armamenti e mezzi alla resistenza ucraina: "Lo scacco russo ha ingolosito Washington e l'Unione europea. Fino a che punto vogliamo che duri la guerra?".

Capuozzo ha proseguito la discussione davanti alla strage della stazione di Kramatorsk, aggiungendo una nota di amarezza al suo discorso, che si rifà agli attacchi ricevuti per i suoi dubbi. "Penso che questa sia una strage orrenda ma farsi domande di questi tempi è rischioso. Ho visto che i numeri che stanno sul motore del missile, secondo alcuni in rete, sembrano rimandare a depositi ucraini o, comunque, sono molto simili a un missile analogo che ha colpito la città di Donetsk in mano ai secessionisti. La grande informazione dà per scontato che si tratta di un missile russo, credo che la cosa più saggia da fare oggi è non farsi domande", ha detto Capuozzo, criticando l'opinione generale che stigmatizza chi solleva qualche dubbio in merito agli eventi.

"L'accertamento della verità, per noi occidentali è sempre importante. Prima o poi verremo a sapere se quel razzo è stato lanciato dai russi o dagli ucraini, se è caduto lì per caso o per volontà", ha obiettato il direttore Alessandro Sallusti. Ma prontamente Capuozzo ha replicato: "La Nato lo sa esattamente da dove è partito. Controllano tutto". In merito ai fatti di Bucha, invece, Capuozzo ha sottolineato: "Sono convinto che i russi abbiano commesso dei crimini, sono testimoniati dalle fosse comuni. I miei dubbi sono sui morti trovati per strada e ho posto delle domande alle quali finora non è stata data una risposta per me soddisfacente".

Toni Capuozzo a Quarta Repubblica: "La Nato sa sicuramente da dove è partito quel missile". Libero Quotidiano il 12 aprile 2022.

Torna a parlare, e a interrogarsi, Toni Capuozzo. Lo fa a Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro e in onda su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 11 aprile. Si parla ovviamente dell'invasione russa in Ucraina. E si parla sia di Bucha, teatro dell'eccidio forse più terribile scoperto ad oggi, e del missile sulla stazione di Kramatorsk, nel Donbass, il fatto più atroce della scorsa settimana.

Capuozzo, giornalista ed inviato di guerra, torna su Bucha, episodio su cui aveva espresso dei dubbi suscitando un vespaio di polemiche e accuse. "Sono convinto che a Bucha i russi abbiano commesso crimini - premette fermando sul nascere le polemiche -, i miei dubbi sono sui cadaveri e ancora le risposte non mi hanno soddisfatto", ribadisce Capuozzo, il quale aggiunge che "la morte è terribile ma la strumentalizzazione dei morti è ancora peggio".

Dunque, si passa al bombardamento della stazione, alla strage di civili in attesa del treno per abbandonare uno dei teatri in cui lo scontro era più violento. E Toni Capuzzo spiega: "Su quel missile la Nato sa sicuramente da dove è partito". Non aggiunge altro, ma con questa semplice frase, nei fatti, pone più di un profondo interrogativo. "Penso che questa sia una strage orrenda ma farsi domande di questi tempi è rischioso", conclude sibillino Toni Capuozzo.

Il missile della controversia e i crimini di guerra. Piccole Note l'11 aprile 2022 su Il Giornale.

C’è controversia sulla strage di Kramatorsk, attribuita ai russi dagli ucraini e di conseguenza dall’Occidente, appiattito su Kiev. Secondo la versione ufficiale, con l’eccidio i russi vorrebbero fiaccare la resistenza dei civili.

Dal canto loro i russi hanno parlato di un’azione ucraina realizzata per criminalizzarli, sulla scia di quanto già avvenuto a Bucha. La controversia si è accesa quando i russi hanno rivelato che il missile era un Tochka – U, in uso agli ucraini e dismesso da loro nel 2020.

Dopo aver tentato di accreditare la tesi che a colpire fosse stato un Iskander, a fronte delle evidenze che era un Tocha-U, ci si è messi alla caccia dei Tocha-U russi, che ne avrebbero ancora alcuni nel loro arsenale.

E, infatti, Open ha scoperto che la 47a brigata missilistica dell’esercito russo aveva ancora quei missili (anche se nel gennaio gli sono stati consegnati i più nuovi Iskander) e a febbraio li ha usati durante un’esercitazione in Bielorussia,

Già, ma ciò non prova che i russi li abbiano usati in Ucraina, dove i Tockha-U sono stati usati altre volte dall’esercito di Kiev. Fonti filo-russe hanno fatto notare che i numeri di serie di alcuni Tockha-U lanciati dagli ucraini in passato sono prossimi a quelli dell’ordigno usato a Kramatorsk: quest’ultimo era Ш91579, mentre gli altri, usati nel 2015, erano Ш91566 e Ш91565.

Secondo La Repubblica ciò non costituisce una “prova schiacciante” che il missile che ha colpito Kramatorsk sia ucraino, dal momento che “un missile può essere uscito dalla fabbrica subito dopo un altro, ma questo non significa che entrambi siano finiti allo stesso esercito”. Vero, ma il cronista avrebbe dovuto terminare la frase, dal momento che se non è prova schiacciante, può considerarsi serio indizio.

Inoltre, sempre Repubblica, derubrica a inutile orpello un documento pubblicato su un altro media filo-russo che riporta in sovrimpressione anche la fonte, rustroyka1945, ed elenca uno stock di missili in uso all’esercito ucraino nel quale sarebbe registrato anche quello identificato a Kramatorsk.

Secondo il giornale “non esiste alcuna prova” che il documento in questione sia “vero”, perché “nessun governo o agenzia di stampa” ne ha confermato “la veridicità”.

Già, ma invece di gettarlo subito nel cestino, compito di un giornalista serio sarebbe provare a fare delle verifiche, magari chiedendo alla fonte che l’ha pubblicato se può provarne l’autenticità (si teme la risposta?).

Inoltre, sempre Repubblica, annota come complottista un’altra analisi basata stavolta sulla traiettoria e la frammentazione del razzo. Quando esplode, un simile ordigno, se caricato con testate a grappolo (come nel caso specifico), lascia dietro di sé la coda, rimasta integra.

Così, unendo il punto d’impatto della testata e quello della coda si può individuare la traiettoria del missile, che secondo l’analisi conseguente proverrebbe da sud, cioè da una zona controllata dagli ucraini.

“Tuttavia – spiega Repubblica – c’è chi fa giustamente notare che le due parti del Tochka-U si separano, come è noto, a un’altezza considerevole. E che il modo in cui la sua coda cade a terra risente di diversi fattori, difficilmente calcolabili: l’angolo di lancio, per esempio, o il peso del carico che il missile trasporta“.

“Oltre a questo, andrebbe considerato che il corpo di un missile balistico si comporta diversamente, quando scende a terra, dalla sua testata. E va tenuto in conto che la coda possa sbattere e  rotolare sul terreno prima di terminare la sua corsa”.

Certo, alcuni fattori potrebbero aver influito sulla traiettoria, ma non per questo l’analisi è sicuramente falsa. Ma al di là, quel che si nota in tutto questo è che siamo di fronte a tre indizi, di cui uno alquanto forte, cioè la prossimità del numero di serie dell’ordigno usato contro la stazione ferroviaria con altri due certamente usati dagli ucraini, che potrebbero portare a dare una spiegazione diversa all’accaduto.

Anche la motivazione dell’attacco russo non convince: se davvero i russi volessero fiaccare il morale degli ucraini, perché non bombardare subito a tappeto Kiev (vedi nota precedente) o altre città ucraine? Peraltro, ciò gli consentirebbe di limitare le perdite connesse alla loro conquista.

Insomma, tante le domande, così che appare del tutto ingiustificato che la  responsabilità russa sia brandita come assurto dogmatico. Sembrerebbe più congruo il dubbio. Ma il confronto in atto non consente flessibilità, da cui il dogma di cui sopra. E quanti non accolgono il dogma sono dichiarati eretici e nemici esistenziali…

Da un massacro a un altro: alla strage di Bucha abbiamo dedicato diverse note, alle quali rimandiamo. Se ci torniamo è per aggiungere una domanda tratta da un articolo di Boyd D. Cathey: “Se sei al comando delle forze russe – al Cremlino – e certo comprendi l’immenso valore dell’opinione pubblica internazionale […] e come i media occidentali siano schiacciati sulla propaganda, perché si dovrebbe commettere una tale atrocità in piena vista, con corpi di uomini sparsi quasi simmetricamente lungo una strada principale della città? Non ha senso”.

Inoltre, ci si potrebbe chiedere perché la richiesta dei russi di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu abbia incontrato il niet della presidente di turno, la britannica Barbara Woodward. Se le responsabilità russe erano così chiare, che timore aveva?

Chiudiamo con l’incipit di un articolo pubblicato su Antiwar dal sergente comandante Dennis Fritz, che fu tra, tra gli altri incarichi, anche primo consigliere dell’ex Capo di Stato Maggiore generale Richard D. Myers : “Il mese scorso cadeva il 19° anniversario dell’invenzione del vanaglorioso slogan ‘Shock and Awe’ [shock e terrore] da parte del nostro governo, che abbiamo usato per iniziare l’attacco all’Iraq – un’invasione che ha provocato l’uccisione di oltre un milione di iracheni…“.

Gli ambiti che oggi gestiscono le narrative ufficiali sull’Ucraina, con tanto di dettaglio sui crimini di guerra russi, furono feroci propugnatori di quell’invasione. Nessun crimine di guerra in Iraq, ovviamente, da parte degli americani…

E quando morì Colin Powell, che all’Onu agitò la famosa fialetta all’antrace di Saddam, l’omaggiarono come “patriota” tutti i feroci creatori dell’invasione, da Tony Blair a Dick Cheney, con pendant dell’attuale presidente Joe Biden, che quella sporca guerra appoggiò col suo voto…

Peraltro, è utile ricordare che gli Stati Uniti non riconoscono la Corte penale internazionale (e nemmeno l’Ucraina, si può notare). Anzi lo scorso anno, quando essa dichiarò di voler indagare sui crimini di guerra commessi nel conflitto afghano, Washington la sanzionò… Non si tratta di scusare i russi, ma di registrare un tripudio di ipocrisia che suscita tragica ironia.

PS. Oggi il Cancelliere austriaco, Karl Nehammer , è da Putin. Il secondo leader straniero a volare a Mosca dopo Bennet dall’inizio della guerra. Buona notizia, ma…

Giovanni Ruggiero per open.online il 10 aprile 2022.

Su Telegram Petr Andryushchenko, citato dall’agenzia ucraina Unian, racconta che le truppe russe hanno organizzato in tutta la città diversi posti di blocco: «per cercare nazisti». Secondo Andryushchenko, in realtà per i russi: «è nazista chiunque ama la sua Ucraina e non si è sottomesso a loro. Nel processo di pulizia, gli occupanti non esistano a uccidere civili proprio per strada, per poi scattare foto, vantandosi della “vittoria”». 

Come riporta l’agenzia Unian, Andryushchenko intende per ciò che chiama «pulizia» anche la rimozione dei cadaveri dei civili per le strade, in modo da non lasciarne traccia. Ma i segnali nel corso delle ore starebbero arrivando anche alle autorità ucraine: «Ieri abbiamo ricevuto la prima foto – ha aggiunto Andryushchenko – che conferma l’accumulo di massa dei cadaveri nel distretto di Sadkiv e Kamliuski».

In più il consigliere del sindaco denuncia che sono in corso anche le deportazioni di uomini sotto intimidazioni, mentre sulla città gli attacchi si stanno facendo sempre più intensi. Oggi 10 aprile, lo stato maggiore delle forze armate ucraine ha confermato che i russi stanno assaltando Mariupol con attacchi aerei, nel tentativo di conquistare il centro.

Botte da orbi a L'Aria che Tira. Rissa tra Giorgio Bianchi e Fabio Tinazzi: “Stupidità, non sei giornalista”. Luca De Lellis su Il Tempo l'08 aprile 2022.

Questa mattina l’Ucraina si è svegliata sotto i colpi dell’ennesimo, raggelante, attacco russo. Il luogo del disastro è la stazione di Kramatorsk, dove circa 4000 civili si erano recati per fuggire da quel contesto orribile, nella speranza di raggiungere mete nelle quali non è la morte (e non sono neanche le mutilazioni) a dominare la scena. Intanto, in collegamento con la trasmissione di La7, “L’Aria Che Tira”, il fotoreporter freelance Giorgio Bianchi è stato intervistato dalla conduttrice Myrta Merlino. 

Bianchi è noto da pochi giorni alla cronaca nazionale perché, ospite del più seguito talk show televisivo russo Soloviev Live, – condotto dall’amico intimo di Putin, Vladimir Soloviev – si è scagliato contro tutto il panorama dell’informazione italiana. Finendo poi per sbeffeggiare, insieme al propagandista russo, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, definito “bibitaro” e colui che ha “ricoperto l’Italia di vergogna dicendo che Putin è peggio di un animale”. La sua avversione nei confronti dell’Ucraina è palese. Segue questa guerra da inviato sin dal suo inizio nel 2014, sulla quale ha prodotto anche un documentario. E, interrogato dalla Merlino sulla sua visione del conflitto, il motivo del suo odio nei confronti del governo ucraino è emerso chiaramente: “Mi sarebbe piaciuto raccontarla in prima persona dall’altro lato del fronte, ma il governo ucraino mi ha disposto un divieto di ingresso. Tra l’altro sono iscritto in una loro lista per la quale sono considerato un collaboratore di criminali, e questo prima rispetto all’inizio dell’operazione speciale”. 

Nella tragedia di questa mattina ha rischiato la vita l’inviato di La7 Fabio Tinazzi, uscito fortunatamente incolume dall’attentato, a differenza delle (almeno) 50 persone rimaste senza vita e delle altre ferite. L’ospite di “L’Aria Che Tira” si è detto lieto delle condizioni di salute del giornalista, ma poi ha spostato l’attenzione sulla crudeltà del governo ucraino: “Il 14 marzo, sotto casa mia è scoppiata un razzo balistico lanciato dagli ucraini che ha ucciso 23 persone e ne ha ferite 35. Io sono vivo per miracolo, sopravvissuto ad un atto terroristico, perché di questo si tratta quando si spara un’arma del genere su un paese di civili”. Myrta Merlino ha deciso quindi di interpellare ancora Tinazzi per ricevere ulteriori news sull’accaduto. Ma l’inviato, a quel punto, ha sbottato contro Bianchi, abbandonando il collegamento: “È un militante politico. Io sono qui, non posso sentirle queste cose. Non ho tempo da perdere. Non lo definirei neanche giornalista. Ho sentito un sacco di stupidità. Bisogna fidarsi delle fonti affidabili. Stai dalla parte di chi sta attaccando questa nazione. Tolgo il collegamento perché non voglio parlare con questa persona”. "Quel tizio mi discredita, non so chi sia, toglietemelo di mezzo" la replica di Bianchi. Per chi è testimone in prima persona della follia di Mosca è difficile sopportare la visione antitetica alla propria, vicina al nemico russo.

Tagadà, strage di Kramatorsk colpa della Russia. Andrea Margelletti senza esitazioni: sappiamo l'origine del missile. Il Tempo l'08 aprile 2022.

Colpa della Russia. L'attacco alla stazione di Kramatorsk ha portato ad uno scambio reciproco di accuse tra Mosca e Kiev su chi sia il vero responsabile degli almeno 50 morti nella città ucraina, ma il professor Andrea Margelletti, Presidente del Centro Studi Internazionali, non ha alcun dubbio su chi sia stato a lanciare il missile devastante. L’esperto è ospite della puntata dell’8 aprile di Tagadà, talk show di La7 condotto da Alessio Orsingher, e snocciola così la sua analisi: “Non c’è un botta e risposta sulle responsabilità, si sa esattamente da dove è partito il missile. La Nato, con i satelliti e le attività di ricognizione, sa esattamente da dove è partito il missile. Il missile dovrebbe essere partito dalla zona di Izjum, che è la zona controllata dai russi. Game, set, match e partita chiusa. Per capire bene la situazione dico che i missili Tochka-U sono in dotazione sia all’esercito russo che ucraino, i missili di tipo Iskander sono in dotazione esclusivamente all’esercito russo. I russi potrebbero anche cercare di utilizzare un Tochka per cercare di dare la responsabilità agli ucraini. Ma il punto non è il missile, il punto è che la Nato ha un’assoluta certezza da dove è partito il missile, ha la traccia balistica, lo si vede con i satelliti e con altri sistemi di intelligence presenti nell’area, lo si sa. Il missile dovrebbe essere molto, molto, molto verosimilmente partito dall’area di Izjum, che è sotto il controllo dei russi”

“Dopo Kramatorsk e Bucha i soldati ucraini si vendicheranno sui russi e sui prigionieri che conquisteranno. Si sapeva - continua poi Margelletti - esattamente il tipo di obiettivo che si andava a colpire, non ci sono ambiguità. Questi tipi di missili hanno un’alta precisione. È molto probabile che ci sia una scelta di tipo ampio, se si vuole imbarbarire il rapporto si arriva alla situazione che se sono tutti ladri nessuno è ladro. Il livello di rabbia e furore deve superare l’umanità. In questo contesto, i russi non vogliono trattare, Volodymyr Zelensky cerca una pace onorevole, Vladimir Putin cerca la vittoria”.

Lucia Annunziata: "Putin in Ucraina come gli Stati Uniti in Iraq. Cosa c'è dietro Bucha". Libero Quotidiano  l'11 aprile 2022.

Lucia Annunziata parte dalle stragi di Bucha e Kramatorsk, dagli "uomini abbattuti mentre passavano in bicicletta, a piedi", "non c'era nessuna ragione per ucciderli". Ma "la drammaticità degli eccidi è proprio questa. La loro gratuità. I civili si uccidono perché la totale gratuità e inutilità della loro morte, è esattamente quello a cui gli eccidi devono portarci: farci passare il confine, la linea rossa della vita umana", scrive nel suo editoriale pubblicato su La Stampa. E attenzione, perché "anche dopo la fatidica data del Muro caduto nel 1989, non abbiamo trovato mai una pace vera". Osserva la giornalista e conduttrice di Mezz'ora in più su Rai 3, "in tre decenni da quella data la 'razionalità' dei due blocchi in cui il mondo si divideva è esplosa in una miriade di conflitti, quasi senza soluzione di continuità, fino ad oggi". 

Quindi ricorda che "la ex Jugoslavia si fa a brandelli con le Guerre nei Balcani, che iniziano esattamente nel 1991 e terminano con un solo spazio di tre anni, nel 2001: Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Macedonia". Le ricordiamo "per la vicinanza, per le stragi di civili che le hanno caratterizzate, e, infine, per la nostra partecipazione alla missione Nato per fermare la 'pulizia etnica' in corso, con i bombardamenti del 1999 sulle città di Belgrado in Serbia e di Pristina in Kosovo". 

E ancora, la prima guerra tra Russia e Cecenia con il bombardamento nel '95 di Grozny, "distrutta dai cannoni Russi, come oggi molte città Ucraine. C'è una seconda fase di guerra fra il 1999 e il 2009, risolta da Putin con una vittoria russa, frutto di una 'operazione antiterrorismo'". Eppoi ci sono le "nuove guerre", due in Iraq, Siria, Afghanistan, "quest'ultima decisiva nel 1989, aiutata dagli Usa, per la messa in crisi della ex Urss, Conclusasi nel 2021 con un fallimento, il ritiro rovinoso degli stessi Usa che l'avevano sostenuta". "In molte di queste, il blocco occidentale a guida Americana è intervenuto direttamente", spiega la Annuziata.

Un caso famoso di "questo intervento diretto" è la seconda guerra in Iraq che "rivelò una debolezza strategica degli Usa". Oggi gli scopi delle nuove guerre "hanno a che fare con la politica dell'identità, ovvero la rivendicazione del potere sulla base di una particolare identità, sia essa nazionale, religiosa, linguistica o di clan". E conclude, "nonostante le novità, le date recenti, e le differenze, una cosa rimane imperitura nel tempo e nei modi della guerra: il massacro dei civili" sempre "funzionali a portare il conflitto in una nuova fase. La più pericolosa". E "qui è dove ci troviamo oggi in Ucraina".

Il missile sovietico in dotazione a russi e ucraini. Ma gli indizi portano alla responsabilità di Putin. Matteo Sacchi il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'uso di "Tochka U" già segnalato dagli analisti strategici prima della mattanza.

Pezzi di lamiera e morte. I resti di un missile con una scritta oscena: «Per i bambini». E il rimpallo di responsabilità tra il governo di Mosca, il sospettato più ovvio, e il governo di Kiev, accusato dai russi di aver creato la strage di civili alla stazione di Kramatorsk per non lasciarli partire.

Dentro quella che è una pantomima orribile, dove una delle due parti aggiunge infamia a infamia, accusando l'altra, si cerca di far parlare i resti del missile per avere qualche risposta. Gli ucraini hanno detto che si tratta di un Iskander, l'arma ipersonica che hanno solo i russi. Non pare così. Gli esperti che hanno visionato, se non i resti, le fotografie da una serie di dettagli, a partire dal posizionamento degli alettoni e di alcuni ugelli, hanno subito identificato il missile come un Tochka U (codice Nato SS-21 Scarab). Un missile più vecchio che hanno anche gli ucraini. Come ha spiegato tra gli altri Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana di difesa sentito dall'Ansa: «Dalle foto si tratta di un Tochka U, che non sembra abbattuto da contraerea. Il missile è in dotazione sia alle forze ucraine sia a quelle russe».

E su questa ambiguità ha basato la sua difesa Mosca, rincarando la dose. Il ministero della Difesa russo ha sostenuto che il missile è usato solo dagli ucraini e che dal suo arsenale è stato radiato. E qui però la difesa di Mosca è smentita dai fatti. È vero che l'esercito russo ha iniziato a dismettere questi missili, visto che aveva in programma di sostituirli con i più performanti Iskander, che sono ipersonici. Ma l'enorme volume di Srbm (short-range ballistic missile), che sono stati inutilmente impiegati per piegare l'Ucraina, ha rapidamente costretto le truppe russe a ricorrere ai «fondi di magazzino». Già pochi giorni dopo l'inizio della guerra - quindi ben prima dell'attacco a Kramatorsk - analisti dell'International Institute for Strategic Studies avevano segnalato che c'erano evidenze dell'uso dei vecchi Tochka da parte dei russi. Del resto, in nessun conflitto è stato fatto un uso così massiccio di Srbm come in Ucraina. Non stupisce si sia ricorso agli ancora molto efficienti Tochka che, per altro, i russi hanno fornito ai loro alleati, come la Siria o la Bielorussia. Non solo: alcuni profili Twitter di open source intelligence, confermando che quelli che hanno colpito Kramatorsk sono vettori Tochka U, hanno riportato filmati che mostrano veicoli russi (marchiati con la V bianca) mentre trasportavano questi missili dalla Bielorussia verso il confine ucraino.Si tratta di analisi delle settimane scorse che provano il loro «ritorno in servizio».

Attraverso la Tass è stato fornito addirittura il presunto punto di partenza del missile - «l'attacco è stato compiuto da un battaglione missilistico delle forze armate ucraine dalle vicinanze di Dobropolye, 45 chilometri a Sud-ovest della città» - ma non stupisce che questa tesi abbia ricevuto poco credito. Anche perché testimoni indicano il missile come proveniente da Est. C'è persino chi ipotizza una operazione russa pensata come false flag sin dall'inizio. I civili ucraini morti, purtroppo, non ipotizzano nulla. Sanno solo che preferivano essere vivi e per questo fuggivano. Dai russi. Ci saranno inchieste e tribunali forse, ma non torneranno in vita. Per ora sono morti e sepolti di bugie.

Kramatorsk, Domenico Quirico: "Per i bambini?". La verità sul missile Torchka-U: il messaggio in codice. Libero Quotidiano il 09 aprile 2022.

Sul missile che ha provocato la morte di dieci bambini alla stazione di Kramatorsk, c'era una scritta in cirillico, in lettere bianche: "Per i bambini. È ancora lì, ben visibile, su un rottame dell'ordigno. Come scrive Domenico Quirico su La Stampa, "da qualunque punto di partenza si parta", "nelle prime ricostruzioni della colpa che diventano furibonde accuse ucraine di strage ancor più oscena e dinieghi indignati dei russi, si arriva sempre stremati alle stesse tenebre". Si arriva a quell'abisso che è un missile con la scritta "per i bambini". "Come è possibile fare questo?", si chiede il giornalista.

Perché se è vero che è "una vecchia, orribile abitudine della guerra quella di dedicare le bombe", durante la seconda guerra si scriveva: "Churchill questa è per te...", "Hitler stiamo arrivando...", "Mussolini trema...". Ma erano appunto contro "simboli del nemico, dittatori, presidenti, generali". Qui invece, sottolinea Quirico, "c'è una mano che ha preso un barattolo di vernice bianca e ha vergato sul cilindro del missile non 'Per Zelensky', 'Per il battaglione Azov' o anche 'Per Putin'. Ha scritto la parola 'bambini'".

Un orrore totale, "il linguaggio umano sembra riportato alla sola violenza. Ridotto a queste sillabe non c'è appiglio a cui si possa far ricorso: crudeltà perversione sfregio vendetta idiozia follia? Nessun riferimento umano, nessun appoggio. Non si sa cosa dire", "terrore, vergogna, dolore. No, non si riesce a dire nulla". Per bambini si può leggere in due modi opposti: "Missile destinato ai vostri bambini o missile che vendica i bambini che voi avete ucciso". Ora non ci resta che scoprire la verità, "a qualunque costo, subito, ora", "per non tradire noi stessi tradendo quei morti bisogna punire", conclude amaro Quirico.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 9 aprile 2022.

Dove scovare un vocabolario inedito, un linguaggio originario per descrivere? Il linguaggio della guerra non è umano, neppure animale. È minerale. Allora: c'è un missile, una arma per uccidere, un missile vecchio, fatto apposta per esser gettato a caso e far strage di chi ha la malasorte di essere nel suo raggio. Nessun blateramento in questo caso: armi intelligenti, tecnologia super, ingegneri della morte ultimo modello... Solo un miserabile cilindro di ferro costruito per ammazzare.

L'ingegno umano al suo grado zero. Che non si è disintegrato, si è scomposto in leggibili frammenti. E poi c'è un luogo: la stazione ferroviaria di Kramatorsk, un luogo in cui c'è nulla da vedere, solo binari anonimi, su cui i fuggiaschi cercano un mezzo per allontanarsi dai luoghi della morte, andare verso Ovest, dimenticare sirene e bombe. 

Li vediamo sedere a terra in attesa, masse di dolore e di speranza. E il missile che arriva, dapprima un lontano scoppio metallico affilato e levigato dall'aria, un sibilo che si avvicina rapidamente, poi il frastuono dello scoppio, l'aria che si disintegra.

E poi c'è una scritta, parole in cirillico: «Per i bambini» in lettere bianche, ben visibile su un frammento dell'ordigno. Il missile è caduto vicino alla stazione, cinquanta fuggiaschi si riuniscono per sempre nella morte. Tra loro dieci bambini. 

Un altro luogo maledetto dell'Ucraina per una umanità inghiottita. E adesso è come se quella scritta fosse talmente illeggibile, in una lingua sconosciuta che non si può nemmeno tentare di decifrarla.

Questo è solo un racconto. 

Dentro ci sono dei fatti. Eppure le parole che li spiegano diventano un muro. È possibile varcarlo? Come possiamo varcarlo? La riposta è no. Da qualunque punto di partenza si parta e ce ne sono molti, troppi, nelle prime ricostruzioni della colpa che diventano furibonde accuse ucraine di strage ancor più oscena e dinieghi indignati dei russi, si arriva sempre stremati alle stesse tenebre. 

In qualunque modo lo rivolti: ovvero c'è un missile su cui qualcuno ha scritto «per i bambini». Come è possibile fare questo? Viene la tentazione di dire per non esser travolti da questo universo stregato e stregante: ci spetta soltanto il compito di raccontare. 

È una vecchia, orribile abitudine della guerra quella di dedicare le bombe. Nel secondo conflitto mondiale abbondano le foto degli avieri di tutti gli eserciti che prima del decollo si facevano immortalare con il sorrisone e il dito alzato per indicare la vittoria mostrando le bombe firmate che stavano per essere caricate nella stiva o sotto la pancia dell'aereo: «Churchill questa è per te... Hitler stiamo arrivando... », «Mussolini trema...».

Qualcuno più spiritoso e con talento artistico aggiungeva anche la caricatura del destinatario. Gli artigiani e i tecnici dello morte collettiva hanno sempre avuto la tentazione di operare con macabra ironia. C'è qualcosa di lugubramente asettico in questo modo di uccidere: perché chi ha scritto la dedica le vittima non le vede. Pensa di essere innocente. 

Ma le dediche, allora, erano quasi sempre per i simboli del nemico, i dittatori i presidenti i generali. Qui c'è una mano che ha preso un barattolo di vernice bianca e ha vergato sul cilindro del missile non «Per Zelensky», «Per il battaglione Azov» o anche «Per Putin». Ha scritto la parola «bambini». Il linguaggio umano sembra riportato alla sola violenza. Ridotto a queste sillabe non c'è appiglio a cui si possa far ricorso: crudeltà perversione sfregio vendetta idiozia follia? Nessun riferimento umano, nessun appoggio.

Non si sa cosa dire. Nell'universo di cenere di questa guerra a poco a poco tutto si annulla, non hai finito di imprecare di deprecare di urlare, ed è sempre troppo tardi perché c'è già qualcos'altro.

Terrore, vergogna, dolore. 

No, non si riesce a dire nulla. 

Se non parlare di quanto questa guerra è coperta dalla grigia sporcizia della disinformazione, della prosa sciolta e disonesta dell'inganno, della bugia. Una vertigine angosciata così inestricabile, avviluppata con cura, in cui tutto si smarrisce, che soffoca le stesse domande.

Per gli ucraini il missile è l'ennesimo infernale crimine della ferocia russa che bisogna fermare. Per i russi e i loro alleati del Donbass, già coperti di altre vergogne, solo gli ucraini usano quel vecchio tipo di missile e quindi sono loro i responsabili di una ennesima gigantesca, diabolica provocazione, disposti perfino a uccidere i propri fuggiaschi pur di far salire l'odio universale contro i russi.

Nell'opacità delle versioni divergenti si fa notare che le due parole si possono leggere in modi opposti: missile destinato ai vostri bambini o missile che vendica i bambini che voi avete ucciso. Il delitto ha la sua nudità. Ha la sua verità: scoprire, a qualunque costo, subito, ora, chi ha addobbato e scagliato quel missile. Per non tradire noi stessi tradendo quei morti bisogna punire.

Controcorrente, il generale Bertolini: "Missili su Kramatorsk, che vantaggio aveva la Russia?". Libero Quotidiano il 10 aprile 2022.

C'è qualcosa che ancora non torna nei missili Tochka-U che hanno causato la strage di civili nella stazione ferroviaria di Kramatorsk. L'ex generale Marco Bertolini, in collegamento con Veronica Gentili a Controcorrente, su Rete 4, e affronta la vicenda da una questione di ordine logico. 

"La guerra è un caos organizzato - riflette l'ex militare italiano -. Ci sono specialisti a tutti i livelli ordinativi, dall'armata alla divisione al battaglione fino alla compagnia, che pianificano le attività e calcolano le perdite, calcolano le onerosità e valutano i vantaggi e gli svantaggi di ogni azione che fanno". 

"Ora, mi chiedo io - va dritto al punto il generale Bertolini -: ma che vantaggio poteva avere la Russia a utilizzare un'arma del genere contro la popolazione?". Civili che stavano cercando di lasciare il Donbass, che tra qualche giorno diventerà l'epicentro della battaglia finale tra Mosca e Kiev, almeno in questa prima fase della guerra che secondo molte indiscrezioni Putin vorrebbe concludere entro il 9 maggio, per celebrare la vittoria (parziale) sulla Piazza Rossa in occasione delle celebrazioni per la sconfitta del nazismo nella Seconda Guerra mondiale. 

Tra l'altro, sottolinea Bertolini, in un momento strategicamente favorevole ai russi: "Stanno arrivando in condizione di prendere Mariupol e sedersi al tavolo del negoziato che per fortuna il presidente ucraino Zelensky dice di volere". Resta dunque il dubbio: missili russi, missili ucraini (magari come quelli piovuti la scorsa settimana in territorio russo su Belgorod per, suggeriva anche Lucio Caracciolo, proprio per mettere in difficoltà Zelensky nei negoziati) o un tragico errore balistico?

La strage di Kramatorsk e la follia interventista.  Piccole Note il 9 aprile 2022 su Il Giornale.

Infuria la controversia sulla strage avvenuta alla stazione ferroviaria di Kramatorsk, nella quale i civili in fuga dal Donbass sono stati bersaglio di un attacco missilistico. L’Ucraina e l’Occidente accusano la Russia e questa gli ucraini.

Controversia che vede le usuali contraddizioni. Subito, ad avvenuta strage, gli ucraini hanno denunciato i crimini russi. Poco dopo, la difesa dei russi, basata su un particolare sfuggito alle prime cronache: il missile piovuto su Kramatorsk era un Tochka – U, come evidenzierebbe una parte dell’ordigno rimasta integra, in dotazione all’esercito ucraino e dismesso dai russi.

Evidentemente la replica ha creato una qualche confusione nella controparte, così, nella controreplica, la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino, Lyudmyla Denisova, ha dichiarato che erano stati usati dei missili Iskander, peculiari dell’armata di Mosca (Ansa).

La precisazione ha fatto il giro del mondo, dal momento che si trattava della pistola fumante che inchiodava i russi, ma gli analisti hanno poi accertato in via definitiva che era un Tochka – U, da cui la nuova versione ucraina, cioè che questo missile è ancora usato dai russi.

Per alcuni si tratterebbe addirittura di una false flag russa per accusare gli ucraini, versione che contraddice la precedente: se quel tipo di missile lo hanno anche i russi, non avrebbe avuto l’effetto desiderato.

Inoltre, sul missile c’era l’odiosa scritta “per i bambini”: un particolare del tutto inutile nel caso di una false flag creata ad arte per accusare gli ucraini, per la quale era sufficiente il modello del razzo.

Difficile districarsi in questa ridda di contraddizioni, tra cui quella evidente con la strategia della guerra urbana dei russi, che resta mirata: se avessero voluto, grazie al controllo totale dei cieli, avrebbero potuto bombare a tappeto Mariupol prima di attaccare, un po’ come fecero gli Usa nell’attacco di Raqqa, completamente rasa al suolo prima dell’ingresso dei marines (Amnesty international).

Lasciando le contraddizioni, un particolare curioso: alcuni giorni fa tutti i media del mondo riportavano la foto di gruppo dei russi che avrebbero operato la macelleria di Bucha, identificati con tanto di nome e cognome. Un cronista ha appurato che almeno due dei soldati individuati non erano affatto  a Bucha, anzi non erano neanche intruppati nell’esercito russo.

Come certa ironia suscita una riga di un altro resoconto, stavolta relativo alla famigerata brigata di mercenari Wagner, che sarebbero comparsi a Donetsk. Finora, nonostante la presenza del gruppo fosse stata evocata nei resoconti di guerra, “nessuno li aveva mai visti ne tanto meno fotografati”, scrive Stefano Piazza sulla Verità… ma non erano a Bucha, come ha rivelato da Der Spiegel nel suo servizio che confermava le responsabilità dei russi nella strage?.

Contraddizioni a parte, resta che la situazione si fa sempre più ingarbugliata e che ormai non si parla quasi più di negoziati, ma solo di guerra, come se la vittoria sulla Russia fosse l’unica prospettiva per porre fine al conflitto.

Così Daniel Larison su Responsible Statecraft: “A Washington, ancora una volta, il fanatismo militare sta impazzendo. Nonostante i rovesci militari russi e il ritiro delle forze russe dalle vicinanze di Kiev, c’è un crescente strepito per iniziare una qualche forma di intervento militare occidentale nella guerra ucraina da parte di alcuni importanti analisti, esperti e persino alcuni giornalisti”.

“Secondo gli interventisti, gli Stati Uniti ei loro alleati sono già ‘in guerra’ con la Russia, nel pieno di una grande lotta ideologica, e non dovrebbero aver paura di intensificare e ampliare il conflitto”.

“[…] I cronisti che seguono la Casa Bianca sono implacabili nel tormentare l’amministrazione Biden per la sua riluttanza a entrare in una guerra aperta. Che si tratti dell’invio di Mig polacchi, dell’istituzione di una no-fly zone o di qualche altra forma di azione militare, molti giornalisti presenti alle conferenze stampa della Casa Bianca restano increduli quando viene affermato che il presidente non sta contemplando una guerra che potrebbe portare alla distruzione del nostro paese” (e del mondo, si potrebbe aggiungere).

I fautori della guerra alla Russia, continua Larison, brandiscono il precedente della Guerra Fredda, nella quale si è evitata una guerra nucleare, per affermare che un intervento americano non innescherebbe una risposta atomica. “È come se la prudenza e la moderazione delle generazioni precedenti ci dessero in qualche modo la licenza di comportarci in quel modo sconsiderato che i nostri predecessori hanno rigettato”.

E ancora: “Troppi analisti ed esperti occidentali stanno guardando al mondo ancora attraverso la lente degli anni ’90, quando il potere degli Stati Uniti era effettivamente incontrollato e poteva essere usato a piacimento. Gli interventisti non hanno problemi ad abbracciare il quadro della rivalità ideologica della Guerra Fredda, ma non vogliono essere limitati dai vincoli che le armi nucleari impongono sia agli Stati Uniti che alla Russia. Va benissimo dire che un altro governo non ha intenzione di usare armi nucleari, ma questa non è una determinazione che va testata attaccando le sue forze”.

Già, il punto è proprio questo, che tanto potere d’Occidente non è disposto a recedere da quel ruolo di padrone assoluto del mondo che ha ottenuto con la vittoria della Guerra Fredda.

Questo potere non accetta limiti, esattamente come non li ha accettati in questi ultimi anni quando quei limiti sono stati trattati come dei semplici ostacoli da abbattere, com’è successo con quei Paesi che hanno osato sfidare il suo ordine mondiale (Iraq e tanti altri).

Ma “non c’è nessun paragone tra un eventuale intervento in Ucraina e l’intervento in Bosnia o nella Guerra del Golfo – ammonisce Lierson -. I potenziali rischi conseguenti all’uso della forza in quei casi erano minimi rispetto ai pericoli che comporterebbe attaccare le forze russe alle porte della Russia”.

Eppure è così, si sta trattando la Russia come la Libia di Gheddafi, con un inquietante crescendo di follia. L’altro corno di questa situazione è che questa pletora di folli sono gli stessi che stanno gestendo il flusso principale delle informazioni di guerra, da cui le necessarie cautele.

Mariupol, i russi sganciano l'arma definitiva: veleno chimico dal cielo. "Non respiravano più". Federica Pascale su Il Tempo l'11 aprile 2022.

Non accenna a fermarsi il conflitto in Ucraina, ormai invasa da settimana dall’esercito russo di Vladimir Putin. Prima il filorusso Donbass, poi la capitale Kiev e il sud strategico per gli affari del Cremlino. In un’escalation di violenze a danno della popolazione ucraina, sembra che recentemente i russi abbiano lanciato da un drone una “sostanza sconosciuta” contro militari e civili ucraini nella città sudorientale strategica di Mariupol. A denunciarlo è prima il battaglione Azov su Telegram: “Circa un’ora fa, le forze d’occupazione russe hanno usato una sostanza velenosa di origine sconosciuta contro i militari e i civili ucraini nella città di Mariupol, che è stata lanciata da un drone nemico.” 

A seguire arriva Ivanna Klympush, presidente della commissione parlamentare per l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea, che ha aggiunto che la Russia ha “molto probabilmente” usato “armi chimiche” durante l’attacco e che alcune vittime stanno avendo problemi di “insufficienza respiratoria”. Via tweet, l’esponente politica ucraina ha invitato a procedere con uno stop all’importazione di petrolio dalla Russia come risposta all’attacco subito. Il rischio che la Russia possa utilizzare armi chimiche per vincere la guerra è reale, così come l’intelligence inglese e americana hanno sottolineato più volte dall’inizio del conflitto russo ucraino. Nonostante questo, la Convenzione sulle armi chimiche del 1997 ovviamente ne proibisce la creazione e l’utilizzo. Importante sottolineare che le notizie riportate dalla presidente Klympsh, così come quelle del battaglione Azov, non sono state verificate da nessuno.

"L'archivio degli orrori". Foto, video e prove choc contro Putin. Massimo Balsamo il 9 Aprile 2022.  

Ucraina al lavoro sull’archivio degli orrori. In un post pubblicato su Twitter, il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha annunciato la creazione di un archivio online per documentare i crimini di guerra commessi dalla Russia in questi primi 45 giorni di conflitto. “Le prove raccolte delle atrocità commesse dall'esercito russo in Ucraina garantiranno che questi criminali di guerra non sfuggano alla giustizia”, ha spiegato il braccio destro di Volodymyr Zelensky.

L’archivio per documentare i crimini di guerra commessi dalle truppe di Vladimir Putin sarà disponibile su war.ukraine.ua/russia-war-crimes/ e verrà aggiornato dalle autorità ucraine. A partire dai massacri di Bucha, sono purtroppo numerosi gli eventi tragici di questa crisi. Nel suo consueto messaggio alla nazione, Zelensky ha chiesto che “l’attacco missilistico avvenuto ieri a Kramatorsk sia considerato in tribunale come molti altri crimini di guerra russi”. Il numero uno ucraino ha evidenziato successivamente: “Tutti gli sforzi del mondo saranno volti a stabilire ogni minuto chi ha fatto cosa, chi ha dato ordini, da dove veniva il razzo, chi lo trasportava, chi ha dato l'ordine e come è stato coordinato l'attacco”.

Emergono le prime storie choc, testimonianze particolarmente dure sui crimini perpetrati dai soldati di Mosca. "L'ha violentata per una settimana. Diceva di volerla portare via dalla guerra. Quando lei si è rifiutata perché non poteva abbandonare la madre malata, l'ha uccisa. Davanti ai suoi occhi", queste le parole di un'amica di una giovane ucraina, vittima degli abusi di un militare russo. La giovane, la 29enne Lyuba, ora è in un centro di riabilitazione e presto lascerà il Paese.

La Corte Suprema ucraina ha già raccolto diverse prove di crimini di guerra commessi dall’esercito occupante: come confermato dal presidente Vsevolod Kniaziev, ci sono vari elenchi e foto di militari russi su internet che potrebbero essere coinvolti “in crimini impensabili nella regione di Kiev, ma le prove raccolte e registrate da agenzie autorizzate potrebbero essere appropriate per le istituzioni giudiziarie”.

Tra episodi confermati e altri no, non mancano le testimonianze di attacchi brutali ai danni dei civili ucraini. Dalle violenze sessuali ai cadaveri bruciati di donne e bambini: “Dalle informazioni open source è noto che al 5 aprile quasi 5mila crimini di guerra della Federazione Russa sono stati registrati in Ucraina. Mentre le indagini sono in corso, tutte le informazioni possono essere ottenute solo attraverso i canali di comunicazione ufficiali".

La strage alla stazione di kramatorsk allunga la lista dei crimini di guerra. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani l'08 aprile 2022

Almeno 50 morti civili in un attacco missilistico nel Donetsk. Le autorità ucraine accusano l’esercito russo. Biden: «Un’altra orribile atrocità commessa dalla Russia». La propaganda del Cremlino dà la colpa a Kiev

Il 44esimo giorno di guerra in Ucraina si apre con un attacco missilistico alla stazione di Kramatorsk, nella regione di Donetsk. Stando all’ultimo bilancio fornito dalle autorità ucraine le vittime sarebbero cinquanta, di cui cinque bambini.

Il sindaco locale ha detto che nel luogo erano presenti circa quattromila persone, la maggior parte anziani, donne e bambini che stavano lasciando la regione, finita nell’ultima settimana sotto un’incessante attacco russo.

La «liberazione» del Donbass, infatti, è l’obiettivo principale dichiarato da Mosca e per raggiungerlo la Difesa ha riordinato le forze ritirando soldati e mezzi militari dalla regione di Kiev e dirigendoli verso la parte orientale del paese, dove il presidente russo, Vladimir Putin, può contare anche sull’aiuto dei separatisti.

Fonti di intelligence britanniche confermano che nel nord dell’Ucraina le forze russe si sono completamente ritirate verso la Bielorussia e la Russia. «Molte di queste forze avranno bisogno di un rifornimento significativo prima di essere pronte a dislocarsi ulteriormente ad est» si legge nella nota. Ci vorrà almeno una settimana per spostare tutte le truppe verso il Donbass.

Secondo la Bbc, per rendere più efficaci le operazioni militari, i vertici della Difesa russa avrebbero riorganizzato l’organizzazione gerarchica sul campo e affidato generale Alexander Dvornikov il comando del distretto militare meridionale. Dvornikov avrebbe ha guadagnato una notevole esperienza durante l’intervento russo in Siria.

IL RIMBALZO DELLE ACCUSE

L’attacco alla stazione di Kramatorsk ha però dato vita a un rimbalzo di accuse tra russi e ucraini. «L’esercito criminale russo ha usato un missile a grappolo ad alta precisione Iskander» ha detto la commissaria per i diritti umani del parlamento ucraino, Lyudmyla Denisova. Il Cremlino ha invece negato le accuse sostenendo che l’attacco è stato condotto con un missile Tochka-U, un arsenale in dotazione soltanto dell’esercito ucraino. Per Mosca il missile è partito dalla località di Dobropolye con l’obiettivo di far impedire ai civili di evacuare la regione e poterli usare come scudi umani.

«Ci sono prove evidenti» ha detto il ministero degli Esteri russo che è pronto a fornirle. «Consegneremo ogni criminale di guerra alla giustizia», ha detto invece il ministro degli Esteri ucraino Dmitro Kuleba dopo aver accusato i russi di aver commesso un massacro deliberato.

Ma per il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, sembrano non avere dubbi sul fatto che dietro l’attacco alla stazione ci siano i militari di Mosca. «È un’altra orribile atrocità commessa dalla Russia, che ha colpito civili che cercavano di evacuare», ha detto Biden. «Sono inorridita dalla perdita di vite umane e porrò personalmente le mie condoglianze al presidente Zelensky. Il mio pensiero va alle famiglie delle vittime», ha scritto in un tweet Von Der Leyen mentre si trovava a Kiev insieme all’Alto rappresentante degli Affari esteri dell’Ue, Joseph Borrell.

GLI ALTRI ATTACCHI

«L’operazione continua, stiamo raggiungendo gli obiettivi. Si sta svolgendo un lavoro sostanziale sia militarmente, in termini di avanzamento dell'operazione, sia attraverso i negoziatori che sono in fase di trattativa con le controparti ucraine», ha detto il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov, dopo che nella giornata di giovedì ha ammesso le pesanti perdite subìte dall’esercito russo dall’inizio della guerra. Gli ultimi dati ufficiali della Difesa russa risalgono al 31 marzo e riportano 1.351 soldati uccisi.

Lo stato maggiore della Difesa ucraina ha riferito che parte dell’esercito russo sta continuando l’assedio della città di Mariupol che si affaccia sul Mare Azov, dove è presente ancora un alto numero di civili la cui evacuazione risulta complicata.

Dopo diversi tentativi falliti nelle scorse settimane, il governo ucraino ha ieri annunciato l’apertura di dieci corridoi umanitari da Mariupol verso Zaporizhzhia e in varie città nella regione di Luhansk.

Oltre a Mariupol, i russi stanno portando avanti un’offensiva attorno alla città orientale di Izium, che si trova nella regione di Kharkiv. Secondo esperti militari dell’Institute for the study of war c’è un’alta probabilità che la città venga catturata dai russi nei prossimi giorni. A difenderla sarebbero rimasti circa tremila soldati ucraini posizionati nelle zone periferiche.

Nella regione di Odessa, invece, è stato introdotto un coprifuoco fino all’11 aprile per il rischio di attacchi missilistici, dopo che nella giornata di ieri è stata udita una forte esplosione nella città.

LE INDAGINI SUI CRIMINI

«Si stanno compiendo molti sforzi per registrare, documentare e raccogliere prove di crimini di guerra commessi dall’esercito occupante. L’Ucraina non ha il diritto di commettere errori in questo processo», ha detto Vsevolod Kniaziev, presidente della Corte suprema nazionale.

L’Ufficio del procuratore generale ha fatto sapere che stanno indagando su almeno 5.149 presunti casi di crimini di guerra commessi dalle forze russe fino al 5 aprile, tra questi rientrano anche i casi di Bucha e Borodyanka.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Da open.online il 9 aprile 2022.

Alcuni utenti su Facebook stanno condividendo un video che mostra dei soldati ucraini trascinare con delle corde corpi morti tra le macerie. Il filmato viene usato per sostenere che i militari stiano posizionando i cadaveri in maniera da inscenare il massacro di Bucha, lasciando quindi intendere che questo non sia mai avvenuto, ma che invece sarebbe una strategia dell’Ucraina per gettare fango sulla Russia, come conclamato dalla propaganda del Cremlino. 

Uno dei post dice: Condiviso da atlettyfetty: riprese video di Bucha di soldati (d’assalto) ucraini che posizionano i corpi usando le corde, presumibilmente come un modo per dimostrare le loro “prove” del “massacro” di Bucha alle agenzie dei media occidentali.

Il testo è la traduzione di un tweet che circola in lingua inglese: «Shared with us by @leftyletty : Video footage from Bucha of Ukrainian (storm)troopers positioning bodies using ropes, presumably as a way to demonstrate their ‘evidence’ of the Bucha ‘massacre’ to Western Media agencies». 

Nel video condiviso dagli utenti è possibile notare una data: il 3 aprile 2022, successivo alla pubblicazione delle prime immagini di Bucha. Non si tratta dell’unico dettaglio importante, accanto al box giallo contenente l’orario e la data è possibile trovare la scritta in ucraino «Fonte AP». 

Il video risulta, infatti, girato dall’Associated Press il 2 aprile 2022 (pubblicato su Youtube il 7 aprile). Lo riportiamo qui sopra, ma vi avvisiamo che contiene immagini che potrebbero turbare la vostra sensibilità.

In realtà, però, la ragione per la quale i cadaveri vengono trascinati con delle corde, non è riposizionarli per una messinscena, bensì restarne a distanza, dato che, come confermato da diverse fonti, spesso nei corpi morti, o tra questi, sono state nascoste mine antiuomo che esploderebbero quando toccate. Trascinare i corpi è quindi più sicuro che sollevarli per i soldati ucraini. La presenza di mine nei cadaveri è stata dichiarata sia dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, come riporta Reuters, che dal sindaco di Bucha, come riporta Il Messaggero, e definitivamente confermata dalla giornalista Francesca Mannocchi, che si è recata personalmente a Bucha pochi giorni fa.

Di questa situazione ne parla anche un articolo di AP, il 3 aprile 2022, raccontando di come i loro inviati stavano osservando i soldati ucraini mentre spostavano a distanza i corpi a terra. Il motivo è lo stesso: il timore di trappole lasciate dall’esercito russo. 

Un’ulteriore conferma del fatto che i morti non fanno parte di una messinscena si ha dalle immagini satellitari di Bucha, che mostrano chiaramente i cadaveri rimasti al suolo dopo la ritirata delle truppe russe. Seconda la narrativa diffusa dalla Russia, i cadaveri sarebbero stati posizionati dagli ucraini lungo le strade solo dopo che l’esercito del Cremlino aveva lasciato il sobborgo di Kiev, ma come dimostrano chiaramente l’analisi del New York Times e quella pubblicata da Open, i cadaveri sono rimasti lungo le strade per giorni durante l’occupazione della zona da parte dei russi, e non sono apparsi dopo.

Un video che circola su Facebook dove si vedono dei soldati ucraini trascinare dei cadaveri con delle corde è stato usato dai filorussi per sostenere che i morti trovati nelle strade di Bucha sono parte di una messinscena ucraina, ma diversi elementi provano il contrario. I cadaveri vengono trascinati con le corde semplicemente per rimanere a distanza di sicurezza da potenziali mine che potrebbero essere nascoste tra i corpi. 

Da ilriformista.it il 9 aprile 2022.

In queste sei settimane di guerra in Ucraina, le denunce e le immagini di civili torturati (anche carbonizzati) e uccisi sono state numerose. La Russia continua a negare simili atrocità e accusa il governo di Zelensky di continue e “nuove provocazioni che coinvolgono civili sullo stile dello scenario di Bucha“, la cittadina di 30mila abitanti a nord di Kiev dove nei giorni scorsi, dopo il ritiro dei soldati di Putin, sono stati ritrovati decine di cadaveri in strada e nelle case con le mani legate. 

Alcuni anche bruciati per evitare di essere ritrovati. I corpi di donne martoriati con colpi d’arma da fuoco nelle parti intime e parzialmente carbonizzati. Quelli di una decina di uomini, con le mani legate dietro la schiena, uccisi nel giardino di un condominio in quella che sembra essere una esecuzione. E poi ancora: “Bambini con le mani legate dietro la schiena e un colpo di pistola sparato in testa. Stiamo parlando di bambini” e altre accuse relative a ”donne stuprate e uccise, fatte a pezzi”.

Le testimonianze dell’orrore della guerra vanno però avanti e una delle ultime, quella di Alina Dubovska, giornalista di Public, un media di Rivne, città nella zona occidentale dell’Ucraina, è raccapricciante. Dubovka attraverso i social, racconta quanto accaduto nelle scorse settimane a Irpin, città della regione di Kiev assediata dai russi fino al ritiro di qualche giorno fa con il Cremlino che rivendica la scelta come “gesto di buona volontà” per i negoziati. 

La fonte della giornalista è una parente incinta che dopo quanto appreso avrebbe avuto un aborto spontaneo. La testimonianza riguarda una bambina di nove anni che sarebbe stata violentata da numerosi soldati russi prima di essere uccisa solo dopo che sul suo corpo, sventrato, è stata incisa la lettera “Z”, simbolo “dell’operazione militare speciale” di Vladimir Putin. La piccola sarebbe stata aggredita e stuprata dall’esercito invasore dopo aver assistito all’esecuzione dei due genitori. Così sarebbe stata violentata da almeno undici militari (perché dagli esami successivi effettuati sul corpo della bimba sarebbero emersi undici campioni diversi di sperma) che le avrebbero successivamente inciso la lettera Z sul petto, squarciandole la pancia. “Il mio odio non bolle più! Brucia come un razzo al fosforo” conclude la giornalista. 

Da open.online il 9 aprile 2022.

L’esecuzione mostrata in un video di un soldato russo da parte di uno georgiano in forza con l’esercito ucraino sarebbe frutto degli ordini impartiti dal comandante della Legione georgiana Mamuka Mumalashvili. È stato lui stesso a ribadire la linea imposta ai suoi uomini durante un’intervista alla trasmissione Vozdukh, diffusa sul canale YouTube dell’oligarca russo dissidente Mikhail Khodorkovsky, grande editore in Ucraina e sostenitore di Volodymyr Zelensky. 

Mumalashvili ha ribadito che i suoi ordini non prevedono alcun tipo di remora nel momento in cui le sue truppe riuscissero a catturare soldati nemici: «A volte li leghiamo mani e piedi – ha detto – Parlo a nome della Legione georgiana, non faremo mai prigionieri russi. Gli occupanti russi e i kadyroviani (ceceni, ndr) non saranno mai fatti prigionieri».

Stando all’analisi della Bbc sul filmato che circola su diversi canali Telegram, l’esecuzione sarebbe avvenuta durante il ritiro dell’esercito russo dalla regione di Kiev, nella zona tra Irpin e Bucha. Nel corso dei giorni scorsi erano state segnalate pattuglie di soldati russi rimaste indietro, tra chi era stato letteralmente abbandonato dal proprio battaglione e chi invece si era attardato perché impegnato a razziare quel che era rimasto delle abitazioni dei civili dopo l’occupazione di marzo. 

Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera il 9 aprile 2022.

Repressione, torture, violenze sessuali e assassinii in serie contro i civili ucraini sono diventati via via sempre più diffusi e gravi man mano che crescevano tra le truppe russe la paura e l'incapacità di reagire alla risposta militare nemica, assieme alla consapevolezza che la popolazione locale non li accoglieva con i fiori, bensì li considerava invasori. 

Un esercito impreparato alla missione che gli era stata affidata, che si sbanda nell'indisciplina più crudele ai danni di inermi di fronte alle difficoltà e infine si ritira lasciando alle sue spalle orrori e morte. È questo il quadro che esce anche dalla cittadina di Makariv, un altro dei centri urbani occupati poco dopo l'invasione russa nella regione di Kiev dal 24 febbraio e abbandonati ai primi di aprile, dove oggi la gente può finalmente raccontare.

«Nelle ultime 24 ore abbiamo trovato i corpi di almeno 132 civili, tra questi ci sono due donne stuprate e poi uccise. Molti uomini avevano le mani legate dietro la schiena e segni di torture. La maggioranza era gettata in fosse comuni, ma ci sono anche sepolture isolate, che sono le più difficili da individuare», ha detto l'altra notte il sindaco, Vadym Tokar. Ieri mattina i giornalisti locali hanno visto diverse auto sulla strada che conduce a Makariv che erano ferme con le portiere spalancate, fori di proiettili in entrata sulle carrozzerie, finestrini infranti e larghe macchie di sangue rappreso sui sedili. 

Tutto lascia credere che i russi abbiano sparato a bruciapelo contro chiunque cercasse di fuggire: famiglie intere sterminate in pochi secondi. Si stanno cercando i corpi tra le macchie d'alberi e gli acquitrini delle periferie. Stas Kosliuk, un reporter di Kiev, si è spinto più a occidente verso Zhytomyr e ha trovato piccoli villaggi totalmente abbandonati, ma con evidenti tracce di massacri. Qui nelle auto bruciate sono stati rinvenuti resti umani. Nella foresta che circonda il villaggio di Ozera, il reporter si è imbattuto nel cadavere riverso al suolo di un uomo cui erano state legate le mani con nastro adesivo bianco e accanto a lui le sue cose: borsa da lavoro, occhiali, la fodera della carta d'identità. 

I responsabili Makariv, come Bucha (qui la conta dei morti è passata in 24 ore da 320 a 360), Irpin, Hostomel, Borodyanka e l'altra trentina di nuclei urbani devastati attorno a Kiev. Ancora secondo il sindaco Tokar, suoi circa 15.000 abitanti di Makariv prima della guerra, ne erano rimasti un migliaio al momento dell'arrivo dei russi. E sono i sopravvissuti tra loro che danno le testimonianze più gravi. 

C'è chi parla di «attacchi con le bombe a mano tirate direttamente contro le cantine e i ricoveri pieni di gente, oltre a mitragliate a bruciapelo senza alcun motivo». Non mancano versioni contraddittorie, o comunque ancora da capire. Secondo alcuni testimoni furono le reclute russe più giovani a «perdere il controllo a causa del panico per una guerra cui non erano preparati»: crudeltà e indisciplina di un esercito in rotta.

D'altro canto, è possibile raccogliere testimonianze diverse, secondo le quali in alcuni casi sarebbero stati gli stessi soldati di leva a mettere in guardia la popolazione contro la presenza di unità della polizia politica a caccia di nazionalisti ucraini e inclini a utilizzare le maniere forti, oltre a uomini delle udmurt e buryat , come qui chiamano le brigate provenienti dalle province della Russia asiatica. Sono unità brutali che si erano già tristemente distinte nelle battaglie del 2014-15, non ultima quella per la cittadina di Debaltsevo nel Donbass. 

Kiev replica accusando. Il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, spiega che si sta organizzando un archivio online per documentare i crimini di guerra russi. Alla lista degli abusi si aggiunge anche quello, denunciato dalla commissaria per i diritti umani Lyudmyla Denisova, di torturare e uccidere giornalisti, fotografi e registi venuti a raccontare il conflitto. Il presidente Volodymyr Zelensky condanna con forza, afferma di non avere più lacrime per piangere i suoi concittadini morti, ma alla conferenza stampa con il cancelliere austriaco Karl Nehammer, anche lui in visita a Kiev, si dice «sempre pronto a cercare vie diplomatiche per fermare questo conflitto». 

Le intercettazioni dei soldati russi: «Uccidete tutti i civili».  Corriere Tv il 10 Aprile 2022.  

Le intercettazioni dei soldati russi: «Uccidete tutti i civili» Gli audio I servizi segreti ucraini hanno diffuso nuove intercettazioni: nelle conversazioni anche l'ammissione di uno stupro.  

"Vai e violentale": l'intercettazione choc del soldato con la moglie. Edoardo Sirignano su Il Giornale il 13 aprile 2022.  

“Vai e violenta le donne”. É il contenuto di un’agghiacciante intercettazione tra una moglie russa e un soldato. L’audio sarebbe stato diffuso dai canali dell’Sbu, il servizio di sicurezza ucraina. La donna concede al marito, partito per la guerra, il permesso di violentare le donne incontrate nelle città conquistate.

Per la russa le priorità, infatti, sono soltanto due. La prima è che non le racconti nulla di quanto accaduto sul fronte: “Non voglio sapere niente, capito?”. La seconda, invece, è “di usare il profilattico”. L’unico timore, dunque, è che l’uomo durante il conflitto possa prendere qualche malattia venerea e poi trasmettergliela al ritorno.

La registrazione diffusa dai media ucraini sta facendo il giro del mondo. Tali parole confermerebbero l’odio dei russi verso i loro vicini e sarebbero un’ulteriore prova della mentalità diffusa da Mosca, ovvero che sul campo di battaglia sarebbe concesso davvero tutto.

Tante le persone che sul web hanno commentato quanto detto al cellulare. Il contenuto della conversazione andrebbe ad aggiungersi a quel “spogliati o sparo” di qualche giorno fa. Un soldato dello zar, come rivelato dai media locali, avrebbe detto a una donna “sei solo una p…a nazista”, prima di puntargli il fucile contro e violentarla.

Continuano ad aumentare, quindi, le testimonianze che porterebbero a pensare come da parte dell’esercito di Putin sia stata commessa davvero ogni atrocità. Pur essendo le prove non confermate, più di un indizio sembra portare verso la ricostruzione di un quadro sconvolgente.

Diverse le persone che dopo aver ascoltato l’audio della moglie inviato al marito al fronte hanno chiesto nei paesi occidentali “verità” rispetto a quanto sta accadendo nelle città in cui si sta combattendo una guerra, che purtroppo non avviene solo tra militari, ma che coinvolge civili, tra cui soprattutto bambini e donne.

Lo stupro e la "Z" sulla pancia: l'orrore sulla bimba di 9 anni. Federico Garau su Il Giornale il 9 Aprile 2022.

Dopo la notizia della strage avvenuta alla stazione di Kramators'k, adesso i media ucraini parlano della violenza commessa nei confronti di una bimba di 9 anni.

A riferire l'episodio, riportato da Il Riformista, è una giornalista ucraina, tale Alina Dubovska. Inviata di Public, un media di Rivne, la Dubovska racconta di quanto sarebbe accaduto nelle scorse settimane a Irpin, città della regione di Kiev. Qui una bambina di 9 anni sarebbe stata violentata da un gruppo soldati russi, uccisa e poi addirittura sventrata. Non solo. La donna dichiara che la bimba avrebbe subito violenza subito dopo aver assistito all'esecuzione dei suoi genitori e che sul corpo privo di vita della piccola sarebbe stata trovata anche una "Z", incisa a mo' di firma.

Una storia di cui però la Dubovska non è fonte diretta. La giornalista ucraina afferma di aver avuto questa informazione da una sua parente. Una donna incinta che, dopo aver saputo da qualcun altro la notizia, avrebbe addirittura avuto un aborto spontaneo.

Alina Dubovska, che sui suoi canali social afferma:"Il mio odio non bolle più! Brucia come un razzo al fosforo", dichiara inoltre di sapere il numero di soldati russi che avrebbero preso parte alla violenza commessa sulla bambina. Sarebbero undici i militari ad aver commesso quanto raccontato dalla giornalista, perché undici campioni diversi di sperma sarebbero stati trovati sul corpo della bimba.

Con il conflitto fra Russia ed Ucraina in pieno svolgimento ogni notizia necessita di prudenza. Questo episodio è l'ultimo di una lunga serie di casi di violenze tutte imputate all'esercito russo. Nei racconti che arrivano da Kiev, si parla di corpi di donne bruciati oppure martoriati con colpi d’arma da fuoco nelle parti intime. Donne stuprate, uccise, torturate, fatte a pezzi. Fra le accuse mosse dai media ucraini contro i soldati russi ci sono anche racconti di bambini uccisi con un colpo di pistola alla testa dopo essere stati trattenuti con le mani legate dietro la schiena.

Lyudmyla Denisova, commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino, starebbe raccogliendo numerose denunce mosse nei confronti degli uomini di Mosca. Nelle ultime ore, sarebbero arrivate 25 denunce da parte di altrettante ragazze che affermano di essere state stuprate dai soldati russi a Bucha.

Fino ad ora Mosca ha respinto ogni accusa, parlando sempre di notizie costruite da Kiev per aumentare il sentimento anti-russo. In una recente dichiarazione, il ministero degli esteri russo ha affermato che Kiev"sta cercando di trasferire la responsabilità alla parte russa per screditare l'operazione militare speciale" ed ha invitato "la comunità internazionale a fornire una valutazione obiettiva dei crimini delle formazioni ucraine".

Iran: sanzioni a 24 funzionari Usa per violazione diritti umani. ANSA il 9 Aprile 2022. L'Iran ha imposto sanzioni ad altri 24 funzionari statunitensi - tra cui l'ex capo di Stato maggiore dell'esercito, George Casey, e l'avvocato dell'ex presidente Donald Trump, Rudy Giuliani, e l'ex segretario al Commercio, Wilbur Ross - per violazione dei diritti umani e sostegno al terrorismo e alle "mosse repressive" israeliane nella regione e contro i palestinesi: lo ha reso noto il ministero degli Esteri di Teheran, secondo quanto riporta l'agenzia stampa Isna.

Lo scorso gennaio, l'Iran aveva imposto sanzioni a 51 americani per l'uccisione in Iraq da parte degli Stati Uniti del comandante della forza Qods dei Pasdaran, Qassem Soleimani, nel gennaio 2020. Inoltre, l'anno scorso Teheran ha imposto sanzioni all'ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e numerosi alti funzionari americani.  

Toni Capuozzo-choc, ancora contro gli ucraini: "Soldati russi a terra, sgozzati: Uno si muove e gli sparano". Libero Quotidiano il 07 aprile 2022.

"Non voglio vederlo", questo il titolo dell'ultimo post di Toni Capuozzo su Facebook. Un post in cui torna ancora una volta sull'eccidio di Bucha, sulle posizioni che ha espresso negli ultimi giorni e che tante polemiche e accuse gli hanno attirato. E Capuozzo, ancora una volta, punta il dito (anche) contro gli ucraini, denunciando quelli che sarebbero gli orrori commessi nella stessa città alle porte di Kiev. 

Nel post, Capuozzo scrive: "Ho davanti un video, girato nei dintorni di Bucha, di un’imboscata ucraina a un gruppo di soldati russi in ritirata. I soldati russi sono a terra, e dalle pozzanghere di sangue e dalla gola di qualcuno si capisce che sono stati sgozzati. Gli ucraini si aggirano tra loro, uno a terra muove un braccio, gli sparano. E’ la scena di un piccolo crimine di guerra. Che senso ha mostrarla? Entrare nella curva delle tifoserie contrapposte? Far vedere che gli ucraini, per quanto aggrediti, non sono dei boy scout? Bilanciare il piatto dei crimini commessi ?", chiede Capuozzo.

Dunque, si dà anche una risposta: "No, non aggiunge nulla che io già non sappia: la guerra peggiora tutti, giorno dopo giorno, e anche se agli ignoranti sfugge, in guerra i nemici tendono ad assomigliarsi, alla fine: odio e paura, vendetta per l’amico ucciso, perdita dell’innocenza. Non mi trattengo, invece, dal fare altre domande - rimarca -. Perché non è stata coinvolta, sulla scena del massacro di Bucha, la Croce Rossa Internazionale? Lo sanno tutti che è il primo passo per denunciare un crimine, fare i rilievi, raccogliere testimonianze indipendenti. Una svista? Il timore che vedessero, ad esempio la scena che vi ho descritto prima? O che facessero domande indiscrete ?", aggiunge altre domande. Insomma, Toni Capuozzo non arretra: dubita, si interroga, punta di fatto il dito contro gli ucraini. "Non lo so se dietro quella strage ci siano menzogne o altro,  so che, alla fine, è stata una strage, chiunque fossero quei morti e chiunque li abbia uccisi. Ma  so che perfino lo spostamento di un corpo da esibire ai fotografi mi fa una pena infinita. Lo stesso morto, ma cambiamo la posa", conclude Toni Capuozzo il suo controverso post.

Nicola Porro e il video dell'orrore di Toni Capuozzo, i soldati ucraini chiamano le mamme russe: “È rimasto solo il c**o”. Giada Oricchio su Il Tempo il 09 aprile 2022.

La guerra sporca, insudicia, imbratta di odio e orrore il fisico e l’anima. Oggi, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha detto: “Viviamo giorni terribili, travolti da immagini che pensavamo di aver consegnato per sempre all’archivio di orrori non ripetibili nel nostro continente, invece altro sangue innocente, altri crimini spietati, altre vite spezzate stanno popolando gli abissi della disumanità”. Ecco un esempio. L’inviato Toni Capuozzo ha postato un video sul sito di Nicola Porro e l’ha commentato. Partiamo dal fatto: la mamma di un soldato russo in una videochiamata crede che sia il figlio e lo chiama “Iliusha, Iliusha”.

Non è il suo bambino bensì un militare ucraino che le dà la terribile notizia: “È morto. Ha fatto tre errori: si è perso, si è perso in Ucraina, è morto come un cane”. E ride. La donna trema, chiama una ragazza che pretende di vedere Iliusha, ma il soldato, animato da vendetta e odio, risponde con cattiveria: “Non è rimasto niente di questo qui, è rimasto solo il cu*o, la gamba è staccata dal corpo, per fortuna è rimasto solo il telefono per chiamarvi e dirvi che lo stronzo fottuto non c’è più. Il vostro ragazzo dove aveva la testa adesso ha il c**o, grazie all’artiglieria ucraina”. L’ucraino è spietato: “Cosa devo farvi vedere che lo stanno mangiando i cani, non abbiamo tempo per seppellire i vostri russi, li lasciamo finire ai cani, da un lato c’è la gamba, dall’altro la testa, è tutto sparso”.

Da una parte un pianto disperato, dall’altra una risata sguaiata. Dunque, scrive Capuozzo: “Non è propaganda russa, è girato dalla parte ucraina, da qualcuno che riteneva di potersene vantare. Eh, vabbè, ma hai presente cosa fanno i russi, è normale reagire così. Avrebbe potuto essere lo stesso a ruoli inversi? Credo di sì. La guerra è anche questo, non è mai il Bene contro il Male, è il male che contagia. (…). Qui c’è un invaso e un invasore, e questo non va mai dimenticato, ma da lì ad armare una guerra santa, pulita e trasparente, ne passa”.

Capuozzo afferma che non c’è mai niente di manicheo nei conflitti: “Non è il malanimo dei professionisti dell’informazione o della politica a stupirmi, quando sospettano nelle critiche un fiancheggiamento di Putin. Mi colpisce l’accorato messaggio di persone semplici: “Così semina confusione”.

La guerra è essa stessa un crimine e in guerra i crimini sono pane quotidiano. Però veniamo messi al riparo da una versione confortante: i mostri sono i russi, e solo i russi”. 

Ucraina, a Makariv altri 132 cadaveri di civili torturati. Il Tempo il 09 aprile 2022.

Il ministero della Difesa dell’Ucraina ha riferito che nella città di Makariv, che è semidistrutta, sono stati trovati 132 cadaveri di persone uccise, con evidenti segni di tortura. «Mentre i soccorritori ucraini avanzano nel territorio liberato dagli occupanti russi, vengono scoperti nuovi mostruosi crimini di guerra», ha scritto si Twitter il ministero.

Sono finora 185 i cadaveri recuperati a Bucha, alle porte di Kiev, dove la pioggia battente ha impedito che le ricerche e la riesumazione dei corpi continuasse. Lo ha detto la procuratore generale ucraina Iryna Venedyktova nel corso di un intervento televisivo. «Fino a ieri, 164 morti sono stati trovati a Bucha - ha detto - Inoltre oggi ne abbiamo riesumati 21 da una fossa comune prima che iniziasse la pioggia battente». Venedyktova ha spiegato che 26 corpi sono stati recuperati ieri sotto le macerie di un edificio crollato in un altro sobborgo di Kiev, Borodianka, e che altri due corpi sono stati recuperati venerdì. È probabile, ha aggiunto, che altri corpi vengano trovati negli edifici distrutti della città. 

Gian Micalessin per “il Giornale” l'8 aprile 2022.

«L'orrore... l'orrore ha un volto... e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario diventano nemici da temere». Marlon Brando, protagonista nelle vesti del colonnello Kurtz del monologo finale di Apocalypse Now, spiega così la terribile e nefasta comunanza che ogni conflitto crea tra i combattenti e l'orrore. Le stragi di My Lai in Vietnam, di Sabra e Chatila in Libano, ma anche quelle attribuite alle forze speciali statunitensi in Siria e Irak da un'inchiesta del New York Times dello scorso dicembre, avrebbero dovuto farci comprendere da tempo la brutalità nascosta in ogni conflitto.

Una brutalità che non sta mai da una parte sola. Perché la guerra, a differenza di quanto raccontano i film, non prevede buoni sentimenti. E a dimostrarcelo, a pochi giorni dalla scoperta dei morti di Bucha, arriva un altro film dell'orrore. 

Un film andato in scena a Dmytrivka, un villaggio distante solo dodici chilometri in direzione Sud dalla stessa Bucha. 

Con una differenza. Qui le vittime sono i russi mentre gli spietati aguzzini sono i soldati ucraini. Il video è così crudele e sanguinario da rendere difficile la pubblicazione di foto o spezzoni capaci di restituirne la disumana ferocia. Al lato di una strada si vede un Bmd-2 , un blindato usato dalle truppe aviotrasportate russe. Il mezzo, intatto, ci fa capire che l'equipaggio si è arreso senza combattere. Anche perché, duecento metri più avanti, vi sono le carcasse di altri mezzi appena colpiti e distrutti. Sull'asfalto, invece, ci sono quattro corpi. 

Vestono le divise dell'esercito russo e non hanno accanto alcuna arma. Giacciono tra lunghe scie di sangue. Uno ha le mani legate dietro la schiena e la gola tagliata. Quello che gli sta accanto è disteso a braccia aperte freddato da una raffica al ventre. Altri due corpi sono sul lato opposto della strada.

Uno è stato ucciso con un colpo alla nuca. L'altro, con il volto nascosto da una giacca militare tirata su fino a coprirgli il volto, è scosso dai tremiti dell'agonia. Sussulta, muove un braccio, mormora versi incomprensibili. Tutt' intorno si sentono delle voci in ucraino.

«Filma questi bastardi. Guarda questo... è ancora vivo... sta rantolando» ulula una voce senza volto. Poi s' intravvede la canna di una pistola. Apre il fuoco due volte. Il soldato in agonia sussulta, si muove ancora. Un terzo colpo lo finisce.

Ora tutt'intorno compaiono soldati ucraini riconoscibili da uniformi e distintivi. Quello che ha sparato mostra il suo volto. Ha il volto incorniciato da una fitta barba. Grida: «Gloria all'Ucraina». Un altro si fa fotografare accanto ai corpi. 

«Questi - sbraita una voce fuori campo - non sono neanche esseri umani». A confermare il tutto ci pensa un tweet del ministero della difesa ucraino che definisce un «lavoro preciso» l'imboscata ai danni di un convoglio russo in ritirata da Kiev messa a segno il 30 marzo scorso. Segnalazione confermata dal video-reporter Oz Katerji che il 2 aprile gira le immagini dei blindati distrutti e, citando i soldati ucraini, parla di una battaglia svoltasi 48 ore prima.

Ma quella battaglia e la brutale eliminazione di quei quattro prigionieri dovrebbero insegnarci un paio di cose. La prima è che in guerra non basta stare dalla parte giusta per comportarsi da «buoni». La seconda è che la guerra è sempre abietta, crudele e feroce. E l'unico modo per sconfiggerne mostri e perversioni è uscirne in fretta. 

Le testimonianze degli orrori avvenuti in Ucraina. A Bucha 403 civili uccisi, “25 ragazze violentate, 9 sono incinte” ma Putin e Lukashenko: “Solo fake, operazione psicologica Occidente”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 12 Aprile 2022. 

Torturate. Stuprate per ore, per giorni. Infine uccise. Le testimonianze che arrivano dall’Ucraina raccontano la crudeltà e l’odio che i soldati russi hanno riservato alle donne e alle ragazze del Paese martoriato dal conflitto.

Un orrore che si ripete in diverse città, con lo stesso copione: la violenza sessuale usata come vera e propria arma di guerra.

Anna e le altre vittime di abusi

“Mi ha minacciato con una pistola e mi ha portata in una casa vicina. ‘Togliti i vestiti o ti sparo’ mi ha detto. Continuava a minacciarmi di uccidermi se non avessi eseguito i suoi ordini. Poi ha iniziato a stuprarmi”. Il racconto di Anna (nome di fantasia), 50 anni, è drammatico: a riportare la sua storia è la Bbc. A violentarla, lo scorso 7 marzo, un ragazzo ceceno alleato delle forze russe. Quando è riuscita finalmente a tornare a casa, ha trovato suo marito con una ferita alla pancia. “Ha provato a seguirmi per salvarmi, ma è stato colpito con un proiettile” ricorda la donna tra le lacrime. L’uomo è morto due giorni dopo: non era stato possibile portarlo in ospedale a causa del conflitto. La sua tomba, con una croce di legno, si trova nel cortile della casa, dove lo hanno seppellito i vicini. I soldati hanno preteso che lei consegnasse loro ciò che gli apparteneva.

Ma quello di Anna non è purtroppo un caso isolato. Nel suo quartiere anche un’altra donna sui 40 anni, stando ad altri racconti riportati sempre dalla Bbc, è stata sequestrata e violentata da quello stesso soldato, nella camera da letto di una casa lasciata vuota da una famiglia scappata all’inizio del conflitto. La stanza ben arredata, con carta da parati decorata e un letto con una testiera dorata, è così diventata una terribile scena del crimine, con la coperta e il materasso pieni di sangue. Sullo specchio una scritta, realizzata con un rossetto rosso, per indicare dove la vittima era stata sepolta, lasciata da soldati russi. Il corpo è stato poi riesumato dalla polizia: era senza vestiti e con un profondo taglio alla gola.

Il massacro di Bucha

“Circa 25 ragazze e donne tra i 14 e i 24 anni sono state sistematicamente violentate durante l’occupazione nel seminterrato di una casa a Bucha. Nove di loro sono incinte“, ha riferito Lyudmyla Denisova, difensore civico ufficiale dell’Ucraina per i diritti umani, secondo quanto riportato dal New York Times. La Denisova ha inoltre denunciato come ‘orribili atti di violenza sessuale’ si siano verificati a Bucha e in altre località per un mese sotto l’occupazione russa intorno a Kiev. Stando ad alcune testimonianze, i militari russi hanno detto “che le avrebbero stuprate al punto da non desiderare alcun contatto sessuale con nessun uomo, per impedire loro di avere figli ucraini” scrive Repubblica.

Una nuova denuncia delle atrocità avvenute nella cittadina. Le immagini della strage dei civili a opera degli occupanti hanno fatto il giro del mondo. E oggi il sindaco, Anatoliy Fedoruk, ha dichiarato che finora sono stati ritrovati 403 corpi. Il bilancio è destinato ad aggravarsi, ha sottolineato. Ma Vladimir Putin ha bollato come ‘fake’ le notizie sui massacri avvenuti a Bucha: “Sono false quanto quelle sull’uso di armi chimiche in Siria da parte del governo di Bashar al-Assad” ha detto il presidente russo in una conferenza stampa dopo i colloqui con il leader bielorusso, Aleksandr Lukashenko, presso il cosmodromo di Vostochnij.

Lukaschenko: “Bucha operazione psicologica del Regno Unito”

Dopo le dichiarazioni di Putin, sono arrivate anche quelle di Lukashenko. “I fatti di Bucha sono il risultato di un’operazione speciale psicologica organizzata dal Regno Unito e il Servizio federale per la sicurezza russo (Fsb) può fornire tutte le prove” ha affermato.

Lukashenko ha sostenuto che, se sono necessari riscontri come indirizzi, password, identikit o mezzi di trasporto utilizzati, il Fsb darà tutte le informazioni richieste. “In caso contrario, allora possiamo aiutare in questo senso. Insieme ai nostri amici russi, abbiamo rivelato fin dall’inizio questa posizione orribile e vile dell’Occidente” ha concluso. Mariangela Celiberti.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 10 aprile 2022.

Questa è una guerra assoluta in cui sono in gioco destini preziosi e definitivi. Abbiamo negli occhi un popolo che si allunga per le strade, e non è una marcia, una ritirata e neppure un vero esodo. 

È una decomposizione, spettacolo spaventoso prossimo al caos. È obbligatorio prima di tutto che l'Occidente lasci totalmente, assolutamente, minuziosamente il monopolio della bugia, della ipocrisia e perfino delle mezze verità alla Russia, l'aggressore. 

Non è la quantità di armi che mettiamo in campo e quanto gas risparmiamo che ci darà la vittoria, quella vera, sul tiranno. Sarà il coraggio con cui rifiutiamo qualsiasi sotterfugio e complicità in nome della «realpolitik». Tutto ciò che in qualche modo metta in discussione il comandamento che ci deve distinguere, che cioè l'Uomo merita sempre di restare lo scopo dell'Uomo.

L'odio e la pulsione cieca che l'etichetta «occidentale» suscita in diversi fanatismi contemporanei dimostra quanto l'Europa rimanga irrecuperabile per i totalitarismi. Ma questo soltanto se sa annullare le piccole bassezze e le grandi viltà di cui è lastricata la sua tranquillità. Altrimenti gli altri diranno: fiuto in voi il mio stesso odore, siamo uguali. Come osate rimproverami? 

Perché dire questo? Perché vorrei parlare delle Nazioni Unite e della esclusione della Russia dal Consiglio che si occupa dei diritti umani. Non certo per dire che la Russia non l'abbia meritato per quello che fa in Ucraina, ma per aggiungere un particolare a cui nessuno ha prestato molta attenzione. Preso dalla furia di esultare perché l'Onu improvvisamente sembra risorto, con quel voto largamente maggioritario, dal vergognoso letargo in cui i suoi dirigenti e il segretario generale innanzitutto, con l'inerzia amministrativa sembravano caduti da quaranta giorni a questa parte.

No. Il mio scopo non è discutere quello che è stato detto dagli occidentali, tra cui l'Italia, per condannare la Russia meritatamente, ma ciò che è stato taciuto. Ovvero sono andato a leggere i nomi delle nazioni che fanno parte del Consiglio che si occupa appunto delle violazioni dei diritti umani. 

Vedo inarcarsi sopracciglia. Dove si va a parare? Semino il disordine? Rispondo: ne ho bisogno. Scuoto la saldezza della grande coalizione costruita contro le prepotenze del signore del Cremlino? Indebolisco il meccanismo messo in piedi con pazienza che permetterà di mettere all'angolo il nuovo Hitler? Comincio a esser stufo di questi appelli al realismo, a esser furbi «altrimenti non si vince». L'uomo occidentale è definito da ciò che lo inquieta, non da ciò che lo rassicura. E per questa guerra abbiamo bisogno di ripartire da zero.

È una precauzione strategica non tacere. Sono certo che questa meschina realpolitik a un certo punto sarà utilizzata dal nemico per indebolire la nostra causa. Meglio anticiparlo. Spegnergli ogni mistificazione con l'unica acqua efficace a disposizione, quella del coraggio della verità. 

Deve esser nostro. 

Allora leggo i nomi di alcuni dei componenti del consiglio dei diritti umani: Cina, Libia, Eritrea, Pakistan, Qatar, Venezuela... 

Per esser chiari: il problema non è se questi Paesi si siano astenuti o abbiano votato contro la risoluzione che cacciava la Russia. Il problema è: perché stanno lì, in quel Consiglio? Con che diritto?

In nome di che cosa? Il Consiglio è stato creato sedici anni fa. Un solo Paese era stato finora espulso: la Libia di Gheddafi, nel 2011, per la repressione sanguinaria della rivolta di Bengasi. Poi è stata riammessa dopo la liquidazione del Colonnello. E anche qui nasce qualche dubbio. Se pensiamo ai centri di accoglienza per i migranti... 

Non si poteva per questi Paesi canaglia di cui si conoscono a menadito le pratiche illegali usar subito il meccanismo utilizzato con sacrosanta rapidità per la Russia? In sedici anni mai nessuno dei rappresentanti delle democrazie ha provato un sussulto di decenza e di imbarazzo per il sedersi accanto a quei Paesi quando si discute di diritti umani?

Allora prendiamo un Paese a caso che è stato ripetutamente eletto in questo Consiglio: l'Arabia Saudita. Evito di citare come prova a carico il massacro del giornalista oppositore con truculenti particolari dello squartamento con sega a motore e trasporto dei brani del cadavere in sacchi e valigie. Conosco la risposta dei prudenti, dei filosofi dell'astuzia: caso isolato, quello, potrebbe essere l'iniziativa criminale di qualche sgherro troppo zelante che ha voluto ingraziarsi il principe padrone. 

Scavalco anche le ottanta recenti esecuzioni, tutte in una volta e le delizie di un sistema penalistico che si chiama sharia. Quando lo applicano i talebani afgani è definito uno sconcio vergognoso, quando lo mettono in pratica i riveriti signori dei luoghi santi, beh, è la tradizione religiosa, non si discute di queste cose delicate.

Raccolgo prove più legate al caso russo, voglio andare subito al reato grosso. Che si chiama dal 2014 Yemen. 

È lì che il bel principe tenebroso, per spazzar via gli sciiti che hanno preso il potere violando lo «spazio vitale» della monarchia saudita, ha usato gli stessi metodi criminali di Putin in Ucraina. Ovvero bombardamenti indiscriminati, popolazione civile come bersaglio deliberato, violazione di ogni regola di guerra, massacri. 

Esagero nel paragone? Ci sono anche qui foto e testimonianze dettagliate e indipendenti: ospedali, scuole, città colpite a tappeto dai bombardieri made in Usa di Riad, si dice decine di migliaia di civili morti. Anche lì come in Ucraina, da anni, vediamo bambini condannati a non invecchiare mai.

E una strategia criminale che a Putin, per ora, non si può imputare: l'assedio per fame, con il blocco feroce che non lascia passare cibo, medicine, aiuti. Le conseguenze si possono leggere nei dettagliati documenti di accusa delle Nazioni unite e delle sue agenzie. 

Si dirà: l'Arabia Saudita è un alleato contro i terroristi (che ha finanziato abbondantemente), fornisce il petrolio, non aggredisce l'Europa come ha fatto Putin. E gli houthi dello Yemen? E i bambini e i civili sepolti sotto le macerie, morti per mancanza di medicine e di cibo? I morti bisogna guardarli, guardarli ancora per placarli e scongiurarli. Ovunque. Se siamo quello che diciamo di essere, ovvero la sentinella dei diritti umani, non abbiamo il diritto di voltare le spalle a nessuno. Dobbiamo porre alle sentinelle che dovrebbero vegliare sempre nel Consiglio per i diritti umani la aspra domanda: a che punto è la notte? 

Tina Beradze, terapeuta a Kiev: «Le mie pazienti stuprate. Mai vista così tanta sofferenza». Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 02 Luglio 2022.

La terapeuta che cura alcune donne a Kiev, violentate dai soldati russi: «Non vivono più». Un’Ong in Polonia: abbiamo aiutato 200 ragazze con le pillole abortive. 

«Lo stupro è un trauma che ci si porta dietro tutta la vita. In trent’anni di professione, l’ho trattato in quattro Paesi diversi: Ucraina, Georgia, Stati Uniti e Austria. Ma ora, dov’è passato l’esercito russo, ci sono vittime che stanno soffrendo oltre ogni limite. Sopravvivono in una totale perdita di fiducia nel mondo. Erano a casa, nel loro rifugio primario, e sono dovute fuggire o gliel’hanno distrutta. Avevano una famiglia e l’hanno persa. Pensavano alla Russia come a un Paese fratello e l’hanno scoperto mostruoso. 

Confidavano nello Stato protettore e ora pensano “perché ci ha lasciato lì?”. Ognuno di questi traumi basterebbe a segnare una vita. Invece in cima a tutto questo c’è anche chi ha subito la violenza sessuale. Traumi su traumi da cui non riescono ad emergere. Sono intrappolate in pensieri ossessivi, flash back, incubi, sintomi di depressione, il corpo è qui, ma la mente torna a quei momenti. E allora scatta un nuovo tipo di schizofrenia: di giorno vivono come se nulla fosse successo e appena abbassano le difese precipitano nel terrore. Sarà durissima aiutarle. Stiamo imparando, ma non sarà facile». 

La professoressa Tina Beradze credeva di aver visto tutto. I Ptsd (disturbi da stress post-traumatico) dei soldati americani dopo l’Afghanistan e l’Iraq, ad esempio, ma il groviglio di lutti e dolori delle vittime ucraine di stupro supera tutto. «Lavoro con donne che hanno visto uccidere il marito e poi sono state stuprate», donne che hanno cercato di difendersi spiegando di essere russe, di essere dalla parte degli invasori, ma niente le ha salvate. Ed ora? «Negano. Fingono. Rimuovono. Pochissime arrivano a chiedere aiuto. Per quel retropensiero che c’è qui come negli Usa in base al quale “in fondo se lo sarà cercato”, ma in Ucraina c’è anche l’eredità sovietica. La psichiatria era cosa da repressione, da carcere ed elettrochoc, meglio starne alla larga». Il risultato è la follia, la dissociazione o, per le più fortunate, la vodka. «L’alcol stordisce, aiuta a dimenticare ed è socialmente molto più accettato». Quante sono le donne in queste condizioni? Per il momento è in corso un singolo processo per stupro a carico di un soldato russo. Altri, forse, seguiranno. La Procura nazionale ucraina parla di «dozzine» di casi. Ma il numero reale non si saprà mai. Non tanto perché Kiev ha impiegato un mese a sostituire una commissaria per i diritti umani troppo protagonista, ma soprattutto perché le vittime non denunceranno e, se anche volessero farlo, dopo tanto tempo, non ci saranno abbastanza prove per non considerarla propaganda. Una serie di spie, però, si sono accese. E fanno impressione. I soldati russi hanno lasciato Bucha, Gostomel, Irpin e Makariv e le altre cittadine a nord di Kiev a fine marzo. Molte delle violenze sono state commesse proprio negli ultimi giorni dell’occupazione. Chi fosse rimasta incinta è oggi già nel quarto mese di gravidanza. 

La dottoressa Oleksandra Kvitko lavora al numero verde psicologico ucraino. «Al 26 giugno avevamo ricevuto 380 segnalazioni di crimini sessuali nei territori recentemente liberati. Tra le vittime non solo donne, ma anche uomini e bambini piccoli». La vittima più giovane ha 10 anni la più vecchia 82. Il 30 per cento sono ragazze adolescenti. Gli uomini sono un altro caso. Kvitko sta seguendo il caso di una ragazza incinta. «I medici le hanno detto che se abortisse potrebbe non riuscire più ad avere figli. Sta pensando di tenere il bambino. Ce la farà? Deve decidere entro pochi giorni». 

A Cracovia, in Polonia, Marta Chumal dell’associazione femminista Women Prospective dice al Corriere che «Varsavia ha sostanzialmente vietato l’aborto anche in caso di stupro dal gennaio 2021, ma sostiene di non aver avuto richieste da parte di profughe ucraine. È una sciocchezza. Ci sono 2,5 milioni di rifugiati ucraini in Polonia e solo dai nostri tre centri di accoglienza, 70 persone, sappiamo di due donne che hanno dovuto andare all’estero per abortire». Anche Mara Clark, direttrice di Abortion Support Network, trasmette l’immagine drammatica del vicolo cieco in cui si sono trovate le ucraine in Polonia. «Noi aiutiamo procurando le pillole abortive». Quante? Tra il 1° marzo e il 12 aprile, la rete di volontari Abortions Without Borders ha aiutato 200 rifugiate in Polonia, alcune sono andate ad abortire in Germania, Ungheria, Romania. «Il dramma sta per strabordare anche in Russia - avverte la professoressa Beradze -. Come si diventa assassino? Vivendo in un ambiente violento. Bene, gli stupratori russi erano soprattutto giovani. Gli hanno dato un’arma e gli hanno detto “fai tutto quello che vuoi, basta che vinci”. Cosa faranno ora per elaborare la sconfitta subita a Kiev? Stupreranno donne russe».

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 13 aprile 2022.

Comunicazioni tra soldati intercettate tramite i sistemi satellitari, racconti dei testimoni, verbali dei prigionieri di guerra : l’inchiesta per crimini di guerra compiuti dai russi si concentra sugli attacchi con vittime civili. Ma si allarga anche agli stupri contro donne e bambini denunciati in diverse città dell’Ucraina. 

Le prime verifiche svolte dal pool investigativo coordinato dal procuratore della Corte penale internazionale dell’Aia, Karim Khan, confermano che alcune vittime non avrebbero resistito al dolore e alla vergogna e si sarebbero tolte la vita. È l’ultimo orrore che i giudici intendono perseguire pur nella consapevolezza che non sarà la minaccia di un processo a fermare le azioni brutali dei russi.

I singoli episodi saranno giudicati dai tribunali ucraini. Ma la Corte si occuperà di chi ha impartito gli ordini, di quella catena di comando che ha pianificato le aggressioni contro i cittadini inermi. A prendere la decisione finale sui mandati di cattura ed eventualmente il rinvio a giudizio sarà un giudice italiano, Rosario Aitala che presiede il collegio istruttorio. Spetterà a lui – protagonista delle principali istruttorie della Corte, l’ultima quella che ha portato davanti ai giudici il capo della milizia accusata di aver fatto 300 mila vittime civili e 3 milioni di profughi in Darfur - valutare le accuse contro i generali di Vladimir Putin .

Trascinare in aula il presidente russo è tutt’altro che scontato. Perché per emettere un mandato di cattura servono prove che colleghino le atrocità al livello politico. E perché per giudicarlo è obbligatorio arrestarlo. È un ostacolo che al momento appare insormontabile. La Russia non ha infatti aderito alla Corte e così rimane impigliata nella sua giurisdizione solo perché l’Ucraina ha accettato per due volte la giurisdizione del tribunale internazionale, nel 2014 e nel 2015. La Corte può indagare, ma Mosca non collaborerà e questo vuol dire che la cattura dei responsabili potrà avvenire soltanto all’estero. 

Le fosse comuni come atto di potere

Mariupol, Bucha, Kramatorsk, Makariv sono i luoghi della barbarie, è lì che si scava ancora per trovare le fosse comuni dove sono stati gettati i civili. E poi si va oltre, seguendo il filo dei racconti dei sopravvissuti, i filmati raccolti dai giornalisti, i video girati da chi c’era. Gli investigatori che lavorano con Kahn raccolgono reperti, ascoltano testimoni, archiviano le conversazioni registrate sui canali militari. Il materiale messo a disposizione dai servizi segreti tedeschi che sono riusciti a captare i colloqui dei soldati russi si sta rivelando prezioso per confermare la carneficina e dare un’identità a comandanti e gregari. Ma ora bisogna compiere il passo successivo: raccogliere le prove da consegnare al giudice che dovrà poi valutarle per emettere gli eventuali mandati di cattura.

Un lavoro che non potrà essere breve. Come spiega proprio il giudice Aitala nel suo ultimo libro «i crimini internazionali non sono espressioni di mera malvagità, ma soprattutto atti politici funzionali alla conquista, all’esercizio e alla conservazione del potere. Il sangue impregna il potere, il quale giustifica il sangue». 

Le violenze sessuali di donne e bambini

La Corte ha deciso di avviare un’indagine sugli stupri ritenendo la violenza sessuale il crimine di guerra più atroce e vigliacco, lo sfregio più brutale alla dignità delle donne inteso dai carnefici come gesto supremo di disprezzo all’intera comunità. Anche su questo è però necessario ricostruire ogni caso, trovare vittime e carnefici. Per mettere in stato di accusa i comandanti potrebbe però essere sufficiente dimostrare che sapevano e non hanno impedito le aggressioni ripetute nei confronti di donne e bambini. È la «responsabilità da comando per reati commessi dai subordinati». 

Una forma di imputazione che potrebbe essere seguita anche per il bombardamento dell’asilo di Luhansk, nell’Ucraina orientale, e poi quello di Chernihiv, cittadina a nord di Kiev. Per arrivare al processo dovrà essere individuato l’esecutore, il pilota dell’aereo da cui è stata sganciata la bomba. E poi risalire nella catena di comando per contestare i crimini di omicidio di civili e di attacco deliberato contro beni non di interesse militare. A risponderne sarà il comandante del reparto e via via più in alto, fino allo Stato maggiore. 

L’obiettivo è condurre davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja soltanto i vertici. Sullo sfondo la guerra di aggressione mossa dalla Russia, vietata dal diritto internazionale che consente l’uso della forza armata solo per legittima difesa. La scelta degli investigatori internazionali è chiara: perseguire ogni atrocità per ottenere il massimo risultato possibile. E in questa strategia rientra la contestazione di un altro delitto: l’assedio per impedire l’approvvigionamento di cibo. Si tratta di un crimine che ha come vittime proprio i civili e quindi ritenuto uno delle atrocità più gravi e odiose. Anche in questo caso è indispensabile individuare i comandanti responsabili. 

Il destino segnato dello zar Putin

Per farlo si utilizzano i dossier riservati raccolti dagli 007. Viaggia sul canale Sigint dei servizi segreti occidentali la cronaca in diretta dei massacri, così come le immagini che i satelliti restituiscono per documentare ogni fase del conflitto. Lo scambio tra 007 è continuo, così come la selezione dei dossier da inviare a L’Aja. Il lavoro di analisi dei documenti potrebbe durare settimane, mesi, e via via saranno concesse le autorizzazioni a utilizzarli negli atti di accusa. Fino a valutare il mandato di arresto. È la condizione necessaria per poter avviare il processo per crimini di guerra.

L’obiettivo immediato dell’inchiesta è il livello operativo che ha ordinato di massacrare i civili ucraini. La condizione indispensabile per portare Putin in aula è la cattura, eventualità ritenuta allo stato impossibile. Ma non sarebbe un fallimento: un mandato di arresto, in queste condizioni, sarebbe già una condanna, uno stigma esteso a tutto lo Stato aggressore e una limitazione pesantissima dell’agibilità politica e della libertà di movimento di politici e generali, che finirebbero sulle liste dell’Interpol e rischierebbero l’arresto in tre quarti del mondo.

Paolo Brera per “La Repubblica” il 16 aprile 2022.

Premura di moglie: «Vai, amore, stupra le donne ucraine, va bene. Ma usa il preservativo, mi raccomando ». Pareva troppo, stavolta. Quando il 12 aprile i servizi segreti ucraini hanno diffuso la conversazione intercettata di un soldato russo con la moglie, pareva così assurda da essere palesemente falsa. Quale donna potrebbe mai autorizzare il marito a stuprare altre ragazze? Pura propaganda, pensi. Una messinscena.

E invece no. Eccoli qui, Roman e Olga. Esistono davvero, anche se ora per la vergogna vorrebbero scomparire dalla faccia dei social. Sono due bei ragazzi russi con un bimbo di 5 anni. Lui ha 26 anni, arrivano dalla provincia russa di Orël, lungo l'autostrada da Mosca a Kharkiv, ma dal 2018 vivono in Crimea.

Partendo dai numeri intercettati, un team di giornalismo investigativo della piattaforma anti governativa russa Radio Svoboda ha trovato i protagonisti di questa incredibile conversazione: «Ok, amore, va bene, vai e stupra le ucraine. Poi non raccontarmi niente, d'accordo?», dice Olga al marito che stava combattendo nella zona di Kherson, nell'Ucraina occupata che ogni giorno fa il conto dei morti. «Non devo raccontartelo? », domanda lui. «No. così io non ne so niente», ridacchia la moglie. «Ma davvero posso?», domanda ancora Roman, che non ha nulla da obiettare all'idea di stuprare ucraine ma non gli par vero di avere il permesso coniugale. «Sì - conferma Olga - ma mi raccomando, usa il preservativo!».

Li ha chiamati, ne ha confrontato le voci, ha scoperto che lui è stato ferito e ricoverato in ospedale. Prima che si cancellassero dai social e smettessero di rispondere ne ha ricostruito la storia di coppia qualunque: le foto felici, la sorridente vita quotidiana, la fatica di trovare un'estetista, gli scherzi coi commilitoni.

Ma questo era prima. Da settimane Kiev accusa gli invasori di avere stuprato donne, uomini e bambini. Raccoglie denunce «di migliaia di crimini di guerra», e nelle violenze sessuali è pratica delicata. Nessuno sa se Roman - di cui omettiamo il cognome perché anche la gogna è un orrore - abbia avuto davvero la viltà di usare l'impunità dell'invasore in armi per violentare le sue vittime. 

Ma la testimonianza è terribile per ciò che implica, al di là dell'abominio morale in sé: significa che lo stupro è prassi, in questa guerra che non si ferma. Che un soldato russo sa di poterlo fare come sa di dover uccidere. E chissà se ha avuto il permesso anche da un superiore

La coppia russa che scherzava sugli stupri delle donne ucraine: «Fai pure, ma non dirmi niente e usa protezioni». Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2022.

La conversazione fra moglie e marito, un soldato russo, registrata dai servizi segreti ucraini: rintracciati al telefono, hanno confermato la propria identità, ma negano che le voci siano le loro. Forse era uno scherzo squallido, ma è diventato un simbolo delle atrocità di guerra 

Roman e Olga, la coppia della telefonata intercettata

«Vai, stupra le donne ucraine, te lo permetto, ma non dirmi niente: però non ti dimenticare delle protezioni». Questa conversazione, fra moglie e marito, un soldato russo impegnato nell’operazione «speciale» di Putin, sarebbe stata registrata dai servizi segreti ucraini nella regione di Kherson, nel sud del Paese: uno scambio in russo di 30 secondi che sembra eccessivo e inverosimile anche per una storia estrema di propaganda, ma i protagonisti dell’inquietante vicenda sarebbero stati rintracciati dal team investigativo formato dai giornalisti del servizio russo di Radio Free Europe/Radio Liberty — un’emittente finanziata dal governo americano nell'est Europa, in Asia centrale e in Medio Oriente — e da Schemes, la squadra per le inchieste del servizio ucraino.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Da una fonte interna allo Sluzhba bezpeky Ukrayiny — la Sbu, che ha reso pubblica la conversazione il 12 aprile — i giornalisti avrebbero ricevuto i numeri di telefono della coppia, gli stessi che avevano usato per registrarsi nel social network VKontakte. Da lì, attraverso foto e post, non è stato difficile ricostruire la vita dei due presunti protagonisti di questa storia orribile. 

Lui si chiamerebbe Roman (omettiamo il cognome), ha 27 anni, è nato a Orel — 350 chilometri a sudovest di Mosca, verso Kharkiv — e ha prestato servizio nella divisione di Dzerzhinsky della Guardia nazionale, prima di arruolarsi nella 108esimo reggimento aereo d’assalto basato a Novorossiysk, che ha partecipato all’annessione della Crimea nel 2014. Qui si sarebbe trasferito, nella cittadina marittima di Feodosia, insieme a Olga, anche lei originaria di Orel, la moglie insieme alla quale ha un figlio di 4 anni. E sarebbe lei ad averlo«autorizzato» — scrivono i giornalisti di Rfl/Rl — a stuprare le donne ucraine: «Però non dirmi niente», avrebbe detto abbozzando una risata. «Ah, quindi dovrei stuprarle e non dirti niente: posso davvero?», ribatte il marito. «Sì, hai il mio permesso, ma usa le protezioni», risponde lei, prima che entrambi scoppino a ridere. Arrivati fin qui, la storia continua a sembrare inverosimile, ma il team investigativo ha scavato ancora, e li ha contattati al telefono.

«Li ho chiamati entrambi», ha raccontato su Twitter il giornalista russo Mark Krutov, «hanno confermato i loro nomi, le loro voci combaciavano con quelle registrate». Roman confermato la propria identità e ha ammesso di trovarsi a Sebastopoli, ma ha negato di essere stato a Kherson e soprattutto di essere la persona della telefonata. Olga — che ha cancellato il proprio profilo su VKontakte il 13 aprile — ha confermato che il marito si trova nella città della Crimea, che è ferito ed è ricoverato in ospedale, ma non ha voluto rispondere ad altre domande e non ha più risposto al telefono. «Spero solo che Roman non abbia avuto il tempo per sfruttare il permesso che gli ha accordato sua moglie», conclude Krutov. «Magari era soltanto uno scherzo stupido, ma gli stupri di massa effettuati dai soldati russi in Ucraina sono reali, ci sono molti rapporti orribili, alcuni provenienti anche dalla regione di Kherson».

Forse era davvero uno scherzo di pessimo gusto, ce lo auguriamo tutti, ma di certo si è trasformato nel simbolo delle atrocità compiute durante l’invasione russa dell’Ucraina. Il primo rapporto che denunciava gli stupri dei soldati di Mosca è stato pubblicato da Human Rights Watch il 3 aprile, poi ne sono arrivati altri dopo il ritiro delle truppe di Putin dall’area di Kiev, accompagnati dalle dichiarazioni di politici locali, a cominciare dal presidente Volodymyr Zelensky, e diplomatici internazionali. «Non sappiamo ancora quanto sia stato usato, ma è chiaro che (lo stupro, nda) era parte dell’arsenale russo», ha detto l’ambasciatrice britannica in Ucraina, Melinda Simmons. «Donne stuprate davanti ai proprio figli, ragazzine davanti alle famiglie, come atto deliberato di sottomissione».

Catturato il soldato che era stato “autorizzato” dalla moglie a stuprare le donne ucraine. La Stampa il 25 aprile 2022.

«Vai e stupra le ucraine, ma non dirmi nulla e usa i condom». In una telefonata intercettata dal servizio di sicurezza ucraino una donna giorni fa invitava il marito al fronte con l'esercito russo a stuprare le donne ucraine. Oggi quel soldato è stato catturato vicino a Izyum, come comunica l'ex deputato del consiglio comunale Ilia Ponomarev. Due giornalisti del team investigativo del servizio russo di Radio Free Europe/Radio Liberty circa una settimana fa si erano messi a indagare su alcuni dispacci d’agenzia che riportavano la conversazione di una coppia di russi, moglie e marito, in cui lei rassicurava lui e anzi lo incitava a usare violenza sulle donne che avrebbe incontrato in Ucraina purchè non le raccontasse poi i particolari delle sue imprese e si accertasse di indossare le adeguate protezioni. «Vai, stupra le donne ucraine, te lo permetto, ma non dirmi niente: però non ti dimenticare delle protezioni». Era una certa Olga a parlare, in un audio al marito, Roman Bykovsky, arruolato nella cosiddetta «operazione speciale» di Putin in Ucraina. La surreale conversazione durava circa 30 secondi e sarebbe stata registrata nella regione di Kherson dai servizi segreti ucraini. Poi, in un secondo momento, poi sarebbe finita nella mani dei due giornalisti dell’emittente finanziata dal governo americano. Lo scorso 12 aprile, lo Sluzhba bezpeky Ukrayiny (Sbu) ha reso noto il contenuto dell’audio e i  giornalisti sarebbero entrati in possesso dei numeri di telefono della coppia. Poi grazie ai loro profili sui social russi era stato possibile ricostruire la storia di chi fossero i due al telefono. Lui era Roman Bykovsky,  27 anni,  originario di Orel, cittadina a 350 chilometri da Mosca. E sarebbe proprio l’uomo catturato oggi vicino a Izyum. Si era arruolato nella divisione di Dzerzhinsky della Guardia nazionale, prima di finire nel 108esimo reggimento aereo d’assalto basato a Novorossiysk, che ha partecipato all’annessione della Crimea nel 2014. A Feodosia si sarebbe trasferito insieme alla moglie Olga, anche lei originaria di Orel, e qui avrebbero avuto il loro bimbo, che oggi ha quattro anni. Nell’audio in cui lei lo autorizza a stuprare le ucraine, si sente anche lui rispondere: «Ah, quindi dovrei stuprarle e non dirti niente: posso davvero?». La moglie rimarca: «Sì, hai il mio permesso, ma usa le protezioni». I due poi ridono, come fosse un argomento di cui scherzare.

"Donne ucraine stuprate davanti ai figli": l'orrore dei soldati russi. Francesca Galici il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lyudmyla Denysova è il commissario per i Diritti umani del parlamento ucraino che sta raccogliendo le denunce dei cittadini contro i russi.

L'edizione odierna de La Stampa ospita a pagina intera un intervento di Lyudmyla Denysova, commissario per i Diritti umani del parlamento ucraino. Come da lei stessa spiegato, da quando è scoppiata la guerra il suo ufficio è attivo tutti i giorni, 24 ore su 24, per rispondere alle chiamate dei cittadini delle diverse città ucraine occupate, minacciate dai bombardamenti, assediate, distrutte. "C'è chi chiede aiuti umanitari, chi vuole informazioni sull'apertura dei corridoi di fuga verso luoghi più sicuri dì quelli dove si trovano", ha spiegato Lyudmyla Denysova, il cui ufficio è anche attivo per la ricerca degli scomparsi, che attualmente sono in un numero vicino ai 15mila tra soldati e civili.

Ma non solo, perché nell'ufficio del commissario per i Diritti umani del parlamento ucraino si raccolgono anche prove contro la Russia: "Raccogliamo denunce e forniamo supporto psicologico alle vittime o ai testimoni di violenze. Abbiamo dei dati forniti direttamente dai cittadini, e verificati, di abusi e crimini commessi dalle truppe nemiche sul nostro territorio. Abbiamo numerosissime prove". Si parla spesso di stupri da parte dei soldati russi, confermati dal commissario: "Questi orchi violentano i nostri bambini e dicono alle madri: 'Così non metterete più al mondo nazisti ucraini'".

Nel suo articolo, Lyudmyla Denysova spiega che "l'invasore" da febbraio ha violato tutte le convenzioni di Ginevra, "in particolare quella sul genocidio". Parole forti, che si accompagnano ad accuse specifiche da parte del commissario: "Le truppe russe hanno utilizzato armi non convenzionali come le munizioni termobariche, le bombe a grappolo, al fosforo, hanno disseminato mine nelle nostre città. Questi sono crimini contro l'umanità, sono armi vietate da usare contro i civili".

Ci sono ancora dei morti che mancano, corpi che non sono stati recuperati dalle macerie, quindi il bilancio è finora provvisorio. Ma Lyudmyla Denysova parla anche di "790 mila ucraini, di cui 150 mila" bambini che sono stati deportati in Russia, spesso senza i loro genitori. Questa pratica farebbe parte di un progetto che prevede una legge che consenta "una procedura facilitata per l'adozione in Russia di 'bambini di origine ucraina'. Notare il termine, 'origine ucraina', non 'cittadinanza ucraina'. Sappiamo che questa indicazione viene direttamente da Putin".

Queste pratiche sarebbero iniziate nell'area di Donetsk e Luhansk già prima dell'invasione dello scorso 24 febbraio e, se confermate, si configurerebbero "nella definizione di genocidio, è uno genocidio intenzionale del popolo ucraino". Lyudmyla Denysova parla di veri e propri centri di detenzione per gli ucraini, dai quali non vengono fatti uscire se non per essere trasferiti in altre città della Russia, spesso in regioni remote come il distretto Yamalo-Nenetsky.

Tra i crimini di guerra inquadrati nel genocidio, spiega Lyudmyla Denysova su La Stampa, ci sono anche i reati sessuali, "non soltanto contro donne e ragazze, ma anche bambini, ragazzi, uomini. Noi abbiamo un team di psicologi che lavora con le vittime delle violenze, e chiediamo ai nostri cittadini di denunciare i crimini commessi contro di loro". Non tutti, però, arrivano a fare denuncia: la paura di ripercussioni è troppa. "Sappiamo di una ragazza 16 anni: due nemici, non riesco a chiamarli umani, l'hanno violentata in tutti i modi, il terzo teneva ferma sua sorella di 25 anni, e le diceva: 'Guarda, è quello che faremo a tutte le puttane naziste'", scrive ancora Lyudmyla Denysova, che auspica di poter portare quante più prove possibili al tribunale internazionale de L'Aia. 

Il drammatico racconto. Soldati russi violentano la madre e la sorella davanti ai suoi occhi: “Mi hanno risparmiato perché sono brutta”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 22 Aprile 2022. 

Ha assistito allo stupro della madre e della sorella di 15 anni da parte dei soldati russi. Ha visto con i sui occhi le due donne mentre venivano picchiate con estrema crudeltà e poi è rimasta per quattro giorni accanto ai loro cadaveri. Protagonista dell’ennesimo, brutale episodio di violenza e orrore che arriva dall’Ucraina è una ragazza di 17 anni, risparmiata dalle truppe russe solo perché considerata ‘brutta’.

La giovane ha trovato la forza di raccontare la sua drammatica storia agli psicologi di una linea speciale per l’assistenza psicologica, istituita dal governo ucraino. Poi, insieme alla nonna, ha acconsentito a renderla pubblica. La sua testimonianza è stata diffusa sui social dalla commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmila Denisova. 

La drammatica testimonianza

La ragazza viveva a Irpin, cittadina a nord ovest della capitale Kiev, tristemente nota per le tante atrocità commesse dagli occupanti dall’inizio del conflitto, tra palazzi sventrati e civili giustiziati. Ha riferito di aver visto tre occupanti violentare la mamma e la sorella minore. Entrambe sono poi morte a causa delle ferite riportate. “In stato di shock, la giovane è rimasta nella casa insieme ai cadaveri per 4 giorni” si legge sul post pubblicato su Facebook di Lyudmila Denisova. “Dopo la liberazione della città è stata in grado di raggiungere la nonna. Ha riferito che mentre i suoi parenti venivano uccisi, lei è stata trattenuta ma non è stata toccata, ‘perché  sono brutta’. Hanno detto: ‘falla vivere e passa agli altri’.

Un team di psicologi si sta occupando ora della diciassettenne, sottolinea la Denisova, che denuncia inoltre come ogni giorno nei territori liberati emergano nuove prove “degli orribili crimini sessuali condotti dai russi”. 

“Le atrocità della guerra non risparmiano nessuno”

Dal primo aprile oltre 400 persone si sono rivolte alla linea per il supporto psicologico creata con il supporto dell’Unicef, sottolinea Lyudmila Denisova: la maggior parte delle richieste di aiuto sono legate proprio ai crimini sessuali commessi dagli occupanti.

La psicologa e psicoterapeuta Oleksandra Kvitko fa parte del gruppo di professionisti che, dall’inizio della guerra in Ucraina, lavorano presso la linea telefonica per l’assistenza psicologica. In un’intervista rilasciata ai media ucraini ha spiegato che le vittime degli stupri sono soprattutto donne, ma ci sono anche molti bambini e uomini. La vittima più giovane di cui si sta occupando ha appena 10 anni.

 “Le atrocità della guerra non risparmiano nessuno” afferma. “Le prime vittime di violenze sessuali hanno cominciato a rivolgersi a me qualche tempo dopo la liberazione della regione di Kiev – aggiunge -. Sono passati tre o quattro giorni, le chiamate sono iniziate e non sono ancora finite“. 

Testimonianze di stupri e violenze arrivano ormai da settimane da diverse città dell’Ucraina. Il 12 aprile scorso Lyudmila Denisova aveva denunciato lo stupro sistematico di 25 ragazze in uno scantinato di Bucha.

Mariangela Celiberti

Da “il Resto del Carlino” il 2 maggio 2022.

L'orrore della guerra è gravido anche di stupri. Che convincono le organizzazioni umanitarie, impegnate nel soccorso della popolazione civile ucraina, a correre ai ripari. Il prima possibile. Mentre proseguono gli scontri nel Paese, la Bbc scrive che diversi enti di beneficenza starebbero lavorando «per consegnare pillole contraccettive d'emergenza agli ospedali in seguito alle crescenti segnalazioni di violenze sessuali». 

In prima linea c'è la International planned parenthood federation (Ippf) che ha fornito 3.000 confezioni di questo farmaco, inviandole nelle aree dell'Ucraina più colpite dall'invasione russa.

«Se sei stata vittima di violenza di genere è importante che tu possa prenderle il prima possibile, perché essere incinta a seguito di uno stupro è incredibilmente traumatico», ha detto un membro dell'organizzazione, Caroline Hickson. 

L'Ippf ha anche inviato pillole per l'aborto farmacologico che possono essere usate fino alla 24ma settimana di gravidanza. Nel frattempo nel villaggio simbolo delle atrocità compiute da Mosca, Bucha, si tenta di tornare in qualche modo alla normalità. Ieri era giorno di mercato. In un parcheggio accanto al centro commerciale le bancarelle vendono carne, uova, pesce, verdure. È la normalità che va orgogliosamente in scena, sui social che rimbalzano subito in tutto il mondo. 

E pazienza se nelle case manca ancora la luce, se non c'è il frigo per tenere quel cibo: la cittadina ha l'esigenza di andare avanti. Di mostrare a tutti, in primis a se stessa, che sta andando avanti. A un mese esatto dalla liberazione - quel 31 marzo destinato a finire nei libri di storia - a Bucha i segni dell'occupazione e della morte sono meno visibili. Come emerge dall'account ufficiale della municipalità, le carcasse di mezzi militari russi sono state rimosse dalle strade, e il cemento ha rattoppato le buche scavate dai colpi d'artiglieria. Tutto avviene sotto gli occhi del mondo nelle piazze virtuali dei social.

Il sindaco Anatolii Fedoruk posta le immagini mentre si fa riprendere in giro per la città controllando i lavori per riparare gli edifici e le infrastrutture. La priorità - spiega - sono le scuole, gli ospedali e gli asili nido. Tra i primi passi c'è la sostituzione delle finestre frantumate dalle esplosioni.

Nella scuola, che era stata occupata dai russi, i volontari ieri hanno lavorato per tutto il giorno; hanno portato via calcinacci e oggetti rotti, mentre gli operai stendevano pellicole al posto dei vetri. Nelle ultime ore è spuntato anche un ponte provvisorio di legno sul fiume Irpin, nell'area di Gostomel: collega Bucha a Kiev e darà modo all'economia di ripartire.

La farmacia ha riaperto, così come l'ufficio postale e il negozio di alimentari. Dal forno esce pane per tutti. In settimana è tornato in stampa anche il Bucha News, il quotidiano locale. Nel primo numero dopo la pausa forzata ha descritto la sopravvivenza e la ricostruzione. Su Facebook la testata pubblica immagini di signore di mezza età che leggono il giornale su una panchina del parco.

È un'altra dimostrazione di normalità, e nella stretta inquadratura di una foto riesce a sembrare quasi reale. A spezzare questa normalità ostentata è la lista dell'obitorio che continua a comparire su siti e bacheche, dove scorrono i corpi non reclamati a cui si cerca di trovare i parenti così da fare i funerali, tutti a spese del Comune. Ne sono rimasti una trentina. 

"Dacci 5mila euro o tuo figlio morirà...": il ricatto delle milizie russe. Francesca Galici su Il Giornale il 25 aprile 2022.

La guerra è un massacro e questo lo sanno tutti. I social, però, per la prima volta la stanno portando quasi in tempo reale nelle case dell'Occidente, mostrandone alcuni aspetti inediti fino a questo momento. I volti dei soldati che combattono, che muoiono o che vengono catturati si trovano sui canali dedicati alla guerra, i loro video mentre combattono rimbalzano di Paese in Paese e le stesse autorità sono solite condividere momenti dal fronte, anche i più cruenti, quelli che fanno maggior presa sull'opinione pubblica. Perché in fondo, ormai si è capito, la guerra in Ucraina è fatta anche dalla propaganda. Tra i recenti video sul tema che sono diventati virali sui social c'è quello condiviso da Mykhailo Podolyak, negoziatore ucraino e consigliere del presidente Zelensky.

Mostra un giovanissimo prigioniero ucraino, probabilmente ancora adolescente e sbarbato, catturato dalle milizie russe. È proprio la sua giovane età a rendere il video così impressionante e impattante sull'opinione pubblica, oltre che la sua richiesta dettata dai carcerieri russi. Il ragazzo appare impaurito davanti alle domande dei russi, alle quali risponde con voce incerta: "Mi chiamo Novikov Alexey Antonovich e sono un soldato della 109esima brigata delle forze di difesa territoriale della regione di Donetsk".

Il giovane sarebbe originario di Mariupol e pare sia stato catturato lo scorso sabato. Sarebbe tenuto prigioniero in uno scantinato della città dove, però, precisa di poter disporre liberamente di "cibo, acqua e un bagno" e di non essere in condizioni tali da richiedere l'intervento dell'assistenza medica. Appare subito evidente che il video sia comunque registrato sotto stretto controllo da parte dei russi ed è infatti lo stesso Mykhailo Podolyak a spiegare che quella breve clip è stata inviata dai russi alla madre del giovanissimo soldato con un unico scopo: ottenere un riscatto in denaro in cambio della sua liberazione. Se non riceveranno "5mila euro entro lunedì, il figlio verrà giustiziato nel prossimo video".

L'atteggiamento tenuto dai militari russi, come denuncia Mykhailo Podolyak, li rende "sempre più simili ai militanti dell'Isis. La Russia deve essere riconosciuta come uno Stato-terrorista". La madre è stata raggiunta dal sito Meduza e a loro ha spiegato di essere stata contatta tramite il profilo Facebook di suo figlio: "Mi hanno mandato prima un vocale, poi mi hanno chiamato attraverso Messenger chiedendo i soldi, infine mi hanno inviato il video di Alexey prigioniero". La donna, tuttavia, nega l'arruolamento del figlio e ha avviato una raccolta fondi per trovare entro pochi giorni il denaro necessario per salvare la vita al figlio.

Kiev: "I bambini uccisi sono 200, giustiziati 900 civili nella regione della Capitale". Rainews il 16 aprile 2022. Si moltiplicano le notizie sulle stragi di civili in Ucraina. Il capo della polizia: "Hanno sparato anche nelle case dove degli stracci bianchi indicavano la presenza di piccoli". Zelensky: "I soldati morti sono circa 3mila". 

A quasi due mesi dall’inizio del conflitto, 58 giorni per la precisione, continua la conta dei morti ucraini. 

Sarebbero 200 i bambini rimasti uccisi dall'inizio dell'invasione russa, 360 sono stati feriti. Lo riferisce su Facebook Liudmyla Denisova, commissario per i diritti umani del Parlamento ucraino e citata da Ukrinform.   "Alle 8.00 del 16 aprile 2022, secondo i dati del registro unificato delle indagini preliminari e altre fonti, che devono ancora essere confermate, dall'inizio dell'invasione russa sono morti in totale 200 bambini e 360 sono stati feriti”.

Alla orribile conta bisogna poi aggiungere quella dei civili

Sarebbero stati quasi tutti giustiziati a colpi di pistola i 900 civili trovati nella regione che circonda Kiev. Lo riferisce l'Associated Press che cita la polizia locale: "La presenza di ferite d'arma da fuoco indica che molti sono stati semplicemente giustiziati".

Andriy Nebytov, il capo della polizia regionale di Kiev, ha spiegato che i corpi sono stati abbandonati nelle strade o hanno ricevuto sepolture sommarie. Secondo la polizia ucraina il 95% è morto per ferite d'arma da fuoco.

"Ogni giorno vengono trovati più corpi sotto le macerie e nelle fosse comuni. Il maggior numero di vittime è stato trovato a Bucha, dove ce n'erano più di 350".   

Secondo Nebytov, i lavoratori dei servizi pubblici di Bucha hanno raccolto e sepolto i corpi nel sobborgo di Kiev mentre rimaneva sotto il controllo russo. 

I cadaveri trovati nel villaggio di Shevchenkos sono stati identificati, "erano normali abitanti del posto, purtroppo anche torturati", ha raccontato il capo della polizia, citato dalla Cnn.   Alcune delle persone a cui hanno sparato avevano delle fasce bianche al braccio per cercare di proteggersi dalle forze russe: "Durante l'occupazione, i soldati russi obbligavano i cittadini a indossare fasce bianche al braccio, per indicare che erano già stati controllati. Ma indossarle non sempre ha funzionato, come non ha funzionato nemmeno quando hanno appeso degli stracci bianchi davanti alle case per segnalare che c'erano bambini che vivevano in quegli appartamenti”. 

E mentre si moltiplicano le notizie sulle stragi di civili in Ucraina, il presidente Zelensky ha rinnovato la richiesta di armi all'Occidente ed ha fatto sapere che, finora sono tra i 2.500 ed i tremila i soldati ucraini uccisi in combattimento.

In un'intervista alla Cnn - che andrà in onda in versione integrale nelle prossime ore - Zelensky dà l'ultimo bilancio ufficiale delle vittime tra le fila del suo esercito, aggiungendo che i feriti sono circa 10.000 ed è "difficile dire quanti di loro sopravviveranno". Quanto ai civili morti "è più dura" stabilire quanti siano, afferma il presidente dell'Ucraina.

Novecento civili giustiziati dai russi a Kiev, la drammatica scoperta della polizia ucraina. Tommaso Coluzzi Fanpage.it su Il Dubbio il 16 aprile 2022.

Sono oltre 900 le vittime civili trovate nella regione di Kiev alla fine dell’occupazione russa: “Sono stati semplicemente giustiziati per strada”, ha detto il capo della polizia locale. 

Novecento civili ucraini uccisi, giustiziati a colpi di pistola. È questo il bilancio tracciato dalla polizia locale, secondo quanto riporta il Guardian, delle ricerche effettuate nella regione che circonda la capitale Kiev. "La presenza di ferite d'arma da fuoco indica che molti sono stati semplicemente giustiziati", hanno detto gli ufficiali di polizia. Poi hanno aggiunto: "Sotto l'occupazione russa la gente veniva semplicemente giustiziata per le strade", o almeno questo lascerebbero intendere le tracce lasciate dall'occupazione dell'esercito di Putin, come abbiamo già visto con il massacro di Bucha.

I corpi dei civili giustiziati sono stati abbandonati nelle strade o hanno ricevuto delle sepolture improvvisate e sommarie, secondo quanto riportato da Andriy Nebytov, capo della polizia regionale di Kiev. Secondo gli ufficiali di polizia, circa il 95% è morto per ferite d'arma da fuoco: "Ogni giorno vengono trovati più corpi, sotto le macerie e nelle fosse comuni – hanno raccontato le forze dell'ordine – Il maggior numero di vittime è stato trovato a Bucha, dove ce n'erano più di 350". Le truppe di Mosca, secondo il capo della polizia, "cercavano le persone che esprimevano forti opinioni pro-Ucraina". 

Intanto sono stati identificati i cadaveri trovati nel villaggio di Shevchenko: "Erano normali abitanti del posto, purtroppo anche torturati", ha detto ancora Nebytov. Alcune vittime civili sono state ritrovate con fasce bianche al braccio, rese obbligatorie dai militari russi durante l'occupazione per indicare che erano già state controllate: "Ma indossare fasce bianche al braccio non sempre ha funzionato, e neanche quando hanno appeso stracci bianchi davanti alle case per segnalare che c'erano bambini che vivevano in quegli appartamenti", ha concluso Nebytov.

Ordigni trovati anche sui cadaveri per sorprendere i soccorritori uccidendo anche loro. Ucraina, soldati russi in ritirata lasciano mine antiuomo: nascoste nelle buste per la spesa e nei cestelli delle lavatrici. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Aprile 2022. 

La ritirata dei russi dalle regioni di Kiev e Kharkiv ha lasciato dietro di se pericolose mine antiuomo. Il ministero della Difesa ucraino ha diffuso le immagini di mine nascoste nei cestelli delle lavatrici, granate attaccate agli alberi in giardino e persino nelle buste della spesa. Per gli ucraini che cercano di tornare nelle loro case può bastare aprire un mobiletto di casa per trovarsi davanti scatolette esplosive piene di chiodi, un’infinità di proiettili inesplosi.

Il servizio per le emergenze nazionali sconsiglia alle persone – attraverso il proprio canale Telegram – di tornare nelle loro case a causa dei tanti ordigni esplosivi camuffati. A corredo dell’avvertimento vengono postate anche alcune foto dove le bombe a mano sono in uno scaffale, all’interno di una borsa. Il raggio d’azione di una di queste mine antifanteria, avvertono dal Dsns, è di 90 metri.

Per gli ucraini il ritorno a casa può essere davvero pericoloso, sia per gli adulti sia per i bambini. Ecco gli ordigni appesi a un albero, c’è un filo teso che li fa detonare se non ti accorgi di lui. Una granata nascosta dentro una scatola di plastica. Le automobili abbandonate prima della fuga, spiegano gli agenti che stanno lentamente sminando metro per metro le città che sono state occupate, sono un altro pericolo costante: gli ordigni sono stati piazzati in modo da esplodere quando il proprietario, tornato a casa, prova a vedere in che condizioni sono.

In uno dei video postati dal ministero si vede un soldato che disinnesca una grossa mina nascosta in una normale busta della spesa. Le autorità ucraine hanno più volte ripetuto di aver trovato ordigni persino addosso ai cadaveri, per sorprendere i soccorritori uccidendo anche loro. Ci vorrà almeno un anno, avvertono le autorità, per bonificare il grosso delle aree occupate. Gli sminatori sono all’opera con squadre che pattugliano le città abbandonate, e seguono un ordine preciso: verificano le strade, poi le proprietà private ma solo quelle in cui sia presente il proprietario.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

L'escalation del conflitto. Ucraina, è strage di civili in fuga. Angela Nocioni su Il Riformista il 16 Aprile 2022. 

Battibecco Cina – Stati uniti. Pechino accusa Washington di cercare di alzare la tensione. Dopo le dichiarazioni del direttore della Cia William Burns, secondo cui Pechino intende rimpiazzare gli Stati Uniti come «potenza preminente» nell’Indo-Pacifico ed è un «partner silente» della Russia nell’invasione dell’Ucraina, il portavoce del ministero degli esteri cinese risponde che «gli Stati Uniti hanno diffamato la Cina, provocato lo scontro per sfruttare le opportunità» e ha esortato Washington a «riflettere sulle responsabilità nella crisi in Ucraina».

Una nuova strage di persone in fuga. Sette civili sono rimasti uccisi e altri 7 sono rimasti feriti in un attacco russo contro gli autobus usati per le evacuazioni vicino a Kharkiv, nell’Ucraina orientale. Più di cinque milioni di persone sono fuggite dall’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. Lo riferiscono i dati dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), che ha contato 4.796.245 rifugiati. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), circa 215mila non ucraini hanno lasciato l’Ucraina. Donne e bambini costituiscono il 90% dei rifugiati. La Russia ieri ha finito per ammettere l’affondamento della sua nave ammiraglia della flotta nel mar Nero. Il Pentagono ha annunciato che oggi arriveranno nel Donbass le prime armi dell’ultimo contingente in arrivo dagli Stati uniti. Lo riporta la Cnn, citando fonti della Difesa americana. «Avevamo avvertito la Russia che se avessero invaso l’Ucraina la risposta sarebbe stata senza precedenti. Come dice Biden, le grandi nazioni non bluffano».

Così il portavoce del dipartimento di Stato americano a proposito della nota diplomatica inviata da Mosca a Washington che minacciava «conseguenze imprevedibili» se continueranno le spedizioni di armi da parte degli Usa. Mosca ha deciso di espellere diciotto diplomatici della rappresentanza dell’Unione europea dalla Russia. La Ue risponde in una nota di «deplorare l’ingiustificata e infondata decisione della Federazione russa», perché «non ci sono motivi se non la pura rappresaglia». Il 5 aprile scorso l’Ue aveva dichiarato «persone non grate» 19 diplomatici della missione permanente russa a Bruxelles, accusandole di «essere coinvolte in attività contrarie al loro status diplomatico».

A Kiev intanto riaprono alcune ambasciate. L’italiana aprirà lunedì. Riapre anche la francese, resta chiusa invece la rappresentanza diplomatica degli Stati uniti. Non ci sono le condizioni per la riapertura, dice il Dipartimento di Stato. I siti di Radio France Internationale (Rfi) e quello in russo del quotidiano indipendente Moscow Times (la cui edizione principale è in inglese) sono stati bloccati in Russia per decisione dell’agenzia statale per il controllo dei media Roskomnadzor su richiesta della Procura generale. Il Moscow Times ha fatto sapere che il suo sito in russo è stato bloccato dopo la pubblicazione di notizie giudicate «false» dalle autorità in merito alla guerra in Ucraina. Angela Nocioni

"824 nuove tombe da inizio guerra": le immagini satellitari inchiodano i russi. Federico Garau il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

La notizia è stata diffusa su Telegram tramite il profilo dell'esercito ucraino, che cita uno studio del Centre for Information Resilience.

Sarebbero 824 le nuove tombe scavate a Kherson, centro che sorge in prossimità dell'estuario del fiume Dnepr, a partire dal 28 febbraio, ovvero dopo l'inizio del conflitto in Ucraina. Questa, per lo meno, è la versione riportata sul web dall'esercito ucraino tramite il proprio profilo Telegram. Le forze armate di Kiev citano un'inchiesta condotta dal Centre for Information Resilience (Cir), Ong britannica con sede a Londra, che basa le proprie teorie su alcune immagini satellitari messe a disposizione da "Planet Labs" riguardanti una specifica area sita alla periferia della città, per la precisione a est dell'aeroporto. Gli scatti sarebbero relativi a un periodo di tempo compreso tra il 28 febbraio e il 15 di aprile 2022.

Benjamin Strick, incaricato dalla società londinese di condurre delle indagini mirate a rilevare le nuove aree cimiteriali sorte in territorio ucraino dopo l'inizio delle ostilità, ha rilasciato un'intervista ad hoc al Washington Post. "È spaventoso pensare a come i civili siano morti e cos'altro sta accadendo in queste aree", dichiara il direttore dell'inchiesta, di recente al lavoro per occuparsi di una nuova presunta zona adibita a sepolture in una foresta nelle vicinanze di Chernihiv, città capoluogo dell'omonima oblast' e dell'omonimo distretto.

Sotto controllo russo fin dalla prima settimana del conflitto, Kherson viene considerata un centro strategico particolarmente importante, sia per la presenza del porto sul Dnepr, a una trentina di chilometri dalla foce del fiume e quindi dallo sbocco sul Mar Nero, sia per il fatto che si tratta di un punto privilegiato per il passaggio verso Odessa. Proprio per questo motivo gli scontri tra le forze militari russe e quelle ucraine sono stati particolarmente duri, specie nelle fasi iniziali, e a causa di essi numerosi cittadini hanno preferito allontanarsi per trovare riparo altrove.

Aggrediti o aggressori? Antonio Angelini il 17 aprile 2022 su Il Giornale. .

Mi stuzzica quando leggo colleghi giornalisti che fanno sempre la differenza tra aggrediti e aggressori. E’ questo che vorrei capire bene. Chi sono i veri aggressori e i veri aggrediti. Oppure sono tutte e due o tre le fazioni (Usa -Ukraina e Russia) aggrediti e aggressori allo stesso tempo?

E’ la Nato che con la sua espansione ad est si deve considerare aggressore? Oppure sono gli Ukraini che perseguitavano dal 2015 i russofoni? Oppure sono i russi che hanno inziato la guerra? Ognuno avrà la propria opinione. Consiferiamo un fatto acclarato i 14.000 morti in Dombass prima della guerra quasi tutti russofoni oppure no?

Notizia di oggi è che il resto del battaglione Azov (neonazisti?) sia ormai senza via di scampo chiuso in grandissimi sotterranei e magari in compagni di qualche ufficiale NATO.

E mi pongo alcune domande:

1) Azov sono da considerarsi aggressori dal 2015 (o prima dalla rivoluzione) oppure aggrediti nel 2022 ?

2) E’ normale e giusto che il loro capo politico Zelensky non gli permetta la resa?

3) Sono davvero dei neonazisti come io credo oppure sbaglio?

4) Non è che non si vogliono arrendere perchè la loro prigionia non sarebbe delle più semplici? 

A voi le risposte. 

LA LEZIONE MANCATA DELLA STORIA. La guerra in Bosnia non ci ha insegnato nulla: aggrediti e aggressori non sono uguali. Il massacro di Srebrenica è stato un genocidio di oltre 8mila musulmani bosniaci avvenuto nel luglio 1995. GUIDO RAMPOLDI su Il Domani il 13 aprile 2022

Trent’anni sono un periodo sufficiente perché un paese faccia i conti con la storia e con le proprie colpe. La guerra di Bosnia fu una guerra d’aggressione, organizzata e diretta da Serbia e Croazia con l’obiettivo di spartirsi la repubblica aggredita.

Se l’Italia e l’Europa avessero preso atto di questa verità sarebbero stati in obbligo di schierarsi con le vittime contro gli aggressori. Ma accadeva che le vittime, i bosniaci, fossero per gran parte musulmani; mentre gli aggressori erano tutti cristiani.

Insinuare l’equivalenza delle colpe permette una narrazione finto neutralista in cui le guerre sono tutte uguali, un unico mostruoso mostro mitologico, astratto, impersonale, precipitato del male che si annida in ogni società. 

GUIDO RAMPOLDI. Scrittore e giornalista. Dal 1987 al 2011 ha seguito tutti i più importanti eventi di politica estera, prima per "La Stampa" e poi per "La Repubblica". Inviato speciale, editorialista e war-correspondent, ha vinto alcuni tra i maggiori premi di giornalismo, tra i quali il Barzini e il Mad David. Laureato in Filosofia, ha pubblicato saggi sullo sterminio come pratica ‘politica’ dal dopoguerra ad oggi (L'innocenza del Male, Laterza 2004) e sull'uso politico degli idrocarburi nel mondo contemporaneo (I giacimenti del potere, Mondadori 2006). Un suo romanzo ambientato in Afghanistan (La mendicante azzurra, Feltrinelli 2008) ha vinto il Premio Bagutta opera prima. Il suo successivo romanzo (L'acrobata funesto, Feltrinelli 2012) è stato letto come una satira del giornalismo corrente.

Bucha, insabbiare le stragi è un'abitudine russa: il filo rosso sangue che parte da Katyn. Francesco Carella Libero Quotidiano il 17 aprile 2022.

Le fosse comuni di Bucha e gli orrendi crimini commessi dai russi ai danni della popolazione ucraina non sono, purtroppo, una novità. Si tratta solo dell'ultimo capitolo di un libro nero segnato da crimini e violenze che vede la Russia come protagonista per gran parte del Novecento. L'episodio più clamoroso fu quello che si consumò nella Polonia orientale all'indomani del Patto Ribbentrop-Molotov, quando in due mesi, fra aprile e maggio 1940, su ordine del Politbjuro gli aguzzini dell'NKVD con mostruosità scientifica passarono per le armi quindicimila cittadini polacchi.

Morirono con un colpo alla nuca ufficiali, imprenditori, professionisti, sacerdoti, e molti funzionari pubblici. L'indicazione partita da Mosca era chiara: procedere all'eliminazione della classe dirigente polacca. Stiamo parlando del massacro di Katyn, dal nome della località presso Smolensk, dove furono scoperte dalla Wehrmacht nell'aprile '43 fosse comuni con cadaveri accatastati a migliaia. Intorno a quella mattanza la propaganda sovietica costruì una gigantesca operazione di falsificazione - tesa ad attribuire la colpa della strage ai militari tedeschi - durata quasi cinquant' anni che ricorda, per molti versi, ciò che in questi giorni stanno cercando di fare Vladimir Putin e i suoi collaboratori. Nel 1989 finanche Michael Gorbaciov si oppose a che venissero aperti gli archivi e resa verità e giustizia alle vittime di Katyn. Di parere diverso fu il presidente Boris Eltsin, il quale pochi anni dopo, consegnò al suo omologo polacco Lech Walesa la documentazione relativa agli ordini di sterminio partiti da Mosca. 

Prese corpo in quei primi anni '90 la speranza che la verità su quanto accadde nella foresta polacca fosse destinata ad essere raccontata nella sua interezza grazie al nuovo corso e all'apertura degli archivi. Ma così non è stato. Nel 2004 la Procura militare della Federazione russa decise di archiviare definitivamente l'inchiesta. Sono gli anni in cui Vladimir Putin rallenta la marcia verso la democratizzazione della Federazione russa. Oggi sappiamo che il falso storico su ciò che avvenne nel bosco di Katyn poté riuscire anche grazie a una certa freddezza da parte degli anglo-americani in ragione della necessità di non compromettere i rapporti con Stalin. Winston Churchill accantonò la vicenda definendola «di nessuna importanza politica». Stalin ne approfittò per accreditare ulteriormente la tesi del Cremlino e per avviare una campagna di violenta delegittimazione nei confronti dei membri della Commissione medica internazionale voluta dal Terzo Reich, diretta da una personalità scientifica di indiscusso valore qual era il professor Naville. Di quella commissione fece parte anche lo scienziato italiano Vincenzo Palmieri, il quale divenne il bersaglio di una campagna denigratoria orchestrata dal Pci e guidata da un dirigente di primo piano come Mario Alicata. Le lezioni di Palmieri all'Università di Napoli venivano regolarmente interrotte da studenti comunisti che lo accusavano di essere un nazifascista. Molti docenti, cosiddetti democratici, proposero addirittura il suo allontanamento dalla cattedra. La richiesta fu respinta con forza dal Rettore, quel galantuomo di Adolfo Omodeo. 

Da open.online il 18 aprile 2022.

Il presidente russo Vladimir Putin ha voluto premiare con il titolo di «Guardia dell’esercito russo» i soldati della 64ma brigata di fucilieri motorizzati che, secondo le accuse delle autorità ucraine, sarebbero gli autori della strage di Bucha, avvenuta durante l’occupazione e il ritiro delle truppe russe dello scorso 31 marzo dai territori vicini a Kiev. 

Come riporta l’agenzia Afp e quella russa Tass, Putin ha riconosciuto alla brigata: «il titolo onorifico per l’eroismo e tenacia, determinazione, altruismo e coraggio», ha detto Putin. Il capo del Cremlino insiste sulla linea tenuta sin dall’inizio che ha negato ogni tipo di responsabilità dell’esercito russo sulle morti avvenute a Bucha, oltre ad aver respinto ogni accusa di ritorsioni sui civili bollandole come «fake news» dei media occidentali e di Kiev.

«Sono convinto che voi, soldati e ufficiali – ha detto Putin – continuerete a essere fedeli al giuramento, a servire la Patria con onore, a garantire in modo affidabile la sicurezza e la vita pacifica dei nostri cittadini».

Bucha, Putin premia i soldati degli eccidi: «Sono degli eroi». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.

Diffuso il documento ufficiale con cui lo zar ha decorato la 64esima fucilieri,i soldati che hanno ucciso 300 civili e scavato fosse comuni a Bucha. Premiati per «l’eroismo, la tenacia, la determinazione e il coraggio». 

ODESSA - Li ha premiati «per l’eroismo, la tenacia, la determinazione e il coraggio». Con questa motivazione il presidente russo Vladimir Putin ha decorato la 64esima brigata di fucilieri. Non uomini qualunque. Ma soldati che l’Ucraina e il mondo intero hanno accusato di aver trucidato e stuprato almeno 300 civili a Bucha , nei pressi della capitale ucraina. E che il ministero della Difesa di Kiev ha esplicitamente tacciato di essere «coinvolti in crimini di guerra contro il popolo ucraino» definendo questo e altri eccidi come atti di genocidio.

Tirando uno schiaffo al presidente Volodymir Zelensky e al mondo intero, ancora sconvolto e inorridito dalle immagini delle fosse comuni, nell’annunciare l’onorificenza il ministero della Difesa russo, via Facebook, ha specificato come la brigata sia stata inviata in Ucraina, dopo essere stata di stanza prima in Bielorussia e poi in Russia. E come sia stata insignita della medaglia al valore per «l’azione militare a tutela della Patria e degli interessi dello Stato nell’ambito dei conflitti armati».

Secondo quanto ricostruito dagli attivisti di InformNapalm, la 64brigata di artiglieria motorizzata appartiene all’unità 51460, arrivata in Ucraina dal villaggio di Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Chabarovsk, oltre la Cina e la Corea del Nord. Al suo comando, ci sarebbe il tenente colonnello Omurekov Azatbek Asanbekovich, di cui gli hacker di Anoymous hanno diffuso i dettagli in rete, compreso l’indirizzo di casa e la fotografia.

Se queste informazioni dovessero essere confermate, sarebbe lui l’uomo che l’Ucraina potrebbe un domani portare davanti alle corte internazionale. Ma non c’era solo la 64esima brigata a Bucha. Secondo la Pravda di Kiev, a nordovest della capitale erano impiegati i soldati del distretto militare orientale e i carristi della Guardia (36esima armata del distretto dell’Estremo Oriente russo) ed elementi del 331esimo Reggimento parà della 98esima divisione aerotrasportata.

Nonostante le testimonianze di omicidi, torture e stupri, le autorità russe continuano a negare di aver attaccato civili in Ucraina e provano a sostenere come i video di Bucha che mostrano i corpi di civili a terra, senza vita, siano dei fake. 

Appunti per il 25 aprile. L’eccidio di Calvi, Bucha e la lezione della (vera) Resistenza. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 23 aprile 2022.

Premiando gli autori del massacro in Ucraina, Putin si è comportato come Hitler che nel 1944 insignì delle massime onorificenze i soldati del gruppo di combattimento Schanze, autori della strage nel piccolo borgo umbro.

Mentre si avvicinava l’Anniversario della Liberazione ascoltavo o leggevo le opinioni di algidi aedi putiniani dagli occhi di ghiaccio chiedere le prove per attribuire all’esercito d’invasione russo l’eccidio di Bucha e le stragi di civili commesse in Ucraina. Forse è per questo che – qualche settimana dopo i fatti di Bucha – partecipando all’inaugurazione di una piazza dedicata ai 12 civili assassinati dai nazisti e dai repubblichini il 13 aprile del 1944 a Calvi dell’Umbria, il borgo nel quale vivo da qualche anno, mi sono domandato se in quella lontana storia potesse esservi qualche insegnamento valido anche oggi. 

La strage di Bucha, per gli aedi di Putin, non è mai esistita. Quella di Calvi, allora territorio della Rsi, fu presto dimenticata. Una lapide posta sul luogo dell’esecuzione nell’inverno del 1944, poi l’oblio. Fino alla meritoria intitolazione di una piazza voluta dall’attuale sindaco Guido Grillini. 

A squarciare il velo fu la scoperta del cosiddetto Armadio della Vergogna, dove nel 1994 il procuratore militare Antonio Intelisano, che indagava sui crimini del capitano Herbert Priebke, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, scoprì 695 dossier immotivatamente insabbiati nel 1960 sui crimini commessi dai nazifascisti nel 1943/45. 

Quella di Calvi dell’Umbria era una delle stragi insabbiate. Per il numero delle vittime e la crudeltà dei modi, tra le più feroci. Furono accertate le responsabilità dei caporioni fascisti locali: Giunio Faustini, il figlio Vittorio e Bruno Proietti e di ignoti militari tedeschi, ma, a causa di quell’archiviazione, non si giunse mai a un processo. 

Nel piccolo borgo medievale arrampicato sulla collina e dominato dal monte San Pancrazio oggi molto è cambiato, ma non tutto. I muri attorno alla piazza, per esempio, ospitano i murales sulla natività dipinti da tanti artisti a partire dal 1982. I luoghi dove tutto è avvenuto, tuttavia, racchiusi in poche centinaia di metri, sono ancora lì: la Chiesa di Santa Brigida che domina la piazza, così come il convento delle Orsoline subito dietro, e i palazzi antichi. «Vedi quella casa dopo l’arco? Qui c’era l’abitazione e la locanda di una famiglia che fu sterminata, e lì il negozio del barbiere, fucilato anche lui e in quell’angolo, dove ora c’è il minimarket, c’era la caserma dei carabinieri dove furono trattenuti i prigionieri. E questo, dove ora c’è una lapide è il luogo dove furono fucilati». Mi racconta Ugherio Stentella, che da anni, insieme ad altri, tiene viva la memoria di quella strage.

Ho cominciato a interessarmene grazie al mio compianto amico Nevio Bacocco, scomparso a causa del Covid nel febbraio del 2021. Nevio, insegnante, ma soprattutto maestro di vita, con i suoi ragazzi ha raccolto le loro storie, oltre otto ore di interviste ai sopravvissuti e ai discendenti delle vittime. 

Durissima e feroce la primavera del 1944 sull’appennino umbro, logisticamente strategico per l’esercito nazista che risale verso nord. La zona montuosa tra le province di Terni e Rieti è teatro di stragi feroci come quella di Leonessa, il 7 aprile. Tra il 12 e il 14 l’esercito nazista attua l’operazione “Osterei” (Uovo di Pasqua) contro le Brigate partigiane che rendono difficile la ritirata. Tra Narni, Otricoli, Poggio operano le brigate “Gramsci” e “Manni che il 12 sul Monte San Pancrazio ingaggiano uno scontro nel quale diversi di essi cadono. Nel corso del rastrellamento, nazisti e i fascisti fermano circa centro civili. Tre agricoltori (Pielicè, Pettorossi, Carofei), sono assassinati nella frazione di Santa Maria della Neve, il giorno stesso. Gli altri, sono portati nella caserma dei carabinieri. Dodici di essi sono scelti per la fucilazione, la lista è compilata dai fascisti locali.

Ecco l’alba del 13 aprile. Ecco il nostro Spoon River, nella storia di ognuno di quei dodici: «Adolfo, Emilio, Gino, Ernesto e Genesio Guglielmi, quest’ultimi di appena 16 e 17 anni, un’intera famiglia o quasi – racconta lo storico Sergio Bellezza che, insieme a Ugherio Stentella studia da anni i fatti – A scampare alla strage soltanto uno dei fratelli, che al momento del rastrellamento si trovava in campagna dalla fidanzata. La famiglia Guglielmi conduceva a Calvi un piccolo albergo e dava asilo, secondo l’accusa, a elementi partigiani. Inoltre, Emilio, richiamato come carabiniere dopo l’8 settembre, si sarebbe dato alla macchia con altri antifascisti, cui la famiglia forniva vivevi e dava assistenza».

Il professor Bellezza racconta anche un particolare agghiacciante: «Per fare in modo che i due ragazzi, Ernesto e Genesio, potessero essere fucilati insieme agli adulti dovettero issarli su due massi, perché i due adolescenti erano notevolmente più bassi». 

E poi gli altri, ognuno dei quali aveva mille ragioni per vivere e una sola per morire: essere antifascisti o partigiani o essere denunciati dai delatori fascisti come tali: «Il dott. Salvati, medico condotto del Paese, ufficiale medico nei campi di concentramento di Vetralla, Colfiorito e Passo Corese. Dopo l’armistizio era tornato a Calvi, dove esternava liberamente i propri sentimenti antifascisti e prestava cura a elementi partigiani e militari alleati. Il barbiere del posto, Liberato Montegacci, noto oppositore al regime; Fabrizio Fabbri, fucilato perché gli erano state trovate in casa alcune cartucce durante la perquisizione. In realtà s’era sempre rifiutato di fornire viveri alle truppe tedesche e ai repubblichini. Ernesto Sernicola era invece ritenuto un collaboratore dei partigiani e accusato d’aver nascosto 8 inglesi fuggiti dai campi di prigionia. I documenti non riportano le imputazioni a carico di Mario Ranucci, Antonio Lieto e Olindo Landei, il primo da poco residente a Calvi, ma nativo di Greccio, gli altri rispettivamente di Casapulla e Contigliano. Il fatto che non fossero del posto lascia pensare che si trattasse di combattenti alla macchia». 

Conclude il professor Bellezza: «Rimangono i fatti dolorosi e cruenti, che fin d’allora testimoniano il dramma della guerra e la barbarie degli uomini. Esperienze che pensavamo d’aver ormai consegnato alla storia, ma che stiamo rivivendo con l’attacco all’Ucraina da parte della Russia di Putin».

Mi domando cosa penserebbero gli adolescenti Ernesto e Genesio se ascoltassero in tv un Narciso che insegna storia dell’arte dire che i giovani italiani presero le armi perché erano sicuri della vittoria, grazie all’appoggio degli angloamericani, mentre i giovani ucraini di oggi sono solo dei suicidi? Caro professore, venga qui, ascolti queste storie e si chieda se davvero, in quella tragica primavera del 1944, fosse tutto così facile come oscenamente afferma lei per giustificare il fatto che non bisogna dare armi ai resistenti ucraini. 

Quanto al capire da che parte stiano i nazisti in Ucraina, basti pensare che così come oggi Putin premia gli autori del massacro di Bucha, nel 1944 Hitler insignì delle massime onorificenze i soldati del gruppo di combattimento Schanze, autori degli eccidi sulle montagne umbre.

Ilya Navalny, il corpo trovato in una fossa comune: fucilato e gettato tra i cadaveri, chi era quest'uomo. Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Da quando sono stati scoperti gli orrori di Bucha sono passate quasi due settimane. Le immagini dell'eccidio commesso dai russi restano però sotto agli occhi di tutti. Immagini drammatiche di fosse comuni, corpi martoriati, omicidi, mutilazioni. Un orrore di cui ancora vanno chiariti alcuni aspetti. Ma la sostanza non cambierà, mai: resta uno degli orrori più pazzeschi e sconvolgenti che questa guerra ci ha mostrato. 

E ora, a distanza di molti giorni, si scopre l'identità di una delle vittime di Bucha: tra i morti nell'eccidio anche Ilya Navalny, che era residente a Bucha, cittadina che si trova nella regione di Kiev a pochi chilometri dalla capitale.

Già, Navanly, proprio come Alexey Navalny, il principale leader di opposizione a Vladimir Putin in Russia, recentemente condannato a nove anni di carcere al termine di un nuovo processo-farsa. Il punto è che la vittima di Bucha era un lontano parente proprio del Navalny che si oppone allo zar senza voler lasciare la Russia e subendo così le devastanti rappresaglie del regime. Il corpo di Ilya Navalny è stato trovato ucciso da colpi di arma da fuoco in una fossa comune, in mezzo ai copri di centinaia di altre vittime. Un orrore difficile anche soltanto da immaginare.

Letizia Tortello per “La Stampa” il 20 aprile 2022.

Spuntano nelle cantine, dalle buche scavate in fretta. La terra smossa puzza di fossa comune. Sono stati gettati nei pozzi, giacciono nei cortili. Alcuni recano segni di tortura, altri sono stati uccisi dai proiettili dei cecchini, mentre cercavano cibo. 

Sono i cadaveri di Bucha, la nuova atrocità scoperta «da sabato sera» nella cittadina a 50 chilometri a Nord di Kiev. «Sono stati trovati altri 420 corpi», riferisce su Facebook il capo della polizia della regione, Andriy Nebytov. 

«Stimiamo che una persona su cinque di quelle che erano rimaste in città durante l'occupazione russa sia stata uccisa», ha aggiunto il sindaco di Bucha, Anatoliy Fedoruk.

L'ultimo bilancio delle vittime civili, secondo i dati dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite, è di 2104 morti. 

Sugli ultimi corpi esanimi rinvenuti, la polizia inizia un lungo e penoso lavoro di identificazione. Spesso da dettagli, perché il cadavere sottoterra è sfigurato e irriconoscibile. 

«Di trecento persone non sono ancora state stabilite le generalità», continua Nebytov. Prima di questa nuova scoperta, erano stati trovati altri 350 cadaveri, mentre 200 persone risultano ancora disperse. 

E dare un nome e un cognome agli ucraini massacrati nella guerra di Putin è la missione di Vitaliy Lobas, il capo della polizia del distretto, che prima del conflitto passava le giornate a barcamenarsi tra la piccola criminalità locale, e oggi guida il team che va a caccia dei cadaveri. Il suo quartier generale è una scuola abbandonata.

Davanti a lui, su un banco, c'è una mappa di Bucha. Questo sobborgo della capitale, sconosciuto al mondo fino a pochi mesi fa e ora diventato uno degli scenari dei crimini dei russi, è stato occupato dalle forze di Mosca per un mese, mentre tentavano l'assalto a Kiev. È stato liberato due settimane fa, dando inizio a un lento e doloroso processo di scoperta degli orrori.

Ogni volta che squilla il telefono, Lobas consulta la cartina e annota su un pezzo di carta le informazioni. Una riga per corpo. 

In poche ore, il foglio si riempie di indirizzi. Cadaveri da rintracciare e identificare, persone disperse. Denunciate da parenti e amici, che pregano con tutte le forze di scoprirli vivi altrove, al sicuro, magari in campagna o oltre confine.

«Quando ho notizia di uomini e donne colpiti alla testa con le mani legate dietro la schiena, vado di persona. Quando i corpi sono stati bruciati, anche», dice il poliziotto. Le storie partono spesso dai racconti agghiaccianti di chi si trovava con le vittime durante l'occupazione, e poi è stato costretto a scappare. 

Come una donna, che rivela come i russi abbiano assalito il condominio in cui si trovava con il fidanzato, puntando contro di loro il fucile per farsi consegnare telefoni e chiavi. «Ci hanno interrogato - spiega -, in stanze separate. Poi ci hanno picchiati e hanno sparato al nostro cane».

Dopo, hanno portato lei nel seminterrato, con altri vicini di casa, e hanno chiuso a chiave la porta. Hanno prelevato il ragazzo, mentre urlavano alla donna che non l'avrebbe mai più rivisto. Così è stato. 

Tra i massacrati anche Ilya Ivanovich Navalny, un uomo con lo stesso cognome di Alexei Navalny, anche se il dissidente russo non sa dire se sia suo parente: «Ma è stato ucciso perché si chiamava come me», ha twittato. 

Molti dei corpi di Bucha da riconoscere vengono portati all'obitorio di Boyarka, che non ha mai visto tanti cadaveri tutti insieme: «Da tre, prima del conflitto, a 50 al giorno. E otto su dieci sono persone decedute di morte violenta», spiega Semen Petrovych, 39 anni, esperto forense della struttura da 16 anni. Il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, nega ogni responsabilità, ma rilancia dicendo che «la Russia stabilirà la verità su quanto accaduto a Bucha».

Il procuratore ucraino Ruslan Kravchenko, invece, si è organizzato per raccogliere le prove dei crimini. Il suo compito è «identificare i russi autori di ogni aggressione, stupro e uccisione». 

Le tecniche di indagine si servono di immagini satellitari e sistemi raffinati di riconoscimento facciale. Sono gli investigatori della Procura, coadiuvati dal ministero della Giustizia ucraino, ad esaminare i video delle telecamere di sicurezza, per riconoscere i volti dei russi che hanno sparato. Utilizzano software di screening facciale e altri metodi forensi ad alta tecnologia.

Le informazioni su quali unità delle truppe russe fossero a Bucha nei giorni dei massacri vengono incrociate con le immagini dal satellite. Gli analisti dei dati combinano le foto con gli account social, per rintracciare i soldati responsabili. Al lavoro ci sono Kravchenko e il gruppo di 28 investigatori. 

Anche un pool di avvocati che era al servizio dell'ex presidente Petro Poroshenko interviene nella ricerca. Gli ucraini vanno a caccia di prove, da utilizzare davanti ai tribunali internazionali, per denunciare gli orrori. 

La tragedia di Vanda, morta dopo 80 anni nei rifugi che la salvarono dai nazisti. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 20 Aprile 2022.

Aveva solo 10 anni quando nell’ottobre del 1941, rifugiandosi in una cantina di Mariupol, riuscì a salvarsi dai nazisti. Ottant’anni dopo, è morta in quegli stessi sotterranei: il luogo in cui, questa volta, si era rifugiata per nascondersi dagli invasori russi. Vanda Semyonovna Obiedkova, 91 anni, è deceduta il 4 aprile dopo settimane senza luce e acqua, tra il freddo e la mancanza di cure mediche, nella città simbolo della resistenza del popolo ucraino. 

A raccontare la sua storia è la figlia Larissa su Chabad.org. “Perché sta succedendo tutto questo?” chiedeva con un filo di voce Vanda, superstite dell’Olocausto che, nella sola area di Mariupol, causò tra i 9.000 e i 16.000 morti. 

Il racconto della figlia Larissa

Nelle ultime due settimane l’anziana donna non riusciva neanche a muoversi. “Dopo tutto l’orrore che aveva vissuto durante la persecuzione nazista non meritava di morire così“ ha raccontato tra le lacrime la figlia Larissa. Lei, insieme alla sua famiglia, ha potuto lasciare la città rasa al suolo dai russi solo all’inizio di questa settimana, grazie a uno dei pochi e fragili corridoi umanitari, aiutata della locale comunità ebraica guidata dal rabbino Mendel Cohen. 

“Quando sono iniziati i bombardamenti massicci, ci siamo trasferiti in cantina, ma non c’erano riscaldamento, acqua, elettricità.” Larissa ha cercato di prendersi cura della madre immobile a letto, “ma non c’era niente che potessimo fare per lei– ricorda- Abbiamo vissuto come animali”. Andare a prendere l’acqua era rischioso: due cecchini si erano piazzati vicino alla fonte più facilmente raggiungibile. “Eravamo bersagliati dalle bombe e la casa tremava. Mia madre mi diceva che non ricordava nulla di simile dalla seconda guerra mondiale”. 

Nata nel 1930, Vanda era una bambina di 10 anni quando nell’ottobre del 1941 i nazisti occuparono Mariupol e iniziarono a rastrellare e deportare gli ebrei. Quando le SS arrivarono a casa sua, uccisero sua madre Mindel. Lei, nascosta nella cantina di casa, non riusciva a parlare per la paura: “Quel silenzio la salvò”, spiega Larissa. Il padre di Vanda non era ebreo: convinse i tedeschi che la bimba fosse greca e la portò in un ospedale, dove rimase fino alla liberazione della città nel 1943. Vanda si sposò nel 1954, quando Mariupol era stata ribattezzata dai sovietici Zhdanov. 

Vanda amava la sua città, che non aveva mai voluto lasciare, neanche con la guerra. Ed è lì che la figlia ha voluto almeno darle una degna sepoltura, sfidando i bombardamenti insieme al marito. Ora sua madre riposa in un parco pubblico, non lontano dal mare d’Azov.

“Mariupol è un cimitero”

La testimonianza di Larissa descrive l’inferno e l’orrore della guerra in Ucraina, dove i civili continuano a morire. Lei, che ora è lontana dalle sue atrocità, dice che non tornerà a Mariupol. “Non c’è più una città, non ci sono case, non c’è nulla. È tutto perso, perché  ritornare?” afferma.

Mariupol è una città fantasma, completamente distrutta dai russi. Come sottolinea il rabbino Mendel Cohen, ormai è “un immenso cimitero”. Mariangela Celiberti

Letizia Tortello per “la Stampa” il 14 Giugno 2022.

Indossava un pile arancione e una giacca a vento blu. Faceva molto freddo, nel bosco di Merozke, appena fuori Bucha, quando i russi l'hanno giustiziato, dopo averlo torturato. Era un civile e aveva quarant' anni.

Gli hanno sparato alle ginocchia e alle tempie. Il suo nome, al momento, non lo sa nessuno. È uno dei sette ucraini, tutti uomini, che la polizia ha riesumato ieri in una fossa comune nella foresta dell'orrore lasciato indietro da Mosca, dopo la ritirata da Kiev. Molti di loro hanno le mani legate con lo scotch, alcuni pecette sugli occhi.

L'uomo col pile arancione è riverso sulla terra con le braccia allargate, come in croce.

Il suo corpo è in fase avanzata di decomposizione, l'odore di carne putrefatta invade la scena. Tutto intorno, il suolo della foresta è un campo minato, chi si muove rischia di saltare. 

«Seguite la strada e non fate nemmeno un metro in più. Chi viola le indicazioni, mette in pericolo tutti e verrà espulso», spiega con decisione il capo delle forze dell'ordine della regione, Andrii Nebytov. Si entra nella selva, a destra e sinistra i segni delle postazioni dei carri armati di Mosca, enormi buchi scavati nel terreno, si alternano alle trincee e ai nascondigli dei soldati, che ancora oggi, a due mesi di distanza, mostrano la vita del nemico al fronte: bacinelle, confezioni di cibo in scatola abbandonate, scatole grigie con scritto «Voentorg», il kit del cibo che spetta ad ogni combattente dell'esercito di Putin. La via è diritta, tracciata. Un tempo era un sentiero da trekking. 

A meno di trecento metri dall'ingresso, si apre il baratro della disumanità. E viene mostrato, non c'è nulla da nascondere per Kiev: «Continuiamo a scoprire cadaveri da due mesi, e non abbiamo di certo finito purtroppo - spiega ancora Nebytov -. Queste persone non erano soldati, non sono morti sotto i bombardamenti ai palazzi, sono stati catturati, interrogati per estorcere informazioni, sotto vittime di violenza, sono stati uccisi col fucile, la pistola, la mitragliatrice. Che nessuno dica che i russi sono venuti per una buona missione, perché sono venuti qui per uccidere e catturare la gente, per devastare».

Sono 1316 i corpi senza vita ritrovati nel territorio di Kiev finora, 1137 solo a Bucha. Di questi, 700 sono morti sotto i colpi di arma da fuoco, 213 non sono ancora stati identificati, mentre restano 322 persone di cui i parenti hanno denunciato la scomparsa, quattro sono bambini: finora, non risultano in nessuna lista dei deceduti, non si sa che fine abbiano fatto, «potrebbero essere stati rapiti o seppelliti sommariamente come questi trovati oggi».

Attorno alle nuove fosse di Bucha, due in quella porzione di territorio scoperta ieri, il lavoro dei necrofori, quattro addetti delle pompe funebri e sette poliziotti, va avanti dal mattino fino a dopo pranzo. Dalla voragine vengono fuori uno ad uno i cadaveri. Li tirano su con una corda legata ad un piede, sono irriconoscibili. Il personale fotografa, annota, mette un numerino giallo vicino al corpo. 

Poi, i cadaveri vengono avvolti in sacchi bianchi, caricati su un camion e trasportati nell'obitorio per l'autopsia: «Sono stati probabilmente uccisi a marzo, lo si capisce dal tipo di vestiti», spiega la polizia. Igor Sereda, direttore dei servizi funerari, dopo aver scavato si avvicina ai giornalisti: «All'inizio trovavamo civili in ogni luogo, nelle case, nei giardini, nei parcheggi - racconta -. Ora stiamo battendo i boschi, quando possiamo li seppelliamo. Una volta abbiamo rinvenuto anche un soldato russo, l'abbiamo riconosciuto dalla divisa».

Il capo della polizia della regione di Kiev rivela che sono cento i processi aperti a carico dei russi che hanno commesso crimini di guerra in tutto il Paese: «Li porteremo alla Corte penale internazionale», dichiara Nebytov. Tredici solo nell'Oblast della capitale. Mentre Amnesty International ieri ha accusato le truppe di Mosca di aver commesso crimini di guerra a Kharkiv, uccidendo centinaia di civili da marzo al 28 aprile, con l'uso delle bombe a grappolo. Un cimitero senza fine, dal Nord all'Est, al Sud dell'Ucraina.

Guerra in Ucraina: gli orrori di Motyzhyn, il villaggio delle torture. A pochi chilometri da Kiev i russi hanno seviziato un intero paese. Il racconto di un superstite. E i documenti esclusivi sul coinvolgimento dei mercenari filonazisti del gruppo Wagner. Lorenzo Tondo su La Repubblica il 13 giugno 2022.

Il 29 febbraio scorso, un comandante di plotone russo e la sua unità arrivarono a Motyzhyn, piccolo villaggio rurale di mille anime, appena a sud dell’autostrada che porta a ovest di Kiev. L’uomo ordinò ai soldati di scavare un rifugio per le truppe, nascondere l’artiglieria nei boschi e allestire un campo di torture. Il suo nome è Oleg Krikunov, meglio conosciuto come Kaluga, uno dei criminali russi più ricercati dall’inizio dell’invasione in Ucraina. A inizio maggio, Krikunov e i suoi uomini sono entrati a far parte di un elenco di decine di militari a cui le autorità ucraine danno la caccia per consegnarli alla giustizia e processarli.

Mentre i loro comandanti vantano missioni in Africa e Medio Oriente, molti altri ricercati sono giovani reclute alla prima esperienza, soldati semplici nati e cresciuti nelle aree più povere della Russia. Sono accusati di stupri e esecuzioni sommarie che compongono l’elenco contenuto nel file spedito dagli investigatori ucraini ai procuratori dell’Aja che lo scorso marzo hanno aperto un procedimento per crimini di guerra contro il presidente russo Vladimir Putin. Dal fascicolo, ottenuto da L’Espresso, emergono i dettagli raccapriccianti di centinaia di torture e violenze sistematiche messe in atto dai battaglioni russi nei confronti della popolazione civile, spesso con l’unico obiettivo di terrorizzarla, sfogando le frustrazioni per un conflitto che non andava secondo i piani di Mosca.

Quando Kaluga e i suoi uomini giungono a Motyzhyn, fanno irruzione in un centro di riabilitazione per ex tossicodipendenti. All’interno vivono una decina di ospiti e sono tutti disarmati. L’obiettivo del plotone è quello di strappare qualsiasi informazione utile sulle posizioni militari ucraine nella regione, dopo che il comandante della difesa territoriale del villaggio se l’è data a gambe levate ai primi colpi di artiglieria. Oleh Bondarenko, che da 10 anni gestisce la struttura per ex eroinomani, si fa avanti per interloquire con i soldati. Bondarenko conosce il Vangelo a memoria ed è in grado di recitare numerosi passi della Bibbia, ma non sa nulla di come funzioni una guerra. E soprattutto, non ha la più pallida idea di dove siano nascosti i soldati ucraini. L’uomo prova a spiegarsi, ma è tutto inutile, perché Kaluga ha già deciso. Prima fa crivellare il centro di pallottole. Poi ordina ai suoi uomini di rompere i denti a Bondarenko, bendarlo, legarlo ad un quad e trasferirlo nel campo di torture appena allestito in un vecchio casolare distante alcune centinaia di metri.

Una volta arrivati, Bondarenko viene trascinato nella sua “cella”, un grosso tubo di cemento affondato nel terreno per fungere da cisterna d’acqua, troppo piccolo per stare in piedi, e non abbastanza largo per sedersi. Da lì, per due settimane, uscirà solo per assistere alle inumane torture inflitte a decine di abitanti.

«Quel giorno entrai nel Russkiy Mir, il “Mondo Russo’’», dice Bondarenko: «Le torture erano sistematiche. I civili venivano sottoposti allo stesso sadico rituale. Prima gli spezzavano braccia e gambe. Poi, con l’avvicinarsi della morte, sparavano alle mani o alle ginocchia per causare il massimo dolore. Infine venivano fatti fuori con un colpo di pistola allo stomaco e uno alla nuca. Potevo sentirli urlare dal dolore mentre li torturavano, anche per un’ora e mezza e ho pregato che gli togliessero la vita il più velocemente possibile».

Stessa crudele routine Kaluga ha ordinato per Olga Petrivna, l’amata rappresentante del Consiglio del villaggio. Dopo la fuga del responsabile per la difesa territoriale, Olga aveva scelto di restare insieme al figlio e al marito e coordinare gli aiuti e la difesa della cittadina. Una scelta che tutti hanno pagato con la vita. I loro corpi, seppelliti con gli altri nelle fosse comuni. Oggi, un grande cartellone con una loro foto campeggia all’ingresso del villaggio dall’autostrada. C’è scritto: «Eterno rispetto dalla gente di Motyzhyn».

Non si tratta di orrori gratuiti. Per i procuratori ucraini, quanto accaduto è opera di un plotone di professionisti del martirio addestrato nei campi della Siberia, esercitatosi già in uno dei fronti più caldi del pianeta, a più di duemila chilometri da Motyzhyn. «I più crudeli erano tre soldati che gongolavano del loro trasferimento in Ucraina dal Medio Oriente», racconta Bondarenko: «Dicevano che dopo la Siria, per loro l’Ucraina era una passeggiata».

Molti soldati russi dislocati in Ucraina, provengono dalla guerra civile in Siria, a cui Mosca si è unita nel 2015 per sostenere il presidente Bashar al-Assad. E alcuni fanno parte del gruppo Wagner, la compagnia militare privata di mercenari filonazisti che ha operato in Medio Oriente e che sarebbe alle dirette dipendenze di Putin.

I tre di cui parla Bondarenko hanno un nome, un cognome e persino un volto. Uno è Sergey Vladimirovich Sazanov, 51 anni, nato a Rechitsa, in Bielorussia, ed è uno dei 300 mercenari Wagner che hanno partecipato all’offensiva del febbraio 2018 nella provincia siriana di Deir ez-Zor. L’altro, Alexander Alexandrovich Stupnitsky, 32 anni, di Orsha, in Bielorussia, è stato identificato come ufficiale di collegamento per il plotone d’assalto della prima compagnia di ricognizione del Gruppo Wagner. Il terzo è Sergey Sergeevich, 33 anni, è nato a Kaliningrad, in Russia ed è uno degli autisti dei veicoli militari della compagnia.

Denis Korotkov, giornalista russo ed esperto del gruppo Wagner, ha confermato a L’Espresso che i primi due avevano precedentemente lavorato per il gruppo di mercenari. «Sazonov e Stupnitsky sono nei miei file», ha detto.  Ad oggi i responsabili del massacro di Motyzhyn sono a piede libero, anche se gli investigatori non escludono che alcuni possano essere stati uccisi sui fronti del Donbass.

Le autorità ucraine, al momento, hanno identificato oltre 5.000 soldati russi che hanno operato nella regione di Kiev. Centinaia sono sotto inchiesta e decine quelli per i quali è stato già emesso un mandato di cattura internazionale.

Nella lista, anche i nomi dei membri della 64esima brigata russa di fucilieri motorizzati, ritenuta responsabile dei massacri nel villaggio di Bucha, a nord di Kiev, dove sono stati ritrovati i corpi di centinaia di civili nelle fosse comuni. Uno di questi è Kolotsei Sergey Aleksandrovich, ed è accusato di «avere ucciso almeno 4 civili disarmati». Secondo i pubblici ministeri, nel marzo 2022, mentre si trovava nella città di Bucha, Aleksandrovich avrebbe legato e torturato decine di abitanti e avrebbe costretto un’altra vittima a confessare le attività della resistenza ucraina dopo averla obbligata, scrivono i procuratori, ad «annusare il cadavere di un altro uomo».

Almeno due della lista sono accusati di stupro. Uno è Fassakhov Bulat Lenarovich, 20 anni, operatore radio della divisione di artiglieria della 30esima brigata. Il 12 marzo, alle 19, mentre si trovava nel villaggio di Bobryk, nel distretto di Brovary, Fassakhov è entrato nella casa dove viveva una giovane donna con la sua famiglia. E lì, «con l’uso della violenza fisica», prima avrebbe costretto la ragazza a spogliarsi e poi l’avrebbe violentata. In gruppo, poi, avrebbe ripetuto la violenza su un’altra donna di Bobryk. Il 9 marzo, nel villaggio occupato di Bogdanivka, un altro soldato russo, di nome Romanov Mikhail Sergeevich, membro della fanteria motorizzata, avrebbe «premeditato l’omicidio di un residente locale e lo stupro di sua moglie».

Per acciuffarli, il ministero della Difesa ucraino ha autorizzato la procura a supervisionare tutti gli scambi tra prigionieri di guerra russi e ucraini. Solo i prigionieri russi che non sono sospettati di crimini potranno lasciare il Paese. Una precauzione necessaria. Si sa che Vadim Shishimarin, il giovane soldato condannato all’ergastolo lo scorso 23 maggio dai giudici della corte penale di Kiev, perché ritenuto colpevole di aver ucciso un civile disarmato nella città di Sumy, non ha agito da solo. E chi gli diede l’ordine è in Russia, grazie allo scambio di prigionieri.

Il testimone dell’orrore di Motyzhyn, Bondarenko, ha ancora il corpo ricoperto di cicatrici e un trauma alla colonna vertebrale che potrebbe essere permanente. Collabora con le autorità ucraine. Ma se è ancora in vita lo deve a due russi, due reclute a cui l’aguzzino Kaluga aveva assegnato il compito di cucinare per la truppa. «Mi hanno sfamato e dissetato di nascosto», racconta: «Poi, quando l’artiglieria ucraina si è avvicinata per riprendere Motyzhyn, mi hanno chiesto di nascondermi e di attendere almeno due ore prima di uscire. Prima di andarsene, mi hanno chiesto di pregare per loro. E l’ho fatto», aggiunge, con gli occhi inumiditi dalle lacrime. «Ho pregato e continuo a farlo ogni giorno. Spero siano ancora vivi. Loro non hanno mai voluto prendere parte a questa guerra».

Oggi, attorno al campo di torture di Kaluga, si trovano ancora indumenti e oggetti abbandonati dai soldati russi prima della ritirata. Tra scarpe, magliette e scatole di munizioni, spicca la copertina di un libro in russo. Si intitola “Racconti e Fiabe” e giace a poche decine di metri dalla fossa comune in cui sono stati seppelliti i corpi di Olga Petrivna e della sua famiglia. Metafora perfetta di questa guerra: le favole che un Paese invasore racconta alla sua gente per coprire gli orrori delle proprie truppe, a una manciata di chilometri dal confine.

Dai generali ai mercenari. La lista dei 607 criminali russi. Kiev: "Sono i nostri carnefici". Andrea Cuomo il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

On line il sito ucraino che raccoglie informazioni sui militari di Mosca accusati di atrocità in guerra. Il primo dell'elenco è il comandante Dvornikov. "Li troveremo e li puniremo".

Il catalogo è questo. Crimini e criminali. Tutti schedati nel «Libro dei carnefici del popolo ucraino», un elenco ragionato e documentato dei misfatti compiuti dall'esercito russo in Ucraina. Una lista nera in formato digitale, un Facebbok dell'orrore che raccoglie il curriculum di centinaia di militari russi, per lo più ufficiali e alti ufficiali (ma ci sono anche dei civili), vivi e talvolta morti, di cui viene mostrato il nome, la foto e il curriculum criminale. Dalla D di Aleksander Vladimirovich Dvornikov, il 60enne «macellaio siriano» che ha guidato l'esercito russo in Ucraina fino alla rimozione di qualche settimana fa fino alla Z di Gennadiy Valerievich Zhydko, 56enne colonnello generale, che lo ha sostituito. Il sito, in una lugubre e icastica veste nera, fornisce di ciascuno luogo e data di nascita, numero di matricola, in qualche caso l'indirizzo di casa, in altri il numero di passaporto, a volte addirittura quello di telefono. Chi volesse contattare il signor Oleg Vladimorivich Makovetskiy, maggiore generale nato il 6 ottobre 1966 a Chuguev (in Ucraina) e residente in Gertovskaya Street al numero 13A, nel villaggio di Shushary, nei pressi di San Pietroburgo, non ha che da digitare sul proprio cellulare il 79251234121 (il 7 è il prefisso internazionale russo, per conoscenza).

In molti casi il crimine attribuito al singolo militare russo è generico, riconducibile all'alto grado che configura una sorta di complicità morale nella gestione e addirittura nella decisione stessa dell'invasione dell'Ucraina. In altri casi invece il database individua un episodio specifico. Del maggiore generale Aleksey Yurievich Dombrovskiy si racconta che «ignorando i principi e i requisiti di sicurezza riconosciuti a livello internazionale, nonché gli obblighi internazionali della Russia stessa» ha guidato «nella notte del 4 marzo 2022 un sequestro armato del sito industriale di Zaporizhzhia NPP (con 6 unità nucleari) e lo stoccaggio in loco di combustibile nucleare esaurito» provocando «rischi di sicurezza nucleare e delle radiazioni senza precedenti non solo per l'Ucraina, ma per il mondo intero». Del sergente Vadym Yevgenievich Shishimarin si spiega che il 28 febbraio avrebbe «ucciso un abitante pacifico e disarmato del villaggio di Chupakhivka, nell'oblast di Sumy» ed è stato fatto prigioniero, processato e condannato all'ergastolo.

L'elenco telefonico dei carnefici è lunghissimo e comprende 607 nomi. Il «book of executioners» ricorda che sono almeno 1.700 i crimini di guerra russi su cui sta investigando la Procura generale ucraina, che comprendono uccisioni di civili, distruzione di edifici residenziali, saccheggi, violenze, abusi. Di molti la pagina fornisce documentazione fotografica. Inoltre «il libro dei carnefici» invita anche gli eventuali testimoni di crimini di guerra a segnalarli all'indirizzo witness@russian-torturers.com.

Anche la Germania vuole perseguire i criminali di guerra russi. L'Ufficio federale della polizia criminale tedesca (Bka) sta conducendo indagini su centinaia di esecutori materiali e mandanti militari e politici. «Questa è la parte più difficile della nostra indagine, un complesso lavoro di puzzle», spiega il presidente della Bka Holger Münch. La Germania si avvale del principio di giustizia universale, che consente di perseguire taluni crimini a prescindere dal luogo in cui sono stati commessi.

L’INCHIESTA DEL NEW YORK TIMES. Guerra in Ucraina, quali sono le armi proibite usate dalla Russia. Il Domani il 20 giugno 2022

Un’inchiesta del New York Times ha raccolto centinaia di prove dell’utilizzo di munizioni vietate dai trattati internazionali o il cui utilizzo potrebbe costituire un crimine di guerra: dalle munizini a grappolo alle mine antiuomo

Nella sua guerra di invasione, la Russia ha impiegato decine di armi e munizioni vietate dai trattati internazionali o che, se usate in modo indiscriminato in presenza di civili, possono costituire crimini di guerra: dalle bombe a grappolo alle mine antiuomo, passando per gli ordigni incendiari. Per quattro mesi, il New York Times ha raccolto prove e indizi dell’utilizzo di queste armi.

Le più diffuse sono le munizioni non guidate: razzi e proiettili di artiglieria la cui traiettoria non può essere modificata una volta lanciate. Si tratta delle armi più utilizzate dalle forze armate russe, spesso in modo indiscriminato e contro aree abitate da civili.

L’utilizzo di queste armi può costituire un crimine di guerra se non vengono prese sufficienti cautele per evitare di arrecare danni alla popolazione. La Russia ha fatto ampio uso di questo tipo di munizioni per colpire le posizioni dell’esercito ucraino, ma anche per bombardare le città sulla linea del fronte, come Kharkiv e Mariupol. 

Ma il New York Times ha raccolto anche numerose prove dell’utilizzo di altre armi, il cui utilizzo è in alcuni casi esplicitamente vietato dalle convenzioni internazionali.

MUNIZIONI A GRAPPOLO

Le munizioni a grappolo, a volte indicate come “bombe a grappolo”, sono la più nota tra le armi vietate da trattati internazionali che vengono tuttora regolarmente utilizzate dagli eserciti. Il New York Times ha identificato 60 episodi in cui l’esercito russo avrebbe utilizzato questo tipo di munizione e 30 in cui munizioni a grappolo sono state rinvenute presso edifici civili.

Le munizioni a grappolo possono presentarsi sotto forma di razzi, missili, bombe o proiettili di artiglieria. Sono composte da un involucro esterno e da un contenitore che può ospitare decine di submunizioni, piccole bombe che possono essere non più grandi di un pugno. Quando il proiettile si avvicina al bersaglio, il contenitore si apre, disperdendo le submunizioni su una vasta area.

In questo modo, le munizioni a grappolo sono più efficienti di quelle convenzionali di pari peso. Invece di concentrare un’unica grande esplosione in uno spazio ridotto, le submunizioni consentono di suddividerla in numerose esplosioni, meno potenti, ma distribuite su un’area più vasta.

UN’ARMA INDISCRIMINATA

Per questa ragione, le bombe a grappolo sono considerate un’arma “indiscriminata”, difficile da indirizzare soltanto contro bersagli militari. Inoltre, fino al 20 per cento delle submunizioni rilasciate può arrivare a terra senza esplodere, restando pericolosa anche per anni.

Per questa ragione nel 2010 è entrata in vigore la Convenzione sulle munizioni a grappolo, che ne vieta la produzione e l’utilizzo. Centodieci paesi hanno firmato la convenzione, a cui però non partecipano né Russia né Ucraina. Nemmeno gli Stati Uniti hanno firmato il trattato, ma hanno volontariamente eliminato la gran parte delle munizioni a grappolo dal loro arsenale.

In passato, anche gli ucraini hanno utilizzato munizioni a grappolo, ma nell’attuale conflitto il New York Times ha identificato un solo caso in cui può essere dimostrato l’utilizzo di questo tipo di arma da parte delle forze armate ucraine.

TRAPPOLE E MINE

Il New York Times ha individuato diversi casi in cui l’esercito russo ha utilizzato mine e trappole esplosive. Vicino a Kiev, il quotidiano ha individuato una trappola esplosiva formata da una bomba a meno innescata nascosta in un bicchiere di carta.

Questa trappola potrebbe costituire una violazione della Convenzione su certe armi convenzionali, che proibisce di mascherare trappole sotto forma di oggetto di uso quotidiano che potrebbero essere manipolati da civili.

Un’altra arma identificata è la mina antiuomo Pom-3, un dispositivo molto avanzato, dotato di sensore di movimento che scatta quando una persona si trova nei pressi. A quel punto, una prima carica di esplosivo proietta la mina a circa un metro e mezzo di altezza, dove la detonazione di una seconda carica distribuisce tutto intorno schegge letali fino a una distanza di circa 30 metri.

Le mine antiuomo sono vietate da un trattato del 1997 firmato da 164 nazioni, tra cui l’Ucraina, ma in cui non compaiono né la Russia né gli Stati Uniti.

INCENDIARI E FRECCETTE

Infine, il New York Times si occupa di due tipi di munizioni non esplicitamente vietate dai trattati internazionali, ma il cui uso indiscriminato costituisce un potenziale crimine di guerra. 

Si tratta delle munizioni incendiarie, il cui uso è esplicitamente proibito nei pressi di insediamenti civili, visto che per loro natura sono armi “indiscriminate”, cioè i cui danni non possono essere con sicurezza limitati a obiettivi militari.

Il quotidiano ha identificato almeno un caso in cui questo tipo di munizioni è stato utilizzato nel sud est dell’Ucraina. Si tratta di munizioni incendiarie alla termite, un materiale che brucia ad altissime temperature e che viene distribuito da proiettili che si aprono in volo in modo non troppo diverso dalle bombe a grappolo.

Infine, a Kiev, sono state identificate tracce dell’uso di “flechette”, o “freccette”. Si tratta di normali proiettili per cannone, in genere in dotazione ai carri armati, riempiti non di esplosivo convenzionale, ma di piccole freccette di metallo. Queste munizioni sono in genere utilizzate in ruolo anti-fanteria per via della loro capacità di saturare una vasta area.

Secondo alcuni, questo tipo di munizioni potrebbe causare una «inutile sofferenza» e quindi il loro utilizzo potrebbe essere classificato come crimine di guerra. Stati Uniti e Israele in passato hanno utilizzato “flechette” durante i combattimenti in aree urbane.

Cancellare gli errori con gli orrori. Augusto Minzolini il 20 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'ultimo dei suoi errori (e orrori) è stato, a sentire i testimoni in loco, il bombardamento delle acciaierie di Azovstal dove si sono rintanati gli ultimi difensori di Mariupol.

L'ultimo dei suoi errori (e orrori) è stato, a sentire i testimoni in loco, il bombardamento delle acciaierie di Azovstal dove si sono rintanati gli ultimi difensori di Mariupol. Putin non si è fatto problemi della presenza di civili in quei cunicoli e ha dato l'ordine di utilizzare ordigni ad alto potenziale esplosivo. L'altro ieri, invece, ha concesso un'alta onorificenza militare alla brigata sospettata dei crimini a Bucha. Nel frattempo ricompaiono le statue di Lenin nelle cittadine occupate dai russi, mentre spariscono dalla circolazione quei generali della fu Armata Rossa che nutrono dubbi sulla strategia dello Zar. E se tanto mi dà tanto, pure la governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, sempre più pessimista sul futuro dell'economia russa, rischia l'oblio.

Putin sbaglia e rilancia. È vittima dei suoi errori. Era partito con l'idea di eliminare Zelensky: obiettivo fallito. Di occupare mezza Ucraina, quella ad Est del Dnepr: obiettivo fallito. Ha ripiegato sul traguardo più modesto di annettersi la Crimea e di occupare tutto il Donbass, che se magari avesse chiesto all'inizio del conflitto avrebbe pure spuntato. E invece ora, in questo strano gioco al rialzo da pokerista suonato, deve dimostrare che l'esercito russo non è quell'apparato arrugginito e vetusto che si è visto nella prima parte del conflitto. Che l'autorevolezza del Cremlino, quella che gli Stati Uniti grazie a lui hanno l'occasione di demolire, non è venuta meno. Che il suo trono non vacilla. Cioè deve riconquistare ciò che aveva. Ultimo paradosso: lo Zar incuteva timore a Zelensky, mentre ora è l'ex comico, trasformato da Putin in un mezzo Churchill, ad incalzarlo, ad accarezzare il sogno di ricacciare i russi fuori dall'Ucraina. Prima o poi anche nella mente dello Zar dovrà insinuarsi il dubbio: ma ne valeva la pena? Anzi, probabilmente quel dilemma già lo attanaglia. Solo che ormai è schiavo della sua strategia e dei suoi errori. E, come il cane che si morde la coda, non riesce ad invertire la spirale negativa.

La sua filosofia, infatti, lo obbliga ad un gioco spietato: per risalire la china, per tornare ad incutere paura, deve far dimenticare gli errori con gli orrori. Che si moltiplicano. Bombardamenti sempre più spietati. La popolazione civile che diventa sempre più bersaglio di possibili rappresaglie e di deportazioni. Offensive scenografiche che interessano un fronte di battaglia lungo 480 chilometri. Putin per vincere, per tornare ad essere lo Zar, deve dimostrare di essere il più cattivo. Una pessima china. Anche perché cambia il mondo in negativo. Lo riporta a settant'anni fa. Con l'aggravante che questa follia si è innestata sulla coda di una pandemia che ha provocato conseguenze tragiche sul piano sociale ed economico a livello globale. Per cui nulla sarà più come prima. Sarà molto peggio. E assumendosi questa responsabilità lo Zar, più o meno consapevolmente, si è già prenotato un posto sul banco degli imputati della Storia. Quello non lusinghiero, per usare l'espressione che più ricorre nei discorsi dei leader occidentali, del «criminale di guerra».

La foto agghiacciante dal satellite: 9mila corpi sepolti nella fossa comune di Mariupol a Manhush. Il Tempo il 21 aprile 2022.

Secondo il Consiglio Comunale di Mariupol potrebbero esserci fino a 9mila corpi sepolti in una fossa comune a Manhush, villaggio a circa 20 km da Mariupol. Le stime, riportate dal Kyiv Independent, sarebbero state calcolate e confermate dalle immagini satellitari pubblicate da Maxar e riprese anche dal Washington Post.

Gli scatti suggerirebbero che lì potrebbero essere sepolte tra le 3mila e le 9mila persone. In totale, secondo le stime preliminari, sarebbero 22mila i cittadini di Mariupol uccisi nel corso della guerra. 

Torture, stupri e prigionieri usati come schiavi: in Ucraina ora si raccolgono prove sui crimini delle truppe di Putin. Medici legali e periti balistici giunti da tutta Europa eseguono autopsie, elevano campioni di Dna e bossoli fra le macerie. Per ricostruire con precisione quello che è accaduto, avviare le indagini e fornire risposte ai parenti delle vittime. Lorenzo Tondo da Borodyanka e Bucha su La Repubblica il 22 aprile 2022.  

Borodyanka viene occupata dalle truppe russe pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione. Come tutte le città dell’area periferica di Kiev, la sua conquista rientra nella strategia di accerchiamento della capitale messa in atto dal Cremlino. I soldati che avanzano con i carri armati radono al suolo tutto ciò che ostacola il loro cammino. Le auto schiacciate dai cingolati diventano carcasse, i colpi di cannone sventrano le abitazioni, le mitragliatrici sparano ad altezza d’uomo, granate aprono crateri sulle strade.

“Sterminiamo tutta la popolazione”. L'intercettazione choc e la denuncia dell'Ucraina: “Crimini di guerra”. Il Tempo il 21 aprile 2022.

I servizi segreti ucraini hanno intercettato conversazioni tra i russi sull’ordine ricevuto di sterminare la popolazione di Pow, nel distretto Popasna, della regione del Luhansk. «La direzione principale dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino ha ricevuto un’intercettazione audio della conversazione degli occupanti, che si riferisce all’ordine di uccidere tutti i prigionieri di guerra nel distretto di Popasna», il testo integrale del dispaccio dell’Intelligence di Kiev. «Questo è un vero e proprio crimine di guerra - si legge ancora nella nota - una violazione del diritto internazionale e un altro esempio lampante del fatto che l’esercito russo è composto da assassini, stupratori e saccheggiatori e non da militari. Ancora una volta, avvertiamo che i crimini di guerra non hanno termini di prescrizione e garantiamo che tutti i criminali di guerra saranno consegnati alla giustizia». Inoltre l’intelligence della Difesa Ucraina su Facebook ha fatto sapere che «i russi isolano completamente gli insediamenti occupati e i volontari che cercano di consegnare aiuti sono stati fucilati». 

Emerge poi che il leader ceceno Ramzan Kadyrov è stato incaricato personalmente dal presidente russo Vladimir Putin in un incontro lo scorso 3 febbraio di assassinare il presidente ucraino Volodymr Zelensky. A dichiararlo è Aleksey Danilov, segretario del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina. «Durante l’incontro Kadyrov si è assunto l’impegno a nome dei suoi uomini», spiega Danilov, aggiungendo che l’intelligence ucraina ha «monitorato e neutralizzato i gruppi nemici».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 10 maggio 2022.

Un soldato dell’11° Corpo dell’armata russa è stato intercettato dall’intelligence ucraina mentre raccontava alla madre i metodi di tortura utilizzati sui soldati nemici. Dopo i convenevoli, Konstantin Solovyo – questo il nome del militare – inizia a descrivere alla madre Tatiana la varietà dei metodi, atroci, utilizzati dall’Fsb, il servizio di sicurezza russo. 

Tra questi, c’è quello delle “21 rose” - si strappa al prigioniero la pelle alle dita delle mani, dei piedi e del pene come se fossero petali di un fiore - e il metodo del “barile” – con l’aiuto di un tubo si introduce del filo spinato nell’ano della vittima, e poi lo si tira via lentamente. 

Solovyov, la cui unità, secondo il Ministero della Difesa ucraino, è dispiegata vicino al fronte orientale di Kharkiv, ha anche spiegato come lui e i suoi colleghi dell'FSB hanno picchiato a morte un vecchio perché scoperto a scattare foto alle posizioni delle truppe russe e ha raccontato con entusiasmo le conversazioni che ha condiviso con un prigioniero a cui aveva rotto le gambe per impedirgli di scappare.

Quando poi la domanda gli domanda se gli piace prendere parte alla tortura, il soldato risponde: «Mi piace... non lo so». E lei: «Te l'ho sempre detto che, in linea di principio, mi trattengo. Se fossi finita lì mi sarei divertita anche io. Siamo uguali». 

Solovyov ha anche affermato di non provare neanche «un pizzico di rimpianto» per i suoi crimini, sostenendo che le forze ucraine avrebbero fatto lo stesso nella sua posizione e che alcuni dei prigionieri non si sono arresi ai loro torturatori. Poi ha aggiunto: «Non provo nemmeno più rimorsi. Dopo più di 20 [omicidi], ho smesso di provare qualcosa». 

Tatiana sembra offrire il suo pieno sostegno ai crimini di guerra del figlio, rivolgendo numerose imprecazioni ai civili ucraini che hanno resistito agli abusi russi prima di scherzare sul fatto che suo figlio ha rotto le dita di un uomo «quindi non può indicare o pizzicarsi il naso».

Il Ministero della Difesa ucraino ha pubblicato un collegamento ai profili sui social media della coppia insieme all'audio inedito della loro chiamata: i profili sono stati poi cancellati. Si dice che Solovyov abbia solo 20 anni, (dovrebbe essere nato nel 2002), mentre sua madre ha 50 anni. 

La conversazione, inizialmente pubblicata dal Ministero della Difesa ucraino il 3 maggio, è una delle tante in cui i soldati russi hanno ammesso di aver commesso gravi crimini di guerra sul suolo ucraino. I rapporti di stupri, torture e violenze brutali perpetrate sui civili hanno iniziato a diffondersi dall'Ucraina dopo che le autorità hanno scoperto gli orrori commessi nelle città a nord di Kiev come Bucha, Irpin e Borodyanka.

I sopravvissuti che hanno assistito alla tragedia nelle loro comunità prima che i russi si ritirassero per concentrare il loro assalto nell'est dell'Ucraina hanno raccontato di come i loro connazionali siano stati trattati con ferocia dagli invasori. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha condannato l'esercito russo come «il più barbaro e disumano del mondo» alla luce di questi resoconti e ha affermato che la Russia sarà macchiata «come fonte di male assoluto per generazioni».

“È un genocidio storico”, anche la cultura ucraina vittima di bombe e razzi. Paolo Brera su La Repubblica il 10 maggio 2022.

C'era questa piccola meraviglia bucolica, le pareti bianchissime, il verde dei prati sempre ben rasati, l'enorme campana sull'impalcatura nel cortile. Tutto distrutto. Per la seconda volta in due mesi, il monastero di San Giorgio della Santa Dominazione a Svyatogorsk, nel cuore del Donbass ucraino, è finito sotto le bombe russe, e stavolta è andata peggio.

Non ci sono solo esecuzioni e stupri, la sistematica distruzione di infrastrutture civili e di intere città nel conto dei crimini di guerra imputati ai russi: in due mesi e mezzo di "operazione speciale", secondo il ministero della Cultura ucraino sono stati registrati più di trecento crimini contro il patrimonio d'arte e architettura.

Dal furto dell'oro di Scizia del museo di Melitopol alla distruzione del museo del filosofo ucraino Grigory Skovoroda, fino al "centinaio di strutture religiose distrutte o danneggiate", fa i conti il ministro Oleksandr Tkachenko. È un affronto alla storia e alle radici ucraine che la direttrice del Dipartimento di Kharkiv dell'Istituto di memoria nazionale, Maria Takhtaulova, ha definito "genocidio culturale". Non è un effetto collaterale della guerra, un'inevitabile corollario di un'invasione in armi: è "bruciare un campo culturale per sostituirlo con il proprio".

A Svyatogorsk, gran parte della chiesa centrale è ormai un cumulo di macerie. I soldati ucraini hanno girato un video di quel che resta della skete di San Giorgio, l'antica comunità monastica affacciata tra i boschi su un'ansa del fiume Donetsk. Lo definiscono "un attacco deliberato" anche se il monastero è legato al Patriarcato di Mosca. La struttura - menzionata per la prima volta nel 1526 - ha ricevuto lo status di Lavra, cioè di piccolo insediamento monastico ortodosso, nel 2004. È una sessantina di chilometri a nord di Kramatorsk, tra Izyum e Sloviansk: la battaglia è feroce, lì, ma sbagliare mira due volte con l'artiglieria e centrare un luogo sacro è ben sospetto. Di certo i russi non si fermano davanti al campanaccio di un edificio sacro del patriarcato di Mosca, se pensano di poter colpire le postazioni ucraine che ostacolano l'avanzata.

La comunità - con le sue chiese e le sue celle, con il piccolo nucleo della vita semi eremitica e i grandi edifici che ospitavano migliaia di pellegrini, una scuola pubblica e una scuola parrocchiale - con la guerra accoglieva profughi in fuga, ma ora è sulla linea di fuoco. Il monastero è stato centrato la prima volta il 12 marzo: ospitava mille rifugiati da Izyum. I russi lo hanno colpito di nuovo all'alba dell'8 maggio, giorno della memoria delle vittime del nazismo: stavolta la skete di San Giorgio, la chiesa tra le celle, è distrutta.

Il giorno prima gli artiglieri russi avevano sventrato il museo dedicato al filosofo ucraino Grigory Skovoroda a Skovorodinovka, nella regione di Kharkiv. Visse lì i suoi ultimi anni, è il paese in cui è sepolto. Il palazzo che lo ospitava era un gioiello del XVIII secolo: "L'esercito russo ha usato un missile per distruggere il museo: è barbarie", ha detto il presidente Zelensky. Secondo il Maidan Monitoring Information Center, più che barbarie è vendetta. Era stata appena votata la proposta di cambiare la toponomastica: via Pushkin sarebbe diventata via Skovoroda? Giù bombe. Lo stesso sarebbe successa il 17 aprile: il sindaco fece abbattere il monumento al maresciallo Zhukov, e i russi bombardarono pesante il centro.

Nella regione di Kharkiv, martirizzata da missili e artiglieria, secondo il ministero della Cultura il patrimonio ha subito 88 danneggiamenti, quasi un terzo dell'intera Ucraina. Il 14 marzo hanno demolito la casa del mercante Maslovsky, costruita nel 1911 dall'architetto Moses Meletinsky che negli anni Trenta costruì la metropolitana di Mosca. L'elenco è lungo: dalla Filarmonica al Museo d'arte, dalla Casa degli scrittori "Slovo" alla Cattedrale dell'Assunzione del XVII secolo e alla Sinagoga Corale; dalla Chiesa di Sant'Antonio a quella della Beata Regina Tamara.

Le bombe sono andate a cercare il museo dell'isola dei cosacchi di Khortytsia, a Zaporozhzhye: un luogo iconico per ogni ucraino. Ritirandosi da Trostyanets, i russi hanno bruciato la casa del gestore dei possedimenti Koenig, museo nazionale. Il museo delle tradizioni locali di Borodyanka è stato centrato da un attacco aereo come la chiesa antica a Volnovakha, nel Donbass. A Chernihiv non hanno risparmiato né la cattedrale della Trasfigurazione (XI secolo), né Santa Caterina (XVIII secolo), e neppure il Monastero dell'Assunzione di Elets (XI secolo).

Quel che non distruggono, lo rubano. Il caso più doloroso è il tesoro degli Sciti, i gioielli d'oro trafugati dal museo. Ma a marzo erano sparite le collezioni più preziose anche dai musei di Zaporozhzhye, e il consiglio comunale di Mariupol accusa i russi di avere rubato "più di duemila reperti" dai musei della città martire, tra cui "un rotolo unico della Torah scritto a mano" e "il Vangelo del 1811 realizzato dalla Stamperia veneziana per i greci di Mariupol". Peggio degli Unni.

Strumenti eccezionali. Per punire i crimini di Putin bisognerà riformare la giustizia internazionale. Pier Virgilio Dastoli su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Le violazioni del Cremlino richiedono il rafforzamento della missione e dei poteri della Cpi e un aggiornamento delle Nazioni Unite in modo da attribuirgli una funzione di polizia umanitaria e cioè di peace enforcement, per prevenire e reprimere le decine di conflitti che insanguinano il pianeta.

Nella Costituzione francese del 1789 fu scritto che l’essere umano nasce “libero e eguale” ma la storia dell’umanità ci ha insegnato che in molte parti del mondo gli esseri umani non sono nati e non nascono ancora liberi e eguali perché la schiavitù (la cui etimologia deriva dal latino medioevale slavus e cioè “prigioniero di guerra slavo”) ha caratterizzato tutti i continenti del pianeta per secoli.

Ancora oggi si calcola che quasi trenta milioni di persone siano ridotte in schiavitù: è stato affermato e praticato attraverso il genocidio non solo nei regimi autoritari ma anche nelle nascenti democrazie il principio delle razze superiori e delle razze inferiori (The dark side of democracy: explaining ethnic cleansing, Michael Mann, Cambridge 2005) e perché la privazione dei diritti essenziali (alla vita, all’integrità fisica, al divieto di trattamenti umani e degradanti, al divieto del lavoro forzato, alla libertà di pensiero, all’asilo e alla non discriminazione) si è purtroppo estesa in un numero crescente di Stati nel mondo.

Fra i diritti essenziali o meglio come fondamento dei diritti essenziali la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e il Patto delle Nazioni Unite dei diritti civili e politici del 1966 hanno posto nei rispettivi preamboli il principio della dignità umana.

Abbiamo dovuto attendere la Legge Fondamentale della Germania Federale del 23 maggio 1949 per leggere nel suo articolo 1 che «la dignità umana è intangibile» e che «è dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla». Una clausola generale che è stata ripresa quasi integralmente nell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che recita: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».

Fra gli orrendi crimini che l’armata russa su ordine di Vladimir Putin e dei suoi generali stanno compiendo e si preparano a perpetuare in Ucraina vi è il disprezzo della dignità umana su donne, minori e uomini, su tutta la popolazione civile oltre che sull’esercito ucraino e che potrebbe raggiungere il suo culmine se l’autocrate di Mosca decidesse di far sfilare i prigionieri ucraini umiliandoli come i sovietici fecero sfilare sulla Piazza Rossa nel 1945 i prigionieri del Terzo Reich.

La Russia si è così messa fuori dalla Carta delle Nazioni Unite e ha violato ripetutamente la Dichiarazione del 1948 e il Patto del 1966 mentre questo disprezzo è una causa inappellabile che giustifica l’azione – tutte le azioni – dell’Unione europea e dei suoi Stati membri contro le autorità russe e i loro complici pubblici e privati.

Si è discusso e si discute sugli strumenti giurisdizionali di cui dispone la comunità internazionale per agire contro le violazioni della Carta delle Nazioni Unite e delle sue convenzioni oltre che sulle sanzioni economiche e finanziarie, sull’embargo – che il Parlamento europeo ha chiesto che sia “totale” – all’export di petrolio, carbone, gas e combustibili nucleari dalla Russia e sugli aiuti economici, finanziari, alimentari, sanitari ma anche militari all’Ucraina.

Nonostante l’impegno del Procuratore della Corte Penale Internazionale (Cpi), con il sostegno di molti Stati e di organizzazioni non governative e con l’aiuto di Eurojust e di Europol, noi sappiamo che la Corte non può andare al di là della condanna dei crimini commessi, che alla condanna sarà molto difficile se non impossibile far seguire l’espiazione della pena da parte dei condannati come è invece avvenuto a Norimberga, in Giappone, in Israele per i crimini nazisti e come è avvenuto di fronte al Tribunale per la ex-Jugoslavia con la condanna dell’ex presidente della Serbia Slobodan Milosevic a cui si sono aggiunte novanta condanne per genocidio, di fronte al Tribunale per il Ruanda in cui sono stati condannati 61 criminali di guerra o di fronte alla Corte Penale Internazionale che ha emesso dalla sua istituzione 40 mandati di arresto con solo cinque condanne per crimini contro l’umanità e crimini di guerra con un bilancio evidentemente troppo limitato se si tiene conto dell’ampiezza dei crimini compiuti nel mondo.

Oltre alla condanna, la Corte Penale Internazionale non può andare perché non ha i mezzi per imporre la riparazione dei danni e non ha nessuna funzione deterrente per prevenire i crimini e per interrompere la loro prosecuzione.

Di fronte a quest’impotenza e al fatto che la Corte non è stata riconosciuta dagli Stati Uniti, dalla Russia, dalla Cina, da Israele, dalla Siria e dall’India oltre che inizialmente dall’Ucraina si pone l’urgenza e la necessità di mettere al centro di una riforma del sistema delle Nazioni Unite – che si è ancora una volta dimostrato inadeguato per fermare la guerra in Ucraina – il rafforzamento della capacità di intervento della Corte nei suoi poteri di prevenzione, condanna e di indennizzo delle vittime ispirandosi al principio affermato da Martin Luther King nel carcere di Birmingham secondo cui «Injustice anywhere is a threat to justice everywhere. We are caught in an inescapable network of mutuality, tied in a single garment of destiny. Whatever affects one directly, affects all indirectly».

Oltre al rafforzamento della missione e dei poteri della Corte Penale Internazionale, il governo della giustizia e della pace nel mondo esige che la riforma delle Nazioni Unite renda efficace e rapida la sua funzione di polizia internazionale umanitaria e cioè di peace enforcement per prevenire e reprimere le decine di conflitti che insanguinano il pianeta, dall’Etiopia allo Yemen, dalla Siria al Sahel, in Nigeria e in Afghanistan, in Libano e in Libia, nel Sudan e ad Haiti, in Colombia e nel Myanmar, nella Repubblica Democratica del Congo e in molti altri luoghi ancora come è costantemente testimoniato dall’organizzazione non governativa Acled: Armed Conflict Location and Event Data Project.

La comunità internazionale e con essa l’Osce e l’Unione europea non sono stati in grado di prevedere – fatta eccezione per i servizi di intelligence degli Stati Uniti – la guerra “illegale” scatenata senza giustificazione alcuna dalla Russia contro l’Ucraina e di far interrompere le operazioni militari.

L’unica strada per ora percorribile appare a noi essere l’invio in Ucraina – su decisione a maggioranza qualificata della Assemblea Generale delle Nazioni Unite e andando al di là dello stallo nel Consiglio di Sicurezza – delle Forze di interposizione (i Caschi Blu) previste per garantire le operazioni di peace enforcement la cui missione non è offensiva.

Se Vladimir Putin dovesse decidere di usare la violenza militare contro quelle forze porrebbe la Russia al di fuori di tutta la comunità internazionale e creerebbe le condizioni di una sua immediata espulsione dalle Nazioni Unite rendendo inevitabile un pesante intervento di polizia internazionale.

La gravità eccezionale di quel che sta avvenendo dal 24 febbraio in Ucraina e il rifiuto di Vladimir Putin di accettare l’avvio di un vero negoziato di pace esige ormai l’uso di strumenti eccezionali.

Il carcere (super lusso) dell’Aja dove molti sognano di vedere Putin. Celle confortevoli, cure mediche all'avanguardia, stanze dell'amore: il penitenziario della Corte internazionale dell’Aja è il fiore all’occhiello del sistema carcerario europeo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 aprile 2022.

Celle arredate e confortevoli, aria all’aperto, esercizio fisico, cure mediche all’avanguardia, terapia occupazionale, guida spirituale, condizioni adatte per la preparazione della difesa, strutture informatiche e formazione, possibilità di telefonare spesso, visite coniugali con tanto di “stanza dell’amore”, attività ricreative e sportive. Un vero e proprio fiore all’occhiello del sistema penitenziario europeo che rispetta il principio di innocenza fino a prova contraria.

Sono recluse le persone imputate dalla Corte penale internazionale dell’Aia

Parliamo del carcere situato a Scheveningen, in Olanda, dove sono recluse le persone imputate dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Ed è lì, che – solo teoricamente visto che è una ipotesi altamente remota – potrebbe essere recluso Vladimir Putin se verrà imputato dalla Corte per crimini contro l’umanità.

Sono nove i detenuti ospitati nel carcere di Scheveningen

Attualmente, nel carcere della Corte internazionale dell’Aia ci sono nove persone detenute: due imputati soggetti a un nuovo processo, due persone le cui condanne possono essere impugnate e cinque detenuti condannati in attesa di trasferimento in uno Stato di applicazione. Ovvero uno di quei Paesi che hanno dato la propria disponibilità a ospitare nelle proprie carceri gli eventuali condannati. Ricordiamo che, per quanto riguarda il processo ad hoc sui crimini commessi nell’ex Jugoslavia, tra gli Stati che hanno dato la disponibilità alle Nazioni Unite di accogliere i condannati, figura anche l’Italia.

La Corte penale internazionale è l’unica struttura giudiziaria permanente costituita per giudicare i crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale come il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Alla fine della Conferenza di Roma alla quale presero parte 160 Stati sovrani e 37 organizzazioni non governative, il 17 luglio 1998 prese vita la Corte Penale Internazionale. Lo Statuto di Roma, come tutti i trattati internazionali e prevedeva la sua entrata in vigore superata la soglia di 60 Paesi firmatari. Il trattato entrò in vigore il primo luglio 2002.

La competenza della Corte è fondata sul principio di complementarietà

A differenza dei Tribunali per l’ex Jugoslavia e del Ruanda, la Corte non ha una giurisprudenza prioritaria rispetto ai tribunali nazionali. La sua competenza è fondata sul principio di complementarietà nel senso che la Corte può giudicare solo nei casi in cui essa abbia effettuato una valutazione sulla mancanza di volontà o sulla incapacità dello Stato, dotato di giurisdizione, di esercitare la propria potestà punitiva. La giurisdizione della Corte riguarda tutti i reati commessi dopo il primo luglio 2002 e riconducibili a: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione.

Il carcere ospita le persone imputate nei procedimenti dalla Corte

Presso la Corte è collocato un centro di detenzione che si trova presso il complesso penitenziario di Scheveningen, nei pressi dell’Aia. La sua funzione è quella di ospitare le persone imputate nei procedimenti dalla Corte. Come detto, qualora l’imputato venisse condannato a una pena detentiva, esse si svolgerà in uno Stato che abbia manifestato alla Corte la propria disponibilità a ricevere persone condannate.

Il complesso penitenziario della Corte penale internazionale è composto da due strutture carcerarie. Entrambe sono gestite in linea con gli standard internazionali per il trattamento dei detenuti. Le due strutture, che in precedenza servivano alle esigenze di detenzione del Tribunale penale internazionale per il Ruanda e del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, sono conosciute come la struttura di detenzione delle Nazioni Unite (Undf) presso la filiale di Arusha e l’Unità di detenzione delle Nazioni Unite (Undu) presso la filiale dell’Aia.

Sono strutture di custodia cautelare

Sia l’Undf che l’Undu sono strutture di custodia cautelare. Ciò significa che applicano la presunzione di innocenza a tutte le persone detenute fino a prova contraria. Entrambe le strutture forniscono un ambiente di detenzione sicuro e protetto. Il carcere presso la filiale dell’Aia, a Scheveningen, consente alle persone detenute l’accesso all’aria aperta, al tempo libero e alle attività sportive. Ma anche ai libri della biblioteca, ai giornali e alla televisione. Le persone detenute hanno accesso a strutture informatiche per lavorare sui propri casi. Se necessario hanno l’opportunità di seguire un corso di informatica. A seguito del mandato della Corte Penale Internazionale, in quanto imputata, ogni persona detenuta ha un computer nella sua cella, che è collegata a un computer specifico presso la Corte. L’accesso ad internet è però consentito solo agli avvocati difensori per caricare materiale relativo al caso a cui la persona detenuta può accedere e commentare.

Il direttore del penitenziario ha la responsabilità generale di tutti gli aspetti della gestione del centro di detenzione, compresi la sicurezza e l’ordine; e prende tutte le decisioni ad esso relative, come previsto dal Regolamento europeo e quello della Corte dell’Aia. Nell’adempimento del suo mandato, il direttore si impegna a garantire il benessere mentale, fisico e spirituale dei detenuti all’interno di un sistema di detenzione efficiente, tenendo conto delle diversità culturali e del loro sviluppo come individui.

Permesse le visite dei familiari, del coniuge o del convivente. C’è anche la stanza coniugale

Nel penitenziario della Corte internazionale, nell’ottica del mantenimento dei legami familiari, il direttore è obbligato a dedicare particolare attenzione alle visite dei familiari e a quelle del coniuge o del convivente dei detenuti. C’è a disposizione la stanza coniugale. È il luogo in cui i detenuti possono incontrare le loro mogli nel rispetto della privacy durante l’orario di visita. In sostanza, è permesso di avere rapporti sessuali con i propri partner. Particolare importanza anche al cibo. I pasti sono forniti rispettando il loro gusto o esigenze culturali. Interessante anche i minuti di chiamate che i detenuti hanno a disposizione. Ben 200 minuti di telefono gratuito al mese verso una serie rigorosa di numeri (a parte i loro avvocati), messi nelle loro stanze dal personale della prigione. Le chiamate vengono registrate e vengono distrutte al termine del procedimento. Non vengono ascoltati a meno che il tribunale non lo disponga.

Garantita l’assistenza sanitaria con standard molto elevati

Di elevato standard anche l’assistenza sanitaria. Il carcere di Scheveningen dispone di una struttura medica ben attrezzata, con personale medico e un assistente. È progettato per fornire ai detenuti assistenza sanitaria di base e servizi di emergenza. Ciò è particolarmente importante considerando che l’età media dei detenuti è relativamente alta e che la maggior parte di loro arriva con vari problemi di salute. Solo per fare un esempio, all’11 maggio 2012, l’età media dei detenuti era di 59,6 anni. Tuttavia, gli elevati standard di servizio medico offerti hanno fatto sì che la salute di molti detenuti migliori mentre sono incarcerati.

Non solo, In base all’accordo tra la Corte penale interazionale e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr), concluso il 29 marzo 2006, il Cicr, in quanto autorità di ispezione, ha accesso illimitato al centro di detenzione. I suoi delegati effettuano visite senza preavviso al centro di detenzione, allo scopo di esaminare il trattamento delle persone detenute, le loro condizioni di vita e le loro condizioni fisiche e psicologiche, in conformità con gli standard internazionali ampiamente accettati che regolano il trattamento delle persone private della libertà.

Il carcere del tribunale internazionale dovrebbe essere un esempio, perché opera in linea con i più elevati standard internazionali in materia di diritti umani per il trattamento dei detenuti. In Italia è pura utopia visto le condizioni che non rispecchiano il dettame costituzionale. Eppure, come Scheveningen insegna, è possibile. Sì, perché anche chi è accusato di genocidio o crimini contro l’umanità, ha il diritto di veder rispettata la sua dignità.

Vladimir Putin "fucilato e ucciso insieme a sua moglie". Alessandro Sallusti, il precedente e il destino dello zar. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 17 aprile 2022.

Si è tanto parlato in questi ultimi giorni di processare il presidente Putin per crimini di guerra, del resto la cronaca dal fronte ogni giorno ci offre validi e macabri appigli a sostegno della tesi. Ma nessuno si illuda di poterlo fare, Putin non sarà processato se non dalla storia e qui mi pare di capire che la sentenza è già stata scritta: colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, e non soltanto per le atrocità commesse ma perché portare il mondo sull'orlo della catastrofe per questioni che hanno a che fare con diatribe locali altrimenti risolvibili è già in sé un crimine contro l'umanità. 

Putin non sarà mai processato per una serie di motivi, il primo dei quali è che né la Russia, né l'Ucraina e neppure gli Stati Uniti riconoscono - il che la dice lunga - la Corte internazionale penale dell'Aia fondata nel 2002 per processare reati quali genocidio, crimini contro l'umanità e i crimini di guerra, e di recente anche il crimine di aggressione. Ma a prescindere da questo non trascurabile fattore è che per processare Putin sul modello che tutti noi abbiamo in testa, quello di Norimberga con i nazisti, bisognerebbe che a vincere la guerra fosse l'Ucraina con una resa incondizionata della Russia perché è ovvio che qualsiasi tipo di trattato di pace tra i due contendenti non potrebbe non prevedere una sanatoria tombale, valida per i responsabili su entrambi i fronti, di ciò che è stato. Uno può obiettare: ma Putin, a maggior ragione, va processato anche se vincerà la guerra e si annetterà l'intera Ucraina. 

Già, ma a quel punto, per poterlo fare, Putin andrebbe prima arrestato, cosa a occhio non proprio semplice nella pratica (non me lo immagino un commando di teste di cuoio violare il Cremlino nottetempo e dileguarsi con il prigioniero imbavagliato), oltre che impossibile sul piano del diritto internazionale. No, l'unica residua e tenue speranza è che siano i russi stessi a condannare Putin per alto tradimento come accadde allo zar rumeno Nicolae Ceausescu, fucilato insieme alla moglie Elena dai rumeni stessi il 25 dicembre 1989 dopo essere stato giudicato colpevole da una corte marziale istituita su richiesta del Consiglio del fronte di salvezza nazionale. Del resto Putin con Ceausescu ha in comune non solo la ferocia ma anche l'ingordigia con cui ha arricchito a dismisura se stesso e la sua corte ai danni del popolo. E quando il popolo, soprattutto se comunista, si incavola come noto non va mai per il sottile.

La responsabilità dei comandanti russi a Bucha e nelle altre città. MAURIZIO DELLI SANTI su Il Domani il 17 aprile 2022.

Nelle analisi sulle vicende di Bucha e delle altre stragi di civili in Ucraina, non sono stati ancora ampiamente sottolineati i profili inquietanti della «responsabilità dei comandanti militari». Non è corretto ricondurre la sola responsabilità a Putin, perché, anche ai sensi dello statuto della Corte penale internazionale, è in primo luogo ai capi militari che incombono precisi obblighi perché la condotta della guerra si conformi alle norme del diritto internazionale umanitario.

Soprattutto nell’esercizio del controllo sui propri subordinati e nell’evitare il coinvolgimento di vittime civili nella violenza bellica. Lo statuto afferma anche che non vi è esonero della responsabilità penale nel caso di un ordine ricevuto dal governo o da altri superiori la cui esecuzione sia «manifestamente illegittima», come nel caso del genocidio e dei crimini contro l’umanità.

GLI ORRORI DELLA GUERRA

Mentre si stanno ancora identificando le 360 vittime dell’eccidio di Bucha, il sindaco di Makariv, nei pressi di Kiev, ha denunciato altre esecuzioni e violenze commesse nei confronti di altre 133 vittime civili sinora individuate.

E, il giorno prima, un missile russo Tochka, uno degli ignobili ordigni delle “munizioni a grappolo”, ha causato almeno 50 vittime civili nella stazione ferroviaria di Kramatorsk, nella regione del Donbass. Tutti sapevano che lì si erano ammassate le famiglie per allontanarsi dalla guerra, eppure chi ha lanciato quell’ordigno non se ne è preoccupato.

Non vale nemmeno più la pena soffermarsi sull’ennesima negazione della realtà sulla responsabilità di questi episodi: in ogni caso le indagini indipendenti della Corte penale internazionale sapranno accertare da quale parte sono stati originati tanto i missili quanto le altre barbare violenze commesse nei confronti dei civili.

L’analisi del campo di battaglia ci dice per ora questo: non c’è stato solo l’eccidio di Bucha, sono tante le conferme di un’azione sistematica di attacchi diretti contro i civili, cui non sono stati risparmiati trattamenti disumani, oltraggi e violenze, anche in danno di anziani, donne e bambini. Bucha, Borodyanka, Kyiv, Chernihiv, Sum, Kramastorsk e ora Makariv sono nomi destinati ad essere ricordati come città-martire, in cui un occupante costretto a ritirarsi ha voluto lasciare i segni ignobili della sua rabbia, compiendo i più vili dei crimini, inclusi gli stupri e le torture, in danno di civili inermi.

Il procuratore generale ucraino ha denunciato di avere acquisito documentazione per oltre 5mila casi di crimini di guerra, tra questi figurano anche le uccisioni di 176 bambini, e il ferimento di altri 324 minori.

Anche l’esodo forzato nei vicini paesi europei riguarderebbe già 4.4 milioni di profughi secondo l’Unhcr, ma si parla anche di vere e proprie deportazioni di civili dal Donbass in territorio russo, sotto il pretesto di facilitarli in un corridoio umanitario.

LA RESPONSABILITÀ DEI COMANDANTI

Su questi drammatici scenari c’è tuttavia un aspetto che non è stato ancora ampiamente sottolineato, che invece meriterebbe maggiore esecrazione anche dei media, dei social e a livello di comunità internazionale: si tratta del tema della «responsabilità dei comandanti militari».

Certamente non vanno sminuite le responsabilità del leader numero uno, Putin, la cui narrazione sulla “campagna di denazificazione” contro gli ucraini se non rappresenta una istigazione al genocidio - termine che certamente va evocato con grande cautela per rispetto dei suoi riferimenti storici più inquietanti - vi si avvicina molto: nei bombardamenti, nelle stragi sistematiche e nell’esodo forzato che coinvolgono le vittime civili è difficile non cogliere l’intento cruento di colpire un popolo che si riconosce, suo malgrado, liberamente in una precisa identità nazionale. 

Ciò che emerge, comunque, e che anche per questi non meno gravi “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”, secondo la terminologia dello statuto della Corte penale internazionale, non è sufficiente ricondurre la sola responsabilità a Putin, perché questa va estesa sicuramente alla nomenclatura più prossima che lo continua a sostenere, ma anche alla catena di comando di tutti i responsabili militari, dallo stato maggiore ai comandanti militari dei livelli operativi.

Sono i comandanti militari i primi diretti responsabili della condotta della guerra, e su di loro incombono precise responsabilità. Nonostante siano tanti gli episodi che nella storia dimostrino quanto di disumano ci sia nelle guerre, c’è comunque un profilo morale che ha cercato di caratterizzare ogni “esercito” che ha voluto definirsi tale per distinguersi alle orde barbariche e dalle milizie mercenarie.

Persino nel Codice di Hammurabi (1810- 1750 a.C.), il re di Babilonia aveva imposto il precetto: «Io stabilisco queste regole per evitare che il forte infierisca sul debole». E anche nell’Arte della guerra, nel VI secolo a. C., Sun Tzu aveva sostenuto che tra i doveri di un comandante c’è quello di assicurarsi che i suoi subordinati si comportino in modo civile durante un conflitto armato.  Si può anche affermare che l’origine stessa dell’idea dei primi processi sui crimini di guerra affonda proprio su questi principi.

Nel 1474 Peter von Hagenbach fu condannato alla decapitazione da un tribunale ad hoc del Sacro Romano Impero per le atrocità commesse dalla sua soldataglia durante l'occupazione di Breisach, dato che «egli come cavaliere era ritenuto avere il dovere odi prevenire». In epoca più recente, a partire dall’ ‘800, ogni “comandante” che si fosse formato nelle scuole militari di matrice europea, incluse quelle russe e americane, ha cominciato ad avere come riferimento e guida nella condotta delle azioni di guerra il manuale di Oxford o il Codice Lieber, istruzioni militari che enunciavano i limiti posti dal diritto internazionale umanitario sviluppatosi con le Convenzioni dell’Aja e di Ginevra.

LA DOTTRINA DELLA “RESPONSABILITÀ DI COMANDO”

Ed è proprio  in questi contesti che si è iniziato a parlare di una vera e propria  “dottrina della responsabilità di comando”, specie dopo le  Convenzioni dell'Aia IV (1907) e X (1907). Una sua prima applicazione fu fatta alla fine della Prima guerra mondiale dalla Corte Suprema Tedesca di Lipsia  che condannò Emil Muller.

Il caso riguardò un avvocato divenuto responsabile di un campo di prigionia, in cui circa 1000 prigionieri erano stati lasciati in preda alle violenze e alle malattie, tanto che molti di essi vi perirono per le conseguenze.

Nella seconda guerra mondiale, uno dei casi emblematici ha riguardato pure il “processo Yamashita”, in cui si affermò un principio più esteso della responsabilità di comando, confermata nella forma “omissiva”, nel caso dell’ammiraglio giapponese che fu condannato dalla Commissione militare americana di Manila (1945) per non avere esercitato il dovuto controllo sulle atrocità commesse nelle Filippine dai suoi soldati.

Il percorso della definizione normativa e giurisprudenziale si andava dunque compiendo attraverso le tappe delle giurisdizioni dei Tribunali di Norimberga e Tokio, ma anche attraverso i meno conosciuti processi nazionali condotti nelle varie nazioni europee, tra cui la stessa Germania e l’Italia.

Quest’ultima ha anzi vissuto i controversi procedimenti davanti alla giustizia militare in cui al centro delle questioni giuridiche più rilevanti vi sono state proprio la responsabilità dei comandanti militari e la rilevanza dell’ordine superiore, a partire dal “processo Kappler” per la rappresaglia delle Fosse Ardeatine e dalle altre gravissime stragi di civili, tra cui quelle di Sant'Anna di Stazzema e Marzabotto, per ricordarne solo alcune,  per arrivare agli ultimi epiloghi dei processi del c.d. “Armadio della vergogna” (nota: dal nome del mirabile libro di Franco Giustolisi che diede risalto all’iniziativa del procuratore militare Intelisano; questi nel 1994 aveva ritrovato una folta raccolta di denunce e testimonianze su crimini di guerra, tenute per diverso tempo accantonate per “ragioni di stato” negli uffici giudiziari militari).

Le guerre contemporanee hanno poi segnato una ulteriore deriva, in cui sono stati emblematici i processi che hanno accertato le responsabilità dei capi politici e militari davanti ai Tribunali della ex Jugoslavia, ad esempio per il genocidio degli 8mila musulmani bosniaci trucidati a Srebrenica, del Ruanda, per il genocidio dei tutsi e degli hutu, come davanti alla stessa Corte penale internazionale, in cui tra le condanne emesse spicca quella del capo militare Thomas Lubanga Dyilo, responsabile dei crimini di guerra commessi dalle sue milizie nella Repubblica Democratica del Congo  nel corso del 2002 e del 2003, tra cui figura anche il reclutamento forzato e l’arruolamento di bambini soldato.

In definitiva, nonostante la progressiva evoluzione dei principi umanitari affermati anche con il percorso dei valori democratici e del sistema di tutela dei diritti umani, il rispetto del nemico soccombente e della popolazione civile è una regola  che purtroppo è andata via via persa, dando spazio ad una forte ideologizzazione, alla radicalizzazione e all’imbarbarimento che hanno caratterizzato le atrocità dei conflitti post-coloniali, del Vietnam, dell’Iraq e della Siria, in generale delle guerre mediorientali, del terrorismo jihadista, e dei più attuali conflitti interetnici del continente africano.

TRA CONVENZIONI DI GINEVRA E STATUTO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

In questo scenario, ritornando dunque alle responsabilità da accertare sugli orrori della guerra in Ucraina, è dunque necessario richiamare l’attenzione sul quadro giuridico attualissimo del diritto internazionale dei conflitti armati e del diritto internazionale penale che delinea la “dottrina della responsabilità da comando”. A oggi sono due i principali strumenti giuridici su cui si poggia tale istituto: il protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977 e lo Statuto della Corte penale internazionale del 1998. 

Nel I protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, all’articolo 86, paragrafo 2, si stabilisce che il fatto che una violazione sia stata commessa da un subordinato non esonera i suoi superiori da responsabilità «se sapevano o avevano informazioni» che stava commettendo o stava per commettere tale violazione e «non hanno adottato tutte le misure possibili in loro potere per prevenire o reprimere la violazione».

In base all’articolo 87, inoltre, letteralmente viene fatto obbligo ai Comandanti militari di: conoscere e comprendere le obbligazioni che sono loro imposte dal diritto internazionale umanitario (Diu); assicurarsi che anche i subordinati conoscano e comprendano tali obblighi; condurre le operazioni in conformità con il Diu; fare tutto ciò che è in loro potere per prevenire la commissione di violazioni del Diu da parte dei loro subordinati, e in caso di violazioni, promuovere contro gli autori le azioni disciplinari e penali del caso.

Sono seguite poi le già ricordate esperienze dei tribunali per la ex Jugoslavia e del Ruanda (entrambi inquadravano in maniera identica la “responsabilità dei comandanti” all’articolo 7) e nel 1998 si è arrivati alla norma di riferimento più attuale, quella dello Statuto della Corte penale internazionale, che ha voluto tipicizzarne la nozione secondo alcuni canoni ben precisi. 

In primo luogo, all’articolo 25, Responsabilità penale individuale, si fa riferimento alla “responsabilità attiva” anche di chi “incoraggia” (oltre di chi “ordina o sollecita”) la perpetrazione di un crimine perseguibile dalla Corte. Vale anche sul punto sottolineare che l’esperienza dei primi processi della Corte ha portato a configurare altre ipotesi più ampie di imputazione di responsabilità diretta dei comandanti nei particolari istituti dell’autoria, della co-autoria e dell’autoria mediata, figure tipiche della giurisprudenza derivata dal Common Law in cui si articolano le responsabilità dei vari compartecipi di un criminal intent, oppure di una cospiracy, o anche di una joint criminal enterprise.

Ma è l’art. 28 Responsabilità dei capi militari e di altri superiori gerarchici che riconduce ai comandanti anche una forma più estesa di responsabilità omissiva per il «mancato controllo». Secondo le previsioni dello Statuto, questa è configurabile quando il capo militare: a) «sapeva, o, date le circostanze, avrebbe dovuto sapere che le forze commettevano o stavano per commettere tali crimini»; oppure, b) «non ha preso le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per impedire o reprimere l’esecuzione (dei crimini) o per sottoporre la questione alle autorità competenti ai fini d’inchiesta e di azioni giudiziarie». Il para 2 dell’art.28 precisa poi che la responsabilità si configura anche nella condotta del capo militare che non sia intervenuto «essendo a conoscenza, o trascurando deliberatamente di tenere conto di informazioni che indicavano chiaramente che i subordinati commettevano o stavano per commettere tali crimini».

La norma di chiusura è poi l’articolo 33 Ordine del superiore gerarchico e ordine di legge, laddove si sancisce il principio che non vi è esonero della responsabilità penale nel caso di un ordine ricevuto dal governo o da altri superiori la cui esecuzione sia “manifestamente illegittima”, come nel caso del genocidio e dei crimini contro l’umanità.

LA CONCRETA PERSEGUIBILITÀ DEI COMANDANTI “CRIMINALI DI GUERRA”

E a proposito della concreta perseguibilità dei comandanti militari russi, vale precisare che per questi reati non operano né prescrizioni, né immunità funzionali, anzi nel caso siano catturati, in quanto giudicabili come “criminali di guerra” perderanno lo status di “prigionieri di guerra”, che altrimenti avrebbe loro assicurato una protezione ai sensi delle Convenzioni di Ginevra.

Pertanto potranno essere processati direttamente dalla giustizia ucraina, i cui apparati sono pienamente efficienti come dimostra l’attivismo della procura generale, o dalla Corte penale internazionale, posto che l’Ucraina ha accettato la sua giurisdizione e in atto vi è una stretta cooperazione tra le rispettive procure.

Anche Eurojust ha già sensibilizzato tutte le procure europee a procedere nella raccolta della documentazione probatoria che potrà acquisirsi attraverso filmati, fotografie e testimonianze dirette dei profughi ucraini giunti nei vari paesi europei. Sul sito della Corte penale internazionale possono inoltre essere direttamente contattati gli investigatori a questo link, mentre l’Ucraina ha messo a disposizione per ogni denuncia, segnalazione o testimonianza un link.

Ai comandanti della Federazione russa dovrà essere chiaro che la loro condotta li porterà a rispondere delle atrocità commesse davanti alla giustizia penale internazionale, ma soprattutto di fronte alla coscienza dell’umanità intera che avrà bene a mente le immagini dei loro orrori commessi in Ucraina. 

MAURIZIO DELLI SANTI. Membro della International Law Association, dell'Associazione Italiana Giuristi Europei, dell'Associazione Italiana di Sociologia e della Société Internationale de Droit Militaire et Droit de la Guerre - Bruxelles. Docente a contratto presso l'Università Niccolò Cusano, in Diritto Internazionale Penale/Diritto Internazionale dei Conflitti Armati e Controterrorismo, è autore di varie pubblicazioni, tra cui "L'ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo. Tra rappresentazioni, questioni giuridiche e nuovi scenari geopolitici", Aracne, 2015. Collabora con diverse testate italiane ed europee.

Lorenzo Cremonesi per Il "Corriere della Sera" il 17 aprile 2022.

Il pomeriggio del 14 aprile Irina Venediktova è stata felice di poter annunciare agli ucraini e al mondo uno dei primi importanti successi del suo infaticabile lavoro: il Tribunale internazionale dell'Aia avvia un'inchiesta per processare la Russia per «crimini di guerra» e persino «contro l'umanità». Lo ha espresso col suo stile asciutto e determinato, ben felice per una volta di fare un passo indietro e lasciare la parola al giudice Karim Khan, l'inviato del Tribunale che sta raccogliendo prove e documenti che garantiscano gli estremi per istruire il processo. Lui era l'ospite gradito.

Eppure, sin da subito nella sala conferenze della procura generale dello Stato a Kiev, è stato evidente chi fosse il vero motore dell'intera operazione: lei, la 43enne procuratrice di ferro, ex docente di legge, che il presidente Volodymyr Zelensky due anni fa volle nominare a uno dei più delicati incarichi del governo per ripulire un'amministrazione pubblica tristemente nota per la corruzione interna, l'inefficienza e per il fatto d'essere spesso prona a soddisfare i piccoli oligarchi locali, che comunque restano una piaga del Paese. «Lavoreremo prima di tutto per trovare prove, testimonianze ed evidenze, nulla resterà intentato. I crimini dell'invasione verranno documentati senza ombra di dubbio, nulla deve essere lasciato al caso», ci spiega di persona.

C'è da crederle. I media locali la seguono con grande attenzione, pubblicano spesso le sue foto in tailleur grigio fumo di rappresentanza, ma anche e soprattutto vestita da battaglia, con stivali e giacconi militari, mentre si reca sulle fosse comuni di Bucha, Borodyanka, Irpin, Hostomel, Kharkiv, Chernihiv e degli altri centri devastati dalle bombe, inzaccherata sotto la pioggia tra le rovine delle abitazioni. «Io vorrei proteggere le nostre città, i nostri bambini, la nostra gente. Non ho armi per farlo. Ma cerco ogni mezzo legale. Vorrei salvare Mariupol e tutti i nostri centri urbani sotto assedio dalla battaglia. Ci penso di continuo, il mio strumento è la Legge, non ne possiedo altri», spiega. Un linguaggio che in genere si usa solo dopo la fine dei conflitti, quando i fucili non sparano più. Ma lei non esita a recarsi vicino alle prime linee: «Andiamo a proteggere civili innocenti e intanto cerchiamo già di compensarli contro la violenza del dittatore Putin», aggiunge.

In questo è molto diversa da altri esponenti del governo, per esempio la deputata Ludmilla Denisova, la presidente della Commissione parlamentare per la Difesa dei diritti umani (a sua volta incaricata di aiutare ad istruire il processo per i crimini di guerra) che si è già attirata critiche per la poca accuratezza e i toni barricadieri con cui accusa l'esercito russo di «sistematiche violenze sessuali contro le donne ucraine» nelle zone occupate. «Prima di avanzare imputazioni precise dobbiamo raccogliere prove serie e inconfutabili», specifica Venediktova.

Con i suoi collaboratori ha già dato avvio a oltre 8.000 inchieste criminali e identificato circa 500 sospetti, inclusi ministri russi, ufficiali e soldati dell'esercito invasore. Nelle prime fasi della guerra si è concentrata sul fiume di profughi che dalle zone occupate transitava per il centro ferroviario di Leopoli. Qui aveva messo assieme una cinquantina d'investigatori. Non era difficile far parlare gli sfollati, anche se molti non ne capivano il motivo. Lei però cercava verifiche, confronti incrociati: spesso non è sufficiente una testimonianza per costituire una prova di fronte ai giudici. Così la procuratrice non ha esitato a cercare altri testimoni già profughi in Polonia, o Moldavia. Lentamente ha trovato sostegno e finanziamenti grazie al circuito della Corte Internazionale in Polonia, Germania, Francia, Lituania.

Un giorno, per esempio, nel villaggio di Krakivets, sul confine polacco, incontra Liudmila Verstiouk, una 58enne fuggita l'8 marzo dal suo appartamento incendiato dalle bombe russe a Mariupol. La donna le dice che ha dovuto abbandonare il padre 86enne malato di Alzheimer nell'appartamento in fiamme. Quindi si è rifugiata nel teatro municipale, che ha lasciato il giorno prima che venisse bombardato. I collaboratori della procuratrice la intervistano per cinque ore: le sue parole sono ora conservate nei dossier.

Janine di Giovanni: «Così insegno ai giornalisti a trasformare gli scoop in prove per i tribunali sui crimini di guerra». Per anni ha scritto di massacri rimasti senza colpevoli, perché gli articoli che li denunciavano non servivano nei processi. Ora la decana dei corrispondenti di guerra dice basta e spiega ai colleghi che sono al fronte i must dei tribunali internazionali. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 26 Aprile 2022.  

«È successo mille volte a me e ai miei colleghi corrispondenti di guerra: abbiamo visto e raccontato atrocità, violazioni terribili dei diritti umani ma i nostri articoli non sono bastati a provare nulla in tribunale, e quei crimini sono rimasti impuniti. È successo in Bosnia, in Cecenia, in Sierra Leone, in Somalia, in Siria, in Iraq…». In Ucraina non succederà, assicura Janine di Giovanni: o almeno, lei si sta impegnando perché non succeda. Veterana dei reporter di guerra per il New York Times e il Guardian, docente a Yale, autrice di libri sulla prima Intifada, l’assedio di Sarajevo, la guerra in Siria, fino a “The Vanishing”, sulla fuga dei cristiani dal Medio Oriente, per l’Ucraina Di Giovanni sta curando un progetto finanziato dallo UsAid, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale. 

Mentre parla con entusiasmo del nuovo compito si interrompe per mandare messaggi al suo staff, «c’è una grande confusione, siamo proprio agli inizi», spiega. «La definizione tecnica di quello che facciamo è “enabling witnesses”, abilitazione dei testimoni. Addestriamo una squadra di giornalisti ucraini a raccogliere prove in modo che le storie non vengano solo pubblicate ma possano essere usate in tribunale».

È la prima volta che fa una cosa di questo genere?

«Ho lavorato a qualcosa di simile in Siria per le Nazioni Unite ma lì riguardava l’emergenza Covid-19, quindi non era esattamente la stessa cosa. In Ucraina sono in contatto con molte persone anche in posti come Mariupol e Bucha, da cui arrivano notizie di crimini orribili. Tecnicamente però il nostro lavoro inizierà all’inizio di maggio e durerà un anno. Contiamo di scegliere 150 testimonianze da portare fino in fondo: davanti alla Corte penale internazionale ma anche nei tribunali ucraini, collaborando con i pubblici ministeri del posto».

Il governo ucraino è stato accusato di esagerare le notizie sui crimini commessi dai russi. Avete l’impressione che siano sospetti fondati? E come vi difenderete dal pericolo delle fake news?

«La prima cosa da fare ovviamente è la verifica delle informazioni, ed è impegnativo perché è un misto tra il lavoro di un giornalista e quello di chi raccoglie testimonianze da utilizzare nei processi sui crimini di guerra. Non basta parlare con i testimoni e assicurarti che siano sinceri, devi seguire dei protocolli precisi. I giornalisti sono i primi ad arrivare sulla scena di un’atrocità, insieme a chi lavora nel pronto soccorso, quindi sono testimoni cruciali. Ma nelle 18 guerre che ho visto finora è successo spesso che le storie venivano pubblicate sui giornali ma poi non arrivavano in tribunale, e le vittime non trovavano giustizia».

E chi insegnerà ai giornalisti i protocolli da seguire?

«Abbiamo a Londra un consulente legale che ha lavorato in Sudafrica, per la Truth and reconciliation commission. E un altro è siriano, ha collaborato alla costruzione del Syrian Archive, che documenta i crimini della guerra in corso. È essenziale cominciare al più presto, non possiamo aspettare che la guerra finisca: non è importante come finisce una guerra, c’è sempre bisogno di “transitional justice”, di fare giustizia per chiudere la fase del conflitto e passare a una pacificazione costruttiva».

Questo conflitto a poche centinaia di chilometri dalle capitali europee è particolarmente impressionante per noi italiani. Ma per lei che ha visto tante guerre, in qualche modo questa è davvero diversa dalle altre?

«In un certo senso ogni guerra è diversa, ognuna ha un suo marchio di fabbrica. E questa è essenzialmente una guerra di Putin: voglio dire che i russi stanno sistematizzando qui strategie già sperimentate altrove. Sono atrocità sistematiche: martellamenti di artiglieria, bombardamenti di ospedali… È quello che hanno fatto ad Aleppo. Non hanno nessun rispetto per la protezione dei civili, abbiamo visto molte atrocità contro cittadini inermi. Molti per questo fanno il paragone con la Siria o la Bosnia. E anche se ci sono differenze che sarebbe lungo spiegare, una somiglianza tragica c’è ed è il fatto che i civili non sono vittime collaterali: vengono deliberatamente presi di mira».

Moltissimi profughi stanno lasciando l’Ucraina e sperano di costruirsi una nuova vita in altri paesi: questo però porta un doppio pericolo. Significa che l’Ucraina perderà molte persone piene di energia e di talento, e che Putin avrà ottenuto il risultato di liberarsi dagli ucraini…

«Questo è quello che è successo in Siria. Quando vedi la marea di profughi che lasciano le loro case e le loro radici, capisci che lasciano lì anche le loro identità. E spesso non potranno tornare indietro per anni, o forse mai. Però credo che questo caso sia diverso dalla Siria. Lì i rifugiati non possono tornare alle loro case perché Aleppo è stata bombardata e altri paesi sono stati distrutti, o perché hanno paura di Assad che è ancora al potere. Ma qui non c’è una guerra civile: è un Paese che è stato invaso, quindi è una situazione diversa. Non so cosa accadrà ma sembra che già ora alcuni posti siano più sicuri di prima, e alcune persone stanno già tornando».

Come concilia la necessità di raccogliere testimonianze “solide” sui crimini di guerra con il rispetto per la sofferenza delle vittime?

«Il principio di base è presto detto: “do no harm”, non fare del male. Ma spiegare come si fa è un discorso lungo: è la parte più importante dell’addestramento che daremo ai giornalisti con cui siamo in contatto. Devi stare molto attento a non risvegliare il trauma, anche perché le parole di una persona traumatizzata non sono utilizzabili in tribunale. Per ricostruire come sono andate le cose, per esempio, è essenziale che la cronologia sia accurata, ma le vittime di un crimine hanno un senso del tempo sconvolto dal trauma. Devi parlare con loro in un luogo in cui si sentono al sicuro, e davanti al marito o a un familiare se lo richiedono. Soprattutto non devi promettere niente: neanche dire “porteremo il tuo caso all'International criminal court”. Sono persone che sono passate attraverso un dolore insopportabile quindi l’essenziale è non far loro altro male: raccogliere prove è importante, ma viene dopo». 

Gianni Barbacetto per “il Fatto quotidiano” il 2 maggio 2022.

Lo Stato tedesco trascina l'Italia davanti alla Corte internazionale di giustizia dell'Onu (Icj), con sede all'Aia: Berlino non vuole più pagare le vittime dei crimini di guerra commessi dalla Germania nazista. 

L'Italia continua invece a permettere che i suoi cittadini che sono stati vittime di crimini di guerra chiedano risarcimenti allo Stato tedesco. Per questo la Germania ha avviato un nuovo procedimento davanti alla Corte internazionale di giustizia dell'Onu (istituita nel 1945 per dirimere le dispute fra Stati membri delle Nazioni Unite) per mancato rispetto della sua immunità giurisdizionale come Stato sovrano.

Le richieste della Repubblica italiana - sostiene Berlino - violano le leggi internazionali: perché nel 2012 una prima sentenza della Icj le ha dichiarate contro il diritto internazionale, visto che la Germania ha già provveduto in passato a compensare l'Italia e altri paesi per le violenze e le illegalità commesse durante la Seconda guerra mondiale, pagando dal1945 in poi l'equivalente di alcuni miliardi di euro. 

Ma dal 2012 a oggi sono state presentate ai tribunali italiani almeno 25 richieste di risarcimento danni per crimini commessi dalle forze di occupazione tedesche in Italia dal 1943 al 1945. 

In alcuni casi, i giudici italiani hanno già ordinato alla Germania di risarcire i richiedenti. In due casi, per poter procedere ai risarcimenti hanno addirittura chiesto la confisca di proprietà immobiliari dello Stato tedesco a Roma, tra cui quelle che ospitano la sede romana del Goethe Institut in via Savoia, l'Istituto archeologico germanico in via Sicilia, l'Istituto storico germanico e la Scuola germanica di Roma in via Aurelia Antica.

Un tribunale italiano deciderà entro il 25 maggio sulle confische e sull'eventuale vendita all'asta dei beni confiscati. Per questo la Germania ha chiesto alla Corte dell'Aia di bloccare ogni decisione italiana, in attesa della sentenza di merito della Icj.

La sua pronuncia del 2012 ha già dato torto all'Italia, che nel 2013 ha emanato una legge che recepisce il principio dell'immunità degli Stati come prescritto dalla sentenza della Corte dell'Aia. 

Ma nel 2014 la Corte costituzionale italiana l'ha dichiarata illegittima, affermando che gli eccidi e gli atti di deportazione e di costrizione al lavoro sono crimini contro l'umanità e quindi non sono coperti dalla sentenza Icj che fa riferimento alla sovranità di uno Stato estero. Ora la questione torna all'Aia.

Berlino porta l'Italia alla sbarra: "Basta cause sui crimini nazisti". Alberto Giannoni l'1 Maggio 2022 su Il Giornale.

La Germania ricorre alla giustizia internazionale: "Le richieste di danni violano la nostra immunità".

«Troppe» cause sulle stragi naziste, e Berlino porta l'Italia in tribunale. Sede del giudizio: la Corte internazionale di giustizia, che ha reso nota l'apertura della vertenza attivata del governo tedesco. Obiettivo di Berlino è fermare le nuove richieste di risarcimento danni che dal nostro Paese continuano a chiamare in causa la Germania.

La Corte di giustizia, va precisato, non ha niente a che vedere col Tribunale penale internazionale - anch'esso dell'Aia - di cui si parla in questi giorni. La Corte infatti è incaricata di dirimere le controversie fra Paesi aderenti all'Onu e in questo caso la vertenza riguarda gli eccidi perpetrati nel corso dell'occupazione tedesca della Penisola durante la Seconda guerra mondiale. La soluzione del caso, però, potrebbe avere in futuro ripercussioni anche su fattispecie simili, per esempio per le devastazioni compiute dall'esercito russo in Ucraina.

La questione fra Italia e Germania è spinosa, anche dal punto di vista giuridico. Le richieste che arrivano dal nostro Paese sono fondate sul codice civile: riguardano l'«indennizzo» dei danni provocati a cittadini italiani da condotte illecite o criminose eseguite da «organi» o autorità dell'allora Stato tedesco. Berlino ribatte: sostiene che Roma non dovrebbe continuare a permettere alle vittime - o ai parenti - di chiedere risarcimenti allo Stato tedesco, o meglio contesta che Roma continui a farlo anche dopo una precedente sentenza della Corte secondo cui tali richieste violano «il diritto internazionale».

Questo «diritto» a cui la Germania si appella consiste nel principio della «immunità funzionale» dello Stato, che è riconosciuto, anche se con limiti e paletti ben precisi. Il principio, consuetudinario e poi recepito nella dottrina e nella giurisprudenza, vuole che siano sottratti alla giurisdizione di uno Stato estero gli atti eseguiti dagli individui-organi di un altro Stato nell'esercizio delle sue funzioni pubbliche. I limiti però ci sono, e riguarderebbero proprio le condotte criminali commesse sul territorio altrui. E in Italia, i giudici con la loro interpretazione hanno allargato le maglie. Ne è sorta una prima sentenza della Corte e la questione è stata poi regolata con legge italiana e infine con una sentenza della Consulta.

Nel suo ricorso, la Germania ricorda proprio che la Corte dell'Aia nel 2012 si è pronunciata, eppure «i tribunali italiani hanno accolto un numero significativo di nuove richieste contro la Germania». La successiva sentenza della Consulta, nel 2014, avrebbe infatti riconosciuto «l'obbligo» del giudice italiano di conformarsi al verdetto internazionale, ma avrebbe anche sottoposto quest'obbligo alla tutela dei «diritti fondamentali» del diritto costituzionale italiano, per consentire alle vittime dei crimini di presentare ricorsi individuali contro gli Stati. Almeno 25 nuove cause sono state quindi intentate contro la Germania davanti ai tribunali italiani e in almeno 15 casi i nostri giudici avrebbero «inoltrato» richieste di risarcimento contro la Germania in relazione alla condotta del «Reich» durante la guerra.

RISARCIMENTO PER GLI EREDI DI UN DEPORTATO. Crimini nazisti, il tribunale condanna la Germania e il governo interviene. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 03 maggio 2022.

C'è una sentenza che mette in imbarazzo l'Italia e che condanna la Germania, ma soprattutto sancisce un principio regolare nei conflitti bellici e nelle conseguenze che producono. Le vittime possono chiedere un risarcimento indipendentemente dagli accordi tra gli stati. 

Tutto inizia a Ferrara dove Diego Cavallina, difeso dall'avvocato Fabio Anselmo, chiede il risarcimento per i danni subiti dal padre Gualberto, combattente partigiano catturato e deportato in Germania nel 1944.

L'esecutivo Draghi ha inserito, nel decreto sulle misure urgenti di attuazione del Pnrr, un articolo che sospende il pignoramento e istituisce un fondo. 

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Il Tribunale degli impuniti. Report Rai PUNTATA DEL 29-04-2022 Lorenzo Vendemiale 

Dall’Ucraina arrivano da settimane immagini e racconti delle atrocità commesse durante il conflitto​​​​.

Il Governo di Kiev ha raccolto oltre 8mila denunce di uccisioni di civili, stupri, torture, utilizzo di armi non convenzionali da parte delle truppe russe. Il mondo invoca l’intervento della Corte Penale Internazionale con sede a L’Aia, il tribunale che deve fare luce sull’accaduto e potrebbe dichiarare Vladimir Putin e gli altri vertici russi criminali di guerra. Ma la giustizia internazionale funziona davvero? Con un'intervista esclusiva al presidente della Corte, Piotr Hofmanski, e il parere di rinomati esperti di diritto internazionale, Report spiegherà quali sono i limiti con cui deve fare i conti l’inchiesta sull’Ucraina. E racconterà come e per quali ragioni è stato ostacolato negli ultimi 20 anni il lavoro della Corte de L’Aia.

IL TRIBUNALE DEGLI IMPUNITI di Lorenzo Vendemiale

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Dalle macerie delle città distrutte in Ucraina, emergono i crimini di guerra. Il governo di Kiev ha raccolto oltre 8mila denunce di omicidi, torture, stupri, uso di armi non convenzionali. Orrori per cui il mondo pretende giustizia

VOLODYMYR ZELENSKYY Le accuse devono essere portate di fronte a un tribunale. Gli sforzi del mondo intero devono essere indirizzati a ricostruire ogni minuto di questa guerra: chi ha fatto cosa, chi ha dato gli ordini. Nessuno sfuggirà alle sue responsabilità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il problema però è quello. Buonasera. Tutto il mondo pretenderebbe giustizia per quelle atrocità che abbiamo visto. Il ruolo della Corte internazionale è fondamentale, ma ci vuole una Corte che sia terza, indipendente, che abbia la forza per poter giudicare quei crimini senza fare sconti. Potrebbe anche arrivare a dichiarare in teoria che Putin è un criminale di guerra. Ma tema è: il mondo è pronto a farsi giudicare da un tribunale internazionale? La Corte dell'Aja non è una torre d'avorio in un deserto, la macchina funziona solo se c’è una complicità, una cooperazione fra tutti gli Stati. Come sono andati i processi in questi ultimi 20 anni? Come sono stati giudicati i crimini di guerra? Il nostro LV

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO L’Aia, città della pace e della giustizia. In Olanda ha sede la Corte Penale internazionale, il tribunale che giudica i crimini di guerra. È qui che si svolgerà l’inchiesta per individuare i responsabili di quanto sta accadendo in Ucraina

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE È un’occasione unica per affermare il nostro ruolo. Però sarebbe terribile non riuscire a rispondere alla richiesta di giustizia che arriva da tutto il mondo

LORENZO VENDEMIALE E cosa sta facendo la corte per riuscirci?

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE Abbiamo aperto un’inchiesta. C’è stata una richiesta di intervento da parte di 41 Paesi, che ha permesso al procuratore di iniziare le indagini

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il fascicolo è nelle mani del procuratore Karim Kahn, che ha già effettuato dei sopralluoghi in Ucraina. Anche l’Unione Europea ha promesso di collaborare, aiutando la Corte a raccogliere le prove. Diversi Paesi hanno avviato delle loro indagini sulla base del principio di giurisdizione universale. Fra questi, però, non c’è l’Italia

CHANTAL MELONI – PROFESSORESSA DIRITTO PENALE UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO noi non abbiamo all'interno del nostro ordinamento penale la fattispecie di crimini contro l'umanità

LORENZO VENDEMIALE e perché non ce l'abbiamo

CHANTAL MELONI – PROFESSORESSA DIRITTO PENALE UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO non ce l'abbiamo perché non abbiamo mai provveduto ad adeguare la legislazione. La ministra Cartabia ha istituito a marzo una commissione, siamo molto determinati a concludere i lavori in tempi rapidi anche per dare la possibilità all'Italia di giocare un ruolo in questa situazione

LORENZO VENDEMIALE Quindi adesso lo facciamo con 25 anni di ritardo

CHANTAL MELONI – PROFESSORESSA DIRITTO PENALE UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO 24, esattamente

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO L’inchiesta riguarderà i quattro tipi di reato previsti dal codice internazionale: crimini di guerra; crimini contro l'umanità; genocidio; crimine di aggressione. L’ultimo bisogna già escluderlo

CHANTAL MELONI – PROFESSORESSA DIRITTO PENALE UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO è fuori dalla giurisdizione della Corte penale internazionale perché né la Russia né l'Ucraina sono stati parte della Corte penale internazionale

LORENZO VENDEMIALE dovrebbero farne parte entrambe, nel momento in cui la Russia non ne fa parte già non può rispondere

 CHANTAL MELONI – PROFESSORESSA DIRITTO PENALE UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO Esattamente

LORENZO VENDEMIALE Quello già lo togliamo. restano gli altri tre. in teoria. in pratica?

CHANTAL MELONI – PROFESSORESSA DIRITTO PENALE UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO Innanzitutto, quella che va accertata è la catena di custodia, per cui per esempio una foto se non si sa più chi la fa chi l'ha fatta dove e se non è geo localizzabile non ha sostanzialmente valore probatorio i responsabili sono multilivello, quindi andiamo dal soldato, il militare che magari è fisicamente l'autore materiale del reato. possiamo immaginare che in taluni casi si possa arrivare fino al Presidente, però deve essere dimostrato

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Sono i limiti con cui si scontra da sempre la Corte Penale Internazionale. Fu fondata nel 2002, dopo l’esperienza dell’ex Jugoslavia: quel Tribunale ha giudicato 161 persone coinvolte nella guerra dei Balcani, condannando alcuni dei criminali più efferati, come Radovan Karadzic e Ratko Mladic, ma è stato anche accusato di fare giustizia a senso unico, per l’alto numero di serbi processati.

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE Dopo quell’esperienza, la comunità internazionale ha sentito il bisogno di avere un’istituzione permanente, e indipendente. La differenza è che noi non applichiamo la legge retroattivamente. E soprattutto, che adesso esiste un tribunale. Non c’è più bisogno di crearne uno apposta, se succede qualcosa.

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO I giudici de L’Aia si sono accorti presto che la loro è una missione quasi impossibile. In circa 20 anni, solo 31 casi sono stati portati davanti alla corte, quasi tutti africani, con appena 10 condanne

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE Sono pochi, è vero, ma bisogna capire che sono casi molto complessi, parliamo di migliaia di testimoni, che non sono qui a L’Aia, ma in giro per il mondo.

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO La difficoltà non è solo nella raccolta delle testimonianze. La Corte non processa gli assenti. E spesso è impossibile catturare chi vive in altri Paesi, che conservano la loro sovranità

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE A livello nazionale, gli Stati non hanno solo un tribunale e una procura, hanno anche una forza di polizia. Noi no, possiamo fare affidamento solo sulla cooperazione degli Stati per prendere i responsabili

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il problema è che spesso gli Stati non collaborano. Oggi sono 123 i Paesi membri della Corte. Non hanno aderito Russia, Stati Uniti, Cina, India, Israele. Nemmeno l’Ucraina è parte, anche se dal 2014 ha accettato la giurisdizione della corte per i crimini commessi sul suo territorio

LORENZO VENDEMIALE Come può funzionare un’istituzione che non viene riconosciuta dalle più grandi potenze mondiali?

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE Non sono parte della nostra famiglia ma le relazioni non sono necessariamente cattive. Certo, come potete immaginare in questo momento non abbiamo buoni rapporti con la Russia…

LORENZO VENDEMIALE Bè, nemmeno con gli Stati Uniti…

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE Diciamo che loro non riconoscono la nostra giurisdizione, specie nei confronti dei cittadini americani

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO A Washington le inchieste della Corte penale non sono mai piaciute. L’ex presidente Donald Trump ha addirittura sanzionato i procuratori che hanno provato a indagare sui crimini di guerra commessi dalle forze americane in Afghanistan. Le sanzioni sono state poi revocate da Biden, ma ancora oggi la Casa Bianca non riconosce la Corte

LORENZO VENDEMIALE È un tribunale debole

RICCARDO NOURY – AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA è un tribunale che è stato reso debole. Lasciamo che indaghi su sulle guerre africane in cui si ammazzano tra di loro. c'è anche un elemento un po’ razzista in questa valutazione. Come dire, ci sono conflitti di cui non ci interessa che accadono in luoghi poco rilevanti allora per quello va bene il Tribunale, per le cose grosse invece ci pensiamo noi. La situazione dell'Afghanistan è esemplare da questo punto di vista

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Il conflitto in Afghanistan è finito sul tavolo della Corte per le tante atrocità commesse dai talebani. Eppure, nei documenti ufficiali del Tribunale è scritto anche che “ci sono ragionevoli elementi per ritenere che membri delle truppe Usa si siano macchiati di crimini di guerra”. Almeno 54 persone sarebbero state vittime di torture e violenze sessuali per mano americana. Su di loro, però, la Corte non indagherà

RICCARDO NOURY – AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA cioè la storia di venti anni di crimini di guerra in Afghanistan si riduce soltanto ai talebani. Questa è una giustizia monca. Nel settembre ‘21 il procuratore Khan ha detto. È passato del tempo noi dobbiamo concentrarci sui crimini più importanti

LORENZO VENDEMIALE non lo sta dicendo esplicitamente ma ci sta dicendo, gli americani io non li tocco più

RICCARDO NOURY – AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA sì, o ci sta dicendo mi è stato chiesto di non toccarli L'idea che non ci sia una indagine internazionale sui crimini di guerra commessi in vari teatri di conflitto dagli Stati Uniti e che paradossalmente è l'unica persona sotto inchiesta sia quello che ha denunciato Julian Assange è veramente bizzarro

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO 12 anni fa il giornalista informatico australiano, cofondatore di Wiki Leaks, ha pubblicato 700mila documenti riservati ricevuti dalla ex militare Chelsea Manning. Dentro c’erano anche i particolari di alcuni crimini di guerra commessi durante le operazioni militari degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan, e le schede dei detenuti torturati a Guantanamo. A finire sotto accusa, però, è stato proprio Assange, che negli Usa rischia fino a 175 anni di carcere. La Corte di Westminster ha appena dato parere favorevole all’estradizione, ora l’ultima parola spetta al governo britannico

LORENZO VENDEMIALE Non è una sconfitta ammettere in partenza che verranno indagati alcuni crimini sì e altri no, a seconda di chi li ha commessi?

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE No comment

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Con un Tribunale senza forze e riconoscimento, i criminali di guerra spesso restano impuniti. Ne sa qualcosa Cuno Tarfusser, ex giudice italiano a L’Aia

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 Gli Stati devono finalmente capire che una corte penale non può essere come una tigre con dei denti da latte. in questi 11 anni ho riflettuto molto anche sulla reale volontà da parte della comunità internazionale di una corte penale forte o che possa incidere davvero.

LORENZO VENDEMIALE Cioè non c'è questa reale volontà

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 secondo me c'è molto a parole e nei fatti molto meno.

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Attualmente, solo 8 persone sono detenute nel carcere di Scheveningen, mentre 12 ricercati sono ancora fuggitivi. Fra questi, Saif Al Islam, figlio di Gheddafi, ricercato dal 2011 per omicidi e persecuzioni politiche, processato e graziato in Libia. Oppure Omar Al Bashir, ex presidente del Sudan, accusato di genocidio in Darfur. Deposto nel 2019, non è mai stato consegnato alla Corte Internazionale, nemmeno dai Paesi che avrebbero dovuto farlo

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 quando si è recato in Sudafrica alcuni anni fa ci siamo andati estremamente vicini all'arresto

LORENZO VENDEMIALE Però non ce l'avete fatta

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 Però non ce l'abbiamo fatta. Una volta venuto a sapere che al Bashir si sarebbe recato invitato dal Sudafrica, ho ricordato al Sudafrica, guarda che se viene tu hai l'obbligo di arrestarlo e di consegnare al Bashir. di fronte a questa sollecitazione il Sudafrica ha fatto sì che al-Bashir potesse arrivare

LORENZO VENDEMIALE Impunemente

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 impunemente

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Oggi si invoca l’intervento della Corte penale sui crimini commessi in Ucraina. Ma negli ultimi 20 anni il Tribunale internazionale è riuscito a fare giustizia solo in pochi casi. Quando cioè i colpevoli erano già stati sconfitti dagli eventi. Ad esempio, i militari congolesi Thomas Lubanga e Germain Katanga, i primi due criminali di guerra condannati dal Tribunale de L’Aia

LORENZO VENDEMIALE Non c’è il rischio che la Corte finisca per diventare il Tribunale degli sconfitti, mentre i pezzi grossi alla fine la fanno franca?

PIOTR HOFMANSKI – PRESIDENTE CORTE PENALE INTERNAZIONALE Non è un rischio, è la realtà. Non possiamo punire tutti i criminali del mondo, ma abbiamo il dovere di provarci. Anche se ci vorrà tempo.

JOE BIDEN – PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI Dobbiamo raccogliere le prove, perché ci sia un vero processo. Quest’uomo è brutale

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 c'è un po' di ipocrisia quando Biden chiede il processo per Putin quando lo stesso Biden, gli Stati Uniti non ne fanno parte. perché noi ovviamente abbiamo delle leggi da osservare la Corte ha che questi che adesso invocano non ci ha dato

LORENZO VENDEMIALE visti i precedenti, secondo lei quante possibilità ci sono che la Corte riesca davvero a far luce su quanto sta accadendo in Ucraina

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 l'accertamento è certamente possibile, che i crimini sono stati commessi, quali crimini e chi ne è responsabile

LORENZO VENDEMIALE assicurare alla giustizia i responsabili?

CUNO TARFUSSER – GIUDICE ITALIANO A L’AIA 2009-2019 dal punto di vista odierno questo sarà il limite e oltre questo, oltre un mandato di cattura che non verrà eseguito, non si va. Oggi non c’è nessuna possibilità. Dico però anche aggiungo che la storia insegna che i dittatori prima o poi cadono.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Prima o poi. Però nel mezzo fanno la guerra. La Corte penale internazionale nasce dalle ceneri di quella che era stata istituita ad hoc per giudicare i crimini commessi nella guerra in ex Jugoslavia. Proprio per evitare però che un vincitore giudicasse un vinto, era stata istituita questa permanente. Doveva essere forte e indipendente. Invece abbiamo sentito dalla stessa voce dei magistrati che la rappresentano che ha le armi spuntate. Potrebbe anche arrivare ad emettere un mandato di cattura nei confronti di Putin, però poi Putin continuerebbe a girare tranquillamente nel suo Paese, potrebbe anche viaggiare nei Paesi amici, sarebbe solo un duro colpo dal punto di vista dell’immagine, simbolico. Questo perché non è mai stata fornita la Corte di quelli strumenti necessari per assicurare alla giustizia i colpevoli. Oggi sono 17 le inchieste aperte, 12 ricercati, tre di questi potrebbero essere addirittura anche morti, 8 sono nel carcere dell’ Aja, molti sono detenuti in attesa di giudizio. Ora quello che abbiamo capito dal nostro racconto è che la Corte può giudicare crimini commessi in Uganda, Sudan, Kenya, però quando comincia ad interessarsi di quelli commessi in Afghanistan Iraq, Palestina, viene osteggiata. Cioè praticamente quando si sono toccati degli interessi occidentali. Sono debolezze che rischiano di compromettere anche le indagini in Ucraina in questo momento. Anche l’Italia che nel ’98 aveva concesso la capitale come sede dello statuto della Corte penale internazionale, che ha sempre supportato, non ha però mai aggiornato il proprio ordinamento introducendo i reati di crimini di guerra né il principio di giurisdizione universale. In sintesi significa che non possiamo contribuire appieno ad eventuali inchieste sui crimini in Ucraina. Dovrebbero invece collaborare tutti i Paesi. Altrimenti la giustizia internazionale non rimarrà che una grande ragnatela: dove rimangono impigliati solo i piccoli insetti, i grandi riescono sempre a farla franca.

Il diritto penale nella guerra. Il processo al nemico non può essere giusto, ecco perché. Massimo Donini su Il Riformista il 28 Aprile 2022. 

Non è certo la prima volta che una guerra civile si inserisce in un conflitto internazionale. Fu così in Italia nel 1943-45: una guerra che da soli, e senza una dimensione mondiale, non si sarebbe vinta, e forse neppure iniziata; e questo ricordo sostiene oggi chi pensa di assimilare la resistenza ucraina a quella italiana – vicende profondamente differenti – anche per meglio contrastare chi è contrario a forme più fortemente armate di “intervento umanitario”. Noi non crediamo agli interventi solo umanitari, non perché non siano ispirati anche da giuste finalità salvifiche, tra i vari obiettivi, quanto perché sono sempre sorretti da molte altre interessate valutazioni politiche, economiche ecc. Invece, trasmettere solo immagini di stermini degli ucraini, accanto a quelle della debolezza del nemico russo, appare un modo di argomentare criminalizzante e di parte che trascura le valutazioni più ampie del contesto geopolitico, capaci di spiegare e intendere una guerra di aggressione nelle sue “ragioni strategiche”.

In altri Paesi le cause della guerra sono più ampiamente discusse al pari dei suoi crimini. Veniamo così al tema che vorremmo affrontare: l’effetto del clima bellico e della logica del nemico sullo spazio che è rimasto alle ragioni del diritto. Inter arma silent leges (Cicerone, Pro Milone, 4, 11). È ancora vera questa regola antica? Finalmente gli esperti di “giustizia” sono ridotti al balbettio, e se non sanno mai dire, normalmente, che cosa succederà, ora neppure sanno che cosa deve succedere. Si invocano alte Corti di giustizia internazionale, una nuova Norimberga, si sostiene la censura che divide gli amici dai nemici, ma sono più i generali a parlare, oltre a qualche appassionato o esperto di geopolitica. Nella società civile chi non censura senza riserve è già visto dall’altra parte. Non sono ammesse imparzialità, i distinguo sono vietati o sempre contraddetti, sono concessioni a chi deve essere sconfitto e dopo, semmai, soltanto punito. È questa la logica del nemico, ed è esattamente la logica che non lascia spazio al diritto mentre lo sta invocando. Infatti, il ius non ha nemici, perché quando comincia a combattere la parte di un giudizio, è già diventato un’arma di offesa. In realtà l’unico diritto di cui è possibile parlare adesso è quello delle vittime, le vittime della guerra.

Sennonché il contesto nel quale è inserito tale diritto è ormai quello del delitto che si è commesso nel produrre queste stragi. È sempre il crimine di guerra, e dunque la criminalizzazione del nemico il tema giuridico che avvolge i diritti. La necessità dell’intervento armato e della difesa ad oltranza, che pare tutt’uno con l’escalation militare e di odio in atto, ha anche ridimensionato la ricerca delle strade per diminuire, di fatto, le vittime attraverso strumenti di pace: i diritti delle vittime dell’aggressione a una autodifesa diretta mettono in secondo piano il tema della riduzione delle vittime, perché la libertà politica, nazionale, esistenziale prevale sulla vita stessa. È una scelta di campo a favore di una guerra di indipendenza e di liberazione che consente agli ucraini di difendere per procura gli stessi interessi europei e occidentali, al prezzo delle proprie vite. L’appoggio militare e la promessa di entrare nell’Ue e chissà se in seguito anche nella Nato, oltre all’impegno economico per la ricostruzione, sono la contropartita che viene offerta a quel Paese, oltre all’accoglienza dei profughi.

Si tratta dunque di una apparente sconfessione di quell’antico e famoso assunto ciceroniano che la guerra, di fatto, mette il bavaglio alle leggi, perché si introducono difese legittime e costruzioni normative di future sentenze. Non solo esistono leggi di guerra (ius ad bellum, ius in bello), codici penali militari di guerra e trattati internazionali sull’uso delle armi, sul trattamento dei prigionieri e dei feriti ecc., ma diritti di fronte alla guerra. Il tema più nuovo, tuttavia, non è tanto quello dei diritti dei singoli, dei diritti umani di fronte alle armi, dei limiti a un uso “corretto” di strumenti di sterminio di massa. Sono due i temi emergenti: 1) se sia davvero possibile una guerra senza crimini di guerra e un giudizio legale di fronte al nemico; 2) se esistono diritti collettivi, di gruppi, di popoli, o di moltitudini, di fronte a conflitti militari.

Il primo interrogativo è disorientante. Non si può comparare qualche eccesso individuale e minore alle stragi di civili pianificate, agli stupri collettivi e sistematici, alle deportazioni, all’uso di armi solo letali potenziate per uccidere gli inermi. Eppure, chi non sa che le guerre non riguardano mai solo i militari uccisi? Che se i civili vi prendono parte attiva subiranno la medesima sorte? Che le guerre non sono solo di, e tra, eserciti? Che questa è la ragione per la quale alcuni le considerano un crimine in sé?  Dunque, la criminalizzazione dell’invasore, di chi entra in un territorio già diviso in fazioni ed eserciti, è quasi inevitabile anche senza la vigenza o l’applicabilità del crimine di aggressione, ma dà il segno di un mutamento culturale straordinario rispetto alle descrizioni classici dei libri di storia. La guerra di aggressione è un crimine che genera necessariamente altri crimini. Qui il diritto accompagna e segue gli eventi finché le armi non cederanno all’esercizio dei giudizi. Cedant arma togae è l’altro messaggio di Cicerone (De officis, I, 22, 77), questa volta prescrittivo.

Tuttavia, affinché il ius si possa davvero esprimere, la persona giudicata non deve essere più un nemico, ma un nemico sconfitto, perché chi maneggia ancora le armi può essere solo contrastato o neutralizzato, anziché giudicato in modo imparziale. I penalisti discutono da alcuni decenni del diritto penale del nemico, come quello che vede nell’imputato, o in certe tipologie di autori (per es. di terrorismo, criminalità organizzata ecc.) una non persona o preferibilmente una persona solo da neutralizzare e sbaragliare, da escludere senza possibilità di un dialogo interculturale e preventivo (è il modello delle leggi e prassi americane dopo l’11 settembre, o dell’art. 41-bis del nostro ordinamento penitenziario), che la pena dovrebbe poter normalmente attivare verso la coscienza di un soggetto “colpevole”, ma suscettibile di una restaurazione di valori pur sempre comuni o compresi.

In grande maggioranza i penalisti hanno concluso che il diritto penale del nemico (così inteso, non come diritto di guerra regolato, e in senso stretto) è un non diritto o un diritto illegittimo, perché, se legittimo, non può mai vedere un nemico nella persona giudicata o in esecuzione. Infatti, affinché un giudice rimanga terzo tra accusa e difesa, non deve sentirsi coinvolto in una guerra contro uno dei soggetti processuali. Il ius non sta dalla parte né dell’accusa, né della difesa. Per tali ragioni è ambiguo il suo impiego anticipato in un clima che induce a parlare del diritto solo se si è preliminarmente professata la condanna massmediatica di qualche criminale-macellaio e la fede nell’uso punitivo del ius contro di lui.

Il secondo quesito è assai più eversivo. La tutela dei diritti fondamentali non assicura le moltitudini, non le ha mai protette a sufficienza. Non parliamo dei “popoli”. I popoli, dal tempo del Leviatano di Hobbes (1651), hanno rappresentanze nazionali, e ceduto diritti agli Stati per essere protetti da nemici interni ed esterni. Così quando lo Stato li chiamava alle armi avevano l’obbligo di combattere, anche come carne da cannone. E i popoli “avversari” ancora oggi sono tutelati solo dal rispettivo Stato nazionale, che li può esporre a diventare in massa un obiettivo-target. Dopo la nascita dei diritti fondamentali sono tutti protetti anche nei confronti dei propri e altrui Stati, ma solo come individui o in vista della loro “autodeterminazione”, non come moltitudini. Invece il diritto di non essere coinvolti, come moltitudine, in una guerra che colpisce indiscriminatamente i “civili”, chi lo tutela? E il diritto di non prestarsi a commettere guerre di aggressione e crimini di guerra chi lo protegge? Le moltitudini non hanno diritti e i popoli li hanno ceduti.

Questo tema eversivo si collega al crimine di genocidio, la cui nascita giuridica, a Norimberga, riguarda la protezione di gruppi (nazionali, religiosi, “razziali” etc.), non di singole persone. Incriminare azioni finalizzate all’annientamento, sia fisico, sia culturale, di “gruppi” poteva criminalizzare tutto il colonialismo europeo, fino ai pilgrim fathers, come del resto è accaduto di recente con la critical race theory. Era dunque un reato politicamente pericoloso per gli Stati, per la rilettura della storia, per il nazionalismo. L’orrore della Shoah prevalse sulle resistenze che privilegiavano la protezione dei (soli) diritti individuali. Oggi si invoca di nuovo, e spesso senza basi consistenti, la violazione del genocidio, anche solo culturale, a proposito del conflitto in Ucraina. Ma non si tematizza ciò che veramente questa fattispecie ha costruito: il diritto di moltitudini non rappresentate nel popolo di una specifica nazione, di fronte agli Stati, a chi agisca per loro mandato, o a chi rappresenti un diverso “gruppo”. È questo un diritto estraneo alla logica del conflitto tra individuo e autorità, perché riguarda le moltitudini non rappresentate.

Chi protegge gli ucraini che non vogliono combattere, i russi che non vogliono prendere le armi, gli europei che non vogliono entrare in guerra? Che vi siano Stati democratici o Stati autoritari, democrazie o dittature, la sorte delle moltitudini non è tanto diversa. Hanno comunque ceduto alcuni diritti di cittadini e ora gli Stati dispongono delle loro vite, a tal punto che se non si “intruppano” sono già disertori, e se subiscono un attacco in massa come popolazioni aggredite, sono solo moltitudini che hanno al limite diritti individuali. Qui le leggi e il diritto non sono ancora arrivati e perché ciò avvenga occorre che si sviluppi un movimento che sostenga una pretesa giuridica delle moltitudini verso gli Stati, dei civili non belligeranti.

È giusto che una nazione combatta per la propria libertà e indipendenza, ma al prezzo che decide di voler pagare in proprio, anche se attraverso aiuti esterni. Tuttavia, se questo avviene in nome di nuovi nazionalismi internazionali, come quelli che hanno prodotto o sostenuto la maggior parte dei conflitti armati nella storia, o di contrapposizioni tra blocchi, allora cambia molto il contesto della difesa e del soccorso difensivo, e meglio sarebbe tutelare le moltitudini di civili non rappresentate, ma anche le più colpite, da qualche bandiera statale, il loro ius contra bellum. Ma chi vorrà riconoscere nuovi diritti a queste moltitudini senza rappresentanza negli Stati? Massimo Donini

LA LEGGE E LA GUERRA IN UCRAINA. Di cosa si parla quando si parla di genocidio. La giurisprudenza dei tribunali internazionali. VITALBA AZZOLLINI su Il Domani il 25 aprile 2022

Le atrocità compiute in Ucraina dopo l’aggressione della Russia sono tali che la loro qualificazione giuridica può sembrare un inutile esercizio teorico. Ma è oggetto dell’attività della Corte Penale Internazionale, che sta già raccogliendo e valutando prove.

La Convenzione Onu sul genocidio indica una serie di atti che concretano questo crimine.  Prende di mira determinate persone non per la loro «identità individuale», ma per la «appartenenza a un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».

Il genocidio si caratterizza per la presenza di un “intento specifico” di distruggere un gruppo. Se non viene comprovato tale intento, «qualunque sia il grado di atrocità di un atto e per quanto simile possa essere agli atti descritti nella convenzione, quell'atto non può essere definito genocidio». 

VITALBA AZZOLLINI. Giurista, lavora presso un'Autorità indipendente. È autrice di articoli e paper in materia giuridica, nonché di contributi a libri per IBL. A titolo personale.

Parametri e tribunali, così si distinguono i due reati. Redazione su Il Corriere della Sera il 14 aprile 2022.

E se l'escalation diventa anche verbale? Per il presidente Usa Joe Biden, in Ucraina le truppe russe stanno commettendo un genocidio e la stessa accusa nei confronti di Vladimir Putin è stata mossa dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Parole pesanti, che creano, se possibile, ulteriore tensione in un momento così critico. Emmanuel Macron getta acqua sul fuoco e preferisce parlare di «crimini di guerra». La Cina avverte che usare certi termini crea tensione. L'organismo competente per giudicare queste categorie di crimini è la Corte internazionale di giustizia (Icc/Cpi), con sede all'Aja. Nè la Russia nè l'Ucraina ne fanno parte, tuttavia Kiev ha accettato la giurisdizione della Corte per i crimini commessi sul suo territorio a partire dall'invasione russa della Crimea, nel 2014. È sulla base di questo «via libera» che lo scorso 3 marzo la Cpi ha aperto un'indagine su sospetti crimini di guerra compiuti in Ucraina. Ecco qual è la differenza tra le varie categorie che rientrano nelle competenze della Cpi, ovvero crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio. Di recente è stata inoltre istituita una nuova categoria, il crimine di aggressione. I crimini di guerra sono gravi violazioni del diritto internazionale contro civili e combattenti durante i conflitti armati. I parametri per individuare ciò che costituisce un crimine di guerra sono individuati dall'articolo 8 dello Statuto di Roma del 1998, che ha istituito la Cpi: si tratta di «gravi violazioni» delle Convenzioni di Ginevra del 1949, ovvero oltre 50 ipotesi di reato, tra le quali uccisioni, torture, stupri e presa di ostaggi, nonché attacchi a missioni umanitarie. L'articolo 8 riguarda anche gli attacchi deliberati contro civili o «città, villaggi, abitazioni, edifici che sono indifesi e che non sono obiettivi militari» nonché la «deportazione o trasferimento di tutta o parte della popolazione» di un territorio occupato. Le autorità ucraine affermano di aver finora ricevuto 5.600 denunce di presunti crimini di guerra da parte delle forze russe dall'inizio dell'invasione il 24 febbraio. La nozione di tale reato è stata formulata per la prima volta l'8 agosto 1945 e codificata nell'articolo 7 dello Statuto di Roma. I crimini contro l'umanità possono verificarsi in tempo di pace e includono torture, stupri e discriminazioni, siano esse razziali, etniche, culturali, religiose o di genere. Il genocidio come concetto legale risale ai processi di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti. Il termine è stato coniato dall'avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin per descrivere lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei. Il reato di genocidio è stato formalmente creato nella Convenzione sul genocidio del 1948 per descrivere «atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il genocidio è un «crimine internazionale molto specifico» che è difficile da provare, perché richiede la prova della «motivazione mentale» dietro di esso. Tra i crimini riconosciuti come genocidio c'è quello commesso nel 1994 in Ruanda ai danni dei tutsi e degli hutu moderati. Nel 2017 la Cpi ha aggiunto il crimine di aggressione al suo mandato che riguarda gli attacchi alla «sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica» di un altro Paese. Il reato mira a garantire che i leader politici e militari siano ritenuti responsabili delle invasioni, ma non può essere utilizzato contro le decine di membri della Cpi che non hanno riconosciuto la giurisdizione del tribunale, nè contro i non membri. I giuristi ritengono che invocare questo crimine nei confronti del presidente russo potrebbe richiedere l'istituzione di un tribunale speciale per l'Ucraina.

Gli organismi internazionali sono da riformare. L’Onu e gli altri: la crisi messa a nudo dal conflitto. Angelo De Mattia su Il Riformista il 10 Aprile 2022. 

Dopo tanto discutere, anche se in sedi pressoché esclusive, sulla globalizzazione, sulla necessità di quello che si chiamò un tempo il global legal standard, le nuove regole per le attività economiche e finanziarie (ma non solo), sulla globalizzazione della solidarietà e su quella in generale del diritto concependo l’esigenza di un nuovo ius gentium, nessuno avrebbe potuto immaginare, prima del 24 febbraio, nonostante le ricadute della pandemia, il colpo che sarebbe stato inferto alla stessa globalizzazione con la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.

Le tre fasi del fenomeno degli ultimi 20-25 anni – la globalizzazione dei commerci, della finanza e degli uomini – hanno apportato miglioramenti anche nei Paesi meno favoriti, ma hanno pure accentuato le disuguaglianze, mentre sono mancate la forza, la capacità e i consensi, a livello mondiale, per regolare il fenomeno: basti pensare al tema delle migrazioni. Sembra quasi avere ancora oggi valore la frase contenuta in uno degli epigrammi di Marziale: Semper pauper eris, si pauper es. Dantur opes nullis nisi divitibus. All’inizio degli anni duemila, con le spinte alla remissione del debito dei Paesi poveri in occasione del Giubileo della Chiesa cattolica, forse ci si era illusi che il cammino verso un nuovo ordine internazionale, inizialmente anche se solo monetario, sarebbe stato non impervio. Erano gli anni in cui, anche nel G20, si parlava di istituzionalizzare la categoria dei “beni pubblici globali” e ritornava l’attenzione a Bretton Woods, a ciò che in quella Conferenza fu deciso, mentre stava finendo il secondo conflitto mondiale, con l’Istituzione del Fondo monetario internazionale, e a ciò che non fu approvato, la moneta mondiale, il Bancor, progettata da J.M. Keynes. Era comunque la fase in cui, con la Conferenza di Yalta, il mondo veniva regolato per aree di influenza, un’antitesi, in effetti, a possibili forme di integrazione.

Oggi si constata l’arretramento anche da quelle aspirazioni non approfondite adeguatamente negli anni della crisi finanziaria globale, a partire dal 2008, e poi in quelli dei debiti pubblici e negli anni, successivi, degli impatti della pandemia e della ripresa dell’inflazione. Al più, il tema di un nuovo ordine rimaneva la conclusione non rigorosamente analizzata, quasi una conclusiva clausola di stile, di discorsi che affrontavano argomenti più ravvicinati. In questo quadro di incertezze, piomba la guerra la quale mette a nudo il ruolo dei principali organismi internazionali, a cominciare dall’Onu che oggi manifesta ancor più la sua debolezza, ma anche l’assoluta difficoltà di iniziative che fossero volte a superarla, a cominciare da quella riguardante il diritto di veto che hanno i membri del Consiglio di sicurezza.

Una tale difficilissima, se non oggi impossibile, revisione dovrebbe essere comunque parte di una più ampia riforma che riguardi la struttura e il funzionamento dell’organismo nonché i suoi rapporti con altre istituzioni internazionali – del pari da riformare – quali , tra le altre, il Fondo monetario internazionale e il Financial Stability Board (quest’ultimo, da un po’ di tempo, addirittura “non pervenuto”), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare, il Fondo monetario potrebbe assumere la configurazione di una istituzione che presieda alla liquidità monetaria internazionale, sulla scia del progetto di Banca centrale mondiale che era caro a Keynes, rafforzando il ruolo del Financial Board nella prevenzione delle crisi. Vi è, poi, il ruolo della Nato – anche se ci si sposta così verso organi che rappresentano alleanze di Stati – messo alla prova dalla guerra in corso con il bisogno, ora pressante, di una riflessione. Anche i rapporti tra Banche centrali delle diverse aree del globo andrebbero analizzati nella prospettiva di istituzionalizzare momenti di confronto e di possibili convergenze.

Si sta manifestando, altresì, il problema delle Corti internazionali e del fondamento, nonché dell’applicazione dei loro poteri, a cominciare dal perseguimento dei crimini contro i diritti umani e dai crimini di guerra. Lo ius publicum globale è tutto da costruire se si pensa all’organicità dei principi, delle norme e della giurisdizione nonché al loro fondamento. Finora, anche i giuristi si sono prevalentemente esercitati sulla legislazione europea e sulla sua applicazione pure ai privati. Non è comunque alle viste un sia pure “ collettivo” Ugo Grozio o un Francisco de Vitoria che diano impulso al rinnovamento auspicato, per di più nell’ora più buia in cui la barbarie delle truppe putiniane si macchia in Ucraina di orrori e del sangue di persone inermi. L’indignazione, la condanna, il riferimento al diritto naturale sono spontanei e toccano tutti i punti del globo. Ma come darvi uno sbocco concreto? Bisogna aspettare la fine della guerra per costruire e ricostruire nel diritto e negli ordinamenti alla stregua di ciò che avvenne nel secondo conflitto mondiale? E ora ci si relega nell’inerzia, dopo avere accentuato l’analisi e l’aggettivizzazione delle stragi? Esiste, insomma, un sequitur tra i feroci massacri che si osservano e le iniziative che si intraprendono dall’Occidente? E il problema irrisolto, a cominciare dalle diverse aree del mondo, delle migrazioni e ora, a maggior ragione, dell’ingrossarsi delle file dei profughi e dei rifugiati? Una mobilitazione non solo della politica, ma anche degli studiosi su questi temi si imporrebbe. Angelo De Mattia

Da lastampa.it il 7 aprile 2022.  

L’Assemblea Generale dell'Onu, sulla richiesta degli Usa, ha votato la sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra. 

93 i paesi favorevoli, 24 i contrari (oltre ovviamente alla Russia, anche la Cina) e 58 gli astenuti. Per approvarla serviva la maggioranza dei due terzi dei Paesi votanti.

Nella bozza di risoluzione - tra i co-sponsor c'era anche l'Italia - si chiedeva di «sospendere il diritto della Russia di far parte del Consiglio, esprimendo grave preoccupazione per la crisi umanitaria in Ucraina, in particolare per le notizie di violazioni e abusi del diritto internazionale umanitario da parte di Mosca». 

L’ultima volta che l’Onu aveva votato l’espulsione di un paese dal Consiglio era stata nel 2011: allora era toccato alla Libia.

La risposta all’appello di Zelensky

La decisione dell’Assemblea generale è di fatto una prima risposta dell’Onu alle richieste (e alle accuse) del presidente ucraino Zelensky, che proprio in videocollegamento con le Nazioni Unite si era chiesto a cosa servisse l’Onu se, di fronte ad attacchi e crimini di guerra efferati come quelli commessi dalla Russia, non fosse in grado di prendere alcuna decisione.

«Se l’unica cosa che si produce sono parole, allora è meglio sciogliere le Nazioni Unite», aveva provocatoriamente dichiarato il presidente. Parole in sostanza ribadite prima del voto dell’Assemblea di oggi dall'ambasciatore dell'Ucraina all'Onu, Sergiy Kyslytsya. «Tutti in Assemblea Generale hanno la possibilità di prendere la decisione moralmente giusta. Se non lo fanno è colpa loro, e devono incolpare loro stessi».

Cosa è e cosa promuove il Consiglio

Il Consiglio dei Diritti Umani, organo sussidiario dell'Assemblea Generale, con sede a Ginevra, è stato creato nel 2006 in sostituzione della Commissione per i Diritti Umani, con il compito di promuovere il rispetto universale e la protezione dei diritti umani, di intervenire in caso di loro violazione e di favorire il coordinamento delle strutture operanti nel sistema Nazioni Unite. 

Il Consiglio è composto da 47 stati membri (13 dall’Asia, 13 dall’Africa, 8 dall’America Latina, 7 del Gruppo Occidentale e 6 dall’Europa Orientale), eletti a rotazione dall’Assemblea Generale per un periodo iniziale di tre anni, rinnovabili non più di due volte consecutive. Il Consiglio si riunisce a Ginevra in 3 sessioni ordinarie l'anno (febbraio, maggio e settembre) per complessive 10 settimane di lavori, cui si aggiungono le sessioni speciali dedicate a singole questioni urgenti, e convocate su richiesta di almeno 1/3 dei membri. 

Russia già fuori dal Consiglio d’Europa

La guerra in Ucraina era già costata alla Russia l’esclusione dal Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale nata nel 1949 per difendere democrazia e diritti umani e che comprende tutti gli Stati del continente tranne la Bielorussia

Diritti umani Onu, i 24 Paesi che hanno votato pro Mosca: anche Cina, Mali e molte repubbliche ex sovietiche. Con 93 voti favorevoli (Italia compresa) l'Onu ha deciso di escludere Mosca. Il Messaggero Giovedì 7 Aprile 2022

L'Assemblea Generale dell'Onu ha sospeso la Russia dal dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra. La richiesta avanzata dagli Stati Uniti, è stata accolta con 93 voti favorevoli. Nella bozza di risoluzione - tra i cui co-sponsor c'è anche l'Italia - si chiede di «sospendere il diritto della Russia di far parte» del Consiglio esprimendo «grave preoccupazione per la crisi umanitaria in Ucraina, in particolare per le notizie di violazioni e abusi del diritto internazionale umanitario da parte di Mosca».

La Cina in testa, poi le altre alleate di Putin. Sono 24 i Paesi che si sono schierati contro la la sospensione dal Consiglio dei diritti umani. Si tratta, oltre alla Russia stessa, di Algeria, Bielorussia, Bolivia, Burundi, Repubblica Centrafricana, Cina, Congo, Cuba, Corea del Nord, Eritrea, Etiopia, Gabon, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Laos, Mali, Nicaragua, Siria, Tajikistan, Uzbekistan, Viet Nam e Zimbabwe.

Ucraina, Onu adotta risoluzione di condanna all'invasione russa. Ma 5 Paesi  si oppongono. Ecco quali - Il Mattino.it

Articolo del “Wall Street Journal” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” l'8 aprile 2022.

Le Nazioni Unite hanno finalmente fatto qualcosa di utile riguardo alla guerra di Vladimir Putin all'Ucraina, dato che l'Assemblea Generale ha votato giovedì per sospendere la Russia dal Consiglio dei Diritti Umani. Il voto è un segno tra i tanti di questa settimana che la scoperta di probabili crimini di guerra russi in Ucraina sta causando maggiori problemi al Cremlino.

Il voto dell'ONU è stato di 93-24, più della maggioranza di due terzi necessaria. L'effetto pratico è trascurabile, ma il simbolismo conta qualcosa quando la Russia è bandita da un Consiglio dei Diritti Umani che include nomi come Venezuela, Cuba e Cina. Apparentemente il Cremlino è troppo imbarazzante come arbitro dei diritti umani anche per le Nazioni Unite – leggiamo nell’editoriale del WSJ.

Le 23 nazioni che hanno votato con la Russia includono i soliti sospetti: Cuba, Corea del Nord, Siria, Iran, Bielorussia e Cina. "Trattare l'appartenenza al Consiglio dei Diritti Umani in questo modo creerà un nuovo pericoloso precedente, intensificherà ulteriormente il confronto nel campo dei diritti umani, portando un maggiore impatto sul sistema di governance delle Nazioni Unite, e produrrà gravi conseguenze", ha detto l'ambasciatore cinese all'ONU Zhang Jun. 

Traduzione: Pechino teme che il voto possa indurre qualcuno a tirare in ballo i campi di rieducazione per gli uiguri nello Xinjiang.

Cinquantotto paesi si sono astenuti dal voto, dopo che la Russia aveva tranquillamente minacciato i paesi di punizione se avessero votato per la sospensione. Tra i paesi che non si sono astenuti figurano l'Arabia Saudita, l'Indonesia, il Messico e la Giordania. 

Il Kuwait merita una speciale menzione disonorevole per essersi astenuto. I suoi leader hanno dimenticato come gli Stati Uniti li hanno salvati dalle prigioni di Saddam Hussein nel 1991? Anche l'India mantiene il suo steccato morale e strategico in questa guerra, che diventa più difficile da difendere man mano che la barbarie della Russia diventa ovvia.

Su questo punto, si stanno accumulando prove che la brutalità della Russia è deliberata. Der Spiegel, la rivista tedesca, ha riferito che l'intelligence tedesca ha intercettato il traffico radio dei soldati russi che operano a nord di Kiev, vicino a Bucha dove sono state scoperte le fosse comuni. 

Fonti hanno detto alla rivista che le intercettazioni indicano "che l'omicidio di civili è diventato un elemento standard dell'attività militare russa, potenzialmente anche parte di una strategia più ampia. L'intenzione è quella di diffondere la paura tra la popolazione civile e quindi ridurre la volontà di resistere". Questo è conforme alla strategia russa di bombardamento indiscriminato delle città ucraine.

Le atrocità stanno aumentando il sostegno occidentale per più sanzioni alla Russia e più armi per l'Ucraina. L'Unione Europea ha approvato giovedì nuove sanzioni che includono una graduale eliminazione delle importazioni di carbone russo e il blocco delle navi russe dai porti dell'UE. La Germania e altri paesi possono trovare sostituti pronti per il carbone russo, anche se ci vuole tempo.

Ma la vergogna è che l'UE non vuole ancora vietare l'importazione di petrolio e gas russo. Questo significa che ogni giorno l'Europa sovvenziona la guerra della Russia finanziando il Cremlino. Se un divieto è troppo, l'UE dovrebbe almeno mettere i pagamenti per l'energia russa in un conto di garanzia fino a quando Putin terminerà la sua guerra, come ha suggerito il nostro Holman Jenkins. 

Il Senato degli Stati Uniti si è anche mosso giovedì per fornire più aiuto all'Ucraina, approvando una legge "lend lease" che permetterà al Pentagono di accelerare la consegna di attrezzature militari e altre forniture all'Ucraina. Permette anche che l'equipaggiamento sia consegnato come un dono per ora, con la promessa di ripagare in una data successiva. Speriamo che la Camera approvi rapidamente il disegno di legge.

L'Ucraina ha vinto la battaglia di Kiev, ma la battaglia per il Donbas a est sarà probabilmente ancora più selvaggia. L'Ucraina sa che se Putin occupa un quarto del paese, può congelare il conflitto e riarmarsi per futuri attacchi. Potrebbe anche pianificare un assalto alla città portuale di Odessa per tagliare tutta l'Ucraina dall'accesso al Mar Nero. 

Questa guerra potrebbe essere lunga, e la determinazione dell'Occidente dovrà corrispondere alla brutalità di Putin.

(ANSA il 13 aprile 2022) - Il Ministero degli Affari Esteri dell'Ucraina si è detto deluso dal fatto che il presidente francese Emmanuel Macron non abbia usato la parola "genocidio" per definire le atrocità degli occupanti russi. 

Lo afferma il portavoce Oleg Nikolenko, citato da Unian. "La riluttanza del presidente francese a riconoscere il genocidio degli ucraini dopo tutte le dichiarazioni esplicite della leadership russa e le azioni criminali dell'esercito russo è deludente", ha detto.

Il portavoce ha anche spiegato perché la propaganda russa sul "popolo fraterno" sia inappropriata. "Ucraina e Russia sono storicamente vicine per ragioni oggettive, ma il mito di due popoli fraterni, Russia e Ucraina, si è cominciato a sgretolare nel 2014. Poi i 'fratelli' russi sarebbero venuti a proteggere la popolazione di lingua russa. 

Ma in otto anni, hanno ucciso 14mila ucraini ", ha affermato. "I fratelli non uccidono i bambini, non sparano ai civili, non violentano le donne, non mutilano gli anziani e non distruggono le case di altri fratelli. Anche i nemici più feroci non ricorrono alle atrocità contro persone indifese", ha aggiunto.

(ANSA-AFP il 13 aprile 2022) - E' "inaccettabile" che il presidente Usa Joe Biden accusi Vladimir Putin di genocidio. Lo sostiene il Cremlino.

(ANSA il 13 aprile 2022) - Il blocco di Kiev di una visita del presidente Steinmeier è stato "irritante", lo ha detto il cancelliere Olaf Scholz in un'intervista a RBB. Scholz ha anche detto che per ora non andrà a Kiev.

(ANSA-AFP il 13 aprile 2022) - Il presidente francese Emmanuel Macron non ha usato il termine "genocidio", come il suo omologo statunitense Joe Biden, per accusare il presidente russo Vladimir Putin in relazione all'Ucraina, mettendo in dubbio l'utilità di una "escalation di parole" per porre fine alla guerra. Intervistato oggi da France 2 sulle dichiarazioni di Biden, Macron ha detto di voler essere "attento ai termini".

"Direi che la Russia ha iniziato unilateralmente una guerra brutale, che è ormai accertato che crimini di guerra sono stati commessi dall'esercito russo e che ora dobbiamo trovare i responsabili", ha spiegato. "È una follia quello che sta succedendo, è una brutalità inaudita, ma allo stesso tempo sto guardando i fatti e voglio cercare il più possibile di continuare a essere in grado di fermare questa guerra e ricostruire la pace, quindi non sono sicuro che l'escalation di parole servirà alla causa", ha aggiunto.

Alberto Simoni per “la Stampa” il 13 aprile 2022. 

Dopo aver definito Putin macellaio e averlo accusato di crimini di guerra, ieri il presidente Joe Biden ha rotto un altro tabù e per la prima volta, riferendosi agli attacchi in Ucraina, ha evocato il «genocidio». Biden stava parlando in Iowa per rilanciare il piano di investimenti interno. E ha detto che «il budget famigliare e la capacità di riempire il serbatoio di benzina non dovrebbe dipendere dal fatto che un dittatore dichiari guerra e commetta un genocidio dall'altra parte del mondo».

L'Amministrazione Usa non aveva mai pronunciato sinora il termine, limitandosi a riferirsi ai crimini di guerra. Per questo ha messo in piedi una task force con gli alleati per raccogliere le prove. Nei giorni scorsi il segretario di Stato Antony Blinken aveva precisato di non vedere quelle operazioni sistematiche di uccisioni che fanno fare un salto e consentono di parlare apertamente di genocidio. Lo scontro con la Russia va ormai oltre il conflitto ucraino. 

Il portavoce del Pentagono, John Kirby, ieri ha spiegato che la «questione della sicurezza in Europa è già cambiata» lasciando capire che non sarà la fine del conflitto a determinare quale sarà la posizione americana e degli alleati. Per questo il rafforzamento del fronte orientale della Nato prosegue. Kirby, in un briefing con i giornalisti, ha detto che in futuro alcune basi potrebbero diventare permanenti e non ha escluso l'invio di ulteriori soldati americani in Europa. All'inizio del conflitto ce ne erano 80mila, saliti nelle ultime settimane a oltre 100mila. La cifra potrebbe quindi aumentare. 

L'obiettivo Usa - ha spiegato il portavoce del Pentagono - resta la vittoria dell'Ucraina sul piano militare e la cacciata dei russi dal territorio di Kiev. Per questo la Nato e Washington continueranno a rifornire gli ucraini delle armi necessarie in vista dello scontro attorno al Donbass dove Putin sta ammassando le truppe e rafforzando la catena logistica.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 14 aprile 2022.

La guerra, la guerra, che porcheria. Che macello. Lo scompiglio totale. Più nulla è al suo posto. Uccidere diventa legittimo. Non più parole ma solo grida, minacce e ordini. I nemici sono implacabili, assetati di sangue, dei veri selvaggi. Invece di allargare le nostre frontiere umane le restringiamo. Invece di avanzare ripieghiamo nella barbarie. L'uomo? Buono per uccidere, buono per crepare.

Eppure c'è qualcosa che ci tiene al di qua della rassegnazione. È il Diritto. La memoria dei fatti scritta nei verbali del diritto. È questo che tiene lontano dalla contaminazione del male. Ogni atto che vien compiuto, i civili uccisi, i saccheggi, gli stupri, le violenze, le torture sono fissati, catalogati, descritti: delitti. 

Occorre documentarli, provarli con le testimonianze, i riscontri oggettivi e poi diventeranno giudizio, colpa e punizione. È questo che ci separa dagli assassini, singoli o collettivi; nel crimine contro l'uomo non ci sono «piccolezze», esiste solo ciò che ha valore, cioè l'uomo stesso e la sua sofferenza. Sì, in questa enorme, assurda realtà della guerra che continuamente smentisce il diritto ecco il luogo della sua obbligatoria resurrezione.

Non gettare la spugna. Rifiutare un determinismo storico per cui è la guerra stessa che giustifica i propri crimini, si auto assolve. In questo modo si purificano senza appello tutti i grandi e piccoli esseri nocivi all'umanità che nella guerra trovano spazio e autorità. È l'origine della forza dei Putin e insieme la nostra debolezza di mondo del Diritto, poiché malgrado la rigettiamo non abbiamo talvolta trovato una risposta soddisfacente. Che è proprio la ragione del diritto. E bisogna declinarla comunque, prima che la compassione del mondo per le vittime si esaurisca.

Ma la sporca guerra in Ucraina fa emergere con evidenza la responsabilità dello Stato, dei capi supremi, in questi delitti. Un dibattito pubblico il cui vetriolo spero porterà lontano. Oltre questa guerra. Non sono soltanto i soldati che hanno violato ogni legge a dovere essere processati, o gli ufficiali che li comandano sul campo di battaglia. 

Quelli che tenteranno di giustificarsi dicendo: ma ho obbedito agli ordini. C'è una colpa più grande, precedente, di coloro che li hanno incitati alla guerra senza imporre regole, non li hanno puniti per le violazioni, li hanno coperti. Allora la colpa degli uni, degli esecutori materiali delle atrocità, diventa la colpa anche degli altri, i generali, i ministri, il capo.

Avete risvegliato i lati oscuri, rinfocolato l'odio, avete fatto risorgere per l'ennesima volta il buio? Ebbene.

Avete fatto male i conti. Puniremo anche voi. È nell'audacia del diritto che troveremo la salvezza. Fondiamo la pace su questa mirabile aritmetica dei codici universali.

L'orrore anche firmato dai Grandi, non dimostra nulla, non ci sradica. Per processare Putin, bisogna arrestarlo e quindi vincerlo, si dice giustamente. Sì, c'è una tensione non sempre risolta tra la promessa della giustizia e la continua dilatazione a cui questa promessa è sottoposta per quelle che chiamiamo le necessità della Storia.

Ma dobbiamo dimostrare che la giustizia non è un lusso per tempi tranquilli. O legato alle scontrose strettoie della realpolitik. E si pensa subito al caso di Giulio Regeni, un altro delitto di Stato. La richiesta di processare le colpe dei capi è davvero reclamare la giustizia dal fondo delle ingiustizie come reclamava Elettra. Come invocava il personaggio tragico occorre riconoscere il male direttamente e fino in fondo. Il Male non può dissolversi solo per il ruolo pubblico di chi l'ha commesso.

Il Diritto funziona se è libero da ogni considerazione di opportunità politica, e conosce solo colpevoli o innocenti. Ovvio? Non quando dovrebbero salire sul banco degli imputati capi di governo, dittatori, caudillos. Nessuno ha chiesto il processo di Bashar al Assad per i delitti di undici anni di guerra siriana. In Germania sono stati condannati alcuni uomini dei servizi di sicurezza responsabili di atrocità nei confronti di oppositori e ribelli. Bashar ha ricominciato a fare visite di Stato e non soltanto nelle capitali dei suoi complici, Mosca e Teheran. Non si chiede di processarlo non tanto perché si dubita di poterlo arrestare, ma forse perché i suoi crimini sono stati possibili anche grazie alla indifferenza dell'occidente verso la sua guerra? In una certo modo dovremmo processare anche noi.

Dal 2016 da quando ne fu trovato al Cairo il cadavere torturato si trascina tra fumisterie, tartufismi, ipocrisie anestetiche, partite doppie, bugie eccellenti l'impossibile punizione dei responsabili della morte di Giulio Regeni. Governi italiani plurimi e di opposto colore politico, destra, sinistra, centro, tecnici e non, a parole chiedono al raiss egiziano la verità. Che secondo la magistratura e il governo sono uomini dei servizi di sicurezza egiziani. Ovvero detto con la proprietà transitiva del Diritto a torturare e uccidere il giovane ricercatore fu lo Stato egiziano.

Ma il governo italiano non ha mai accettato questa elementare verità e la conseguenza giuridica che ne deriva. Da sei anni i poveri genitori sono ostaggio di una tragica, vergognosa presa in giro che ad ogni anniversario si trasforma in rituale rimando: stiamo facendo il possibile in via diplomatica ma... Ma non c'è una via diplomatica che consiste nel chiedere aiuto all'assassino.

La via del Diritto se si è certi di avere le prove è rompere i rapporti diplomatici e denunciare il presidente Abdel al-Sisi e il suo ministro degli Interni, responsabile dei trucidi «mukhabarat», per concorso in torture e morte di un cittadino italiano davanti a una corte penale internazionale. Se si copre un delitto compiuto dai propri funzionari allora come per i soldati di Putin non lo si rifiuta e si è responsabili di quel delitto. Ci costerà anche in questo caso qualche fornitura di gas? Vogliamo la Giustizia o i termosifoni?

Maria Teresa Meli per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.

Non alza la voce, non enfatizza i toni, non accompagna le frasi che pronuncia con i gesti: gli orrori che racconta parlano da soli, non c'è bisogno di aggiungere altro. È un orrore che non può essere trasformato in uno show. 

La vicepremier ucraina Olha Stefanishyna elenca i crimini commessi dall'esercito russo davanti alla Commissione diritti umani, femminicidio e antidiscriminazione di Palazzo Madama. I parlamentari ascoltano in silenzio. La senatrice a vita Liliana Segre la segue da remoto: la mente va ai ricordi del passato, ai treni che portavano gli ebrei nei campi di concentramento, e si commuove. 

In video la vice di Zelensky appare calma, benché provata, volto struccato, maglioncino giallo, voce piatta, elenca le «atrocità» commesse dagli invasori: «La città di Mariupol non esiste più, nella città di Bucha il 90 per cento delle vittime è stato giustiziato sul posto con un colpo di proiettile. Abbiamo contato 36 crimini di guerra diversi. I russi non hanno avuto nessuna considerazione della vita umana».

Violenze sui più piccoli Già, perché il loro fine, Stefanishyna ne è convinta, è il «genocidio» del suo popolo: «Migliaia di cittadini ucraini sono stati deportati in Russia. Noi non sappiamo dove sono. Non riusciamo a rintracciarli». La voce si incrina per una manciata di secondi solo quando parla degli stupri, frutto della ferocia dell'invasore, ma anche della volontà di «umiliare» gli ucraini ed «eliminare così la resistenza». «La maggior parte degli stupri - spiega - sono avvenuti davanti agli occhi dei figli delle donne violentate. Madri violentate di fronte ai bambini, ma anche bambini violentati di fronte alle madri».

I crimini di guerra non hanno risparmiato nemmeno i più piccoli in questa invasione: «Ci sono esempi scioccanti. Una ragazza di 14 anni è stata stuprata da 5 soldati russi ed è rimasta incinta, un ragazzino di undici anni è stato violentato davanti alla madre, che era stata legata a una sedia, una giovane donna di vent' anni è stata stuprata in tutti i modi possibili da tre soldati russi. È incredibile, inimmaginabile». 

Sospira lievemente e aggiunge: «Questa è la Russia. E la loro guerra non si fermerà, perciò la risposta del mondo deve essere immediata. Aiutateci a difendere il nostro popolo, aiutateci perché stiamo morendo. È un genocidio...».

Stefanishyna continua a raccontare, le spalle piegate sotto un carico di dolore, e il suo atto di accusa non è rivolto solo a Putin che «punta a cancellare l'Ucraina come nazione separata». L'indice è rivolto anche contro il popolo russo: «La responsabilità di questi crimini è dell'intera società russa». La vicepremier solleva un tema che finora in Occidente non è stato quasi preso in considerazione. E nessuno dei senatori - diverse le assenze, circa uno su tre - lo riprenderà. Ma chi sta conducendo una guerra contro gli invasori non ha tempo di indulgere in artifici retorici e diplomatici. Lei lo fa capire già nella premessa: «È molto difficile trovare le parole politicamente esatte».

«Il popolo russo sa» Quindi la vice di Zelensky incalza: «Ognuno di quegli stupri, ognuna di quelle torture sta rivelando la vera faccia non solo di Putin ma anche dell'esercito russo, di ogni singolo soldato russo. E anche la popolazione russa è consapevole di quello che sta succedendo. 

Abbiamo registrato conversazioni di soldati con i famigliari che ammettevano gli stupri».

E ancora: «Il mondo civilizzato deve sapere che cosa hanno fatto i russi, io capisco che in molte nazioni prevale la volontà di vedere la parte buona del popolo russo. E anche noi vorremmo vederla, ma purtroppo quello che vediamo è il peggio». Quando Stefanishyna termina il suo racconto, Segre la ringrazia e ricorda: «Alla stazione di Milano c'è uno spazio dedicato alla memoria, è il binario 21 dal quale nel 1943, partivano i treni per i campi di concentramento. In questo luogo che custodisce ricordi di dolore e sofferenza campeggia una parola che oggi dobbiamo temere: indifferenza». Quindi la senatrice a vita spiega: «La sua testimonianza, così come le immagini e le parole dei racconti di questa folle guerra, scuotono le nostre coscienze e ci impediscono l'indifferenza. La capacità di indignarci davanti alle violenze è la cifra della nostra umanità».

Chi è il giudice italiano dell'Aja che giudicherà i crimini di Putin. Alessandro Ferro il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

A giudicare direttamente i crimini di guerra compiuti dall'esercito di Putin in Ucraina sarà un magistrato italiano: Rosario Salvatore Aitala, membro della Corte internazionale dell'Aja.

Un magistrato italiano giudicherà i crimini di guerra commessi da Putin: il giudice Rosario Salvatore Aitala fa parte del collegio della Corte penale internazionale ed è stato scelto per occuparsi del conflitto in Ucraina con Antoine Kesia-Mbe Mindua e Tomoko Akane, altri due togati. 54 anni, Aitala è un ex funzionario di polizia e insegna Diritto internazionale penale alla Luiss. Nel suo ultimo libro ha scritto che il diritto internazionale è "un modo di guardare il mondo" e diventare "testimoni di crimini che invocano giustizia".

Chi è il magistrato

Come accennato, Aitala è stato funzionario di polizia fino al 1992 mentre cinque anni dopo, nel 1997, è entrato in magistratura. Oltre a viaggiare molto all'estero, ha lavorato principalmente a Milano, Roma e Trapani, Roma. "Preparatissimo, di una correttezza esemplare: si vedeva che avrebbe fatto carriera", hanno affermato sul suo conto i veterani della Questura. Come si legge su TribunaTreviso se lo ricordano tutti, quel giovane capo di Gabinetto, a metà degli anni '90. Prima di far parte del Gotha dei tribunali, quello dell'Aja, è stato consigliere per le aree di crisi e ha lavorato contro la criminalità internazionale in numerosi ministeri degli Esteri: è stato in Albania, Afghanistan, Balcani e America Latina. Il magistrato che giudicherà lo zar è stato anche consigliere per gli affari internazionali del presidente del Senato, Piero Grasso. Attualmente, in Italia fa parte della commissione sui crimini di guerra voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia.

Cosa giudicherà Aitala

Sarà quindi il magistrato italiano a giudicare i crimini di guerra commessi dall'esercito di Putin, fino ad oggi, in Ucraina: dalle bombe nell'ospedale pediatrico di Mariupol alle fosse comuni e i corpi senza vita per le strade di Bucha. Gli orrori su cui dovrà pronunciarsi non si fermano qui: ricordiamo gli strupri contro le donne ucraine, le deportazioni, il genocidio di cui parla sempre Biden, i saccheggi nelle varie città e le distruzioni di palazzi e case di civili a Kharkiv e nella regione di Kiev. Senza dimenticarsi dei drammatici avvenimenti capitati nella stazione ferroviaria di Kramatorsk. "Il diritto internazionale penale è un modo di guardare il mondo. Chiunque legga le pagine della storia delle atrocità di massa, anche se molto distanti nel tempo e nello spazio, diventa testimone di crimini che invocano giustizia", ha scritto Aitala nel suo ultimo libro come riportato da Repubblica.

Il secolo più violento

Il secolo appena trascorso, il ventesimo (1901-2000), è stato definito dal magistrato italiano come "il più violento di sempre". Due guerre mondiali, la Guerra Fredda, Germania est contro ovest e decine di altri esempi fanno parte di una sanguinosa storia indimenticabile, e Aitala lo sottolinea nel suo librio. "ll male smisurato si afferma come meditata strategia politica giocata sulla pelle di milioni di persone inermi. Dunque non mera malvagità: piuttosto grammatica del potere", si legge sul Corriere. Intanto, il procuratore capo della corte dell'Aja, Karim Khan, ha voluto toccare con mano le distruzioni di Putin andando in visita a Bucha dove sono stati massacrati centinaia di civili. "L'Ucraina è una scena del crimine - ha affermato - Siamo qui perché abbiamo motivi ragionevoli per credere che vengano commessi crimini all'interno della giurisdizione del tribunale. Dobbiamo dissolvere la nebbia della guerra per arrivare alla verità".

Al momento l'unica, drammatica, certezza, è che il materiale per le indagini è già pieno. Soltanto nell'ufficio del procuratore generale di Mykolaiv arrivano decine di segnalazioni quotidiane di possibili crimini di guerra "e nella nostra regione i russi sono stati solo pochi giorni, figuratevi a Kherson", spiegano dalla segreteria del procuratore Volodymyr Govorukha.

Carlo Nordio, "perché dico no al processo a Putin": quadro ribaltato, l'unica vera soluzione. Libero Quotidiano il 14 aprile 2022.

"Non dobbiamo giudicare in termini processuali ma in modo molto più politico e razionale": secondo Carlo Nordio, intervenuto a L'Aria che tira su La7, la guerra in Ucraina va presa in considerazione per quella che è, un conflitto dove l'invasore e l'invaso non vanno confusi mai. "Non ci sono risposte ambigue su chi è aggredito e chi aggredisce", ha ribadito l'ex magistrato in collegamento con Myrta Merlino.

Nordio è stato netto e senza giri di parole ha detto: "Putin ha commesso un'aggressione criminale che è contraria a tutte le leggi umane e divine, ha violato il diritto internazionale e i confini di una Nazione sovrana". L'ex magistrato, poi, ha sottolineato quanto già messo in evidenza nelle ultime settimane dagli esperti in campo militare: "Lui ha perso la guerra a Kiev perché ha attuato una strategia fallimentare. Basti notare che accanto ai carri armati distrutti abbiamo visto una palude da una parte e una foresta dall'altra, il che significa rendere una colonna corazzata un bersaglio facile". 

Secondo l'ospite del talk, lo zar "probabilmente ha sfogato la sua rabbia con questi delitti". A quel punto ha preso la parola la Merlino, che ha sottolineato l'importanza dell'uso delle parole, facendo riferimento in particolare a Joe Biden, che ha parlato di "genocidio": "Le parole hanno un peso, Macron ha frenato Biden sull'utilizzo di quel termine".

Carlo Nordio, doccia ghiacciata su Vladimir Putin: "Non verrà mai processato. Solo il Cremlino..." Libero Quotidiano il 12 aprile 2022.

«Non ci sarà nessuna Norimberga per Vladimir Putin. Saranno i suoi successori, semmai, a regolare i conti con lui». Chi legge i libri e gli articoli di Carlo Nordio ha imparato ad apprezzarne, assieme alla cultura giuridica, quella storica e militare. Qualità che, unite al realismo, oggi gli fanno escludere che il presidente russo, un giorno, possa essere giudicato da un tribunale internazionale, e che la pace possa arrivare da qualche iniziativa dell'Onu, «che non è mai riuscita a impedire un conflitto né a farlo finire». 

Molte cose avvenute in Ucraina sono ancora da chiarire e le inchieste sono state appena avviate. Le immagini e le testimonianze, però, sono moltissime. Lei, dottor Nordio, che idea si è fatto? Sono stati commessi crimini di guerra?

«Direi proprio di sì. Prigionieri e civili uccisi con le mani legate dietro la schiena sono sicuramente crimini di guerra. Per i bombardamenti di edifici non militari la questione è più complessa: spesso si tratta di quei famigerati "danni collaterali" comuni a tutti i bombardamenti, anche a quelli fatti con le cosiddette "bombe intelligenti". Tuttavia, quelli che vediamo in Ucraina sono così estesi da far pensare a distruzioni volute e premeditate. Cioè, appunto, a crimini». 

Quando Joe Biden ha chiesto un processo per i crimini di guerra commessi dalla Russia in Ucraina, da Mosca gli hanno risposto che semmai bisogna cominciare «con i bombardamenti sulla Jugoslavia e l'occupazione dell'Iraq», per poi «passare ai bombardamenti nucleari sul Giappone». Anche in Italia c'è chi la pensa così. È un parallelismo corretto? Sono situazioni paragonabili?

«Assolutamente no. In Jugoslavia e in Iraq ci sono state, come purtroppo in tutte le guerre, delle vittime civili, ma non c'è alcun indizio che fossero intenzionali. Il loro stesso numero, relativamente limitato tenuto conto della lunghezza dei conflitti, le fa rientrare tra gli orrori della guerra, senza che per questo siano delitti in senso stretto. Quanto al Giappone, a parte che era entrato in guerra con un attacco proditorio e che sia Hiroshima che Nagasaki erano anche basi militari, erano tempi completamente diversi. I tedeschi hanno distrutto Coventry e mezza Londra, gli angloamericani mezza Germania, e i russi sono entrati a Berlino sparando con i cannoni ad alzo zero e radendo al suolo un isolato dopo l'altro. Simili situazioni, oggi, sono inaccettabili».

Ma esiste un criterio per distinguere in modo netto ciò che è crimine di guerra da ciò che non lo è? Perché molto spesso certe azioni sembrano ricadere in un'enorme zona grigia. Ad esempio quando viene bombardato un edificio abitato da famiglie, nel quale l'aggressore sostiene però che vi fossero nascoste armi.

«I criteri sono stati fissati, in via teorica, sin dagli inizi del Novecento, ma il primo esempio di processo internazionale si è avuto a Norimberga, dove peraltro sono stati introdotti anche i crimini contro la pace e contro l'umanità, concetti che spesso si confondono. Di certo le uccisioni deliberate di prigionieri, a maggior ragione se civili, sono crimini di guerra. Dopo Norimberga gli alleati hanno giudicato e giustiziato vari ufficiali tedeschi per questo, anche se i russi, in genere, sono andati per vie più sommarie. È vero che se una scuola diventa una caserma cessa di essere un edifico civile, e quindi, in certi casi, il giudizio è più difficile. Tuttavia stragi come quella di Kramatorsk, più che un'azione militare, sembrano essere forme deliberate d'intimidazione criminale».

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dice che è in atto un vero e proprio «genocidio» ai danni del suo popolo. Lei vede i presupposti per una simile accusa?

«Zelensky ha tutte le ragioni di esprimersi in termini così forti, perché si difende da un'invasione brutale che provoca migliaia di vittime anche tra i civili. Il genocidio, come eliminazione programmata di una etnia odi un gruppo, è più difficile da ipotizzare, ma questo cambia poco. Di fronte a quegli eccidi non mi fermerei sullo stretto significato delle parole».

La legislazione internazionale appare confusa. C'è la Corte penale dell'Aja, competente per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio commessi dai singoli individui. Che in questo caso sarebbero Putin e la catena militare sotto il suo comando, giù giù sino agli esecutori materiali dei crimini. Né la Russia né gli Stati Uniti, però, hanno mai ratificato il trattato che istituisce questa corte. L'Ucraina, invece, sì. È una strada percorribile?

«No, non credo sia percorribile, per ragioni pratiche più che giuridiche. Non solo, appunto, manca la ratifica della Russia (nonché di Usa, Cina e Israele), ma soprattutto questi processi non si possono fare "in absentia", cioè in contumacia. E credo sia difficile vedere Putin estradato dalla Russia per esser portato davanti ai giudici... Del resto, nella maggior parte di casi, quando cade un dittatore i conti li regolano in casa, in modo cruento, come con Ceausescu, Saddam e Gheddafi, o in modo più soft, come con Pinochet».

C'è anche la Corte internazionale di giustizia, che però ha giurisdizione sugli Stati, non sugli individui, e dipende dalle Nazioni Unite, nel cui consiglio di sicurezza la Russia ha il potere di veto. L'Ucraina ha promosso subito un'azione nei confronti della Russia: crede che possa produrre qualche risultato?

«Io sono molto realista, e quindi pessimista sulla efficacia della giustizia penale internazionale. Così come lo sono per l'Onu, che non è mai riuscita né a impedire un conflitto né a farlo finire. Purtroppo le guerre si regolano sul campo di battaglia.

La diplomazia interviene dopo». 

Molti invocano un tribunale internazionale ad hoc istituito solo da un gruppo di Stati, come quello che giudicò Hermann Göring, Joachim von Ribbentrop e altri uomini del Reich. Ma il processo di Norimberga fu possibile perché la Germania nazista era stata sconfitta militarmente dagli alleati, e la sua leadership rimossa con la forza. È credibile una "Norimberga" per Putin e i suoi generali, in assenza di una simile sconfitta russa?

«Su Norimberga sono stati scritti molti libri, e a suo tempo mi sono anche letto gli atti più importanti, a cominciare dalle requisitorie di Robert Jackson e degli altri prosecutors, per concludere con le arringhe di Stahmer e degli altri difensori. Già allora si discuteva sulla legittimità di un tribunale costituito ad hoc, e sulla irretroattività delle nuove disposizioni penali. Più interessante ancora è leggere gli atti dei processi successivi, quello sulla strage di Malmedy e quelli contro i medici e i comandanti dei lager. Furono tutte condanne moralmente giuste, e ci furono anche parecchie assoluzioni. Ma resta sempre il fatto che si processavano i vinti». 

I crimini dei vincitori restano impuniti. 

«La giustizia è sempre quella dei vincitori. Tutti sapevano che la strage di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn era stata fatta dai sovietici, ma nessuno disse nulla. Churchill stesso aveva così poca considerazione di quel modo di procedere che commentò l'esecuzione di Mussolini dicendo che così, almeno, il capo del fascismo si era risparmiato una Norimberga italiana». 

Tirando le somme, crede che vedremo mai Putin davanti a una corte internazionale? 

«Sono sicuro di no. Anche se Putin dovesse cadere, la sua sorte sarebbe decisa dai suoi successori. Al Cremlino, non altrove».

«Processare Putin finché sarà al potere è impossibile». Intervista a Marco Pedrazzi, professore di Diritto internazionale all’Università di Milano: «È possibile che all’eventuale incriminazione di Putin si pervenga per gradi». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 9 aprile 2022.

Marco Pedrazzi, professore di Diritto internazionale all’Università di Milano, spiega che «è possibile che all’eventuale incriminazione di Putin si pervenga per gradi, identificando prima altri presunti responsabili fra le gerarchie militari e politiche della Federazione russa» e che «è prevedibile che possa essere confermata dalle prove che man mano saranno raccolte, non necessariamente a carico di Putin, una serie di crimini di guerra e, verosimilmente, anche di crimini contro l’umanità».

Professor Pedrazzi, secondo Giovanni Maria Flick rinviare a giudizio Putin è «un’ipotesi plausibile». Quante possibilità ci sono che questo accada?

Data la apparente gravità dei fatti cui assistiamo in questi giorni in Ucraina, concordo sul fatto che sia possibile che prima o poi il presidente Putin venga indagato ed accusato di crimini davanti alla Corte penale internazionale. È però possibile che all’eventuale incriminazione di Putin si pervenga per gradi, identificando prima altri presunti responsabili fra le gerarchie militari e politiche della Federazione russa. Non è neppure da escludere che Putin venga indagato e rinviato a giudizio davanti a giudici interni, in Ucraina così come in altri paesi. E a questo proposito va ricordato il ruolo complementare della Corte penale internazionale, che può intervenire solo in assenza di procedimenti interni o laddove questi ultimi non siano genuini.

Nell’eventualità, qual è il procedimento da seguire prima di vedere il presidente russo alla sbarra come fu, ad esempio, per Milosevic?

Occorre ricordare che Milosevic venne arrestato e condotto davanti al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia quando ormai non era più presidente della Repubblica federale jugoslava. Ammesso che Putin possa un giorno essere processato, è praticamente impossibile che ciò possa accadere finché rimane al potere. Le procedure da seguire, se parliamo della Corte penale internazionale, prevedono che il Procuratore prosegua le indagini e, laddove ravvisi indizi sufficienti che portino a ritenere che una persona sia responsabile di crimini sottoposti alla giurisdizione della Corte, possa richiedere alla Camera preliminare della Corte l’emissione di un mandato di arresto. A quel punto, se la Camera preliminare accede a questa richiesta, il mandato viene fatto circolare fra gli Stati parte dello Statuto, che sono tenuti ad eseguirlo.

Chi e in che modo avrebbe il compito di verificare le accuse di crimini di guerra e genocidio denunciate a gran voce da Kiev?

Come già ricordato, il compito spetta, nel caso della Corte penale internazionale, in primo luogo al Procuratore della Corte; dopodiché sono i giudici che devono verificare, attraverso una serie di passaggi successivi, l’esistenza di indizi sufficienti per arrestare l’indagato e, una volta arrestato, per confermare le accuse a suo carico formulate dal Procuratore, rinviandolo dunque a giudizio. Nel caso di Putin occorrerebbe naturalmente identificare un titolo di responsabilità, non essendo egli chiaramente l’autore materiale dei presunti crimini. Tale titolo potrebbe consistere nella responsabilità del superiore o in altre forme di responsabilità che colpiscano la partecipazione a piani criminosi che comportino la realizzazione di una serie di condotte identificabili quali crimini internazionali. Quanto alle accuse, è prevedibile che possa essere confermata dalle prove che man mano saranno raccolte, non necessariamente a carico di Putin, una serie di crimini di guerra e, verosimilmente, anche di crimini contro l’umanità. È più complessa, anche se non da escludere, la prova del genocidio, che richiederebbe la dimostrazione dell’intento di distruggere, in tutto o in parte, il popolo ucraino in quanto tale.

Il Tribunale de L’Aja non può processare in contumacia: in che modo allora si potrebbe arrivare a un giudizio su Putin?

Il processo a Putin si può svolgere davanti alla Corte penale internazionale soltanto se il leader del Cremlino viene arrestato e condotto davanti alla Corte. Ciò plausibilmente potrebbe verificarsi soltanto a seguito di un eventuale cambio di regime a Mosca. Ma è plausibile che la Russia, che non è parte dello Statuto di Roma, decida di non consegnare Putin alla Corte neppure dopo che questi si sia o sia stato allontanato dal potere. Si pensi al caso dell’ex presidente del Sudan Al Bashir, il quale non è stato consegnato alla Corte neppure dopo il suo rovesciamento a seguito di colpo di Stato. Ecco perché ritengo che tutta l’attenzione prestata dalla stampa al possibile arresto di Putin, tanto più a conflitto ancora in corso, sia eccessiva. Il processo a Putin rimane per ora un’ipotesi lontana, a meno naturalmente di mutamenti radicali della situazione che non sono per ora ipotizzabili.

A prescindere dalla possibile incriminazione di Putin, quali sono le “armi” del diritto internazionale per arrivare a una tregua?

Il diritto internazionale non dispone di “armi” per arrivare ad una tregua, tanto più a fronte dell’incapacità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di intervenire nella situazione. Certo, l’Assemblea generale potrebbe rivolgere alle parti delle raccomandazioni, ma da un lato essa si è dimostrata riluttante, dall’altro, l’Assemblea non è in grado di giocare un ruolo decisivo. Il diritto internazionale fornisce lo strumento dell’accordo fra le parti. Ma il contenuto di questo accordo e i modi per arrivarci sono nelle mani della politica e della diplomazia. Arrivare ad una tregua è senz’altro più semplice che giungere ad una soluzione definitiva, anche dal punto di vista del diritto internazionale.

"Non è tecnicamente impossibile". La mossa per processare Putin. Ignazio Riccio l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale, ritiene sia perseguibile l'ipotesi di mettere sotto accusa lo zar russo.

Non ha dubbi l’ex ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick: il presidente della Russia Vladimir Putin potrebbe essere processato per crimini di guerra e contro l’umanità. Il giurista ritiene che sia tecnicamente possibile mettere sotto accusa lo zar russo, poiché le immagini della guerra in Ucraina sono sconvolgenti. Bombardamenti a tappeto, barbari assassini di civili, violenza sessuale nei confronti delle donne, nessun rispetto per i bambini e altri atti scellerati e ingiustificabili meriterebbero di essere perseguiti con forza. Flick ne ha parlato al quotidiano la Repubblica, nel corso di un’intervista.

La Nato: "Crimini di guerra". Poi il duro avvertimento per Putin

“Ha fatto bene il procuratore generale Karim Ahmad Khan a recarsi a Kiev – ha dichiarato l’ex ministro della Giustizia – per raccogliere le prove e avviare la collaborazione con le autorità ucraine”. Per Flick sono due, in particolare, i reati perseguibili: genocidio e aggressione, soprattutto il secondo, anche se ci sono alcuni ostacoli legali che ha evidenziato lo stesso giurista. “Alla convention fondante nel 1998 – ha spiegato – si raccolse l'adesione di centoventitré Paesi. Poi furono ratificate le adesioni divise per i quattro casi: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l'umanità, aggressione. L'Ucraina accettò la competenza della Corte ma non l'estensione al delitto di aggressione”.

Zelensky mostra all'Onu il video choc dei civili uccisi in Ucraina

Flick ha confermato che Putin, al momento, non è stato ancora rinviato a giudizio, ma un tribunale competente sta lavorando al caso. I tempi, però, sono lunghi e non coincidono chiaramente con l’urgenza di fermare i bombardamenti in Ucraina. I giudici sono costretti a procedere lentamente, per rispettare tutti i passaggi previsti dalla normativa vigente. Vanno, innanzitutto, accertati i fatti, verificato il movente e raccolte le prove. Poi, si possono tirare fuori le responsabilità soggettive. Si tratta di un iter lungo e complesso e bisogna avere pazienza. L’ex ministro della Giustizia, però, ha segnalato un intralcio non da poco: il tribunale non può mandare avanti il processo senza la presenza fisica dell’imputato, non si può emettere la sentenza in contumacia e i giudici sono al lavoro per trovare soluzioni valide per scavalcare questo paletto.

Crimini di guerra. Bisogna condannare Putin per genocidio, anche se non rispetterà la sentenza. Linkiesta l'8 aprile 2022.

Il dittatore russo sarà punito per le atrocità contro i civili commesse dalle sue forze armate durante l’invasione dell’Ucraina (che nessuno considera un’operazione speciale). Il problema però è che le azioni legali difficilmente produrranno effetti davvero significativi sul Cremlino. 

L’orrore di Bucha, la devastazione di Mariupol, l’insensatezza di una guerra che sta facendo vittime in ogni angolo dell’Ucraina anche tra donne e bambini. Le atrocità russe hanno portato a una rinnovata condanna verso il Cremlino. «Genocidio», è il termine usato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Anche il presidente americano, Joe Biden, ha detto che quanto accaduto a Bucha è stato un crimine di guerra e che Vladimir Putin dovrebbe andare incontro a un tribunale internazionale per quello che ha fatto. Mentre il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha chiesto un’altra indagine, oltre quelle già in corso. L’ex procuratore capo delle Nazioni Unite per i crimini di guerra in Jugoslavia e Ruanda, Carla del Ponte, ha definito Putin «un criminale di guerra» e ha chiesto che fosse emesso un mandato d’arresto internazionale contro di lui.

Il quadro che si sta delineando sui crimini di guerra russi diventa sempre chiaro. Anche Human Rights Watch ha rilevato diversi casi di violazioni delle leggi di guerra da parte delle forze militari russe contro i civili nelle aree di Chernihiv, Kharkiv e Kiev.

Il report della Ong parla di stupro ripetuto, due casi di esecuzione sommaria e altri casi di violenza illegale e minacce contro civili nel periodo che va dal 27 febbraio al 14 marzo. «Coloro che hanno compiuto questi abusi sono responsabili di crimini di guerra», scrive Human Rights Watch.

Hugh Williamson, direttore per l’Europa e l’Asia centrale dell’organizzazione dice che «omicidi e altri atti violenti contro persone sotto la custodia delle forze russe dovrebbero essere indagati come crimini di guerra». Lo scorso 27 febbraio, nel villaggio di Staryi Bykiv nella regione di Chernihiv, le forze russe hanno radunato almeno sei uomini e li hanno giustiziati. Il 4 marzo, invece, un soldato russo ha minacciato di giustiziare un uomo di 60 anni e suo figlio a Zabuchchya, un villaggio a nord-ovest di Kiev, dopo aver perquisito la loro casa e aver trovato un fucile da caccia e benzina nel cortile di casa. La testimonianza è arrivata proprio da parte dell’uomo.

«Le prove dal campo di battaglia confermano che i russi hanno commesso almeno tre tipi di reati in guerra», scrive l’Economist. I primi, si legge, sono quelli che definiamo crimini di guerra: le Convenzioni di Ginevra, che la Russia ha firmato, definiscono i crimini di guerra – omicidio volontario, causare intenzionalmente grandi sofferenze, prendere di mira deliberatamente i civili e appropriarsi delle loro proprietà. In questa categoria rientrano anche le esecuzioni sommarie a Bucha e il bombardamento del teatro Mariupol, che era il più grande rifugio antiaereo della città.

Le Convenzioni di Ginevra determinano quali sono gli obblighi legali internazionali in tutte le azioni militari. Non importa che la Russia non abbia formalmente dichiarato guerra all’Ucraina: doveva rispettarli ugualmente.

In secondo luogo, l’invasione della Russia è stata essa stessa un crimine, indipendentemente dal modo in cui è stata eseguita: è un crimine di aggressione secondo gli statuti della Corte penale internazionale (International Criminal Court, Icc) che processa le persone secondo il diritto internazionale. Per la Corte nel termine “aggressione” rientrano l’invasione, l’occupazione militare, l’annessione di terre, i bombardamenti e il blocco dei porti.

Infine, terzo e ultimo punto, la portata delle azioni russe intorno a Kiev (e altrove) suggerisce che la Russia sia colpevole di crimini contro l’umanità: la Corte penale internazionale definisce i crimini contro l’umanità come partecipazione e conoscenza di «un attacco diffuso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile».

A oggi migliaia di ucraini sono stati uccisi e oltre 4 milioni sono stati costretti a fuggire.

Alcuni procedimenti legali sono già partiti e hanno portato i vertici russi dinanzi ai tribunali internazionali. Sono già arrivate due sentenze a favore dell’Ucraina. Nella prima, il 16 marzo, la Corte internazionale di giustizia (il Tribunale dell’Aja), che si pronuncia sulle controversie tra Stati, ha stabilito che la Russia «dovrebbe sospendere immediatamente le operazioni militari» iniziate il 24 febbraio.

La questione verte sulla definizione usata dalla Russia quando ha iniziato l’invasione: Putin l’ha definita come «un’operazione speciale» per prevenire «un genocidio» nelle regioni separatiste di lingua russa. L’Ucraina si è difesa dicendo che la definizione era falsa ai sensi della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite. E la Corte internazionale non solo ha dato ragione a Kiev, ma con la sua sentenza ha chiesto il pieno ritiro della Russia.

L’altra sentenza è arrivata alla Corte europea dei diritti umani, che fa parte del Consiglio d’Europa – l’organismo internazionale che ha l’obiettivo di promuovere la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea. Il 1° aprile ha confermato una precedente sentenza secondo cui la Russia deve «astenersi da attacchi militari contro civili e oggetti civili, comprese scuole e ospedali».

Anche in questo caso, la Corte ha accolto i termini dell’Ucraina ne ha ampliato il significato, aggiungendo che la Russia ha commesso una violazione quando ha costretto i rifugiati di Mariupol a fuggire in Russia, piuttosto che in un luogo di loro preferenza.

«Ma un conto è pronunciarsi, un’altra è portare davanti a una corte internazionale una persona russa, per non parlare delle difficoltà di portarci il suo Capo di Stato», si legge sull’Economist. Incriminare la Russia e Putin, infatti, è tutt’altro che semplice.

La Russia è stata espulsa dal Consiglio d’Europa il 16 marzo e ha smesso di rispondere alle richieste della Corte europea. E dal 2016 non riconosce l’autorità della Corte penale internazionale: questo non vuol dire che il tribunale non emetta mandati di arresto contro i principali responsabili di queste atrocità. Ma tali azioni richiederebbero al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di deferire la Russia alla corte e la Russia porrebbe il veto.

La Russia accetta l’autorità della Corte internazionale di giustizia, il Tribunale internazionale dell’Aja, l’, almeno in teoria. Nei fatti, però, non si è presentata alle udienze del tribunale. Come per la Corte penale internazionale, anche in questo caso l’unico modo per far rispettare le sentenze della è attraverso il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «Se Putin rimane al potere – scrive l’Economist – o anche se si dimette ma continua a essere protetto dai suoi successori, la giustizia internazionale non si avrà grande efficacia».

È molto probabile che procedimenti legali vadano avanti e infliggano ulteriori battute d’arresto alla causa legale e alla posizione diplomatica della Russia. Nel frattempo, gli alleati dell’Ucraina dovranno trovare altri mezzi per aumentare la pressione su Putin: da qui l’idea di molti europei di insistere sulle sanzioni e l’invio di armi all’Ucraina.

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.  

Dove, come, quando? Joe Biden ha detto ieri che Vladimir Putin «deve essere processato per crimini di guerra». Immaginare il presidente russo sul banco degli imputati significa comunque ipotizzare la sua caduta dal piedestallo del Cremlino, dopo un golpe, un cambio di governo o di regime. 

Ed è sempre così: quando un «imperatore» viene deposto, i successori hanno il problema di come disporne. E non sempre fare giustizia è la priorità. I prussiani volevano sparare a Napoleone, i britannici invece lo spedirono in fondo all'Atlantico, come «prigioniero di guerra». 

In ogni epoca, un dittatore alla sbarra può essere scomodo, soprattutto in patria: Nicolae Ceaucescu in Romania fu passato per le armi accanto alla moglie Elena il giorno di Natale del 1989, per ordine di un sedicente «tribunale del popolo» che in poche ore lo giudicò colpevole di genocidio. Gheddafi fu ucciso sul posto, appena catturato. Saddam Hussein fu impiccato di nascosto a Bagdad al termine di un processo orchestrato di fatto dagli americani.

Pensando all'Ucraina, il paragone che più spesso ricorre è quello del Tribunale Speciale dell'Onu per l'ex Jugoslavia: nella stessa Serbia che oggi sostiene Putin, nel 2001 il governo spedì all'Aia l'ex presidente Slobodan Milosevic, che fu poi trovato morto in cella durante il processo.

La stessa Corte processò il suo sodale Radovan Karadzic, architetto della pulizia etnica in Bosnia: condannato per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità, Karadzic sconta l'ergastolo in un carcere britannico. Il braccio armato Ratko Mladic, «il boia di Srebrenica», dopo 16 anni di latitanza fu preso in Serbia ed estradato: per lui sentenza definitiva nel 2021 e carcere a vita nel penitenziario dell'Aia.

Un tribunale speciale Onu per i crimini in Ucraina, con Putin e compagni chiamati a risponderne, potrebbe nascere soltanto con l'avallo del Consiglio di Sicurezza, dove la Russia ha diritto di veto, e dunque in seguito a un sostanziale cambio della guardia a Mosca. Lo stesso scenario è richiesto nel caso di un procedimento di fronte alla Corte Penale Internazionale (sede all'Aia), nata con lo Statuto di Roma ed entrata in vigore nel 2002. 

La Cpi non prevede giudizi in contumacia. Ed è l'unica che, al di là dei proclami politici, sta facendo qualcosa. Il procuratore generale Karim Khan sta raccogliendo le prove dei crimini di guerra (c'è l'imbarazzo della scelta). Un mandato di cattura per Putin potrebbe arrivare entro fine anno.

Come arrestarlo? Due ipotesi: se Putin mettesse piede in uno dei 123 Stati che sostengono la Cpi (né Usa né Ucraina ne fanno parte) e sono tenuti (ma non obbligati) ad arrestare un ricercato (il Sudafrica nel 2015 rifiutò di farlo con l'allora leader sudanese al-Bashir). Oppure se lo zar venisse deposto, e il nuovo governo russo decidesse che è meglio consegnarlo alla Cpi piuttosto che processarlo in casa: la sorte dell'ex presidente della Costa D'Avorio Laurent Gbagbo, arrestato in patria nel 2011. 

Nel 2019 la Cpi lo ha assolto dall'accusa di crimini contro l'umanità. Perché c'è anche questa possibilità: l'assoluzione. Un'opzione poco considerata nella grande tradizione russa, dai tribunali di Vishinsky ai processi farsa contro Navalny, passando per «il metodo Molotov». Nel 1946 il ministro degli Esteri sovietico spiegò agli ospiti occidentali il destino che attendeva 16 leader politici polacchi sotto custodia: «I colpevoli saranno processati».

Sands: «Putin può essere incriminato in tre mesi con un tribunale in stile Norimberga». Marilisa Palumbo su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

L’avvocato britannico: contro lo zar si deve partire dal reato «supremo», la guerra illegale. Con i crimini contro l’umanità è più difficile incastrarlo. Zelensky che usa la parola genocidio? «Legalmente siamo lontani, ma politicamente lo capisco».

Se Zelensky all’Onu ha chiesto una nuova Norimberga non è solo per l’impatto del paragone storico, ma perché con una corte di quel tipo una incriminazione di Putin «sarebbe possibile in tre mesi», dice al Corriere il professore di diritto internazionale Philippe Sands dell’University College di Londra. Dopo l’inizio della guerra Sands ha avviato una petizione che ha raccolto un milione e mezzo di firme, comprese quelle di ex capi di governo come Gordon Brown, per chiedere che alle indagini sui crimini di guerra della Corte penale internazionale si affianchi un tribunale speciale concentrato sul crimine di aggressione compiuto dalla Russia.

così tanto a volerlo. Due dei più grandi e misconosciuti giuristi del secolo scorso, Raphael Lemkin e Hersch Lauterpacht, le menti che hanno concettualizzato i reati di crimini contro l’umanità e genocidio, arrivavano da Leopoli. La loro storia Sands la racconta ne La strada verso Est (Guanda), intrecciandola a quella del nonno, partito a dieci anni dalla stazione di Leopoli come i tanti che partono oggi, per fuggire ai russi. «Il ministro degli Esteri Kuleba, con cui sono in costante contatto e che è molto vicino a Zelensky, è un avvocato di diritto internazionale ed è profondamente consapevole di questi legami con la storia del suo Paese. E conosce benissimo la vicenda di Norimberga. Tutto cominciò nel 1942, con un incontro a Londra dei governi europei in esilio, guidati dai francesi e dai belgi, che portò alla dichiarazione di Saint James: con quel testo si impegnarono perché fossero puniti i criminali di guerra nazisti. Lauterpacht era nella capitale inglese in quei giorni, e lavorava dietro le quinte. Lui e Lemkin sono un’ispirazione: dicevano loro che avevano idee giuste ma impossibili da mettere in pratica, ma continuarono a battersi. Dovremmo fare la stessa cosa, quello che sta succedendo è intollerabile nell’Europa del XXI secolo».

«Lo capisco, credo lo usi in senso politico e naturalmente la definizione legale è diversa: per l’opinione pubblica il genocidio è la terribile uccisione di tante persone, la definizione legale prevede che per provarlo devi dimostrare l’intenzione di distruggere un gruppo come insieme . Sulla base di quello che ho visto in Ucraina ci sono crimini di guerra perpetrati su larga scala, civili presi di mira e crimini contro l’umanità, ma non mi sembra sia stata superata la linea del genocidio. Ripeto però che capisco perché Zelensky usi questo termine, sente che Putin cerca di distruggere l’identità ucraina nel suo complesso».

Cosa pensa di Biden che definisce Putin «criminale di guerra»?

«Non credo sia stato molto saggio. Sembra che siano stati commessi crimini di guerra, ma non sappiamo chi sia responsabile, potrebbe essere che il filo conduca direttamente dalle atrocità commesse sul campo alla leadership politica, ma è molto difficile da provare e sarebbe meglio dire: crimini di guerra sono commessi dal regime di Putin, se sia responsabile in prima persona tocca agli investigatori e ai procuratori dimostrarlo».

La ragione per la quale lei chiede un tribunale che giudichi il crimine di aggressione è proprio che per i crimini di guerra e contro l’umanità è difficile provare il legame tra le azioni sul campo e gli ordini della leadership politica. Però il tribunale internazionale sulla ex Jugoslavia arrivò a incriminare Milosevic.

«Sì, ma ci vollero anni, lui morì prima del giudizio e non siamo certi che sarebbe stato condannato. La preoccupazione mia e di altri è che si crei una situazione, in tre o quattro anni, in cui abbiamo un certo numero di processi all’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità, ma tutti si fermano a ufficiali militari di medio livello dell’esercito russo. Al contrario, quello che i giudici di Norimberga definirono il “crimine supremo”, condurre una guerra illegale, è relativamente semplice da provare. Quel crimine è il punto di inizio: a Norimberga, come in Ucraina, se non avessimo avuto una guerra non avremmo avuto crimini di guerra, crimini contro l’umanità e accuse di genocidio. È molto lineare, e si può arrivare a una incriminazione in tre mesi».

Ma chi può decidere di creare un tribunale internazionale ad hoc, si può aggirare il veto russo?

«Certo che si può! Non attraverso il Consiglio di sicurezza, ma ci sono altre strade. Una è l’accordo tra l’Ucraina e una organizzazione internazionale: potrebbe essere l’Onu, come è successo per il Tribunale speciale per il Libano, o l’Unione europea, come fu fatto per il Kosovo, o il consiglio d’Europa. Il secondo modello, sul quale sto lavorando informalmente con alcuni Paesi, è un accordo tra l’Ucraina e altre nazioni per delegare a un tribunale internazionale la prosecuzione del crimine di aggressione. È il modello Norimberga. Non dico che sia facile, ma si può fare: nelle conversazioni con molti di questi governi tutti ammettono che il punto è solo se c’è la volontà politica. Inglesi, americani e francesi riconoscono il crimine di aggressione e la possibilità di istituire un tribunale internazionale, ma si preoccupano dell’effetto precedente, ossia che se una corte speciale viene creata oggi per la Russia, domani potrebbe toccare a Francia, Usa o Regno Unito. Ma non si può lasciare una scappatoia a Putin. Spero che anche il governo italiano ci pensi».

Come si prova il crimine dell’aggressione?

«Il primo passo è stabilire se la guerra è legale. Ci sono solo due basi legali per la guerra: una è l’autodifesa, l’altra l’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza, condizioni entrambi assenti, come è chiaro che non ci sono motivi umanitari. Con una decisione vincolante la corte internazionale di giustizia dell’Aja ha ordinato alla macchina militare russa di fermarsi e lasciare l’Ucraina. Putin sa che le sue azioni sono illegali. È essenzialmente tutto quello di cui un procuratore ha bisogno».

Arrivare a una incriminazione in tre mesi avrebbe un impatto reale sulla guerra.

«Esatto. Qualcuno avverte del rischio che Putin diventi ancora più violento. È una possibilità, ma quando ne ho parlato con Kuleba è scoppiato in una risata amara. L’altro motivo per cui una incriminazione è importante è che potrebbe spingere qualcuno attorno a Putin, qualcuno che ha dubbi, a mollarlo. Tornando al parallelo con la seconda guerra mondiale, nel mio ultimo libro, La via di fuga, racconto che a Milano era di base un famoso generale nazista, Karl Wolff, l’uomo di Hitler per tutto il sud Europa. Dopo la conferenza di Yalta del 1945, quando fu annunciata la creazione di un tribunale militare a Norimberga, Wolff approccio l’americano Allen Dulles e offrì un patto: coopererò se potrò evitare Norimberga. E così fu».

Confessione su Bucha: “Così i superiori ci ordinavano di uccidere i civili ucraini”. Daniele Raineri su La Repubblica il 27 agosto 2022.

Un'auto distrutta a Bucha: è uno degli oggetti esposti a Berlino in una mostra sull'invasione russa dell'Ucraina (ansa)

Un soldato russo intervistato in video da un sito indipendente racconta i crimini della famigerata 64esima brigata motorizzata.

Il soldato russo Daniil Frolkin di ritorno dal fronte ucraino ha confessato davanti alla telecamera di un sito indipendente di avere commesso crimini di guerra e ha spiegato che i suoi superiori ordinavano a lui e agli altri soldati di uccidere civili ucraini. La sua confessione è un aiuto enorme nelle indagini sui massacri avvenuti alla periferia di Kiev a marzo – quando l’esercito russo tentò di accerchiare e conquistare la capitale – perché Frolkin appartiene alla 64esima Brigata Fucilieri Motorizzati.

L’orrore di Olenivka. Il campo di prigionia dove la Russia ha riservato trattamenti disumani ai civili ucraini. Europea su L'Inkiesta il 30 Agosto 2022

Le esperienze di medici, operatori sanitari e volontari catturati nei territori occupati nel Donbas mostra che l’esercito di Mosca ha violato in più occasioni le leggi internazionali sui prigionieri di guerra. Un lungo articolo dell’Atlantic ne ha descritto i dettagli

I crimini di guerra e le atrocità causate dall’esercito russo alla popolazione ucraina rimarranno una macchia indelebile nella storia dell’Europa. Il massacro di Bucha, i morti a Kherson, Zaporizhzhia, Kharkiv e altre città, le deportazioni di cittadini ucraini nelle zone più remote della federazione russa, nulla di tutto questo potrà essere dimenticato.

Nei campi di prigionia che ha attrezzato nei territori occupati, l’armata di Mosca compie ogni genere di orrore. Qualche giorno fa l’Atlantic ha pubblicato un lungo articolo firmato da Anna Nemtsova sul trattamento riservato a medici e infermieri detenuti nel campo di Olenivka, a nord di Mariupol – controllato dalle forze del Cremlino fino a fine luglio – in una storia che mette in luce comportament disumani e criminali.

Nemtsova apre il suo articolo con la figura di Ivan Demkiv, chirurgo di un ospedale militare di Mariupol – città che è stata sotto assedio per diversi giorni, poi dilaniata dai missili russi. «Per settimane, Demkiv a malapena ha lasciato la sala operatoria», si legge nell’articolo. «Le sue giornate sono state un susseguirsi incessante di amputazioni di arti e altri interventi salvavita, con il suono del bombardamento russo in sottofondo. Demkiv è rimasto al lavoro anche quando i russi hanno bombardato l’ospedale in cui lavorava».

Demkiv è stato fatto prigioniero a metà aprile, insieme ad altri 77 medici e personale ospedaliero. Da allora è stato trattenuto nel complesso di Olenivka.

L’esperienza del chirurgo e dei suoi colleghi mostra, in primo luogo, la volontà della Russia di catturare cittadini ucraini non combattenti sia per usarli come merce di scambio sia per metterli al lavoro sotto costrizione. Ma non solo. Suggerisce anche che la Russia stia violando le leggi umanitarie che si applicano ai prigionieri di guerra in merito a cibo, igiene e accesso alla Croce Rossa, oltre a sottoporli a intimidazioni e curiosità pubblica.

«Il fatiscente complesso carcerario di stampo sovietico è scarsamente attrezzato per il suo nuovo scopo di campo di prigionia», si legge ancora sull’Atlantic. «Non ha acqua corrente e i detenuti si lamentano delle condizioni antigieniche».

Il nome della prigione è diventato famoso in tutto il mondo quando, la notte del 29 luglio, un’esplosione in un capannone del sito ha provocato la morte di 53 prigionieri, con altre 75 persone rimaste ferite. La Russia ha dato la colpa dell’esplosione a un attacco missilistico ucraino; l’Ucraina ha affermato che l’edificio è stato minato da agenti russi».

I morti erano in gran parte membri del battaglione Azov, i difensori dell’acciaieria Azovstal che si erano arresi in cambio dell’evacuazione dei civili. La Cnn aveva dimostrato, in un articolo corredato di foto e video, che la Russia sarebbe stata responsabile del bombardamento nel capannone. Secondo Mosca, invece, Kyjiv avrebbe causato l’esplosione lanciando missili Himars a lunga gittata per uccidere i prigionieri. Una motivazione apparentemente priva di logica che però, nella versione russa, sarebbe servita a impedire che i membri del reggimento confessassero i loro crimini di guerra.

L’analisi della Cnn evidenzia che la versione degli eventi fornita dal Cremlino è «con ottime probabilità un’invenzione, e ci sono praticamente zero possibilità che l’esplosione sia avvenuta a causa di un missile Himars». In ogni caso la Russia impedisce da settimane a qualsiasi investigatore internazionale di accedere all’area, suscitando più di qualche sospetto.

Intervistato da Anna Nemtsova per l’Atlantic, Konstantin Velichko, un autista che si era offerto volontario per una missione umanitaria per evacuare i civili da Mariupol, ha raccontato la sua cattura per mano dell’esercito russo, avvenuta alla fine di marzo. Anche lui è stato portato subito a Olenivka.

Velichko ha trascorso quasi 100 giorni in prigione prima del suo rilascio, avvenuto lo scorso 4 luglio: definisce l’esperienza «un incubo costante», lui e altri autisti volontari sono stati ammassati in una delle mezza dozzina di baracche luride e affollate, che contenevano in totale circa 300 detenuti.

La maggior parte dei detenuti erano soldati, certo, ma poi c’erano anche diversi civili e non combattenti, come appunto lo stesso Velichko. La sezione peggiore della prigione era un’ala conosciuta come “l’Isolatore”, dove le guardie russe portavano i prigionieri per picchiarli fino allo sfinimento. «Eravamo 50 persone in una cella per sei detenuti: sporcizia, pareti ricoperte di funghi, puzza orribile, niente finestre», racconta Velichko.

Ora il campo di Olenivka è parzialmente distrutto, ma le indagini per capire cosa è avvenuto lì, a partire dall’esplosione del 29 luglio, sono ancora attive.

La vicedirettrice di Human Rights Watch, Rachel Denber, dice che la Russia ha l’obbligo, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra, di consentire al Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) di ispezionare il teatro dell’esplosione. «La Russia – ha detto Denber intervistata dall’Atlantic – dovrebbe dare immediatamente accesso alle autorità internazionali, cioè il Cicr e l’Onu, per indagare sulla morte dei prigionieri di guerra ucraini». Qualsiasi abuso o uccisione di prigionieri rappresenta, di per sé, una grave violazione delle leggi internazionali e un crimine di guerra.

«A Bucha crimini contro l’umanità: la Corte penale farà indagini e processi».  

Secondo il professor Marco Pedrazzi, «quanto è accaduto rappresenta una svolta nella brutalità della guerra». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 5 aprile 2022.

Il colore della morte è nelle immagini di Bucha. Cielo plumbeo. Alberi brulli. Corpi di persone uccise disseminati qua e là lungo le strade della cittadina dell’oblast di Kiev. C’è pure il corpo esanime di una persona crivellata di colpi mentre si spostava in bicicletta, vicino ad alcuni villini che potrebbero essere quelli di una qualunque cittadina italiana. Ma il simbolo di questo massacro è il corpo di una donna che cercava di sfuggire alle violenze dei soldati dell’Armata russa in ritirata, resisi conto di non riuscire a sfondare nei dintorni della capitale ucraina.

Indossava un piumino blu. La sua mano è stata immortalata dalla fotografa Zohra Bensemra della Reuters. La sua femminilità e delicatezza non vengono del tutto cancellate dalla brutalità. Le dita smaltate di rosso spiccano sul terreno ricoperto da alcuni detriti. Una fotografia che ferma un ultimo attimo di esistenza sulla martoriata terra d’Ucraina, che fa i conti con i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Il team di inquirenti avrà bisogno di tempo per ricostruire ogni aspetto della strage consumatasi domenica. Ne è convinto Marco Pedrazzi, ordinario di Diritto internazionale nell’Università di Milano “Statale”. «Le scene che abbiamo visto – commenta – suscitano orrore. Per identificare i crimini e ancor più per individuare gli autori e i responsabili occorreranno indagini approfondite. Se verrà dimostrato che questi fatti sono ciò che appaiono a prima vista e quali sono riportati nelle cronache, siamo in presenza di condotte che si qualificano sia quali crimini di guerra, in quanto omicidi ed altri atti di violenza commessi contro civili inermi, sia quali crimini contro l’umanità, trattandosi di un attacco contro la popolazione civile, che pare presentare i caratteri della sistematicità e del compimento su vasta scala, integrando l’ipotesi dello sterminio. Ma qualunque conclusione non può che essere rinviata ai processi che, sperabilmente, seguiranno».

A questo punto tutti confidano nella giustizia internazionale e negli strumenti legali che potrà presto mettere in campo. «È chiaro – evidenzia l’accademico – che la Corte penale internazionale, nelle indagini che sta svolgendo sugli avvenimenti in Ucraina, non potrà che prestare particolare attenzione ai gravissimi fatti di Bucha. Tra le situazioni verificatesi finora, quanto verificatosi in questa città sembra costituire un fatto chiave, un punto di svolta nella brutalità del conflitto. Non dobbiamo peraltro dimenticare che le giurisdizioni ucraine stanno indagando su questi fatti, che l’Ucraina ha giurisdizione e che la Corte penale internazionale non può intervenire in casi che siano oggetto di indagini o processo davanti a giudici interni, a meno che lo Stato in questione dimostri di non avere la volontà o la capacità di condurre le indagini o il processo in modo genuino».

La situazione in Ucraina è comunque in continua evoluzione. «È anche possibile – aggiunge Pedrazzi – che nel prossimo futuro si assista ad una sorta di divisione dei compiti fra giudici interni, non solo ucraini, visto che indagini sono avviate anche in altri Paesi, e giudici internazionali, nel senso che i primi si concentrino su funzionari di rango minore mentre i funzionari di grado più elevato siano lasciati nelle mani della giustizia penale internazionale. Tutto dipenderà, comunque, in primo luogo, dalle azioni che saranno poste in essere dai magistrati interni».

Silvana Arbia, magistrato apprezzato in tutto il mondo e negli anni scorsi Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, invita prima di ogni cosa a non farsi travolgere dall’onda emotiva. «Con le atrocità che ho visto in tanti conflitti in varie parti del mondo – afferma -, il mio pensiero e la mia riflessione sono costanti tutti i giorni e tutti i minuti sull’Ucraina, sull’intero popolo ucraino inclusi i fuoriusciti. Non penso però sia giusto né utile alle vittime, strumentalizzare, a fini di impatto mediatico, immagini e scene infernali per scatenare reazioni emotive volatili ed effimere su comuni spettatori per indurli a favorire l’escalation della guerra. Ho già ripetutamente espresso la mia opinione sui crimini internazionali ipotizzabili nel conflitto in atto tra le forze russe e quelle ucraine, e i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra da identificare in relazione al conflitto armato internazionale, per quanto concerne gli eventi dal 24 febbraio 2022, mentre per quelli precedenti si può far riferimento anche al conflitto armato a carattere non internazionale. Il genocidio finora non mi pare ipotizzabile. Sulla base delle informazioni che riceviamo, da vagliare attraverso la raccolta di materiali ed elementi di prova che l’Ufficio del Procuratore presso la Cpi sta conducendo in anticipazione della formale apertura delle indagini se autorizzata dalla Pre-trial Chamber assegnataria della situazione Ucraina, non emergono elementi sulla possibile esistenza di crimini commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico o un gruppo razziale o un gruppo nazionale o un gruppo religioso in quanto tale».

Arbia si sofferma sul metodo di lavoro che gli inquirenti adotteranno. «Le immagini di Bucha – rileva – dovrebbero indurre a porre in essere senza ritardo le operazioni atte a dare nomi alle vittime, ai potenziali testimoni, a conservare l’autenticità degli elementi di prova e quant’altro utile per perseguire e punire i responsabili di crimini gravissimi. La responsabilità di tali crimini è non solo di chi li commette, ma anche delle persone in posizione di autorità militare e o civile, rispetto agli esecutori. Ampia giurisprudenza elaborata dai Tribunali penali internazionali ad hoc ci consente di imputare a tali persone la responsabilità di non aver impedito e o di non aver punito gli esecutori. Oltre alla responsabilità delle forze occupanti di proteggere i civili. Sul piano politico e diplomatico Stati Unite e Ue devono impegnarsi a usare tutti i buoni uffici per avvicinare le parti e prevenire, con la cessazione dei combattimenti, ulteriori atrocità. Ma senza ritardo».

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2022.

Vladimir Putin ricercato dalla Corte penale internazionale. Ipotesi plausibile?

«Direi proprio di sì. In Ucraina si commettono crimini di guerra ogni giorno. Il punto è raccogliere prove "genuine", cosa non facile in una situazione di conflitto aperto.

È quanto sta cercando di fare la squadra del procuratore generale della Cpi Karim Khan». 

Per un mandato di cattura nei confronti del presidente russo e dei suoi generali si dovranno aspettare anni?

«Non credo così a lungo. Ci si potrebbe arrivare entro la fine dell'anno. In questa guerra non bisogna andare lontano per individuare i responsabili e raccogliere le prove».

Nei panni del procuratore Khan come si muoverebbe?

«Cercherei innanzitutto le prove per pochi crimini. Per esempio l'attacco all'ospedale e al teatro di Mariupol, le fosse comuni e i civili uccisi nelle strade di Bucha. Basterebbero per un'incriminazione. La Cpi non deve fare la storia». 

Cuno Tarfusser, 67 anni, dal 2009 al 2019 è stato giudice della Corte penale internazionale con sede all'Aia. Anche lui ha firmato il mandato di cattura per il dittatore sudanese Omar al-Bashir, ricercato dalla Cpi per il genocidio in Darfur. «Ho tentato di farlo arrestare, le poche volte che è uscito dal suo Paese». 

Bashir è stato arrestato in Sudan nel 2019, ma all'Aia non è arrivato...

«La giurisdizione della Cpi è complementare a quella nazionale. Quindi se la Russia giudicasse seriamente Putin, la Cpi si farebbe da parte». 

Finché Putin resta al potere, dorme sonni tranquilli...

«Fino a un certo punto. Se fosse raggiunto da un mandato di cattura, la sua capacità di muoversi sulla scena internazionale diminuirebbe fortemente. Se andasse in uno dei 123 Paesi che hanno ratificato lo Statuto di Roma (che ha dato vita alla Cpi, ndr ) rischierebbe l'arresto. Per lui anche solo questa possibilità rappresenterebbe un danno». 

C'è chi propone la creazione di un tribunale Onu ad hoc, come quelli per l'ex Jugoslavia e il Ruanda.

«Un discorso che non ha senso nel caso dell'Ucraina. Quei tribunali furono istituiti dal Consiglio di sicurezza, dove la Russia ha diritto di veto». 

Tra i 123 Paesi che sostengono la Cpi non ci sono né la Russia né gli Stati Uniti. Curioso: quando Biden chiede che Putin venga giudicato per crimini di guerra, a quale tribunale penserà mai? A un'altra Norimberga?

«Non ho idea. Si tratta di un paradosso politico. Aggiungo che neppure l'Ucraina ha ratificato il Trattato di Roma, pur chiedendo da otto anni alla Cpi di intervenire».

"Parole bizzarre", l'ex giudice dell'Aia stronca Biden e svela perché non si può arrestare Putin. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Il massacro di Bucha con centinaia di cadaveri di civili ucraini ammassati nelle strade e in fosse comuni ha provocato un'ondata di sdegno in tutto il mondo nei confronti della Russia con Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ha chiesto apertamente che Vladimir Putin venga processato per crimini di guerra. Ma è davvero un'ipotesi realizzabile quella di portare lo Zar davanti a un giudice? A rispondere alla domanda lunedì 4 aprile è Cuno Tarfusser, ex giudice della corte penale internazionale dell'Aia, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo. 

Può essere incriminato Putin in base alle immagini e alle prove del massacro nella città a 30 chilometri da Kiev? Innanzitutto esiste una gerarchia militare e quindi va considerata non solo la posizione del presidente russo, sottolinea il giudice. Portare Putin e i suoi generali davanti al tribunale dell'Aia "a oggi sembra estremamente difficile - dice Tarfusser - ma se andiamo indietro di due mesi dobbiamo considerare che era inconcepibile anche una guerra nel mezzo dell'Europa". 

Il motivo è presto detto, la Russia non ha ratificato lo statuto della corte penale internazionale e non riconosce la giurisdizione dell'Aia: "Qualora il procuratore raccogliesse prove sufficienti" a una incriminazione, spiega il giudice, "e fosse emesso un mandato di cattura nei confronti di Putin questo avrebbe difficoltà a essere eseguito perché in Russia nessuno andrebbe ad arrestare" il presidente russo per consegnarlo all'Aia. Tra l'altro neanche Ucraina e Stati Uniti hanno aderito alla corte: "Le dichiarazioni di Biden sono bizzarre" dal momento che lui stesso non la riconosce, spiega il giurista che sull'Ucraina dice che Kiev è in un limbo anche per la questione del Donbass. 

Per Tarfusser in ogni caso servono "prove genuine": "I due contendenti si accusano a vicenda di propaganda e materiale falso, il momento più delicato nelle indagini sarà verificare le prove. Come nei processi normali, anche qui il giudice deve capire se ha davanti prove fasulle". Intanto Washington ha inviato procuratori americani per supportare l'Ucraina nelle indagini sui fatti di Bucha. 

Le difficoltà di mandare lo Zar a processo. I crimini di guerra di Putin in Ucraina, perché lo Zar rischia di non essere processato per i massacri di civili. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

A parole l’Occidente ha già condannato Vladimir Putin per le atrocità commesse dai militari russi da 40 giorni a questa parte in Ucraina, una posizione quella del Cremlino che si è fatta sempre più indifendibile dopo il massacro testimoniato dalle foto e dai video proveniente da Bucha, la città alla periferia nord di Kiev dove i militari russi hanno compiuto una strage di civili.

Eppure i rischi reali per Putin di finire davanti ad un tribunale internazionale e rispondere dei crimini di guerra compiuti sono bassi. L’ipotesi di un Milosevic bis, l’ex presidente serbo spedito nel 2001 davanti ai giudici dell’Aja dal suo successore Zoran Dindic a rispondere dei crimini commessi in Bosnia negli anni Novanta, appare remota.

Le dichiarazioni di questi giorni dei leader europei e occidentali, dopo la scoperta del massacro di Bucha, citano spesso i crimini di guerra di cui Putin dovrà essere chiamato a rispondere e in effetti il procuratore generale della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, già il 28 febbraio scorso, aveva annunciato l’apertura di un’indagine ritenendo fondati i sospetti su crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Ucraina.

Eppure la questione non è così semplice o immediata, ricordando che la CPI, creata nel 2002 e istituita con lo Statuto di Roma (è sostenuta da 124 nazioni sulle 193 rappresentante all’Onu), nella sua storia ha emesso solo 10 condanne e trattato una trentina di casi. Innanzitutto la Corte ha giurisdizione solo per i Paesi che hanno deciso di accettarla e Kiev non ha mai firmato lo statuto, mentre la Russia non l’ha mai ratificato, così come anche la Cina e gli Stessi Stati Uniti.

Non avendo ratificato lo Statuto di Roma e non accettando la giurisdizione della Corte, la Russia non ha dunque l’obbligo legale di cooperare con la CPI e consegnare gli indagati per sottoporli ad un eventuale processo.

Va ricordato inoltre che gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, avevano imposto sanzioni economiche contro funzionari della Corte Penale Internazionale per l’inchiesta del tribunale dell’Aja su possibili crimini contro l’umanità commessi in Afghanistan a partire dal 2003. Insomma, gli Stati Uniti che chiedono indagini sui crimini di guerra non possono pensare evidentemente ad una Corte che la stessa Washington non riconosce.

Per questo si sta facendo largo l’ipotesi di un tribunale speciale, come accaduto in Iraq per indagare sui crimini compiuti dal regime di Saddam Hussein, deposto poco prima, nel 2003. Anche qui però ci sono problemi enormi: finché Putin resterà al comando al Cremlino, appare praticamente impossibile qualsiasi ipotesi di un processo contro lo Zar.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Ma la giustizia internazionale non ferma i dittatori. A fronte di azioni così feroci, le risposte arrivano molto tempo dopo, anche anni. Il Dubbio il 20 marzo 2022.

Di fronte alle atrocità che Putin ha compiuto e sta compiendo contro l’Ucraina si leva sempre più spesso l’auspicio per cui, prima o poi, possa essere chiamato a risponderne di fronte alla giustizia internazionale.

Ci sentiamo coinvolti e tutti nutriamo l’esigenza, quasi antropologica, di sapere che certi crimini – così gravi da colpire le coscienze dell’intera umanità verranno giudicati in qualche sede superiore e i responsabili non resteranno impuniti.

È sempre stato così, fin dai tempi in cui questa giustizia superiore era quella divina, rimessa al Pantheon degli dei e poi all’unico Dio. Oggi, invocare una giustizia internazionale, sia essa affidata alla Corte Penale Internazionale dell’Aia o un Tribunale creato ad hoc, soddisfa un bisogno diffuso di giurisdizione universale, ma porta con sé il rischio di stravolgere ( e travolgere) le finalità tipiche dello strumento penale e processuale, dandogli valenze quasi fideistiche ( la giustizia appunto del buon dio), a scapito dell’azione politica globale che ne esce fiaccata o pretermessa.

Intendiamoci, la prospettiva di una superiore giustizia gestita a livello sovranazionale ha avuto un suo valore deterrente, più o meno incisivo e, in esito all’ultimo conflitto mondiale, i processi di Tokio e Norimberga hanno mostrato che i responsabili di crimini internazionali possono essere chiamati a pagare, anche con la vita.

Ma, a fronte di istanze drammatiche e contingenti, la giustizia dà risposte prospettiche, che implicano attese lunghe anni che, sappiamo, si mutano in decenni. Una prospettiva, dunque, che necessita anche di rivolgimenti politici, che consentano ciò che altrimenti non è nemmeno praticabile, come ci ha insegnato Carla Del Ponte parlando del muro di gomma contro cui si scontrarono le sue indagini come Procuratore per i crimini nell’ex Iugoslavia.

Oggi la prospettiva di rendere giustizia a livello internazionale per tutti coloro che stanno subendo i drammi connessi alla guerra di aggressione in Ucraina è concreta, ma non si possono tacere le molte difficoltà.

I crimini di guerra e contro l’umanità che si stanno perpetrando in queste ore potranno essere giudicati dalla Corte Penale Internazionale e, per il crimine di aggressione, esperti e studiosi stanno ipotizzando l’istituzione di un Tribunale speciale. Ma la Russia sappiamo non riconosce la giurisdizione della CPI ( figuriamoci se mai accetterebbe quella di un giudice internazionale ad hoc sulla sua aggressione all’Ucraina) e questi organi di giustizia internazionale non celebrano processi in absentia; dunque, anche ad indagini concluse e con mandati d’arresto internazionali a carico dell’establishment putiniano – o ai sodali nella lunga catena di comando – ricordiamoci che i processi si celebreranno solo se il meccanismo di cooperazione giudiziaria tra gli Stati funzionerà, consentendone la cattura e la consegna.

Pensando a quanto accadde con Al Bashir, non c’è da esser troppo speranzosi e altrettanto scetticismo lascia la residua prospettiva di un renverser delle sorti politiche in Russia, tale da consentire una consegna di Putin e accoliti alla giustizia internazionale. Esempi passati ve ne sono, sempre in terre slave, con gli arresti di Milosevic e Mladic, ma il paragone è difficile da sostenere, perché diversi furono il contesto storico e temporale, così come quello giuridico con i processi dinnanzi al Tribunale speciale dell’Onu.

Sull’altro fronte l’Ucraina, pur non essendo ancora Stato parte del trattato istitutivo della CPI, fin dal 2014 ha sottoscritto appositi agreements, per sottoporre alla sua giurisdizione gli eventuali crimini di guerra e contro l’umanità connessi dapprima all’invasione della Crimea, e successivamente anche al conflitto nel Donbass con ogni suo ulteriore sviluppo ed estensione.

Una richiesta di giustizia, formulata anni fa, che oggi riprende vigore dopo l’aggressione di Putin, il cui crimine però resta privo di tutela dinnanzi alla CPI per assenza in concreto di giurisdizione, non essendo stato ricompreso in quegli accordi.

Proprio l’annessione della Crimea e i morti del Donbass, stanno a dimostrare quanto lunga e irta sia la strada da percorrere fra la denuncia dei crimini internazionali e il giudizio sui medesimi.

In un passato anche recente, la dilatazione dei tempi d’indagine sui crimini internazionali era correlata alla difficoltà di reperire “sul campo” gli elementi di prova, vuoi per la distanza temporale dagli eventi, vuoi per la difficoltà intrinseca di raggiungere luoghi e persone coinvolte. Individuare le fosse comuni, rintracciare testimonianze, ricostruire teatri di guerra in assenza di documentazione topografica o fotografica.

Ma i tempi mutano rapidamente, e la guerra in Ucraina in ciò differisce da altri precedenti conflitti armati, perché tutto è documentato o sovraesposto dai social media.

Così, mentre il Prosecutor della CPI ha annunciato che una task force del suo ufficio è già operativa sul terreno di guerra per raccogliere materiale d’indagine, la popolazione e la società civile ucraina viene coinvolta in questo sforzo di reperimento, con diffusione capillare nei vari scenari del conflitto.

Per non disperdere o inquinare questa documentazione, è stato così predisposto un sito web a cui fare riferimento per ottenere tutte le informazioni ( con relativi tutorials, compresa un’app per foto e video da cellulare) www. ukrainetjdoc. org.

Nell’era social dove tutti sono connessi e ( quasi) tutto è virtuale, ci sono civili ( e fra questi, vogliamo sottolinearlo, anche gli avvocati) ucraini che in tempo di guerra stanno documentando la realtà di chi combatte, scappa e muore davvero; salvando documentazione che sarà fruibile e a disposizione anche per i dossier processuali.

È un bene dunque che, fin da subito, la giustizia internazionale si muova nella prospettiva di celebrare processi che condannino i responsabili, a tutela delle vittime dei crimini di guerra, contro l’umanità e d’aggressione: perché davvero non c’è pace senza giustizia.

Ma non vi è dubbio che quella giudiziale, anche e soprattutto in ambito internazionale, è prospettiva di lungo ( anche se speriamo non lunghissimo) respiro, che da sola non può sorreggere l’esigenza politica ma soprattutto l’istanza umanitaria di far cessare tali orrendi crimini. Perché è altrettanto vero che non c’è pace senza libertà.

ELISABETTA GALEAZZI Counsel on the list of ICC – Membro eletto ICCBA Consiglio dell’ordine degli avvocati presso la CPI

EZIO MENZIONE Osservatore internazionale UCPI

"Putin perseguibile per ciò che sta facendo. Però è impossibile arrestarlo fisicamente". Luca Fazzo il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il magistrato per 13 anni all'Aia non ha dubbi: "Siamo di fronte a crimini di guerra e come tali perseguibili dalla Corte. Non sono effetti collaterali".

Un mandato di cattura internazionale contro Vladimir Putin è fantascienza?

«Niente affatto. Anzi direi che è nell'ordine delle cose. Più fantascientifica è l'ipotesi che possa concretamente venire eseguito, e cioè che Putin possa fisicamente essere arrestato e portato davanti alla Corte penale internazionale per essere processato. Ma di mandati di cattura contro capi di Stato la Corte ne ha già disposti in passato: contro Muhammar Gheddafi, per esempio, e contro il presidente ivoriano Laurent Gbagbo». Cuno Tarfusser, oggi alla Procura generale di Milano, è stato per 13 anni alla Corte penale internazionale dell'Aia. E davanti a quanto sta accadendo in Ucraina non ha dubbi: «Siamo davanti a crimini di guerra, e come tali perseguibili dalla Corte».

Crimini di guerra? I russi parlano di manipolazioni mediatiche.

«Anche se ci fermiamo a ciò che è documentato in modo inoppugnabile dalle immagini che vediamo, è evidente che siamo davanti a una piena violazione del diritto penale internazionale. L'articolo 8 dello Statuto di Roma dice che è un crimine di guerra colpire intenzionalmente la popolazione civile e obiettivi civili. E in Ucraina questo sta accadendo. Non siamo davanti a effetti collaterali di attacchi a obiettivi militari, ma a crimini intenzionali. Se l'obiettivo, come specialmente a Mariupol, è radere al suolo una città c'è veramente poco da dire».

La Russia riconosce l'autorità della Corte dell'Aia?

«L'ha riconosciuta ma la delibera non è stata ratificata. Purtroppo la stessa cosa è avvenuta da parte dell'Ucraina. Ma a dare alla Corte la giurisdizione sul territorio ucraino potrebbero essere, secondo il procuratore Kharim Khan, due dichiarazioni del governo ucraino del 2014 e 2015, all'epoca dei fatti di piazza Maidan e del Donbass».

Concretamente come si potrebbe svolgere l'indagine?

«C'è una sezione investigativa che la Procura può inviare sul terreno. Indagare sugli on going conflicts è sempre difficile, anche se meno difficile che sulle guerre civili. Certo, se pezzi di territorio cadessero sotto il controllo russo, come ad esempio Mariupol, le indagini sul terreno diverrebbero difficili. Ma ci sono comunque testimonianze, documenti, filmati».

Fino a che punto le indagini possono risalire la scala gerarchica? Se i crimini di guerra venissero confermati dalle indagini della Corte, sarebbe possibile chiamarne a rispondere personalmente il presidente Putin?

«La Corte tende sempre a risalire la catena di comando fino al punto più alto, non si occupa delle responsabilità dei militari sul terreno, di chi uccide e violenta, ma di chi ha dato l'ordine al livello più alto possibile».

Putin potebbe dire che non sapeva?

«Credo che le dichiarazioni di questi giorni del presidente russo siano una pubblica rivendicazione di quanto sta accadendo, e potranno essere usate contro di lui».

C'è il rischio che considerazioni di opportunità frenino le indagini della Corte dell'Aia sui crimini russi?

«Conosco bene Kharim Khan, e sono sicuro che se troverà gli elementi andrà fino in fondo».

Zelensky: «I crimini di guerra a Mariupol passeranno alla storia». Il messaggio del presidente ucraino nella notte. Bombardata una scuola dove ieri erano rifugiate 400 persone. Il Dubbio il 20 marzo 2022.

Il Consiglio municipale di Mariupol ha denunciato il bombardamento da parte delle forze russe sulla scuola d’arte G12. sulla Rive Gauche, dove si nascondevano circa 400 persone: donne, bambini e anziani. Su Telegram, il consiglio ha riferito che l’edificio è stato distrutto e ci sono persone intrappolate tra le macerie. Nella scuola c’erano donne, bambini ed anziani, hanno ancora riportato le autorità. A riferirne è la Bbc.

Il presidente Volodymyr Zelensky, in un discorso pronunciato nella notte, ha condannato l’incessante bombardamento russo della città portuale di Mariupol, circondata dalle truppe russe nel sud-est, affermando che le forze russe nella città sarebbero «passate alla storia» come responsabili di «crimini di guerra».

«Fare a una città pacifica quello che hanno fatto gli occupanti, è una cosa terribile che sarà ricordato per i secoli a venire», ha detto.

Da più di due settimane, la città è scossa dai bombardamenti che hanno interrotto tutte le forniture di elettricità, gas e acqua corrente. Gli attacchi russi hanno colpito centri di accoglienza per civili, un ospedale per bambini e maternità e diversi edifici residenziali, nonché un teatro dove si erano rifugiate centinaia di persone.

Si stima che più di 2.400 persone siano state uccise in città, dove ci sono fosse comuni e corpi per strada. Le forze russe sono avanzate più in profondità nella città e ora, oltre ai bombardamenti aerei, il conflitto si è anche spostato nelle strade.

Secondo l’esercito ucraino, la Russia starebbe «creando deliberatamente le condizioni per una crisi umanitaria» nelle aree occupate dalle sue forze, impedendo a un convoglio di aiuti di raggiungere Kherson la scorsa notte. In un post precedente, l’esercito ha affermato di aver ripristinato la sua linea di difesa a sud in diverse aree e ha affermato di aver fermato con successo un’offensiva russa vicino a Izyum a est.

L’impossibile caccia ai crimini di guerra di Vladimir Putin. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 20 marzo 2022.

Filmati, fotografie e testimonianze mostrano che le forze armate russe sono state coinvolte in decine di episodi che possono configurarsi come crimini di guerra.

Molti episodi sono probabilmente frutto di decisioni dei soldati e degli ufficiali sul campo, ma i bombardamenti indiscriminati contro le città ucraine sono stati ordinati dall’alto.

Il problema è che se Putin non sarà deposto, se la Russia non deciderà di consegnare generali e soldati sotto accusa, i crimini commessi in Ucraina resteranno senza colpevoli. Così come gran aprte dei crimini commessi in tutte le altre guerre.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Crimini di guerra, cosa significano e cosa comportano le accuse contro Putin. Enrico Franceschini La Repubblica il 18 Marzo 2022.

Domande e risposte: l'invasione dell'Ucraina, le violazioni sotto esame, il ruolo e i poteri della Corte penale internazionale e della Corte dell'Onu. E i precedenti storici.

Joe Biden ha definito per la prima volta Vladimir Putin “un criminale di guerra”. Più tardi il portavoce della Casa Bianca ha precisato che il presidente parlava “con il cuore”, ossia spontaneamente: la sua non era una premeditata dichiarazione politica. Probabilmente Biden ha detto solo quello che pensava e provava, dopo il video con le immagini della guerra in Ucraina e il messaggio del presidente ucraino Zelensky che le accompagnava, nel discorso di quest’ultimo al Congresso degli Stati Uniti.

Civili come scudi, Putin accusa l'Ucraina di violare i diritti umani. Il Tempo il 12 marzo 2022.

Vladimir Putin accusa le forze ucraine di «violazioni flagranti» del diritto umanitario, chiedendo a Emmanuel Macron e Olaf Scholz di fare pressione su Kiev perché vi mettano fine. Secondo quanto riferisce il Cremlino, nel corso di un colloquio telefonico con il presidente francese e con il cancelliere tedesco, il presidente russo ha denunciato «assassinii extragiudiziali di oppositori, prese d’ostaggio di civili e il loro uso come scudi umani», oltre al «dispiegamento di armi pesanti nelle zone residenziali, in prossimità degli ospedali, delle scuole e degli asili». 

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente francese Emmanuel Macron e l’omologo russo Vladimir Putin nel loro colloquio hanno concordato di continuare a restare in contatto sul conflitto in Ucraina. «Il presidente della Russia ha parlato nel dettaglio della serie di colloqui tra delegati russi e ucraini avvenuti nei giorni scorsi in formato video. Al riguardo, i leader dei tre Paesi hanno considerato alcune questioni relative agli accordi in elaborazione per applicare le ben note richieste russe. È stato concordato di continuare i contatti sulle questioni ucraine», ha fatto sapere il Cremlino.

Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.  

L'ambasciatore russo Vasily Nebenzya apre il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, leggendo una serie di foglietti: «Abbiamo scoperto una rete di laboratori in Ucraina, sono trenta per la precisione, dove si stanno preparando armi chimiche e biologiche». Nebenzya omette tutto il resto: l'invasione di un Paese pacifico, i bombardamenti indiscriminati sui civili, la fuga dei profughi. Prova a convincere il mondo che i veri criminali di guerra sono gli ucraini. Naturalmente «con i fondi e l'assistenza scientifica degli americani».

È l'ultimo azzardo del Cremlino. Forse il più cinico, il più spregiudicato. L'ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield risponde subito dopo con durezza: «I russi vogliono usare il Consiglio di Sicurezza come megafono per le loro menzogne; stanno fabbricando un pretesto per giustificare un loro attacco chimico». 

C'è un altro sviluppo inquietante: la Cina si schiera con Mosca. Il rappresentante cinese all'Onu, Zhang Jun, ha esordito «auspicando l'avvio rapido di negoziati tra Russia e Ucraina». Poi, però, ha virato schierandosi sostanzialmente con Mosca: «Chiediamo di prendere sul serio le preoccupazioni sollevate dalla Russia e di verificare se gli ucraini non stiano mettendo a punto armi chimiche o biologiche nei loro laboratori». Zhang Jun ha polemizzato con gli Stati Uniti: «È il Paese che più di tutti sta sviluppando queste armi proibite».

Il Cremlino aveva chiesto e ottenuto una riunione d'urgenza del Consiglio di Sicurezza dell'Onu per contrastare il flusso di notizie diffuse da Washington. Mercoledì 9 marzo, la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, aveva risposto via tweet alle voci rilanciate sul web e poi ripetute ieri dall'ambasciatore Nebenzya: «È un chiaro complotto dei russi per giustificare la loro aggressione. Il ricorso alle armi chimiche fa parte del loro modo di agire».

A Washington, Pentagono e servizi segreti stanno «monitorando» le mosse di Vladimir Putin. Il direttore della Cia, William Burns, l'altro ieri, nel corso di un'audizione al Senato, ha detto: «Mosca ha già usato strumenti simili. Stiamo prendendo molto sul serio questo rischio». A tutta questa vicenda si sovrappone l'appello dell'Organizzazione mondiale della Sanità, che sollecita il governo ucraino a distruggere «gli agenti patogeni», come i virus, custoditi nelle strutture di ricerca. Il timore è che gli scontri militari possano provocare «fuoriuscite pericolose». In alcuni laboratori si stavano conducendo ricerche anche sul Covid. 

Putin può essere processato per crimini di guerra in Ucraina? Michele Farina su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.

Putin come Milosevic? Generali russi un giorno sul banco degli imputati, alla stregua di Charles Taylor o dei signori della guerra congolesi? L’ex presidente serbo, ricercato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia creato dall’Onu, fu arrestato dalla polizia del suo Paese e spedito all’Aja nel 2001, sei anni dopo il massacro di Srebrenica. L’ex leader della Liberia fu condannato dalla Corte speciale per la Sierra Leone nel 2012, a un decennio dalla sua caduta. La giustizia non si muove al passo della cronaca e (ammesso che arrivi a destinazione) è molto più lenta dei massacri che è chiamata a giudicare. O dei proclami dei politici: ieri la vice presidente Usa Kamala Harris ha detto che «dovrebbe assolutamente esserci un’indagine sui crimini di guerra» attribuiti ai russi in Ucraina. Nelle stesse ore il governo britannico ha messo in guardia anche i militari dell’ esercito invasore: «Tutti saranno chiamati a rispondere dei crimini di guerra commessi, a ogni grado della catena di comando». Parole forti, orizzonte incerto. Le mamme e gli infermieri dell’ospedale di Mariupol saranno mai chiamate a testimoniare in un’aula di tribunale? E per quali reati, davanti a quali giudici?

Quali sono i reati?

I crimini di guerra sono quelli messi nero su bianco dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, e più recentemente dallo Statuto di Roma, che fu approvato presso la sede della Fao (nella capitale italiana) nel 1998, e che nel 2002 portò all’inaugurazione della Corte penale internazionale, dopo la ratifica di 60 Stati firmatari. Sono considerati gli attacchi deliberati sui civili, gli attacchi che causano un numero di vittime civili sproporzionato rispetto all’obbiettivo militare, gli attacchi a ospedali, scuole, monumenti storici.

Cosa si dice sull’utilizzo delle armi chimiche e termobariche?

Il diritto internazionale proibisce anche l’uso di armi chimiche, mentre l’uso delle devastanti (che Mosca ha ammesso di impiegare in Ucraina) potrebbe costituire reato soltanto se fosse provato che non si sono adottate misure per evitare vittime civili. Per le atrocità commesse in Bosnia negli anni Novanta, Milosevic fu messo sotto accusa per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questi ultimi comprendono un ombrello vasto di «atti» criminali (dallo sterminio alla tortura, dagli stupri alle deportazioni). Ma tali atti, prevede lo Statuto di Roma, devono essere «estesi» e «sistematici», condizioni che non sono sempre facile da provare.

È stata già aperta un’indagine?

Il procuratore generale della Corte Penale Internazionale, ritenendo fondati i sospetti su crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Ucraina. Diversamente dal 2014 (quando nessun Paese aveva chiesto un’iniziativa simile per fatti legati all’annessione russa della Crimea), questa volta una quarantina di nazioni (Italia compresa) ha sollecitato l’intervento della Cpi. Anche l’Unione Europea ha deciso di collaborare alla raccolta di prove, attraverso l’Unità di cooperazione giudiziaria nota come Eurojust. «Ciò che Putin e Lukashenko stanno facendo in Ucraina è un crimine di guerra», conferma la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, sollecitando un processo «quando sarà il momento». Certo la Cpi non brilla per dinamicità: 900 persone da 100 Paesi nello staff, sede all’Aja (Olanda), bilancio di 150 milioni di euro, sei lingue ufficiali (tra cui il russo), 30 casi trattati, 35 mandati d’arresto, 10 condanne (la prima nel 2012, ai danni di un capo milizia congolese) e 4 assoluzioni.

Chi sostiene la Cpi?

A sostenere la Cpi sono 124 (sui 193 rappresentati all’Onu). Non si tratta di un tribunale delle Nazioni Unite, anche se il Consiglio di Sicurezza può chiedere di attivarsi su casi specifici. Ma tre dei cinque membri permanenti (con diritto di veto) non hanno ratificato lo Statuto di Roma. Oltre a Cina e Russia, anche gli Usa. Addirittura nel 2020 Trump firmò un decreto per imporre sanzioni economiche ai funzionari della Cpi, dopo l’annuncio di un’inchiesta dell’Aja su possibili crimini contro l’umanità commessi in Afghanistan a partire dal 2003.

Un tribunale speciale per l’Ucraina?

Quando Kamala Harris chiede un’indagine sui crimini di guerra dopo l’attacco russo all’ospedale di Mariupol, evidentemente non può pensare a una Corte in cui Washington non si riconosce. Nel recente passato, l’Onu ha creato tribunali ad hoc (da quello per l’ex Jugoslavia a quello per il Ruanda). Un tribunale speciale anche per l’Ucraina? Impensabile per Putin e i suoi generali, fino a che lo zar dormirà sonni tranquilli al Cremlino. Ma il tempo non gioca per forza a loro favore. Nel 1995 Milosevic mai avrebbe pensato che da lì a sei anni, dopo una sconfitta elettorale, il premier serbo Zoran Dindic lo avrebbe spedito all’Aja.

Umberto De Giovannangeli per “il Riformista” l'8 marzo 2022.  

"Una sporca guerra che l'uomo che l'ha scatenata non ha neanche voluto dichiarare, contravvenendo anche ai codici militari". 

A sostenerlo è uno che la guerra l'ha conosciuta sul campo: il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri. 

"Quello che Putin teme più di ogni altra cosa - rimarca Angioni - è il possibile contagio democratico che l'esperienza in atto in Ucraina poteva esercitare nei confronti del popolo russo, visti anche gli stretti legami, culturali, linguistici, addirittura familiari, tra i due popoli.

Questo è l'aspetto che al presidente russo spiaceva di più nella "europeizzazione" dell'Ucraina: l'avvicinarsi a quei principi e valori propri di un sistema democratico e non di un regime autocratico. 

Chi parla di 'accerchiamento militare" della Russia nel caso di un'adesione dell'Ucraina all'Unione Europea, quella alla Nato non è mai stata seriamente all'ordine del giorno, evidentemente non conosce l'asimmetria delle forze armate dei contendenti, anche se all'esercito ucraino si aggiungesse un qualche sostegno europeo".

Generale Angioni, che guerra è quella dei Russi in Ucraina?

Vede, la guerra ha i suoi codici, le sue regole. E definizioni appropriate. Una guerra va dichiarata, anzitutto. E mi creda non è un fatto formale ma sostanziale. Perché una guerra quando è tale è soggetta a Convenzioni internazionali, come quella di Ginevra, impone un codice di comportamento nei confronti della popolazione civile e dei prigionieri.

Putin questa guerra non l'ha dichiarata. Ha invaso. Senza doversi attenere a quei codici a cui facevo accenno. Resta indefinita, nel tempo e nelle modalità. Per questo è peggio di una guerra. 

Perché, generale Angioni?

Perché lui non vuole esporsi in maniera decisa nel dichiarare formalmente guerra. Perché per Putin ciò che contano sono le sue volontà. La guerra è molto più "onesta", perché si definisce: prendete le armi, sparate e tentate di uccidere. Invece quella di Putin ha queste come finalità ma non è dichiarata.

Dal punto di vista strettamente operativo a suo avviso Putin è stato sorpreso, spiazzato dalla resistenza incontrata sul campo?

Io credo che sia stato sorpreso. Non tanto dalla reazione degli effettivi ucraini quanto dalla dimensione popolare della resistenza. Certamente era consapevole della poca simpatia di cui godeva in Ucraina, ma non fino al punto di trovarsi in una vicenda così determinata di scontro.

In lui si è manifestata un'arroganza culturale, storica, di chi, in quanto sedicente depositario dell'eredità zarista e di quella dell'Unione Sovietica, si sente superiore all'avversario che intende riportare all'ordine, al suo ordine. 

Tra tutti i Paesi che circondano la Federazione Russa, e che in passato ne dipendevano in parte, l'Ucraina è quello che si è più "europeizzato". 

E di conseguenza aveva assunto un atteggiamento che per Putin equivaleva ad una sfida, ad una minaccia esistenziale non per la sicurezza della Russia ma per quella del regime di cui è a capo.

Quella dell'Ucraina è stata una sfida democratica. Non dichiarata, perché non aveva alcuna intenzione né interesse a farlo, ma aveva cominciato ad acquisire il piacere della libertà. 

Un "piacere" che per Putin poteva diventare, insisto su questo punto perché lo ritengo quello dirimente, una minaccia al suo mondo, al suo entourage, ai super oligarchi da lui stesso creati e che a lui devono le enormi ricchezze accumulate.

Una minaccia al mondo "putiniano". Lui non mira alla cancellazione dell'Ucraina ma alla sua "normalizzazione", ad avere un regime amico a Kiev. L'Ucraina come stato satellite, addomesticato. Uno stato cuscinetto ai confini della Russia.

Mi lasci aggiungere che la traduzione sul campo di una resistenza popolare è qualcosa che materializza un incubo per qualsiasi esercito: la guerriglia urbana, soprattutto quando ha come teatro città estese e densamente popolate.

In questo scenario, come valuta la reazione dell'Europa e degli Stati Uniti?

La valuto positivamente. Non possiamo, non dobbiamo fare il favore a Putin di dichiarare guerra. Dobbiamo manifestare democraticamente la volontà di continuare a convivere, ognuno con i propri impegni, le proprie necessità, mantenendo in vita l'elevato "miraggio" della convivenza.

L'Italia si è comportata così perché è nella nostra indole, nella nostra volontà. Gli Stati Uniti hanno accettato questa situazione per non venire accusati di essere colpevoli dell'inizio di una guerra dichiarata. 

Si è scelta invece la via delle sanzioni da parte dell'Occidente...

Si è scelto di rimanere nell'ambito della legge, della legalità internazionale e della convivenza. Le sanzioni, così come quello militare, sono strumento e non fine per perseguire una idea, una visione, una strategia politica. 

Le sanzioni sono funzionali a questi principi e non contrastano con quell'idea di convivenza di cui parlavo in precedenza. Le sanzioni contro chi ha invaso sono anche un modo concreto, democratico, per sostenere coloro che in questa vicenda sono le vittime: il popolo ucraino. 

Putin ha evocato i diritti della minoranza russofona ucraina come uno dei fondamenti della sua azione militare. Ma non si tutelano i diritti di una minoranza schiacciando quelli della maggioranza della popolazione ucraina. 

Come vedrebbe un ingresso dell'Ucraina nella Nato?

Sarebbe un errore. Un grosso rischio. Ma non mi pare che né a Washington né a Bruxelles intendano correrlo. 

Che tipo di esercito è oggi quello russo, generale Angioni?

È un esercito pericoloso. Perché ha acquisito i mezzi ma non la democraticità. E non c'è niente di peggio che un elemento che può provocare danni in mano ad uno scellerato. 

Uno "scellerato" che si veste anche da storico, evocando il panrussismo ,appellandosi alla Grande Madre Russia, occhieggiando ai fasti zaristi e alla guerra patriottica contro i nazisti. Quando un autocrate si fa "storico", deve far paura?

Assolutamente sì. Perché nell'agitare alcune tematiche, come quella della "denazificazione" dello Stato ucraino, Putin si traveste da democratico e per questo risulta essere più pericoloso. 

Agendo in questo modo, lui rimane nell'ambito di una ambiguità voluta, che gli permette di non essere definibile come colpevole ma come "responsabile", ed è una distinzione sostanziale.

Molto ha fatto discutere in Italia la decisione del Governo, con il via libera pressoché unanime del Parlamento, di inviare equipaggiamenti militari all'Ucraina...

L'interrompo subito. Non sono equipaggiamenti militari. Sono equipaggiamenti per la sopravvivenza del popolo ucraino. Un contributo. Non abbiamo inviato carri armati o aerei da combattimento. 

Ed è stata una scelta giusta a suo avviso?

Sì. Non si poteva fare diversamente nel mondo democratico. Il che non inficia la necessità di perseguire ancora la strada della diplomazia, del convincimento, della possibilità di evitare il ricorso alle armi. Il nostro "manovratore", gli Stati Uniti, rimane defi lato per non attirare su di sé tutte le ire. L'Europa in questa vicenda, ha un po' il ruolo di chi è mandato in avanscoperta per cercare di rimediare senza procurare ulteriori danni. 

L'Europa si era cullata nell'illusione che la guerra dentro i suoi confini, non avrebbe fatto più parte del suo futuro. Sottovalutazione o rimozione?

Non sono di questo avviso. Io credo che ci sia stata molta attenzione in tutti i Paesi europei riguardo alla necessità di tenere alta la guardia e al tempo stesso di non contribuire a creare una scusa, un pretesto per il passaggio alle armi. 

E di conseguenza abbiamo lasciato spazio all'iniziativa avversaria, di Putin, tanto da poter poi dire che non possiamo tollerare oltre queste azioni che sono contro le leggi della convivenza. 

Dobbiamo rimanere attenti a non creare pretesti a chi ne è alla continua ricerca. Da questo punto di vista, quello che qualche osservatore ha valutato come un atto di debolezza, a mio avviso è stato un atto d'intelligenza politica... 

A cosa si riferisce?

All'accettazione immediata dell'adesione dell'Ucraina all'Unione Europea. Se lo avessimo fatto, sarebbe risultata una sfida per Mosca. Condivido questo atteggiamento prudente nel cercare di risolvere questa crisi. 

Putin ha affermato che le sanzioni sono per la Russia una dichiarazione di guerra. Lei come la vede?

Putin fa queste affermazioni perché lo ritiene opportuno e conveniente. Non è un qualcosa che può portare alla rottura di una situazione che è già precaria.

È un modo per mascherare il suo comportamento. Un modo per giustificare alcuni atteggiamenti. Mi pare soprattutto un discorso rivolto all'opinione pubblica interna, per compattarla attorno al "condottiero". 

Non è la prima volta che ciò accade nella storia, anche in quella russa e sovietica. È proprio di regimi autocratici utilizzare lo spauracchio del Nemico esterno per giustificare limitazioni di libertà o puntare su un sentimento patriottico che peraltro è fortemente presente nei Russi. 

Nella sua lunga storia in prima linea, lei ne ha conosciuti di dittatori, autocrati etc...Se dovesse dire in poche parole chi è per il generale Angioni, Vladimir Putin, come lo definirebbe?

È un leader che è uscito fuori dai canoni democratici, volendo imporre la sua autorità fuori dalle regole democratiche. Putin ha ritenuto di essere in grado di poter imporre le proprie volontà, ritenendo l'Europa incapace di una reazione significativa. 

Da autocrate ha ritenuto che le discussioni interne all'Europa fossero un segno di debolezza e non come il sale di relazioni democratiche. Lo ha ritenuto perché non ha il senso della democrazia.

Bombardamenti senza fine. Ora si muove la Corte dell'Aia. Mauro Indelicato il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Kharkiv ancora la più colpita, nella notte anche quattro violente esplosioni a Kiev.  

Arrivate le prime luci dell'alba, l'Ucraina ha nuovamente iniziato la conta dei danni. Colpite nella notte appena trascorsa gran parte delle principali città del Paese. A partire da Kiev, raggiunta da almeno quattro forti esplosioni, due anche in centro. Ancora una volta la più bersagliata è stata Kharkiv, il cui centro urbano sta iniziando ad assumere l'aspetto tipico di una città assediata e distrutta dal conflitto.

Notte di bombardamenti

Kharkiv sembra essere il principale obiettivo da parte russa in questa fase del conflitto. Dopo il respingimento dell'assalto russo di domenica, dall'inizio di questa settimana la città è stata pesantemente bersagliata e colpita in pieno centro.

Ci sono molte ragioni per ritenere, da parte russa, Kharkiv strategica. Anche più della stessa Kiev. È da sempre considerata una sorta di “capitale dell'est” del Paese. Il suo oblast si estende poco lontano dal Donbass e dai territori controllati dai separatisti. Da Mosca si è quindi deciso di forzare la mano.

Nella notte che ha segnato il raggiungimento della prima settimana di conflitto, i bombardamenti su Kharkiv sono stati molto pesanti. Le esplosioni, secondo quanto riferito sui social dai testimoni e da numerosi civili, si sono succedute a ritmi quasi regolari fino all'alba. Gli abitanti non sono mai usciti da casa o dai rifugi, se non quando la notte ha definitivamente lasciato spazio ai primi raggi di sole.

Chi si è messo in strada per raggiungere alcuni degli ultimi negozi aperti ha trovato ancora le macerie fumanti. Sarebbero state colpite almeno tre scuole, forse anche la stessa Cattedrale. Ma non c'è conferma. Dalle immagini, si notano alcuni isolati dove le macerie ostruiscono la stessa circolazione stradale. I bombardamenti hanno riguardano anche alcune località vicine. Tra tutte quella di Izyum, a metà strada tra Kharkiv e Sloviansk. Colpiti alcuni edifici residenziali, ci sarebbero vittime tra i civili. In questa zona si stanno concentrando altri importanti sforzi bellici da parte russa. Qui infatti scorrono le arterie stradali che collegano Kharkiv al Donbass. Ieri le truppe di Mosca, che in città si mantengono sempre in periferia, sono state viste avanzare in alcune località attorno Izyum.

Anche Kiev è stata duramente colpita. Nella tarda serata una violenta stazione ha coinvolto alcuni isolati vicino la stazione centrale. Nel cuore della notte le sirene di allarme aereo hanno suonato più volte. Intorno alle 3:00 due violente esplosioni hanno coinvolto il centro, altre due sono state udite in lontananza. Il sindaco della capitale, Vitali Klitschko, ha invitato nelle scorse ore i cittadini a prestare attenzione. "Il nemico è alle porte e vuole predere la città", si legge nelle sue dichiarazioni con riferimento agli scontri registrati a Bucha, Irpin e Gostomel, località in periferia.

Si muove la corte penale internazionale

Intanto, proprio nelle ore in cui la guerra è entrata nella sua seconda settimana, da L'Aja è arrivata la notizia di un'inchiesta per presunti crimini di guerra avviata dalla Corte Penale Internazionale. Il procuratore capo Karim Khan ha dichiarato di aver aperto un fascicolo per i fatti accaduti prima dell'invasione russa. "Ma vista l'espansione del conflitto negli ultimi giorni - ha aggiunto - è mia intenzione prendere in considerazione ogni crimine commesso da qualsiasi parte in conflitto, in qualsiasi parte del territorio".

Un'indagine è stata aperta anche dalla corte internazionale di giustizia, massimo organo giudiziario dell'Onu. Due udienze a porte aperte si terranno a L'Aja i prossimi 7 e 8 marzo. Il caso sarà quello sollevato dal governo ucraino circa le accuse di genocidio avanzate da Mosca contro Kiev e usate poi, secondo la parte ucraina, come pretesto per iniziare il conflitto.

Oggi riprendono i colloqui

Al confine tra Polonia e Bielorussia intanto riprendono i negoziati. Nelle prossime ore le due delegazioni di Russia e Ucraina, che hanno raggiunto la località dove si svolgeranno le trattative, si incontreranno per discutere circa un possibile cessate il fuoco. Si tratterà del secondo round di colloqui dopo quello andato in scena sempre in Bielorussia nella giornata di lunedì.

Il conflitto in Ucraina. Processo al nemico: terroristi, fascisti o russi il diritto non è un’arma da guerra. Massimo Donini su Il Riformista il 19 Maggio 2022. 

Processare il nemico ha due versanti: uno legittimo e uno illegittimo. Il primo riguarda il diritto penale di guerra e le fattispecie che prevedono violazioni di doveri militari o di diritti fondamentali dei belligeranti e delle popolazioni civili. Il secondo riguarda invece l’uso del diritto come arma contro alcuni autori di reato, presunti nemici della società o dello Stato, per escluderli, annientarli, privandoli di garanzie penali o giurisdizionali avvertite come un ostacolo alla neutralizzazione di situazioni o persone pericolose. È quest’ultimo il fenomeno al quale ci si riferisce, nel dibattito contemporaneo, quando si parla di diritto penale del nemico.

C’è una vicenda del Novecento italiano troppo istruttiva su che cosa è l’uso della legge contro il nemico, che non coincide con il normale diritto penale di guerra, ma con una sua patologica espressione. Dato che i libri di storia, e quelli di diritto, non raccontano di frequente questa pagina oscura legata ai processi al fascismo e a supplizi “retroattivi”, è forse utile che nel clima bellico che devasta oggi le menti si faccia un esercizio di memoria. Caduto il regime fascista il 25 luglio del 1943, il primo governo Badoglio dura 45 giorni, fino all’8 settembre. Nasce quindi un periodo di guerra civile, oltre che di resistenza e di liberazione, all’interno di un Paese teatro del conflitto mondiale. Il 23 settembre 1943, all’Ambasciata tedesca di Roma, si costituisce un “nuovo” Stato fascista repubblicano che il 18 novembre prende il nome di Repubblica sociale italiana. La Repubblica di Salò, nei Seicento giorni della sua esistenza (fino al 25 aprile 1945) si estende tanto quanto il territorio dell’occupazione tedesca, vale a dire da tutto il Nord dell’Italia fino a Lazio e Abruzzo e parte di Puglia e Campania. Il suo “centro”, però, è l’Italia settentrionale.

Nella restante parte dell’Italia meridionale è presente inizialmente il “Governo del Sud”, con sede a Brindisi e poi a Salerno, avendo il Re abbandonato Roma. Solo dal giugno 1944, liberata Roma dai tedeschi ad opera delle forze anglo-americane, il Governo italiano rientra nella capitale, e per effetto del Regio Decreto 5 giugno 1944, n. 140 la rappresentanza dello Stato viene trasferita alla luogotenenza di Umberto di Savoia. Tra i provvedimenti più significativi del Governo italiano, comprensivi di disposizioni amministrative, civili, penali dirette ad effettuare la c.d. epurazione o defascistizzazione dello Stato, vanno qui segnalate le norme penali nuove, dirette a colpire i delitti “fascisti” commessi per la presa del potere e per il suo mantenimento, e dunque prima dell’entrata in vigore delle nuove incriminazioni: nuovi delitti di creazione del fascismo, nonché di atti rilevanti di appoggio ad esso, per i quali era prevista la pena di morte; e i meno gravi delitti di collaborazionismo col tedesco invasore commessi sia da militari e sia da civili.

Accanto a queste incriminazioni si previdero norme processuali che introducevano tribunali penali straordinari, tra i quali un organo di formazione anche politica come l’Alta Corte di Giustizia, e le Corti d’Assise straordinarie, tutti organi temporanei ed eccezionali costituiti ad hoc per celebrare i processi penali contro i delitti del regime fascista. Si trattò di drammatiche torsioni del diritto e del processo penale. Già un R.D. 26 maggio 1944, n. 134 introdusse la “Punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo” con le stesse pene retroattive poi previste dal decreto luogotenenziale del luglio 1944 (d. lg. Lgt. 27 luglio 1944, n. 159). Sul versante della Repubblica sociale italiana una analoga criminalizzazione del passato venne introdotta in una sorta di “regolamento dei conti” tra fascisti del ventennio ed esponenti del secondo fascismo. Il nuovo governo repubblicano, al primo punto del suo programma, annoverava la volontà di definire penalmente la colpa storica di gerarchi del partito, generali e ministri, corresponsabili della caduta del regime fascista.

Venne istituito un Tribunale speciale straordinario che aveva infatti il compito di “giudicare i fascisti che nella seduta del Gran Consiglio del giorno 25 luglio 1943, tradirono l’idea rivoluzionaria alla quale si erano votati fino al sacrificio del sangue e col voto del Gran Consiglio offrirono al re il pretesto per il colpo di Stato” (art. 4 d. lgs. 11 novembre 1943). La fattispecie nuova, di cui dovevano rispondere, accanto a due altri delitti connessi del codice penale e di quello militare di guerra (art. 241 c.p.: attentato contro l’unità e l’integrità dello Stato e art. 51 c.p.m.g.: aiuto al nemico), era scritta nell’art. 1, lett. a) del medesimo decreto, cioè il “tradimento del giuramento di fedeltà all’idea”. Prevedeva il successivo art. 7: “Per i reati di cui all’art. 1, lett. a) è comminata la pena di morte”. Si celebrò quindi il Processo di Verona, dall’8 al 10 gennaio 1944, contro 19 imputati tra i componenti della seduta del Gran Consiglio, tra i quali Galeazzo Ciano. Di questi 18 furono condannati alla pena capitale, la maggior parte in contumacia, pena subito eseguita l’11 gennaio 1944.

Sul piano dell’attuazione delle leggi contro il fascismo, peraltro, nel novembre 1945 risultano 21.454 processi pendenti, e i condannati, alla fine, saranno 5.928, di cui 334 latitanti. Le condanne alla pena capitale furono, alla fine, 259, di cui 91 eseguite. Per gli altri 168 intervennero indulti, condoni, provvedimenti di grazia. Dei 5594 condannati non latitanti, 5328 furono scarcerati anticipatamente per amnistia, indulto, grazia o liberazione condizionale. Alla data del gennaio 1953 c’erano ancora 266 detenuti (R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il Fascismo, Baldini&Castoldi, 1999, 451 s.). In effetti queste drammatiche vicende di storia patria approdarono l’indomani del referendum a favore della Repubblica (2 giugno 1946) nel provvedimento di amnistia e indulto per i delitti di collaborazionismo, promulgato con il d.p. 22 giugno 1946, n. 4, la c.d. amnistia Togliatti, dal nome di Palmiro Togliatti, all’epoca Ministro di Grazia e Giustizia (su queste vicende giudiziarie v. G. Vassalli/G. Sabatini, Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Ed. La Giustizia penale, 1947, e poi M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Mondadori, 2006; P. Caroli, Il potere di non punire, Esi, 2020).

Si noti che la fattispecie incriminatrice nuova e principale del processo di Verona, cioè il delitto di “tradimento del giuramento all’idea”, riguardava un singolo fatto storico irripetibile, una norma diretta solo al passato e non al futuro. La caratteristica di questa incriminazione – applicabile anche ad altri tradimenti dell’idea, ma tutti riferiti al passato, da parte dei Tribunali provinciali straordinari – era di riguardare fondamentalmente fatti storici irripetibili (“hanno tradito”); ma lo stesso deve dirsi dei delitti di creazione del fascismo e di atti rilevanti di appoggio ad esso introdotti dal Governo del Sud, che non disponevano per l’avvenire, ma solo per il passato. Non erano vere “leggi”, perché la legge dispone per l’avvenire, e proprio questo tratto le escludeva dal novero del “diritto penale”, cioè del penale come “diritto”, in quanto si legittimava una condanna a morte, quale mero atto punitivo del nemico, in assenza di un diritto precostituito al fatto e mancando altresì un diritto riferibile a condotte … susseguenti all’entrata in vigore della norma.

L’indomani dell’approvazione delle sanzioni contro il fascismo vi furono alcune reazioni non solo da parte di giuristi. La Civiltà cattolica, ma anche Benedetto Croce, si opposero alle leggi retroattive. Fra i giuristi che si confrontarono pubblicamente sul tema meritano di essere ricordate le posizioni contrapposte di Arturo Carlo Jemolo e di Piero Calamandrei. Il breve dibattito avvenne sulle pagine della rivista Il Ponte. Jemolo sosteneva l’unica tesi sottoscrivibile da un penalista e, diremmo oggi, corretta sul piano costituzionale (A.C. Jemolo, Le sanzioni contro il fascismo e la legalità, in Il Ponte, 1945, 277 ss.). Ben consapevole dell’immenso dolore prodotto dai morti sotto il pugnale o il manganello, in guerre ingloriose e inutili, in esilio, in galere riempite da sentenze politiche ingiuste del Tribunale per la difesa dello Stato, consapevole del sentimento di vendetta diffuso, Jemolo ricordava che bisogna sapere «resistere all’uomo della strada», che «non si compensa il dolore con il dolore» e che la legge penale non può essere retroattiva. All’amico Calamandrei, quindi, rammentava che non era certo “rivoluzionaria” quella giustizia retroattiva assai poco cieca, ma orientata a scegliere pochi per colpirli con pene esemplari, e ad attuare un’epurazione, sul piano amministrativo, sorretta dal rancore del «collega ieri superato» o dalla «cupidigia dell’aspirante al posto».

Nel pubblicare questo accorato intervento il direttore della rivista, Piero Calamandrei, replicava in una “postilla” in calce (Il Ponte, 1945, 285 s.). Le leggi contro il fascismo, diceva Calamandrei, sono giustificabili non solo sul piano politico, ma propriamente giuridico. Infatti, il principio nullum crimen sine previa lege doveva e poteva essere bilanciato con un altro principio «ancor più essenziale», perché condizione ancor più indispensabile d’ogni civile convivenza: «quello che vieta ai singoli di farsi giustizia da sé. E quando la tensione politica è tale che senza l’intervento dello stato le vendette sociali dilagherebbero nella guerra civile, si può pensare che anche il dogma della irretroattività della legge debba per forza passare in seconda linea». Meglio la retroattività della guerra civile, diceva Calamandrei in sintesi. Inoltre, quando a un ordinamento ne subentra un altro, le garanzie di irretroattività non varrebbero più, trovando applicazione il nuovo e diverso assetto legislativo. Oggi questa giustificazione non potrebbe essere accettata, tanto più osservando quali norme divennero retroattive, per quanto nell’arco di un biennio si sia passati dalla pena di morte per reati inesistenti al tempo dei fatti e anche in seguito, alle esecuzioni illegali extragiudiziarie, all’indulgenza generalizzata.

Quando si pensa di usare il diritto criminale contro nemici in guerra col proprio Stato, o con la propria parte, e durante le ostilità, per punirli delle violazioni dei diritti umani, o delle popolazioni civili, o anche in organi costruiti ad hoc con quel fine, mentre parlano le armi, ogni giudicante sa che è in gioco la sua terzietà e l’uso strumentale della legge per scopi politici. È un rischio troppo forte. La giustizia penale, anche se politica nella legislazione, resta sempre individuale e non en masse nel giudizio. Per questo non deve ricostruire “la” storia e “la” memoria, ma solo accertare singoli fatti del passato dentro a previsioni legali costruite per il futuro. E anche qui i limiti di prova e di garanzia delle decisioni giudiziali rivelano tratti incompatibili con la pura conoscenza storica, che non tollera vincoli di giudicato. Quando poi i Tribunali usano le incriminazioni e i processi come armi di massa, anche il valore di giustizia, oltre che di conoscenza sempre parziale, delle decisioni ne risulta compromesso e confuso nel diritto penale del nemico, sia questo un terrorista, un mafioso o, sic, un russo.

Cfr. sul tema M. Donini, “La gestione penale del passaggio dal fascismo alla democrazia in Italia. Appunti sulla memoria storica e l’elaborazione del passato ‘mediante il diritto penale’”, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2009, 183 ss.; M. Donini, F. Diamanti, “Il processo di Verona”, ibidem, 2020, 465 ss.

Massimo Donini 

Ma la giustizia internazionale può fermare i crimini di guerra? L'Ucraina non ha ratificato lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, e per questo motivo non può rimettere i casi alla CPI. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 7 marzo 2022.

Karim Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale, dopo aver annunciato che verrà avviata «il più rapidamente possibile» un’indagine sull’invasione russa ai danni dell’Ucraina, ha comunicato che il suo ufficio ha ricevuto le segnalazioni di 39 Stati (Italia compresa) per il deferimento della Russia.

La Corte penale internazionale è un organo giurisdizionale indipendente e permanente. È chiamata a processare le persone accusate dei più gravi reati che generano allarme e preoccupazione a livello internazionale, si pensi al genocidio, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra. I deferimenti alla CPI consentiranno all’ufficio del Prosecutor Khan di continuare ad indagare, tenendo conto già di quanto accaduto dall’inizio delle ostilità dal 2013 in poi, e di valutare i fatti verificatisi come crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidio commessi in qualsiasi parte del territorio ucraino e da qualsiasi persona. Karim Khan ha assicurato massimo impegno affinché «le indagini siano condotte in modo obiettivo e indipendente, nel pieno rispetto del principio di complementarità».

Inoltre, ha rivolto un appello a tutti coloro che sono coinvolti nelle ostilità in Ucraina, chiedendo un rigoroso rispetto «delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario». L’Ucraina non ha ratificato lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, e per questo motivo non può rimettere i casi alla CPI. «Ma per due volte – ha rilevato qualche giorno il Procuratore – ha esercitato le sue prerogative per accettare la giurisdizione della Corte per presunti reati previsti dallo Statuto di Roma che si sono verificati sul suo territorio. La prima dichiarazione presentata dal governo ucraino che ha accettato la giurisdizione della CPI si riferisce a presunti crimini commessi sul suo territorio dal 21 novembre 2013 al 22 febbraio 2014».

La giustizia penale internazionale è, dunque, al lavoro anche per l’aggressione militare iniziata lo scorso 24 febbraio, data entrata oramai nei libri di storia. Nei confronti della Russia sono in corso varie procedure davanti a Tribunali e ad organi internazionali per presunte violazioni commesse da questo Paese in conseguenza degli eventi prodottisi in Ucraina a partire dal 2014. «In particolare – spiega Marco Pedrazzi, ordinario di Diritto internazionale nell’Università degli Studi di Milano “La Statale” – vanno ricordati il caso Ucraina contro Russia pendente davanti alla Corte internazionale di giustizia, cui si aggiunge il nuovo ricorso introdotto dall’Ucraina il 26 febbraio, e i numerosi ricorsi di cui è stata investita la Corte europea dei diritti umani. Che questi e altri strumenti siano idonei a fermare l’azione russa è dubbio. Sicuramente possono contribuire a determinare un relativo isolamento della Russia a livello internazionale e a mettere in difficoltà il governo russo. L’isolamento è relativo, perché, come già si è visto, la comunità internazionale non si schiera compatta a fianco dei Paesi occidentali. Non possiamo non prendere atto del fatto, comunque, che il diritto internazionale attuale non dispone di mezzi realmente efficaci per fermare azioni gravemente illecite poste in essere da una grande potenza nucleare».

Un altro organo giurisdizionale che di sicuro sarà impegnato è la Corte internazionale di giustizia, con sede all’Aia (Olanda), istituita dalla carta delle Nazioni Unite. Il suo ruolo è quello di definire in base al diritto internazionale le controversie giuridiche ad essa sottoposte dagli Stati e di fornire pareri su questioni giuridiche sottoposte dagli organi delle Nazioni Unite e da agenzie specializzate.

L’articolo 33 della Carta delle Nazioni Unite indica vari istituti per la composizione pacifica delle controversie tra Stati (si pensi alla negoziazione, alla mediazione e all’ arbitrato). Davanti alla Corte internazionale di giustizia l’accademico italiano Fausto Pocar ricopre il ruolo di “Giudice ad hoc” in una causa promossa dall’Ucraina contro la Federazione Russa su questioni concernenti sia la Crimea che il Donbass. La figura del “Giudice ad hoc” è contemplata dall’articolo 31, paragrafi 2 e 3, dello Statuto della Corte, ed è prevista quando uno Stato parte in una causa dinanzi alla CIG non ha un giudice della sua nazionalità.

In attesa delle decisioni della CPI o della CIG siamo di fronte ad una involuzione che manda in frantumi le garanzie del diritto internazionale costruite con tanti sacrifici dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. «Non vi è dubbio – commenta il professor Pedrazzi – che il conflitto in Ucraina costituisca un evento particolarmente drammatico, il quale tuttavia si colloca nel quadro di un complesso assestamento delle relazioni internazionali, ancora in corso tre decenni dopo la fine della guerra fredda.

Tale assestamento è certamente all’origine di una serie di fattori di crisi che incidono sulla funzionalità e sull’efficacia di molteplici istituzioni internazionali. È chiaro che lo stesso diritto internazionale sia investito da questa crisi, nel momento in cui attori fondamentali paiono disconoscere apertamente regole portanti del sistema».

Crimini di guerra, la Russia diserta la prima udienza dell’Aja. Al via oggi il procedimento davanti alla Corte penale internazionale, incaricata di valutare se siano stati commessi crimini di guerra durante l’aggressione militare all’Ucraina. Il Dubbio il 7 marzo 2022.

La Russia non si è presentata all’udienza sulla guerra in Ucraina in corso all’Aja da parte della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, incaricata di valutare se siano stati commessi crimini di guerra durante l’aggressione militare all’Ucraina, lanciata lo scorso 24 febbraio. «La corte si rammarica della mancata apparizione della Federazione Russa in questo procedimento», ha spiegato la presidente della Corte internazionale di giustizia, il giudice Joan Donoghue, aggiungendo che l’assenza è stata notificata dall’ambasciatore russo nei Paesi Bassi, dove ha sede la Corte internazionale.

«Oggi verrà compiuto il primo passo per fornire una valutazione legale dei crimini di guerra commessi dalla Russia all’interno della comunità internazionale. Esistono diversi processi paralleli che possono essere condotti per valutare i crimini della Russia e della sua leadership in Ucraina», ha spiegato Fedor Venislavsky, membro del Comitato Verkhovna Rada per la sicurezza nazionale, la difesa e l’intelligence dell’Ucraina.

Kiev presenta oggi i suoi argomenti, mentre domani sarà la volta della replica della Federazione Russa. L’Ucraina ha chiesto alla Corte di ordinare a Mosca «l’immediata sospensione delle operazioni militari» cominciate il 24 febbraio scorso, che hanno «l’obiettivo dichiarato di impedire e punire un presunto genocidio» nelle regioni separatiste di Donetsk e Luhansk, in Ucraina orientale. Kiev nega categoricamente l’accusa di genocidio e ritiene che si tratti di un pretesto per giustificare artificiosamente l’invasione. Una decisione dovrebbe essere presa nel giro di giorni ma è improbabile che la Russia voglia ottemperare a una richiesta della Corte di porre fine alla guerra. Se Mosca dovesse rifiutarsi, i giudici possono chiedere l’intervento del Consiglio di sicurezza dell’Onu, nel quale però la Federazione Russa mantiene un diritto di veto.

Il giudice Tarfusser: «Crimini contro l’umanità in Ucraina, ma servono prove concrete». Secondo l'ex giudice dell'Aja, dove ha prestato servizio dal 2009 al 2019, per incriminare Putin e i suoi complici sono necessarie prove selezionate con metodicità. Il Dubbio il 4 marzo 2022.

Non ci sono dubbi che in Ucraina le forze russe abbiano commesso crimini di guerra e contro l’umanità, perseguire i responsabili, da Vladimir Putin in giù, non sarà semplice, comunque difficilmente potrà avvenire mentre la leadership responsabile sarà al potere. Cuno Tarfusser, giudice della Corte penale internazionale dal 2009 al 2019 – quella Corte che ieri sera ha annunciato l’avvio dell’indagine per crimini di guerra contro la Russia – spiega all’Adnkronos quali saranno i prossimi passi e cosa potrebbe succedere a Putin ed alla sua cerchia.

«La serie di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità che vengono commessi quotidianamente in Ucraina è vasta – dice Tarfusser, oggi sostituto procuratore generale a Milano – Ieri è stata avviata la procedura con l’apertura di un’inchiesta preliminare, prima tappa di un percorso abbastanza lungo e tortuoso, anzitutto per la difficoltà di acquisire le prove mentre è in corso il conflitto».

In questa fase, secondo il magistrato, bisogna raccogliere le prove «e soprattutto assicurarsi della genuinità del materiale probatorio, capirne la provenienza, per poterlo utilizzare in un eventuale procedimento». «Non si può solo arraffare il materiale – avverte Tarfusser – ma bisogna raccogliere le prove con metodicità e selezionarlo e riferirlo a fatti e atti criminosi specifici che si vogliono perseguire, per poterli poi attribuire in termini di responsabilità penale a persone specifiche».

Chi potrebbe essere portato allA sbarra? «L’individuazione dei responsabili per quanto sta avvenendo in Ucraina appare abbastanza facile e quindi da Putin in giù, la leadership politica e militare», sostiene l’ex giudice della Corte dell’Aja, «molto più difficile è portare queste persone davanti alla Corte che non giudica in contumacia – ricorda il magistrato – Quindi il processo a Putin o a chi per lui responsabili di crimini di guerra, laddove accertati e laddove si riescano a raccogliere prove sufficienti, è anche una questione di riuscire a mettere mano su queste persone e di trasferirle all’Aja».

Dai gerarchi nazisti ai boia dei Balcani: i grandi processi della storia moderna. In principio ci fu il tribunale di Norimberga con le sue dodici condanne a morte e il drammatico suicidio di Herman Goering. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 7 marzo 2022.

L’idea balenava nella testa di Louis Gabriel Gustave Moynier già alla fine dell’Ottocento: creare un tribunale internazionale che giudicasse i crimini di guerra e le violazioni della Convenzione di Ginevra. Ma quella del giurista svizzero fondatore della Croce rossa era una battaglia isolata, che raccoglieva il consenso di ristrette élite e l’ostilità delle nazioni costantemente impegnate nei conflitti. Così non se ne fece nulla. Bisognerà aspettare la fine della Seconda guerra mondiale: l’accordo di Londra istituisce infatti il tribunale militare internazionale di Norimberga, chiamato a giudicare le atrocità del Terzo reich, accusati di complotto, crimini contro la pace e crimini contro l’umanità, reato che compare per la prima volta nella storia.

Alla sbarra 21 ex dignitari nazisti e stretti collaboratori di Adolf Hitler. Tra i più noti il numero due del regime Herman Goering, il ministro della Difesa Joachim von Ribbentrop, l’ex vicecancelliere Rudolf Hess e l’architetto del Fuhrer Albert Speer. Oltre 300mila le testimonianze, 6600 le prove e i reperti presentati in aula, tremila tonnellate di materiale archiviate in 42 volumi. Durante gli interrogatori vengono mostrate decine di filmati realizzati dai cine operatoti americani sull’orrore dei campi di sterminio, ma anche dagli stessi nazionalsocialisti: i forni crematori di Buchenwald, le saponette e i raccapriccianti abat jour di pelle umana ricavati dai cadaveri degli ebrei, gli ossari spettrali, i crudeli esperimenti medici sui prigionieri del campo di Belsen. L’impatto di quelle immagini fu devastante.

Gli imputati si difendono come possono, si dichiarano non colpevoli, spiegano che loro hanno solamente obbedito a ordini superiori, ma non seguono una linea comune, non solidarizzano tra di loro, ognuno ha il suo avvocato e ognuno ha un solo obiettivo: salvare la pelle. Il più combattivo di tutti è Goering, il cappotto militare, le mostrine e gli anelli alle dita delle mani, si difende con veemenza ribattendo colpo su colpo a ogni atto d’accusa ma non rinnegando mai il suo vincolo profondo con Hitler. Il primo ottobre del 1946 arriva il verdetto: 12 condanne a morte (di cui una in contumacia per il segretario di Hitler) Martin Borman, tre ergastoli, due pene a 20 anni di reclusione, una a 15 e due a dieci anni e tre assoluzioni. Il 16 ottobre dieci di loro vengono giustiziati tramite impiccagione. Si sottrae Goering che la notte prima dell’esecuzione sceglie di togliersi la vita con una pasticca di cianuro, venire appesi a un patibolo non è la fine degna di un capo militare. Muore suicida come Himler, Goebbels e naturalmente Hitler, che avevano deciso di farla finita prima che i russi conquistassero Berlino.

Dopo Norimberga l’assemblea generale dell’Onu dà mandato alla Commissione giuridica di elaborare un codice penale che identifichi i crimini contro la pace e l’umanità. Ma siamo in piena Guerra Fredda e le nazioni dei rispettivi blocchi, per evidenti ragioni politiche, non riescono a trovare un accordo. Se gli orrori della Seconda guerra mondiale avevano fatto prendere coscienza alla comunità internazionale che si era ripromessa di non lasciare più impuniti i crimini contro l’umanità, gli anni che seguono, seppur in scala minore, sono costellati di genocidi e repressione di Stato, dalla Cambogia di Pol Pot al Cile di Pinochet, all’Uganda di Amin Dada.

La svolta arriva all’inizio degli anni 90, con il crollo del socialismo reale e la fine della divisione in blocchi. Ci vorranno però ancora sette anni per l’istituzione della Corte penale internazionale, il cui statuto è ratificato a Roma il 17 luglio 1988 da 120 nazioni, anche se la Cpi diviene effettivamente operativa soltanto nel 2002. Anche in questo caso, oltre alla fine della Guerra Fredda con il rimodellamento degli equilibri geopolitici mondiali, sono stati i genocidi in Ruanda e in ex Yugoslavia a dare l’impulso decisivo. In particolare i massacri dei Balcani finiti qualche anno prima sotto la lente d’ingrandimento del tribunale speciale per i crimini in ex Yugoslavia.

L’organismo che nel 2002 portò a giudizio l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic accusato di aver pianificato e realizzato la pulizia etnica dei musulmani di Bosnia. Milosevic muore in una cella dell’Aja nel 2006 prima che venga emessa la sentenza, per un infarto miocardio dicono le cronache, anche se i complottisti di mezzo mondo adombrano, senza mai riuscire a provarlo, l’ipotesi dell’avvelenamento. Tra le altre condanne illustri della Cpi figurano quella di Rodovan Karadzic, ex presidente della repubblica serba di Bosnia Herzegovina (40 anni di reclusione per crimini di guerra) e del suo comandante militare Ratko Mladic, ergastolo per il massacro di Srebenica in cui le sue milizie fecero a pezzi in un solo giorno oltre 8mila musulmani bosniaci.

I SIMBOLI.

Dal Telefono Rosso a Radio Londra: riecco i simboli delle guerre del '900. Gianni Riotta su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Gli Usa lasciano intendere che le linee tra Cremlino e Pentagono tornano a essere privilegiato. La Bbc ritira i suoi giornalisti e riapre le trasmissioni ad onde corte. 

Su eBay il poster originale sovietico del Telefono Rosso, datato anni Ottanta, costa 42 sterline, 53 euro, ed è, come spesso l'avanguardia del design russo, elegante: due cornette di telefono rosse, unite da un cavo che, intrecciandosi, disegna la sagoma tenera di una colomba, ricalcata da quella celebre della Pace, tracciata dal maestro Pablo Picasso in litografia, nel 1949.

Guerra e storia: quando tutto diventa un simbolo. Lorenzo Vita su Inside Over il 7 marzo 2022.

La guerra in Ucraina è un eterno richiamo al passato. Al passato russo, in particolare, ma anche a quello del popolo ucraino. Simbologie di una storia che non può essere dimenticata. Suggestioni di date e luoghi, ricordi vivi di un Paese, quello ucraino, e di una potenza, la Russia, che subisce una sorta di “sindrome del passato”. Quasi che sia impossibile, per Mosca, non essere una realtà trasversale nel tempo e nello spazio. Un passato onnipresente, che era zarista prima e sovietico poi. E di cui in qualche modo il Cremlino ne è interprete ma allo stesso schiavo.

Questo senso di passato che torna ciclicamente nella storia russa, come un incantesimo o un incubo da cui non poter uscire, è presente anche in una guerra come quella scatenata in Ucraina. Come ha scritto il giornalista Ugo Tramballi, “c’è una sindrome della quale sono vittime tutti gli uomini del passato e del presente che hanno governato la Russia: il peso della Storia”.

Il discorso di Vladimir Putin non è stato da meno: è stato un richiamo costante all’essere una potenza in dovere di rivendicare qualcosa che le è stato strappato. Ma la narrazione del leader russo, resa in modo da fare apparire come un destino irrinunciabile questo conflitto, è solo una delle parti in cui è riaffiorata il passato. C’è innanzitutto Kiev, che con la storia del suo Rus è condannata a rappresentare proprio quella idea che gli ucraini e i russi siano obbligatoriamente un unico popolo con un’unica identità. Proprio come descritto dallo stesso Putin in un articolo che aveva allarmato, già l’anno scorso, diverse cancellerie occidentali, intelligence ed esperti: perché già preludeva a una “ossessione” ucraina del capo del Cremlino.

Ma oltre al passato dell’unità dei popoli russi, c’è anche qualcosa di molto più recente in quello che sta avvenendo nella guerra in Ucraina, e che per Mosca rappresentano episodi chiave della propria storia. Momenti di cambiamento o ferite mai sanate. Richiami simbolici che fanno riflettere su come a volte la storia accenda uno strano meccanismo di rimandi quasi iconografici.

Le operazioni belliche sono iniziate il 24 febbraio. In quello stesso (ma del calendario giuliano, va ricordato) del 1917, prendevano corpo i primi grandi scioperi della Rivoluzione di Febbraio. Preludio a quello che sarebbe avvenuto con la Rivoluzione di Ottobre. Per i primi colloqui tra Russia e Ucraina si è scelta una località sul fiume Pripyat, fiume noto soprattutto per scorrere in quella zona di alienazione che è stata eretta intorno all’area di Chernobyl. Un luogo che la guerra in Ucraina ha riportato nella mente di tutti, perché ha segnato in modo inequivocabile la storia recente dell’Europa: la tragedia della centrale nucleare. Quando le truppe russe sono entrate in territorio ucraino, la battaglia nei pressi del sito ha rievocato un passato recente terribile per la popolazione locale, di paura per quella europea, ma ha anche ricordato cosa ha significato per l’Urss nell’immaginario collettivo: un gigante che voleva far vedere a tutti le “magnifiche sorti e progressive” dei soviet e che invece si rivelò oscuro e fragile, fino alle estreme conseguenze.

Simbologie importanti anche per i secondi colloqui, tenuti nella foresta di Belovezhskaya Pushcha, luogo che ha significato per Mosca due eventi epocali che hanno aperto e chiuso la stagione dell’Unione Sovietica. Nel 1918, in quella foresta, venne firmato il Trattato di Brest-Litovsk, che sancì la fine dell’impegno militare russo nella Prima guerra mondiale con l’uscita di scena della nuova Russia bolscevica. L’accordo siglato con l’impero tedesco, quello austro-ungarico, quello ottomano e la Bulgaria sancì la fine della guerra per la Russia ma a condizioni pesantissime. La delegazione guidata da Lev Trotzki, con quell’atto firmò la rinuncia alla Finlandia, alle future repubbliche baltiche, all’Ucraina e alla Georgia, cedendo territori che arrivavano praticamente in Polonia. Sempre in quella foresta, circa 70 anni dopo, il presidente della nuova Russia post-Urss, Boris Eltsin, sancì insieme a Leonid Kravcuk e Stanislav Suskevic, presidenti di Ucraina e Bielorussia, la definitiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. Processo ormai iniziato in modo inesorabile con la caduta del Muro di Berlino.

LE PROFEZIE.

Madonna di Civitavecchia, "Italia in pericolo e guerra nucleare": i messaggi choc. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 26 giugno 2022

«Fin dall'inizio ho parlato della Terza guerra mondiale a pezzi. Quei pezzi sono diventati sempre più grandi, saldandosi tra di loro... Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata». A quattro mesi dall'inizio del conflitto in Ucraina, che sta diventando sempre più pericoloso (come mostra il blocco lituano di Kaliningrad), non possono lasciare indifferenti queste parole di Papa Francesco. Sono un drammatico ammonimento per scongiurare il passo finale che ci farebbe precipitare in una guerra mondiale, probabilmente nucleare. Che - per il Pontefice - l'umanità sia sull'orlo di un abisso da cui solo il Cielo può salvarla lo dimostra anche la sua decisione di fare quella Consacrazione della Russia e dell'Ucraina al Cuore Immacolato di Maria che era stata chiesta dalla Madonna nelle apparizioni di Fatima. Purtroppo quelle richieste del 1917 non furono ascoltate per tempo e pienamente (sappiamo che il Novecento ha visto divampare la Seconda Guerra mondiale e immani stragi e persecuzioni). Pochi sanno però che la stessa richiesta è stata ripetuta dalla Madonna a Civitavecchia nel 1995 nel contesto delle note lacrimazioni di sangue della statuetta della Vergine oggi custodita nella chiesa-santuario della parrocchia di Pantano.

Proprio nel 2020, quindi due anni prima dell'invasione dell'Ucraina, è uscito dalla Ares il libro Civitavecchia: 25 anni con Maria. Le apparizioni, i segni, il messaggio, scritto da padre Flavio Ubodi, il teologo- già padre provinciale dei Cappuccini del Lazio - che è stato vicepresidente della Commissione teologica diocesana che ha studiato il caso della Madonnina. Padre Ubodi fu l'intermediario voluto dal Vescovo con la famiglia Gregori. In tale veste ha potuto conoscere e seguire direttamente le vicende, anche visionando documenti di prima mano.

LA PRIMA TESTIMONE

Il libro riporta fra l'altro un'intervista - curata da Riccardo Caniato - con Jessica Gregori (oggi è una persona adulta, ma nel 1995 fu la bambina che per prima si accorse della lacrimazione della statuetta). Alla domanda su «quale sia il messaggio centrale dato dalla Madonna a Civitavecchia», Jessica risponde: «Il messaggio principale è che si vuole distruggere la famiglia. E poi l'apostasia nella Chiesa e il rischio di una terza guerra mondiale».

Bisogna considerare che si tratta di messaggi ed eventi soprannaturali verificatisi nel 1995. In quel periodo storico - dissolto il comunismo dell'est europeo e finita la guerra fredda- la Russia di Eltsin era tutt' altro che un pericolo per l'occidente e per il mondo. Inoltre la Cina - dopo Tienanmen - sentiva anch' essa il contraccolpo del crollo dell'Urss, non aveva cominciato la corsa che l'avrebbe fatta diventare il gigante economico che è oggi e non era ritenuta un pericolo militare per il mondo. Dunque poteva sembrare assurdo - umanamente parlando - mettere in guardia da una guerra mondiale e nucleare nel 1995. Invece furono dati questi avvertimenti drammatici che oggi ci appaiono purtroppo molto attuali.

Del resto - a ben vedere - proprio in quegli anni di ritrovata libertà in tutta l'Europa si potevano porre, con il dialogo e la diplomazia, le basi di un nuovo Trattato per la sicurezza dell'Europa («dall'Atlantico agli Urali» amava dire Giovanni Paolo II) che avrebbe scongiurato nuovi conflitti. Ma si fece l'opposto, perciò oggi di nuovo tuonano i cannoni nel vecchio continente. 

Padre Ubodi anche in altre pagine del volume riprende e sottolinea il messaggio relativo alla guerra mondiale: «La Madonna ci mette in guardia dolorosamente dal rischio di una terza guerra mondiale. Si cita il messaggio dato il 19 maggio 1995: "L'umanità... non si sta accorgendo che sta per entrare in una guerra mondiale che può essere fermata"». Poi spiega che anche la madre di Jessica, Annamaria, ha ricevuto un messaggio «in cui si parla di guerra nucleare». Infine padre Ubodi scrive: «Riferendosi all'Italia la Madonna dice nel messaggio del 19 settembre 1995: "La vostra Nazione è in pericolo... Consacratevi tutti a me, al mio Cuore Immacolato, e io proteggerò la vostra Nazione"». A questo punto forse qualcuno si chiederà perché si parli di messaggi della Madonna, dal momento che i fatti di Civitavecchia, nella memoria collettiva, sono legati solo alla lacrimazione di sangue della statuetta della Vergine. In realtà la vicenda è molto più complessa. Questo volume di padre Ubodi la ricostruisce tutta, documenti alla mano. Le 14 lacrimazioni di sangue davanti a testimoni diversi, l'ultima delle quali nelle mani del vescovo mons. Grillo (un fenomeno scientificamente inspiegabile e riconosciuto come segno dalla Chiesa), furono accompagnate da altri fatti soprannaturali, come apparizioni e messaggi rivolti a tutta la famiglia Gregori, ma in particolare a Jessica e a suo padre Fabio. 

INGLESI SOTTO CHOC

Poco conosciuto è poi il fenomeno relativo a un'altra statuetta della Madonna, identica alla prima, che fu regalata ai Gregori da Giovanni Paolo II: dal 7 settembre 1995 inspiegabilmente in certe occasioni (spesso liturgiche) essuda un liquido profumato. Per la prima volta - spiegò il vescovo, mons. Grillo - ne parlò la BBC «perché questa famosa emittente televisiva internazionale (erano tutti protestanti inglesi), riprendendo il luogo dove erano accadute le lacrimazioni, si vide davanti all'improvviso questa essudazione che letteralmente traumatizzò (così mi raccontarono) gli operatori, i quali non volevano credere ai loro occhi». Che scopo hanno tutti questi segni? Il 30 maggio 2005 Benedetto XVI disse al vescovo mons. Grillo: «A Civitavecchia la Madonna farà grandi cose».

Maya, la profezia sulla fine del mondo nel 2012? Errore di battitura: "Apocalisse nel 2022", ecco quando. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022

La fine del mondo potrebbe essere molto più vicina di quanto pensiamo? La profezia dei Maya sulla catastrofe che si sarebbe dovuta abbattere sul pianeta nel 2012 e che poi non c'è stata sarebbe stata sbagliata. Nulla, infatti, è successo quell'anno. Nel frattempo sono trascorsi 10 anni tra pandemie, terremoti e guerre. Ma nessuna fine del mondo. Adesso si parla dell'ipotesi che la profezia si riferisse in realtà al 2022 e non al 2012.

Stando al Messaggero online, infatti, che cita gli ultimi studi sulla storia dell'America Latina antica, a creare un certo caos sarebbe stato un errore di battitura, che ha portato alla confusione tra i due anni, 2012 e 2022. Pare, insomma, che la data prevista dai Maya fosse sbagliata e che quella giusta fosse invece molto più vicina a noi. Nello specifico, l'Apocalisse potrebbe arrivare in un giorno compreso nel periodo che va dal 21 giugno al 31 dicembre 2022.

Ovviamente si tratta di una profezia e come tale va considerata. In questi casi, infatti, non c'è assolutamente nulla di scientifico. C'è chi è affascinato dalle profezie, chi le teme o le ritiene inquietanti, chi semplicemente le trova curiose. In ogni caso, però, non c'è nulla di certo, anche perché la scienza è tutt'altra cosa.

Papa Francesco "penultimo Pontefice, poi la fine del mondo": la catastrofica profezia di Malachia. Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

"Papa Francesco penultimo Pontefice": questo quanto si legge nella Profezia di Malachia, un testo attribuito a san Malachia, arcivescovo di Armagh vissuto nel XII secolo, contenente 112 brevi motti in latino riguardanti i papi. Secondo questa profezia, come spiega Affariitaliani, dopo Bergoglio ci sarebbe solo un altro Papa, l'ultimo, Pietro, chiamato a occuparsi delle difficoltà della chiesa. Proprio lui assisterà alla fine di Roma.  

La previsione di un'Apocalisse preoccupa soprattutto per via del momento storico che stiamo vivendo. La guerra cominciata dai russi in Ucraina non accenna a fermarsi e il rischio è che si arrivi a un punto di non ritorno. In un periodo come questo molti guardano anche alle profezie che, pur non avendo assolutamente nulla di scientifico, spingono i più curiosi a dare una sbirciatina. Le più famose sono sicuramente quelle di Nostradamus. Ma adesso anche quelle di Malachia stanno attirando una certa attenzione.  

In ogni caso, però, secondo gran parte degli storici, il manoscritto di Malachia sarebbe un falso storico, redatto nella seconda metà del XVI secolo. Il testo, infatti, non conterrebbe nessuna previsione del futuro: si tratterebbe solo di promemoria sul fatto che la sequenza dei papi sarà comunque destinata a finire. 

Profezia di Malachia e Papa Francesco, "la fine del mondo". La previsione disastrosa ai tempi della guerra. Giada Oricchio su Il Tempo il 17 aprile 2022.

L’invasione dell’Ucraina per mano della Russia di Vladimir Putin sta concretizzando scenari che fino a poco tempo fa si ritenevano impossibili. Tornano i fantasmi della Seconda guerra mondiale con il timore di un’apocalisse nucleare. Un cambiamento storico “annunciato” da diverse profezie religiose, tra cui quella considerata apocrifa, ma attribuita a San Malachia, arcivescovo di Armagh vissuto nel XII secolo.

Il sito di Affari italiani ricorda che il testo di Malachia prevede Papa Francesco come penultimo Pontefice, mentre l’ultimo sarebbe Pietro (dunque un ritorno laddove tutto è iniziato) che assisterà alla fine di Roma. Il monito di Malachia recita: “In persecutione extrema S.R.E. sedebit", da tradursi come “Regnerà durante l’ultima persecuzione della Santa Romana Chiesa” o “La Santa Romana Chiesa sarà in una persecuzione finale. Pietro Romano, che pascerà il gregge fra molte tribolazioni; passate queste, la città dai sette colli sarà distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo. Fine”.

Il manoscritto è formato da 112 brevi motti in latino che descriverebbero i papi a partire da Celestino II, eletto nel 1143. Tuttavia, gli storici lo ritengono un falso storico risalente a metà XVI secolo: non sarebbe una nuova profezia ma un semplice memento che, prima o poi, la sequenza dei papi finirà.

Dagospia il 23 marzo 2022. VIDEO-FLASH! - MA A CANALE 5 NON C’È NESSUNO CHE GUARDA LE TRASMISSIONI PRIMA DI MANDARLE IN ONDA? OGGI È STATA TRASMESSA UNA REPLICA DI “AVANTI UN ALTRO” DI DUE ANNI FA, IN CUI PAOLO BONOLIS SI RIVOLGEVA A UN UCRAINO CHIEDENDOGLI: “COME SI DICE RICORDATI CHE DEVI MORIRE NELLA TUA LINGUA?”, E POI LO SFOTTEVA PER LA SUA INDECISIONE - 2. SONIA BRUGANELLI: “PAOLO SI DISSOCIA DA CIÒ CHE È STATO LASCIATO ANDARE IN ONDA E CHE HA DISTURBATO TUTTI QUANTI, NOI COMPRESI” - LE SCUSE DI MEDIASET: "ABBIAMO SBAGLIATO E NE SIAMO MORTIFICATI. ERRORI DEL GENERE NON DEVONO AVVENIRE"

Comunicato Stampa il 23 marzo 2022.

Mediaset si scusa con i telespettatori e con Paolo Bonolis per un brutto errore avvenuto stasera nel programma di Canale 5 “Avanti un altro!”. 

A causa della messa in onda di una puntata registrata più di due anni fa è stata trasmessa una frase rivolta a un concorrente ucraino che voleva essere scherzosa ma che ascoltata in queste ore, in un clima totalmente diverso, è apparsa imbarazzante e fuori luogo. Mediaset si scusa: abbiamo sbagliato e ne siamo mortificati. Errori del genere non devono avvenire.

«Avanti un altro!», Paolo Bonolis e la frase infelice sul concorrente ucraino: «Andava tagliata, mi dissocio». Mediaset: «Un errore, ci scusiamo». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 24 Marzo 2022.

Il conduttore è intervenuto dopo che è stata mandata in onda su Canale 5 una puntata di «Avanti un altro!» in cui ironizzava sull’Ucraina e la morte. «Non dovevo essere io a tagliare». La moglie Bruganelli: «Quel passaggio ha disturbato tutti, noi compresi». 

Quello che poteva far sorridere due anni fa, mette quasi i brividi oggi. Per spiegare questo semplice fatto è bastato vedere una puntata di Avanti un altro!, inedita ma registrata — appunto — più di due anni fa. Paolo Bonolis, al solito, scherza con i concorrenti tra cui un ragazzo ucraino. Gli chiede di tradurgli una frase: «Come dite in Ucraina ricordati che devi morire?». Una frase che ha urtato la sensibilità di molti, compresa quella del conduttore che non ha perso tempo e ha preso il cellulare, per comunicare direttamente al suo pubblico attraverso delle storie su Instagram. «Sto guardano con i miei figli la puntata di oggi di Avanti un altro! e ho visto che è stata lasciata nella puntata una cosa che andava tagliata da chi deve occuparsi di sistemare queste puntate che sono di due anni e mezzo fa. C’era questo passaggio con questo signore carinissimo dell’Ucraina in cui gli chiedevo di tradurre un passaggio di una canzone che aveva appena cantato il maestro che era: “Ricordati che devi morire”».

La reazione

Quindi la presa di distanze netta, avvalorata da un invito scritto: passate parola. «E’ ovvio che la cosa è completamente fuori luogo visto il periodo che stiamo vivendo. Chiedo scusa io, anche se io non c’entro proprio niente, uno perché non faccio il veggente due perché chi si deve occupare di pulire queste cose non sono sempre io. Mi dispiace per chiunque si possa essere risentito». Parole a cui si sommano quelle della moglie del conduttore, Sonia Bruganelli, che sempre sui social ha scritto: «La puntata di Avanti un altro di questa sera è stata registrata due anni fa, come vedete dall’assenza di misure di sicurezza, Paolo Bonolis si dissocia comunque da cio che è stato lasciato andare in onda e che ha disturbato tutti quanti noi compresi». Anche Mediaset ha chiesto quindi scusa con un comunicato ufficiale, in cui si legge: «Mediaset si scusa con i telespettatori e con Paolo Bonolis per un brutto errore avvenuto stasera nel programma di Canale 5 Avanti un altro!. A causa della messa in onda di una puntata registrata più di due anni fa è stata trasmessa una frase rivolta a un concorrente ucraino che voleva essere scherzosa ma che ascoltata in queste ore, in un clima totalmente diverso, è apparsa imbarazzante e fuori luogo. Mediaset si scusa: abbiamo sbagliato e ne siamo mortificati. Errori del genere non devono avvenire».

Avanti un altro, Paolo Bonolis all'ucraino: "Come si dice ricordati che devi morire nella tua lingua?". Disastro a Mediaset: il video. Libero Quotidiano il 23 marzo 2022

Clamoroso su Canale 5. Un caso segnalato da Dagospia e che sta facendo esplodere la rete. Sulla rete ammiraglia Mediaset andavano infatti in onda le puntate di Avanti un altro di due anni fa, quelle che furono "congelate" al tempo del Covid. Si tratta del celebre programma condotto da Paolo Bonolis.

Bene, durante la puntata di oggi - mercoledì 23 marzo - ecco il conduttore che si rivolge a un concorrente ucraino che prendeva parte alla trasmissione. E Bonolis gli domanda: "Come si dice ricordati che devi morire nella tua lingua?". Il concorrente si mostrava un poco indeciso, dunque Bonolis lo dileggiava per il tentennamento.

Ovvio lo scandalo: possibile che nessuno avesse notato la scenetta, che in questi giorni di Ucraina invasa dalla Russia, come dire, sarebbe stato meglio non trasmettere? Evidentemente sì. Sulla vicenda è intervenuta subito anche Sonia Bruganelli, moglie di Bonolis, che ha fatto sapere: "Paolo si dissocia da ciò che è stato lasciato andare in onda, che ha disturbato tutti quanti, noi compresi". Dunque, ecco piovere anche le scuse di Mediaset: "Abbiamo sbagliato e ne siamo mortificati. Errori del genere non devono avvenire", hanno fatto sapere dal Biscione. Ma, intanto, la polemica montava...

Dagotraduzione dal Sun il 17 marzo 2022.

Alla fine dello scorso anno, la tv di stato russa ha mandato in onda un programma in cui si discuteva dell’eventuale presa degli stati baltici. Un ex alto ufficiale ha immaginato uno scenario in cui l’esercito di Putin conquista la Lettonia, la Lituania, l’Estonia, tutti paesi membri della Nato, e parti della Svezia, che invece è neutrale. 

Sul canale Rossiya 1, il colonnello Igor Korotchenko, ex ufficiale dello stato maggiore e della forza aerea russa e attualmente ufficiale di riserva, ha immaginato la presa dei paesi baltici. Aiutandosi con una mappa in inglese che riportava i dispiegamenti delle truppe Nato, ha delineato con dettagli sinistri lo scenario dell’eventuale invasione.

All’inizio, dice Korotchenko mentre disegna sulla mappa alcune linee rosse, la Russia «infliggerà un massiccio attacco radioelettronico» in modo da «neutralizzare tutti i radar della Nato». «Poi, gli aerei militari russi atterreranno sull’isola di Gotland piazzando sistemi missilistici antiaerei S-400 e sistemi antinave Bastion». 

«Sono schierati – continua Korotchenko – e per ora nessuno sa o vede nulla. L’Occidente si chiede: “Perché non vediamo nulla? Cosa è successo ai nostri radar?”». A questo punto secondo l’ufficiale i russi si spingeranno fuori da Kaliningrad verso il corridoio di Suwakli per bloccare l’accesso ai rinforzi dalla Polonia. «La Russia comunicherà poi all’Occidente e alla Nato che ha istituito una no-fly zone di 400 km» e prenderà di mira l’intero Mar Baltico.

Korotchenko ha proseguito dicendo che «le poche truppe delle forze speciali di Canada, Regno Unito, Germania e Stati Uniti nel Baltico» saranno «circondate» da forze aviotrasportate russe e poi «deporranno le armi». 

Lo scenario si conclude con i nuovi governi degli stati baltici che giurano fedeltà a Mosca mentre la Svezia accetta la neutralità perpetua e un contratto di locazione di 99 anni su Gotland.

Il programma è andato in onda alla tv russa alla fine dello scorso anno, ma è stato pubblicato recentemente dal consigliere del governo ucraino Anton Gerashchenko.

La profezia di Tremonti: "Sono le nostre sette piaghe, in futuro..." Federico Giuliani il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.

La modernità globale ha portato in mezzo a noi le "piaghe" contenute tra le pagine della Bibbia. Per evitare il disastro finale, l'Occidente deve capire al più presto che la vita non può consistere in piaceri senza doveri.

In un certo senso possiamo dire che era tutto scritto, nero su bianco, tra le pagine della Bibbia. Certo, nel testo sacro non si parla di Covid-19 o guerra in Ucraina. Eppure, parafrasando alcuni passaggi, ci troviamo di fronte ad un quadro molto interessante. Un quadro che, almeno in parte e affidandosi al valore del mito, ha anticipato diverse fasi della nostra esistenza e potrebbe anticiparne altre.

Rileggere il presente

Uno dei miti più attuali e reali contenuti nella Bibbia, ha sottolineato Giulio Tremonti sulle pagine de Il Corriere della Sera, è quello delle "piaghe d'Egitto". Questo mito è metaforicamente incastonato nella globalizzazione, a partire dalle sue origini fino ad arrivare alla sua crisi. Nella Bibbia ci sono dieci piaghe ma, a ben vedere quanto accaduto alla suddetta globalizzazione, possiamo già contarne sette. E le altre tre? Non è detto che si materializzino. Per evitare che ciò avvenga è utile capire cosa fin qui è accaduto così da prendere le adeguate contromisure.

E allora partiamo con la carrellata delle sette piaghe "2.0" che hanno colpito il nostro mondo. Partiamo dalla prima, riguardante la caduta dei confini e l'avvento del web. Entrambe hanno originato un mondo che, almeno all'apparenza, sembrava una sorta di paradiso terrestre. È filtrata l'idea che il nuovo uomo non avesse quasi più bisogno del passato ma soltanto del futuro. Da questo comune sentire hanno preso forma sia la famigerata cancel culture che il metaverso. A proposito di metaverso, in altre parole, siamo passati dal cogito ergo sum al digito ergo sum.

Inquinamento, crisi demografica e potenza del denaro

Proseguiamo con l'Asia divenuta fabbrica del mondo a cavallo tra gli anni '70 e '90. Di pari passo, i livelli d'inquinamento sono saliti alle stelle e, allo stesso tempo, hanno preso forma i vari problemi climatici. Che, a loro volta, hanno dato spazio alla nascita e creazione di nuovi virus.

La piaga numero tre riguarda invece la conversione del sesso umano, passato da responsabilità a mero piacere. Il disastro demografico occidentale è soltanto la punta di un iceberg – intriso di narcisismo e individualismo – molto più grande di quanto non si possa pensare.

Nel frattempo la democrazia si è svuotata, sostituita da una sorta di "Repubblica internazionale del denaro" dove la finanza ha, di fatto, sostituito l'economia. Risultato: quelli che pensavano di risolvere i problemi del mondo affidandosi a questa nuova forma d'essere, non solo hanno fallito nel loro intento ma hanno aggravato la situazione.

Pandemia e guerra

Proseguendo oltre in questo confronto metaforico arriviamo alla piaga numero cinque. I governanti dell'Occidente, ovvero leader e presidenti che un tempo erano capaci di incidere nella storia, si sono riscoperti incapaci di capire cosa accade nel mondo. Inevitabile, dunque, la loro trasformazione in "turisti della storia". Al contrario, i loro colleghi situati in Oriente hanno accresciuto il loro peso specifico.

Arriviamo alla pandemia e alla crisi della globalizzazione, piaga numero sei, che nella Bibbia possiamo rintracciare a grandi linee nel mito della "Torre di Babele". La diffusione del Covid-19 ha scosso le fondamenta della globalizzazione, provocando gravi effetti sanitari ma anche l'erosione di qualsiasi certezza globale. La piaga numero sette è la conseguenza di quanto fin qui ripercorso: la guerra.

Eccole in fila, una dopo l'altra, le "piaghe" portate in mezzo a noi dalla modernità globale. A questo punto, per evitare il disastro finale, l'Occidente deve capire al più presto che la vita non può consistere in piaceri senza doveri, né essere dominata dal mercato. Al contrario, è fondamentale ridare spazio all'importanza dei valori.

Ucraina, Indro Montanelli: mai come oggi le sue corrispondenze sono state così attuali. Giancarlo Mazzuca Libero Quotidiano l'11 marzo 2022.

Mai come in questi giorni, bombardati dai reportage dei tanti inviati speciali in Ucraina, mi è tornata in mente la figura di Indro Montanelli che, oltre ad essere stato il miglior testimone del Novecento, per vent' anni - dal 1936 al 1956 - è stato il più grande corrispondente di guerra dai fronti di mezzo mondo: dalla Spagna alla Finlandia, dall'Albania all'Ungheria. A distanza di così tanto tempo i servizi giornalistici del toscano di Fucecchio restano molto attuali: sembrano quasi essere stati scritti adesso a Kiev e dintorni. Le coincidenze con le vicende belliche di oggi sono tante ma una, in particolare, merita attenzione: anche Indro raccontò le sorti di popolazioni assalite dai carri armati russi come capita oggi agli ucraini. In particolare, accadde in Finlandia ed Ungheria. 

HELSINKI

Ad Helsinki, Indro scrisse tanti articoli sull'eroica resistenza contro i sovietici del popolo finnico guidato dal maresciallo Gustav Mannerheim che lo stesso Montanelli aveva conosciuto in precedenza quando era stato costretto a trasferirsi in Estonia dopo i "fulmini" del Minculpop per i suoi articoli sulla guerra civile spagnola. Mannerheim, che era stato ufficiale zarista, aveva già combattuto per l'indipendenza di Helsinki dopo la rivoluzione bolscevica. Era, poi, tornato in trincea non appena i carri armati sovietici avevano attaccato il suo popolo fino ad arrivare all'armistizio del 13 marzo del 1940 che consentì alla Finlandia di restare indipendente, pur dovendo cedere la Carelia a Mosca. Se già allora Montanelli ebbe occasione di raccontare in tutte le salse il pugno di ferro usato da Stalin, nel 1956 fece il bis con la rivoluzione ungherese quando al Cremlino sedeva Nikolaj Bulganin. Sbarcato a Budapest tra i primi giornalisti occidentali per una fortunata coincidenza (in quei giorni stava partecipando, vestito alla tirolese, ad una battuta di caccia al gallo cedrone lungo il vicino confine austriaco) , poté raccontare l'insurrezione dei comunisti ungheresi pronti ad abbattere la grande statua del dittatore georgiano che troneggiava a Budapest, una città che Indro dipinse come una «necropoli dissepolta». 

LA RIVOLTA

Il grande giornalista - a differenza di quanto sostennero altri, compreso il suo "maestro" Leo Longanesi, che parlarono di una rivolta nata all'interno della borghesia - aveva perfettamente capito che, quella magiara, era una rivoluzione del popolo contro il fallimento del regime del popolo. Le conclusioni di Montanelli non lasciavano spazio a dubbi: «A Budapest il comunismo è morto. Lo dico con profonda convinzione (...) Di esso non rimane che un esercito irto di cannoni, che sparano contro gli operai, gli studenti e i contadini». L'avventura ungherese restò così impressa nella mente di Indro che, in seguito, scrisse la commedia «I sogni muoiono all'alba» ambientata proprio a Budapest. Sì, anche oggi, dopo l'attacco di Putin, i sogni dell'Ucraina (e non solo) rischiano di morire all'alba. 

Da la7.it l'11 marzo 2022.

Ucraina, il confronto tra il prof. Orsini e Paolo Mieli: "Noi italiani non dobbiamo sentirci in colpa se non diamo le armi agli ucraini, ma per averli indotti a credere che li avremmo difesi in caso di attacco della Russia". 

La risposta di Mieli:

Il Prof. Orsini (Luiss): "Il mio ragionamento non si capisce se non passano alcune informazioni: la NATO ha fatto in Ucraina tre gigantesche esercitazioni militari con scenari di guerra nel 2021. Quando hanno fatto l'esercitazione nel settembre 2021, Putin stava sparando su delle navi NATO e ha detto “fermatevi, perché state portando questa situazione ad un punto di collasso”. Mi domando, dov'era la Von der Leyen?".

Giada Oricchio per iltempo.it l'11 marzo 2022.

Alessandro Orsini, professore di sociologia internazionale alla Luiss di Roma, è finito nell’occhio del ciclone e ha sfiorato la censura da parte dell’Università per aver sì condannato l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, ma specificando che la responsabilità politica, a suo dire, è dell’Unione Europea. 

Di nuovo ospite di “Piazza Pulita”, l’approfondimento politico condotto da Corrado Formigli su LA7, giovedì 10 marzo, Orsini ha toccato un altro tema caldo: le sanzioni contro la Russia. “Basandomi sui miei studi della guerra civile in Yemen, dico che noi stiamo usando male le sanzioni, dovremmo vincolarle a un dato preciso: i bambini morti.

Nel 2016 l’Arabia Saudita ha fatto morire tantissimi bambini sotto le bombe e l’Onu ha sanzionato il Paese inserendolo in una lista nera e dicendo che se ne avesse uccisi altri avrebbe inasprito le sanzioni. L’Arabia Saudita ha costituito un comitato e sottoposto a provvedimenti disciplinari i piloti che nei bombardamenti colpiscono i bambini. La conseguenza è stata che nel 2020 l’Onu ha tolto il Paese dalla lista nera perché il numero è drasticamente diminuito”.

Ed ecco l’errore che secondo il professore stanno commettendo i leader europei: “Stanno facendo morire più persone perché hanno legato le sanzioni al conflitto complessivo, più sanzioni non lo fermeranno, ma se cerchiamo di perseguire un solo obiettivo che è salvare i bambini, forse possiamo avere un’attenuazione di tutto il conflitto. Se Putin vorrà uccidere meno bambini inevitabilmente colpirà meno civili perché sono sempre in famiglia. Siccome questa è una guerra di lungo periodo, dobbiamo prendere in considerazione un uso strategico delle sanzioni”.

"È solo questione di tempo". La profezia (del 2018) sulla guerra in Ucraina. Giuseppe De Lorenzo l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'intervento del prof Alessandro Orsini al Senato nel lontano 2018 sulle tensioni tra Russia e Ucraina: "C'è una possibilità di sfondamento delle linee ad Est". 

Era possibile prevedere il conflitto in Ucraina? Avremmo potuto evitarlo? C’erano dei segnali che avremmo dovuto cogliere? Si tratta di interrogativi inutili, ormai, a cambiare gli eventi della storia. L'invasione russa a Kiev è in atto. E gli scenari sono cambiati. Eppure la risposta a quelle domande sembra essere affermativa: sì, qualcuno l'aveva previsto.

Era il 4 dicembre del 2018. Alla Commissione Affari Esteri del Senato viene invitato a parlare Alessandro Orsini, direttore di Sicurezza Internazionale e autorevole professore della Luiss, una “Cassandra” moderna oggi finita nell’occhio del ciclone perché considerato troppo schiacciato sulla teoria delle “responsabilità della Nato” nell’esplosione del conflitto ucraino. Erano altri tempi: alla Casa Bianca sedeva Donald Trump, a Palazzo Chigi Giuseppe Conte e il Cancelliere della Germania portava ancora il nome di Angela Merkel. Attori diversi, stessi problemi che il professor Orsini aveva riassunto così: “Nell’Est Europa stanno avvenendo dei fatti molto gravi, destinati ad aggravarsi, con la possibilità di uno sfondamento delle linee occidentali da parte dell’esercito russo”. Un'ipotesi che moltissimi analisti, anche il giorno precedente al via della cosiddetta "Operazione Speciale" di Mosca, ritenevano impossibile se non addirittura retaggio di un passato imperialista ormai svanito. Si sbagliavano. E Orsini l’aveva capito con tre anni di anticipo (guarda qui il video completo).

Il professore nel 2018 prevedeva infatti la possibilità di uno “sfondamento” vecchio stile sia a Kaliningrad, l’exclave russa tra Polonia e Lituania, sia in Ucraina, dove da quattro anni si stava già combattendo la guerra del Donbass, dove Mosca si era annessa la Crimea e aveva già “ammassato molte truppe”. Certo era difficile immaginare uno scenario simile a quello odierno, eppure per Orsini per evitare l’escalation occorreva tenere a mente alcuni fattori. Uno in particolare: “La strategia di Putin dipende dalle mosse dell’Occidente”. Tradotto: ciò che avrebbero fatto la Nato e l’Ue negli anni a venire avrebbe prodotto determinate reazioni da parte di Mosca. Le sanzioni post Maidan in fondo servivano a questo: a disincentivare la Russia dall'invasione. Ma Putin ha in Ucraina “interessi geopolitici enormi”, riteneva allora (e ancora ritiene) che l’Occidente gli abbia strappato di mano qualcosa che gli apparteneva. E quindi stava solo aspettando il momento giusto per riprendersela. “È una questione di tempo - vaticinava il professore nel 2018 - e soprattutto dipende dagli incentivi o dai disincentivi che l’Occidente fornirà" allo Zar. La situazione è rimasta stabile per otto anni, dal 2014 al 2022, poi l’equilibrio si è rotto. Cosa ha provocato il patatrac?

“Dopo l’annessione della Crimea - spiegava Orsini - La Svezia ha avviato esercitazioni molto importanti” in un’isola strategica. Poi va ricordata “l’enorme esercitazione della Nato in Norvegia”, una manovra da scenario 5, ovvero l’articolo dell’Alleanza che costringe gli Stati membri a intervenire in difesa di un Paese sotto attacco. E infine “Bucarest 9”, un’alleanza dei Paesi dell'Est in ottica anti-Russia. A questo vanno aggiunti gli avvenimenti più recenti, elencati sempre da Orsini ieri sera a Piazza Pulita. “Ci sono state tre esercitazioni in Ucraina: una nel giugno del 2021, dal nome ‘Brezza Marina’; la seconda nel luglio del 2021, chiamata ‘Tre Spade’; infine, la terza nel settembre del 2021, detta ‘Tridente rapido’”. Legittimo? Certo. Ma secondo Orsini anche pericoloso.

Il professore, come esempio di decisioni distensive nei rapporti con Mosca, ricorda infatti di quando Angela Merkel si disse infastidita dalla richiesta dell’ex presidente ucraino Porošenko di chiedere l’intervento della Nato contro Mosca. Tattica utilizzata anche in altri contesti rischiosi: si pensi al “pranzo” che Trump organizzò col "pazzo" Kim Jong-un al fine di evitare un’escalation. O ancora alle manovre internazionali in Venezuela dopo la crisi Guaidò-Maduro. La domanda è: stavolta la Nato ha tirato troppo la corda, fornendo a Putin quegli “incentivi all’invasione” evocati nel 2018 da Orsini? Difficile dirlo. Il professore però avverte: o comprendiamo queste dinamiche, "oppure non capiremo che sta per scoppiare un’altra guerra in Georgia”. Anche lì infatti è presente una porzione di territorio in mano a Mosca. E sempre lì, nel 2021, la Nato ha condotto un’altra esercitazione militare.

Ucraina e guerra mondiale, il numero dell'Apocalisse: 68, perché siamo condannati. Arturo Bandini su Libero Quotidiano l'11 marzo 2022.

La guerra della Cabala parte da un numero che aveva fatto la Rivoluzione. Il numero "68". Nel clangore dei bombardamenti ucraini spicca un tweet divenuto virale dal sapore esoterico. Un tal Sven Henrich, sedicente operatore nel "campo dei mercati finanziari e dei bitcoin", con cupezza che nulla ha d'umano posta infatti un'immagine con una sequenza numerica dall'apparenza insignificante. Ma, ad un'attenta lettura, sale un certo sgomento. Vi si mettono a confronto, infatti, le date in cui sono scoppiate la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, rispettivamente il 28 luglio 1914 e il 1° settembre 1939. Ora, sommando le cifre corrispondenti (28+7+19+14 e 1+9+19+39), Henrich evidenzia come il risultato sia sinistramente lo stesso, ovvero 68. A questo punto, se già questo non suonasse abbastanza minaccioso, eccoti una terza riga con la data dell'invasione dell'Ucraina, cioè il "24 febbraio 2022". Procedendo con la somma, come nei casi prec e denti (24+2+20+22), il risultato è ancora una volta 68. Ora, il web, di 'sti tempi si nutre ancor più di suggestioni. 

UNA VISIONE

E, come in una visione di Junger o in un romanzo di Philip K. Dick, l'apocalisse evocata suscita sentimenti contrastanti. Che diventano immediatamente virali tra giostre di like, post fulminanti e condivisioni impazzite. C'è chi parla di laica coincidenza; e chi, sottolineando che, nell'uso numerologico, il metodo usato per estrarre il 68 dalla viscere del conflitto è assolutamente corretto. D'altronde qualche twittarolo scientista spiega che, banalmente, in ogni mese dell'anno si raggiunge la cifra 68 (la prossima occorrenza sarà, per esempio, il 23 marzo quindi il 22 aprile e così via). Ma non tutti sembrano essere persuasi e c'è chi definisce il calcolo come un modo «per veder ciò che si vuole» e scovare connessioni che passano dai Vangeli apocrifi, alla Torah alla psicomagia del regista sciamano Alejandro Jodorowsky, il quale, per evocare il Grande Spirito al galoppo in tutte le guerre del mondo, era prima solito imbottirsi di peyote. Credo che anche qui il peyote sia una costante. Certamente inquieta l'idea del numero 68 ripetuto all'ossessione, che si stagli tra le manovre nel Mar Nero e le esercitazioni congiunte in Russia; che s' infili tra i rombi dei mortai da Belgorod a Leopoli: che sovrasti lo sferragliare dei tank russi Zorro - con la famigerata "Z" bianca verniciata sul fianco - usati per la prima volta nell'invasione di Praga, proprio nel 68. A questo punto, nella foga numerologica, sorge spontanea la domanda: quale significato è attribuito al famigerato "68"? Secondo la Kaballah «denota il bisogno di autocontrollo» specifico dei grandi leader. E fin qui, data l'attività fervente del Cremlino, nulla da eccepire.

LE PROFEZIE

Dopodichè, secondo i numerologi sarebbe il numero «delle incomprensioni familiari, dei mestieri marziali, delle imposizioni coercitive». Al 68 sono pure collegati il bisticciare o il sognare di bisticciare per motivi futili; il tenere nascosta una cosa a qualcuno per il timore di litigi. Ed è anche il numero «dei lavori pesanti e dei mestieri marziali, dei militari, delle alte uniformi, dei fidanzamenti e dei matrimoni con militari, delle colonne dei mezzi dell'esercito, delle tenute da combattimento, delle tirannie e delle imposizioni coercitive, dell'essere obbligati a rimanere in casa, ad avere rapporti sessuali contro la propria volontà. Questo numero rappresenta il ponte, il duello violento, il litigio verbale, le persone in maschera, le feste in maschera». E questo diventa, in effetti, più stordente. E da qui si scatenano gli esoterici, i matematici citando la sequenza di "numeri magici di Fibonacci" e i complottisti che dietro il 68 intravvedono "l'Ucraina (precedentemente nota come Khazaria) casa ancestrale dell'odierna tribù sionista che è decisa a far precipitare l'intera civiltà planetaria nella guerra mondiale». E, forse per esorcizzare i massacri le trincee si riempiono di misticisimi e leggende urbane. 

Ucraina, la Madonna di Trevignano aveva predetto la guerra? "Cosa farà l'Occidente", inquietante avvertimento. Libero Quotidiano l'11 marzo 2022

La guerra in Ucraina era stata predetta? Forse. I credenti pensano infatti che la Madonna di Trevignano abbia affidato la propria profezia alla signora Gisella Cardia, una veggente che dal 2016 sostiene di ricevere messaggi dalla Madonna tramite una statuetta acquistata dalla signora e dal marito a Medjugorje durante un pellegrinaggio. 

Stando a quanto la signora ha raccontato a Zona Bianca, programma in onda su Rete 4 e condotto da Giuseppe Brindisi, "prima la Madonna ha pianto lacrime bianche, poi ho avuto la prima apparizione e successivamente le lacrime di sangue che non sono un buon segno". Diverse le profezie nel corso degli anni: dal Covid fino all’invasione russa in Ucraina avvenuta il 24 febbraio. 

"Figli amati, non abbiate paura, nonostante i tempi siano molto brutti, la guerra raggiungerà anche l’Europa e soprattutto Roma, hanno girato le spalle a Dio e per questo subiranno sofferenza e distruzione - avrebbe detto la Madonna di Trevignano, comune di Roma, il 9 febbraio -. Figli, l’Occidente farà scoppiare una guerra contro la Russia e la Cina, questi eventi devono unirvi e non isolarvi perché solo così sarete più forti". E ancora, a una settimana di distanza: "Pregate per il governo italiano, perché all’interno di esso vi è un guerrafondaio. Pregate per la Francia".

Le agghiaccianti profezie dalla Madonna di Trevignano: Covid e guerra con Russia e Cina. Il Tempo l'11 marzo 2022.

Uno strano fenomeno in quel di Trevignano Romano, tra profezie terribili e un futuro nefasto per l’Italia e Roma in particolare. Come riferisce il sito 7colli sono in aumento i fedeli o i semplici curiosi che vogliono conoscere la signora Gisella Cardia, una veggente che dal 2016 sostiene di ricevere messaggi dalla Madonna, per tramite di una statuetta acquistata dalla signora Gisella con il marito Gianni a Medjugorje durante un pellegrinaggio. La signora ha raccontato i primi episodi a Zona Bianca, programma di Rete4: “Prima lacrime bianche, poi ho avuto la prima apparizione e successivamente le lacrime di sangue che non sono un buon segno”. Nel corso degli anni sono arrivate numerose profezie, come quella che ha anticipato lo scoppio della pandemia Covid e ora c’è da segnalare quella del 24 febbraio, data in cui dopo le parole della veggente è arrivata l’invasione della Russia in Ucraina.  

“Figli amati, non abbiate paura, nonostante i tempi siano molto brutti, la guerra raggiungerà anche l’Europa e soprattutto Roma, hanno girato le spalle a Dio e per questo subiranno sofferenza e distruzione. Figli, l’Occidente farà scoppiare una guerra contro la Russia e la Cina, questi eventi devono unirvi e non isolarvi perché solo così sarete più forti” le prime parole, seguite poi da altre ad una settimana di distanza: “Pregate per il governo italiano, perché all’interno di esso vi è un guerrafondaio. Pregate per la Francia”. Tra dubbi e realtà sono molti i pellegrini che vanno a visitare Trevignano Romano per vedere la statuetta della Madonna, che si trova nella Chiesa del Sacro Cuore.

Da iltempo.it il 10 marzo 2022.  

Un video del 20 giugno 1997 aveva previsto che sarebbe scoppiata una guerra per l’eccessiva vicinanza tra i territori Nato e la Russia. 

A pronunciare il discorso profetico è stato Joe Biden, ora presidente degli Stati Uniti d’America ed allora senatore per il Delaware.

“Annettere alla Nato gli Stati Baltici sarebbe l’unica mossa che rischierebbe di provocare una riposta vigorosa e ostile da parte della Russia e spostare gli equilibri tra Russia e Usa” le parole nel discorso al Consiglio Atlantico di quasi 25 anni fa. Alla fine sarà il 2004 l’anno in cui Estonia, Lettonia e Lituania entreranno nella Nato, in compagnia di Bulgaria, Romania e Repubblica Ceca.

Il video è stato riproposto dal sito della rivista americana Newsweek: Vladimir Putin ha giustificato l’invasione in Ucraina con i timori di un’adesione di Kiev all’Alleanza atlantica.

Avvertimenti e profezie che, purtroppo, sono stati bruciati dagli eventi.  

La «profezia» di Kissinger sull'Ucraina. Gianluca Mercuri su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.

Otto anni fa, l'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger scrisse un articolo definendo tre punti per «porre fine alla crisi dell'Ucraina». Riguardavano l'ingresso nell'Ue, quello nella Nato e la sua finlandizzazione. Lette ora, quelle righe sembrano ad alcuni l'ennesima profezia di un oracolo delle relazioni internazionali, e ad altri la certificazione dei suoi errori. 

Kissinger, eternamente Kissinger, inevitabilmente Kissinger. A quasi 99 anni, l’ex segretario di Stato americano è ancora una specie di oracolo delle relazioni internazionali, un uomo il cui impareggiabile (e controverso) mix di pensiero e azione rappresenta un punto di riferimento ineludibile, anche quando si punti a superarlo o demolirlo. Talmente onnipresente, l’uomo che in un modo o nell’altro si è visto consultare da tutti gli inquilini della Casa Bianca da Kennedy in poi, che anche quando non parla è come se lo facesse, perché c’è sempre un suo pronunciamento, un suo atto, un suo scritto che improvvisamente torna attuale, e dà l’idea di adattarsi perfettamente all’ultima crisi. 

L’ultimo esempio è il suo articolo sul Washington Post di 8 anni fa — 5 marzo 2014 — che in questi giorni è tornato a circolare insistentemente in Rete come una sorta di profezia, col corollario da molti desunto che, se il mondo avesse dato retta al maestro dell’approccio realista alle questioni di politica estera, la tragedia ucraina sarebbe stata evitata.

Il pezzo si intitolava «To settle the Ukraine crisis, start at the end» («Per risolvere la crisi ucraina, si cominci dalla fine») e commentava gli effetti della rivoluzione di Euromaidan, esplosa a cavallo tra il ‘13 e il ‘14 dopo che il presidente Yanukovyc aveva rifiutato di firmare l’accordo di associazione con l’Ue per siglarne uno con la Russia, finendo per essere costretto alla fuga dalla reazione popolare. 

Cosa diceva Kissinger? In sintesi:

• Sì a un’Ucraina associata all’Europa

• No a un’Ucraina nella Nato

• Ucraina «finlandizzata». 

Tutte questioni, come si vede, estremamente attuali e ricorrenti in ogni analisi di questi giorni terribili. 

La finlandizzazione, in particolare, veniva spiegata così: «Saggi leader ucraini dovrebbero optare per una politica di riconciliazione tra le varie parti del loro paese. A livello internazionale, dovrebbero perseguire una posizione paragonabile a quella della Finlandia. Quella nazione non lascia dubbi sulla sua fiera indipendenza e coopera con l’Occidente nella maggior parte dei campi, ma evita accuratamente l’ostilità istituzionale verso la Russia». 

Naturalmente l’analisi era molto più articolata. In particolare, tendeva a sottolineare errori e contraddizioni del campo occidentale. Si sosteneva che l’Ucraina «non deve essere l’avamposto di una delle due parti contro l’altra, ma funzionare come un ponte tra loro». Che la Russia «deve capire che cercare di costringere l’Ucraina a uno status di satellite condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia ciclica di pressioni reciproche con l’Europa e gli Stati Uniti». Che «l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero», con relative citazioni sulle radici storiche e religiose della Russia ben piantate in Ucraina che sentiamo ripetere di frequente. Che l’Ucraina ha «una storia complessa e una composizione poliglotta», riassunte schematicamente così: «L’ovest è in gran parte cattolico; l’est in gran parte russo-ortodosso. L’ovest parla ucraino; l’est parla soprattutto russo». 

Poi c’erano altre due affermazioni chiave: «La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi»; e «per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l’assenza di una politica». 

Ripreso e citato spesso, l’articolo «profetico» di Kissinger ha avuto soprattutto commenti positivi, che ne hanno sottolineato la lucidità, l’equilibrio e la preveggenza. Su tutti quello di un politologo stimato come Piero Ignazi, che sul Domani ha scritto che il grande diplomatico americano aveva ragione quando sosteneva che «trascinare l’Ucraina in un confronto tra Est e Ovest avrebbe impedito per decenni di portare la Russia in un sistema internazionale cooperativo». Interessanti anche altri rilievi di Ignazi: «Si poteva fermare prima Putin e salvare l’Ucraina? Forse sì, ma la supponenza politico-morale occidentale ha impedito passi intelligenti in questa direzione». E ancora: «Il superiority complex che noi occidentali spesso esprimiamo risulta fastidioso, e financo insopportabile, agli altri paesi». 

È curioso, e perfino divertente, notare che Kissinger — l’icona dell’imperialismo Usa contro cui le sinistre mondiali hanno marciato per anni in ogni angolo del pianeta — è stato così arruolato nel campo dei critici dell’Occidente. Una forzatura? Fino a un certo punto, perché gli argomenti kissingeriani sono in effetti affini a quelli di un certo pacifismo di sinistra molto criticato (per esempio da Paolo Mieli) per il suo presunto filo-putinismo di fondo (e a proposito di alibi e Putin, Mieli nega al leader russo quello della presunta politica aggressiva della Nato nei confronti della Russia). 

L’entusiasmo per la profezia kissingeriana, però, non è unanime. Chi proprio non lo condivide è Mario Del Pero, storico a SciencesPo, che il mito di Kissinger lo demolisce punto per punto: non arriva ai livelli di Christopher Hitchens, che in un libro memorabile lo descrisse come «uno splendido bugiardo dalla straordinaria memoria», e soprattutto come un criminale di guerra; ma certo è ben distante dall’apologia che Niall Ferguson ne ha fatto nella sua biografia in due volumi, in cui contesta l’opinione comune sulla sua spietatezza. 

Sul sito della Treccani, Del Pero smonta dunque «la presunta profezia kissingeriana». Quei commenti del 2014, afferma, «esprimono in forma plastica, verrebbe voglia di dire quintessenziale, il suo stile, il suo metodo e il suo approccio. E ovviamente i suoi limiti, analitici e prescrittivi. Il lessico utilizzato, denso di aforismi, è quello — all’apparenza savio e preciso e nei fatti spesso delfico e vago — che si ritrova in tanti scritti kissingeriani: “il test della politica è come finisce, non come inizia”; “la politica estera è l’arte di stabilire delle priorità”», e altri ancora. «A queste verità — talora banali, non di rado oracolari — si aggiunge l’uso di una storia che fisserebbe paletti, o meglio essenze, ineludibili per tutti i soggetti coinvolti». Perché «una visione essenzialista come quella kissingeriana fatica a confrontarsi con processi storici che definiscono la creazione, la costruzione, l’adattamento e il costante ripensamento di una nazione e dei suoi fondamenti identitari». 

Nel caso dell’Ucraina, «sembra dare quasi per scontato che la popolazione russofona sia inevitabilmente, e perennemente, filorussa (e quindi filoputiniana). Numerosi esperti ci spiegano invece con chiarezza quanto una specifica identità ucraina sia stata ridefinita (e rafforzata) dagli anni successivi alla crisi del 2014-15 (ndr: ne ha scritto Luca Angelini sulla Rassegna di mercoledì). Ed è davvero difficile immaginare che la resistenza all’invasione russa e questa terribile guerra non siano destinate a dare un contributo fortissimo alla costante ridefinizione dell’identità nazionale ucraina». 

Del Pero, in linea con Mieli, contesta soprattutto un punto: «È la Nato, nel 2014, a essere individuata da Kissinger come la causa principale della crisi che si aprì allora». Alla fine sembra ammettere in qualche modo che il nocciolo delle sue proposte di allora si mostri resistente al tempo: «Restano sul tavolo la neutralità — nella forma di un riconoscimento che l’Ucraina non farà mai parte della Nato — e il legame con Europa, che ora include addirittura l’adesione di Kiev alla Ue». Ma poi precisa che si tratta di «due elementi che paiono offrire delle basi negoziali molto fragili e futuribili nel contesto di guerra attuale», in cui «i costi crescenti del conflitto alzano per entrambe le parti la soglia per accettare un compromesso». 

Eppure, quanto le idee kissingeriane siano ancora attuali — il che non vuol dire che siano le uniche soluzioni percorribili, me che forse non «nascevano deboli e su premesse problematiche già otto anni fa» — lo ha confermato sul Corriere Franco Venturini: «Perché non perseguire un accordo negoziale che preveda l’ingresso accelerato dell’Ucraina nella Unione europea, la sua neutralità (dunque niente Nato), e una serie di garanzie per tutte le parti in causa?». 

Gli europei sembrano «esitanti», ma «davvero si opporrebbero a una intesa che potrebbe portare alla sospirata pace? E l’Ucraina non potrebbe finalmente smettere di essere uno Stato-cuscinetto e rafforzare i suoi legami con l’Occidente, con la Ue e senza i missili che allarmano i russi?». 

Naturalmente, accanto a quello della collocazione internazionale dell’Ucraina resta il nodo dei suoi confini e del destino del Donbass. Intanto, piaccia o non piaccia, il vecchio Kissinger è sempre lì, a fare arricciare nasi ma sempre a farsi ascoltare.

Dagospia il 28 febbraio 2022. Introduzione del Calendario astrologico 2022 di Branko (ed. Mondadori)

All’inizio del nuovo anno bisogna individuare la chiave che apre la porta del futuro. Il 2022 si presenta complicato, con pianeti che sembrano vagare da un segno all’altro; ma è necessario avere la volontà di voltare pagina ed entrare nel terzo millennio. Gli dei dell’Olimpo si sono stancati di noi, talvolta pare che siano il nostro riflesso: stesse incertezze, stesse ambiguità.

Siamo migranti in una società che sostiene di essere alla ricerca di qualcosa, ma in realtà non sa di cosa. Esiste la chiave per aprire la porta del domani e si trova, non a caso, in Ariete. È il segno della primavera, della nuova vita. Per chiudere invece con un certo passato, la chiave è negli abissi del mare dei Pesci, bisogna solo riuscire a strapparla dal tridente di Nettuno. Giove entra in Ariete a maggio, quando le rose sono all’apice della fioritura. Il 2022 può essere definito proprio l’anno delle rose, come sostiene Venere per molto tempo in Capricorno, e ricorda il mito di Adone, seguendo il quale la dea si ferì e tinse del proprio sangue le rose, simbolo dell’amore che sopravvive alla morte. 

Questi fiori appartengono pure a Marte, che quest’anno sarà a lungo ospite fisso in Gemelli. Quante lotte ancora! Il pianeta rosso fino a marzo del 2023 è azione, energia, tensione. Molte rivoluzioni nella storia sono associate a un fiore: il garofano rosso, il tulipano, il gelsomino; e pure le magnifiche rose, per ricordare Alberto Arbasino, hanno conosciuto sanguinosi conflitti. Si pensi solo alla Guerra delle due rose in Inghilterra: la casa degli York (rosa bianca) contro la casa dei Lancaster (rosa rossa). E le rose degli innamorati a San Valentino? 

Senza dimenticare le sante popolari legate alle rose: Rita da Cascia, Rosalia da Palermo, Rosa da Viterbo… Un fiore che ha attraversato la storia, a vario titolo, come nessun altro, perché non dovrebbe essere il simbolo dell’anno che verrà? La via delle Rose, come il percorso spirituale dell’antica via Francigena. Quante rose antiche lungo questo viaggio immaginario! Arruffate, semplici, profumatissime ma spinose… come il nuovo anno. Buon 2022!

L'aria che tira, Giulietto Chiesa e la profezia: "Ucraina inizio della terza guerra mondiale". Libero Quotidiano il

28 febbraio 2022.

Un intervento che, a guardarlo adesso, mette i brividi. Giulietto Chiesa, in un filmato mostrato ieri a Non è l'Arena su La7, aveva previsto la guerra in Ucraina già nel 2015. Sette anni fa il giornalista, per anni corrispondente da Mosca per L'Unità e La Stampa, diceva: "Penso che noi siamo alla vigilia della guerra, di una grande guerra. Quello che sta accadendo sotto ai nostri occhi è - come qualcuno ha già detto - l'inizio della terza guerra mondiale".

Chiesa non era molto fiducioso sulla possibilità di fermare il conflitto. A tal proposito disse: "Possiamo fermarla, forse, ma credo che ci siano delle ragioni molto pressanti e che la probabilità che si compia è molto più alta di quella di evitarla". Il giornalista, poi, diede una sua personale interpretazione di quello che sarebbe stato l'attacco russo: "La crisi in Ucraina, sarò sintetico, non è una semplice crisi, è l'inizio dell'offensiva degli Stati Uniti d'America, e dell'Europa che ci ha creduto, contro la Russia". 

Secondo Chiesa, insomma, l'Ucraina avrebbe rappresentato solo un pretesto, un modo attraverso cui gli Stati Uniti avrebbero potuto scagliarsi liberamente contro il Paese guidato da Vladimir Putin: "Un'offensiva diretta contro la Russia. L'Ucraina è stata usata come un bastone, un bastone per colpire la Russia". 

La profezia di Boris Nemtsov sulla Russia autoritaria di Putin.

01/03/2015 Mosca, fiori sul luogo in cui il leader dell'opposizione russa ed ex vice primo ministro Boris Nemtsov è stato ucciso. MARA MORINI, politologa, su Il Domani il 27 febbraio 2022

Il 27 febbraio 2015 Boris Nemtsov, uno degli oppositori allora più noti del presidente Vladimir Putin, veniva ucciso da un sicario alle spalle poco distante dal Cremlino.

L’incontro con Eltsin gli ha consentito di iniziare una lunga carriera politica, contraddistinta da diversi ruoli e responsabilità.

Ha collaborato con il presidente ucraino, Viktor Juščenko e ha descritto con precisione l’involuzione autoritaria della Russia di Putin. 

MARA MORINI, politologa. Mara Morini è professoressa associata di Scienza politica all’Università di Genova dove insegna Politics of Eastern Europe e Politica comparata. Osservatrice elettorale dell’OSCE-ODIHR in Russia, Uzbekistan e Moldova, è coordinatrice dello Standing Group “Russia e spazio post-sovietico” della Società Italiana di Scienza Politica (SISP). Visiting Professor all’Accademia Diplomatica del Ministero degli Esteri della Federazione Russa e alla High School of Economics di Mosca, ha pubblicato il libro La Russia di Putin (edizioni il Mulino, 2020).

DAGONOTA l'1 marzo 2022. 

Una premessa e una nota a margine. Cominciamo dal preambolo. Prima di scrivere questa nota abbiamo atteso l’uscita domenicale dell’”Espresso” edito dalla famiglia Agnelli e allegato alla “Repubblica” per capire se la madornale analisi-bufala (una fake al cubo?) rifilata ai suoi poveri lettori era stata corretta. Macché! Soltanto un box a pag.18 in cui l’autore, Gastone Brescia, parla non del suo fallimento di stratega militare, ma dei paesi belligeranti che non hanno trovato una intesa. Insomma, niente toppa riparatrice alla topica.

Già. Nel numero che l’aveva preceduto (20 febbraio 2022), cioè a poche ore dall’attacco di Putin all’Ucraina, il settimanale diretto da Marco Damilano aveva sbattuto sotto gli occhi del lettore questo titolo: “Ma l’invasione russa è un’invenzione dell’Occidente”. Invenzione (sic).

Un titolo ingigantito? Niente affatto. Stavolta rispecchiava fedelmente il pensiero del suo autore, appunto il professor Gastone Breccia. Spesso gli autori si lamentano del contrario.

Titolo che alla luce dei fatti che tragicamente si stanno svolgendo in Ucraina sembra fare l’occhiolino più agli autori beffardi di “Cuore” che all’autorevole magazine fondato da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari. 

L’analisi (tarocca, sin dal titolo) è dell’analista con l’elmetto Breccia. Nel suo curriculum il Nostro si definisce esperto di storia militare: “in particolare – precisa - sui rapporti tra la teoria militare bizantina e quella occidentale, sulla guerriglia”. Ora capita ai migliori commentatori o esperti della materia sbagliare nel prevedere il futuro prossimo e magari correggersi.

Ma nel Von Clausewitz “alle vongole” colpisce soprattutto lo stile prussiano e inconfutabile delle sue tesi tracciate non con la penna ma con l’aratro della supponenza accademica. Che allo stesso tempo mette in guardia i lettori su chi non la pensa come lui. Occhio, l'occupazione è una storiella (falsa e ipocrita) che gira nelle redazioni dei giornali e nel mondo politico-economico che riguarda i social e i siti d’informazione on line. Attenzione, allora, alla fake new, ai manipolatori della notizia, ai commentatori improvvisati. Come a dire? Fidatevi del professor Breccia alla stregua degli imbonitori televisivi che reclamizzano i materassi per fare sogni d’oro.

Ecco, in sintesi, il Breccia-pensiero. L’invasione dell’Ucraina? “Uno spettro che s’aggira per l’Europa” ovviamente figlio dalle false notizie messe in circolazione dalle cancellerie europee e dagli Usa. “Tutto questo non ha senso. So di andare contro i comprensibili timori di molti, mantenuti vivi dai media occidentali: ma sono convinto che la Russia non soltanto non sia sul punto di invadere l’Ucraina, ma non abbia mai inteso farlo”, traccia con l’aratro della verità il prof. Breccia.

Perché Putin non va alla guerra? “I motivi per non lanciare un attacco convenzionale sono evidenti: primo fra tutti il costo politico di un simile azzardo che sarebbe enorme, e le sue immediate ripercussioni…”. Conclusione:” Una aggressione russa, dunque, era e resta tanto inverosimile da non poter essere seriamente presa in considerazione né dagli strateghi di Mosca né dai loro vecchi nemici di Washington“.

All’”Espresso” e allo stratega bizantino Breccia non si biasima di aver spacciato una analisi di geopolitica risultata alla fine purtroppo una bufala. Capita ai migliori. Il professore è in buona compagnia per stare nel campo militare. “Grazie alla radio, i giapponesi non potranno mai attaccarci a sorpresa”, dichiarò l’ammiraglio Daniels alla vigilia dell’attacco di Pearl Harbour. 

Peggio andò al generale americano Sedgwich nel corso della guerra civile prima di essere colpito a morte da un cecchino disse ai suoi: “Stupidaggini. A questa distanza non riuscirebbe a colpire nemmeno un elefante”.

Osservò una volta l’economista John K. Galbraith: “Esistono due categorie di persone che si pronunciano su quello che può succedere in futuro: quelli che non lo sanno, e quelli che non sanno di non saperlo”.

Al magazine di via Po (e ai media tradizionali) si rimprovera il vezzo di alzare sempre il dito accusatorio nei confronti dell’informazione web senza guardare in casa propria. Il mondo digitale è fragile, ma la lezione non può arrivare – come da narrazione -, dal dinosauro di carta in via di estinzione.

L’esempio ultimo e più clamoroso è, appunto, quello di una delle più nobili testate italiane, il settimanale l’”Espresso” edito dagli Agnelli che giustifica la nostra premessa. Nel suo giornale madre, “la Repubblica”, il colonnino pungente dedicato alla “débacle degli scettici che con sicumera esprimevano” il non intervento di Putin in Ucraina - da Fassino a Di Battista -, il nome del prof. Breccia non fa capolino.  

Estratto dell’articolo di Mauro Manzin per il Piccolo l'1 marzo 2022. 

Non crede Piero Fassino, presidente della commissione al Consiglio d’Europa che monitora lo stato di diritto e la democrazia nei 47 Paesi membri, che Putin userà armi nucleari. Un bluff dello zar russo nella partita a poker chiamata Ucraina. Quelle che invece faranno molto male a Mosca e, secondo Fassino, immediatamente sono le sanzioni internazionali al punto che qualche oligarca del cerchio magico di Putin sta già bofonchiando dissenso…

E’ proprio sicuro che lo zar non farà girare la sua chiave militare?

No, non credo che convenga, in primis, proprio a Putin: il mondo si può distruggere una volta sola. È questo che vuole? Non penso

Da la7.it il 25 febbraio 2022.

Piero Fassino (PD) sui prossimi sviluppi della crisi ucraina: "Non prevedo l'invasione, arrivare a Kiev sarebbe azzardato per Putin".

Da ilsecoloditalia.it 3 luglio 2018.

I suoi pronostici si avverano, ma al contrario. Una fortuna per alcuni, una sfiga per gli altri, i suoi. Eppure Piero Fassino ci riprova. Vero masochista. Così l’ex sindaco Pd di Torino si sbilancia senza temere né le smentite né il ridicolo. Matteo Salvini da Pontida aveva dichiarato: «Governeremo per per trent’anni». Il profeta- Fassino subito a rimbeccare: «Trent’anni di Salvini? Nulla impedisce di sperare, però bisogna vedere se gli elettori gli daranno i voti», ha dichiarato incautamente Fassino a margine di un incontro sul futuro del Pd ospitato a Milano. Futuro e Pd, un bell’ossimoro. E i pronostici di Fassino in un convegno su questo tema potrebbero rivelarsi una fatale ipoteca.

Fassino, i precedenti

A suo tempo disse la sua sul M5S. E fu l’apoteosi del movimento. Fassino agli albori del Partito oggi al governo aveva detto in maniera provocatoria e con tutto lo scetticismo possibile: Voglio vedere  Beppe Grillo a «fondare un partito, prendere i voti e andare al governo». Che dire?…Si sbilanciò  in un’altra occasione, forse per rifarsi. Fassino sfidò Chiara Appendino, invitandola a correre come sindaco: la realtà fu, come sappiamo, che fu preso in parola e perse la poltrona da sindaco. Deluso dalla politica, ha tentato di “riciclarsi” nei pronostici calcistici.

Niente anche qui, un disastro. Solo a novembre aveva elogiato il bel gioco della nazionale di calcio tedesca. La Germania è uscita al Mondiale già alla fase a gironi. In ultimo, la “gufata” contro Salvini. Al che in rete e fuori, molti sostenitori del Carroccio e del governo Lega-M5S a sfregarsi le mani: visti i precedenti, si potrebbe profilare una durata di una cinquantina d’anni, se la ridono. 

Fassino è diventato famoso per essere smentito, tanto che su Fb è nata da tempo una pagina “Fassino il Profeta”, che è uno spasso. Per tutti tanne che per lui. E per il Pd. Il web lo ridicolizzaa anche sul suo profilo. «Non avete nemmeno 50000 persone che vi stimano nel vostro profilo, oltretutto, manco dovreste permettervi di parlare di Matteo Salvini che in un solo mese ha fatto quello che nemmeno il PD ha fatto in 5 anni. Silenzio che voi del PD avete rovinato l’Italia».

Un altro utente Fb scrive: «Buongiorno, scusi il disturbo , visto la sua lungimiranza vorrei chiederle un favore. Ieri mi si è rotto il climatizzatore. Guardando il manuale mi segnala l’errore “OU Mancanza pressione nel circuito”. Mi potrebbe fare una previsione su quando arriverà il tecnico? Ho 2 bimbi piccoli e la cosa mi preme molto. Grazie mille. Buona giornata». Se uno punta sull’ironia, un altro è scaramantico: «Fassino, la piantiamo di portare sfiga? Se ci becchiamo 30 anni di Salvini è colpa tua, brutto gufo secco».

Baba Vanga, la sensitiva cieca che ha predetto l’11 settembre: “Putin sarà il signore del Mondo”. Ilaria Minucci il 27/03/2022 su Notizie.it.

La sensitiva cieca Baba Vanga che ha predetto l’11 settembre ha annunciato che il presidente russo Vladimir Putin sarà il “Signore del Mondo”.

Baba Vanga, la sensitiva cieca che ha predetto l’11 settembre: “Putin sarà il signore del Mondo”

La sensitiva cieca Baba Vanga ha fatto centinaia di previsioni nei suoi 50 anni di carriera, compresa quella del naufragio del Kursk nel 2000. I suoi milioni di seguaci credono che abbia avuto abilità paranormali tra cui la telepatia e che potesse comunicare con gli alieni.

Nel corso del tempo, Baba Vanga ha “visto” alcuni disastri naturali e ha avvertito dei conflitti prima che accadessero. La sensitiva, nota come “Nostradamus dei Balcani”, è morta alla fine degli anni ’90 del Novecento a 85 anni.

Recentemente, è stato riferito che avesse predetto che Vladimir Putin e la Russia un giorno avrebbero dominato il mondo.

Nel 1979, secondo quanto riportaot da BirminghamLive, durante un incontro con lo scrittore Valentin Sidorov, Baba Vanga avrebbe affermato: “Tutto si scongelerà, come il ghiaccio, solo una cosa rimarrà intatta: la gloria di Vladimir Putin, la gloria della Russia. Nessuno può fermare la Russia. Tutto sarà rimosso da lei dal mondo e non solo sarà tenuto, ma Putin diventerà anche il signore del mondo“.

Secondo la chiaroveggente, quindi, la Russia si trasformerà nell’unica superpotenza mondiale.

Baba Vanga ha anche fatto una profezia agghiacciante sull’uso di armi nucleari e sulla terza guerra mondiale.

Le previsioni più famose: quali si sono avverate?

Accecata dopo essere stata trascinata via da un tornado da bambina, Baba Vanga – nata Vangelia Gushterova – credeva di avere la capacità di prevedere il futuro. Si dice che abbia fatto centinaia di previsioni nei suoi 50 anni di carriera.

È balzata sulla cresta della cronaca dopo aver predetto accuratamente l‘affondamento del Kursk nel 2000.

Le sue numerose previsioni sugli eventi mondiali e sullo stato dell’umanità sono diventate famose, comprese le affermazioni che hanno predetto l’ascesa dell’ISIS e la caduta delle Torri Gemelle.

L’Irish Mirror ha anche raccontato delle sue agghiaccianti previsioni legate all’epoca contemporanea e di come alcune di esse si siano avverate.

Gli specialisti hanno poi calcolato che il 68% delle sue profezie si sono avverate: un po’ meno dell’85% sostenuto dai suoi seguaci.

Di seguito, alcune delle sue più famose predizioni:

Il disastro del sottomarino nucleare Kursk: nel 1980 la profetessa cieca ha predetto che nell’agosto del 1999, “il Kursk sarà coperto d’acqua e il mondo intero piangerà su di esso”. Il Kursk era un sottomarino russo che affondò nel Mare di Barents il 12 agosto 2000, uccidendo tutti quelli a bordo.

11 Settembre: nel 1989, Baba Vanga disse “Orrore, orrore! I fratelli americani cadranno dopo essere stati attaccati dagli uccelli d’acciaio. I lupi ululeranno in un cespuglio e il sangue innocente sgorgherà”. L’11 settembre 2001, aerei dirottati da estremisti islamici hanno colpito il World Trade Center di New York, uccidendo migliaia di persone.

L’Europa cesserà di esistere: secondo Baba Vanga, il “continente cesserà di esistere entro il 2016, e tutto ciò che rimarrà saranno spazi vuoti e terre desolate, quasi prive di qualsiasi forma di vita”. Chiaramente non è proprio così, ma il Regno Unito ha votato per lasciare l’UE il 23 giugno 2016, creando molto scompiglio. Si dice che abbia detto che le armi chimiche sarebbero state usate dagli estremisti contro l’Europa (o forse un agente nervino).

Barack Obama sarà l’ultimo presidente degli Stati Uniti: Baba Vanga aveva predetto che il 44° presidente degli Stati Uniti sarebbe stato un afroamericano, ma aveva anche aggiunto che sarebbe stato l’ultimo. Sosteneva che avrebbe lasciato l’incarico in un momento in cui il Paese sarebbe stato in rovina economica, e ci sarebbe stata un’enorme divisione tra gli stati del nord e del sud – come fu il caso durante la guerra civile americana. Baba sembrava anche predire che il 45° presidente degli Stati Uniti – che ora sappiamo essere Donald Trump – si sarebbe trovato di fronte ad una crisi che avrebbe “fatto crollare il paese”. La sua agghiacciante predizione afferma che: “Tutti ripongono le loro speranze in lui per porvi fine, ma accadrà il contrario; farà crollare il paese e i conflitti tra gli stati del nord e del sud si intensificheranno”. Alcuni ipotizzano che i riferimenti a “nord e sud” potrebbero significare la Corea del Nord e del Sud.

La terza guerra mondiale: le previsioni di Baba sono state rivisitate dopo che un altro mistico, che apparentemente ha predetto la presidenza di Donald Trump, sostiene di conoscere la data esatta in cui inizierà la terza guerra mondiale. L’autoproclamato “messaggero di Dio” Horacio Villegas crede che la guerra nucleare scoppierà nel 100° anniversario della visita della Madonna di Fatima. Il chiaroveggente sostiene di aver previsto che Trump avrebbe vinto le elezioni americane già nel 2015. Secondo quanto riferito, ha predetto che l’uomo d’affari miliardario sarebbe diventato il “re degli illuminati” che “porterà il mondo nella terza guerra mondiale”.

Le parole della veggente bulgara. La profezia della veggente Baba Vanga su Putin e la guerra Ucraina –Russia: “Solo uno rimarrà intatto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Dopo che Vladimir Putin ha iniziato l’invasione dell’Ucraina con le truppe russe è balzata alle cronache nuovamente una delle profezie di Baba Vanga, meglio conosciuta come la Nostradamus dei Balcani. Stando a quanto riportano alcuni media russi, nel 1979, durante un incontro con lo scrittore Valentin Sidorov la Vanga avrebbe pronunciato questa frase: “Tutto si scioglierà come ghiaccio. Solo uno rimarrà intatto: la gloria di Vladimir, la gloria della Russia. Nessuno potrà fermare la Russia”. La veggente avrebbe anche definito il leader russo come “il signore del mondo”.

Baba Vanga, o meglio Vangelia Pandeva Dimitrova, è stata una veggente bulgara nata nel 1911. Ha trascorso la sua vita a Rupite, un villaggio tra le montagne nel distretto di Blagoevgrad. Ha perso la vista a 12 anni e ha affermato di aver ricevuto da Dio il dono della chiaroveggenza. È morta nell’agosto 1996 ma ha lasciato numerose profezie che vengono fuori periodicamente. Da quanto riferito dai suoi seguaci ha fatto previsioni fino al 5079 che periodicamente risbucano fuori. Essendo profezie sono spesso molto vaghe ed è facile cadere nelle interpretazioni sbagliate, condizionati dai fatti di cronaca che davvero accadono.

Anche durante la pandemia le sue profezie sono balzate alla cronaca. Per il 2021 aveva parlato di malattie infettive e altre catastrofi che avrebbero determinato la diminuzione della popolazione mondiale. Ha annunciato attentati e tragedie per personaggi illustri, dalla morte del presidente russo a quello americano. E infine è stata drastica: “Il mondo soffrirà di molti cataclismi e grandi disastri. La coscienza delle persone cambierà. Arriveranno tempi difficili. Le persone saranno divise dalla loro fede”.

Poi per il 2022 aveva profetizzato ancora di un virus, una nuova pandemia che sarebbe arrivata nel 2022. Nella profezia infatti affermava che: “gli esseri umani si abitueranno a un nuovo virus”. Forse parlava della nuova variante omicron che a gennaio ha fatto raggiungere picchi altissimi di contagi?

La profezia come spesso accade è vaga e non specifica affatto se Baba intendesse un nuovo virus oppure che ottimisticamente che il Covid diventerà un’influenza abituale. Gli interpreti specificano che potrebbe esserci un riferimento alla comparsa di un nuovo ceppo, ma non si può escludere che Baba Vanga intendesse proprio un nuovo virus, diverso dal Covid-19.

Ha anche detto che l’uomo scoprirà la vera essenza del cosmo e sarà chiaro come sia apparsa per la prima volta la vita sulla Terra. Ha accennato anche all’ipotesi della conoscenza di nuove forme di vita su altri mondi, che i treni voleranno “usando la luce solare” e la produzione di benzina si fermerà e l’ambiente potrà respirare.

In molti casi, le profezie di Baba Vanga si sono parzialmente avverate. Tra le varie profezie ci sono il riscaldamento globale e lo tsunami del 2004 (predetto negli anni ’50): “Le regioni fredde diventeranno calde e i vulcani si sveglieranno. Un’onda gigantesca colpirà una grande costa e le città, gli edifici e le persone, saranno completamente sommersi dalle acque. Tutto si scioglierà come il ghiaccio”.

Aveva predetto anche la catastrofe dell’11 settembre (predetto nel 1989): “Orrore, orrore! La fratellanza americana cadrà dopo essere attaccata da uccelli d’acciaio. I lupi ululeranno nel cespuglio e scorrerà sangue innocente”. Poi l’elezione di Obama: “Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l’ultimo della loro storia”. E infine la Primavera Araba: “Ci sarà una grande guerra islamica, che inizierà nel 2010 e diventerà mondiale. In Siria gli arabi utilizzeranno armi chimiche contro gli europei”. È chiaro che nelle profezie c’è sempre un alone di mistero.

Le profezie di Baba Vanga per il 2022

1. In Siberia comparirà un nuovo virus letale rimasto fino ad oggi congelato. “Gli esseri umani dovranno fare i conti con una nuova malattia”, avrebbe assicurato Baba.

2. L’Oriente sarà colpito da una terribile carestia a seguito dell’attacco di locuste nelle piantagioni dell’India.

3. Alcuni paesi asiatici, insieme all’Australia, saranno colpiti da alluvioni che danneggeranno la loro economia.

4. Le grandi città dovranno fare i conti con lunghi periodi di siccità dovuti alla carenza di acqua potabile e alla contaminazione dei fiumi.

5. La tecnologia avrà un impatto negativo sulle vite di tutti, rendendoci incapaci di distinguere il reale dal virtuale.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da ilmessaggero.it il 29 marzo 2022.

La crescita della tensione internazionale per la guerra in Ucraina scatena da settimane il dibattito e le paure sul web di una possibile esclation del conflitto in grado di trascinare il mondo in un conflitto mondiale o addirittura una guerra nucleare. E, tra i più fatalisti non è mancato chi ha tirato fuori dal cassetto - di nuovo - Nostradamus, il celebre filosofo e profeta Michel de Nostradame vissuto nel 1500 che, secondo interpretazioni alquanto fantasiose dei suoi scritti, avrebbe predetto tutto: dall'ascesa di Hitler fino alle torri gemelle e all'omicidio di Kennedy. 

Nel 2022 il celebre profeta avrebbe previsto una serie di terrificanti eventi, tra cui un attacco di asteroidi, inflazione e fame e robot di intelligenza artificiale che conquistano la terra. E le sue previsioni per il prossimo anno non sono migliori. Per il 2023 il profeta avrebbe annunciato l'arrivo di «Sette mesi la Grande Guerra, gente morta di malvagità». Tra le frasi più citate sui social c'è anche che «Rouen ed Evreux (due città francesi ndr) non cadranno in mano al re» e  un «Fuoco celeste sull'edificio reale».

Le parole sono estratte da "Profezie", il volume di Nostradamus pubblicato per la prima volta nel 1555 che contiene 947 quartine sul futuro del pianeta. Si tratta di un insieme di versi vaghi con citazioni simboliche che si riferivano a elementi dell'epoca (1500) e che sono state più volte reinterpretate per "adattarle" a situazioni presenti.

Le fake news e profezie si diffondono in tempi di incertezza

Non si tratta della prima profezia che viene tirata fuori dal cassetto in tempi di crisi, in cui incertezza e paura si diffondono tra la popolazione: dalla fine del mondo dei Maya che fece tanto parlare nei primi anni del 2000 (l'apocalisse era fissata per il 12 dicembre 2012) alla profetessa bulgara Baba Vanga che avrebbe predetto il Covid.

E se il "millenarismo" e la superstizione fanno parte della cultura dell'uomo sin dalla notte dei tempi, il web diventa oggi un mezzo formidabile in cui teorie e complottismi si moltiplicano, facendo proseliti tra chi cerca risposte a paure diffuse. Forse per molti, pensare che tutto sia stato già scritto e previsto, magari in un misterioso libro di 500 anni fa, appare più rincuorante che affrontare l'abisso di un futuro completamente ignoto e in fin dei conti imprevedibile.  

Ucraina, ex presidente Poroshenko: “Putin mi disse che poteva conquistare 6 capitali in 2 giorni”. Riccardo Amato il 29/03/2022 su Notizie.it.

"Posso conquistare 6 nazioni in due giorni": queste le parole che Putin rivolse all'ex presidente dell'Ucraina, Petro Poroshenko. 

L’ex presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, ha rivelato che Putin una volta gli disse di poter conquistare tutto l’Est-Europa in soli due giorni.

Petro Poroshenko è, dal 24 febbraio, un generale militare alla guida di un battaglione.

Dal 2014 al 2019 però, è stato il predecessore di Volodymyr Zelensky, in carica per il ruolo di Presidente dell’Ucraina.

Il suo mandato da politico è ormai concluso, ma nelle ultime ore è spuntato un retroscena che lo vede coinvolto in un dialogo con Putin che fa rabbrividire. Infatti, stando a quanto confessato da Poroshenko, poco dopo la sua elezione l’oligarca russo lo ravvisò così:

«Se volessi, in due giorni potrei portare le truppe russe non solo a Kiev ma anche a Riga, Vilnius, Tallinn, Varsavia e Bucarest».

L’avviso lanciato da Poroshenko nel 2014

Una frase che non si distacca troppo dalla realtà dell’epoca. Infatti, sempre in quell’anno, Putin disse di poter occupare Kiev in sole due settimane. È bene ricordare che il 2014 fu l’anno delle rivolte in Ucraina, della guerra in Crimea e dell’inizio degli scontri nella Donbass.

«Se non vengono fermati ora, attraverseranno i confini europei e si arriveranno in tutto il mondo».

Queste le parole che ai tempi lo stesso Poroshenko disse davanti al Congresso americano.

I Simpson avevano previsto la guerra in Ucraina? L’incredibile profezia. Di Isabella Insolia il 25 Febbraio 2022 chenews.it.

I Simpson hanno previsto tanti eventi di portata storica, tra cui anche l’attuale guerra in Ucraina: il video non lascia dubbi, sono tutti convinti che si tratti di una ptofezia.

La serie animata americana continua a lasciare senza parole gli spettatori di tutto il mondo. Nelle ultime ore sta girando sui social un video che sottolineerebbe come lo spettacolo abbia previsto già da tempo l’attacco di Valdimir Putin all’Ucraina. Vediamo di cosa si tratta. 

I Simpson sono da sempre una delle serie tv animate più amate dal pubblico di tutto il mondo. Da oltre 30 anni le vicende della famiglia di Springfield intrattengono milioni di persone. Spesso e volentieri però ci sono alcuni episodi che lasciano i fan dello spettacolo senza parole per quello che viene raccontato e che inizialmente viene preso sottogamba. 

Non è la prima volta che si parla delle profezie legate a I Simpson. Nel corso degli episodi, infatti, ci sono stati tanti momenti che hanno spiazzato i telespettatori in quanto gli sceneggiatori sembravano dei Nostradamus moderni. Citarli tutti è impossibile, però possiamo dire brevemente che hanno previsto sia la nomina di Kamala Harris che l’esibizione di Lady Gaga al Super Bowl, giusto per citarne due. 

Le profezie del cartone animato adesso tornano al centro dell’attenzione proprio perché pare che avessero previsto anche la guerra in Ucraina che si sta combattendo in queste ore. A sottolineare l’episodio è stato un video che circola sui social. 

Mentre le forze russe avanzano imperterriti in Ucraina con grande preoccupazione dei paesi occidentali, sui social, in particolare su Twitter, sta girando un video della serie ambientata nella città fittizia di Springfield che sa dell’incredibile soprattutto vedendo gli eventi geopolitici di queste ore. 

In moltissimi infatti hanno sottolineato come la serie tv americana abbia previsto che le truppe di Vladimir Putin invadessero il Donbass per poi arrivare alla capitale dell’Ucraina. Il video in questione sottolinea come il presidente russo avesse da tempo come obiettivo le mire espansionistiche e di ampliare le proprie strategie militari.

Nel filmato vediamo un consiglio con i potenti del mondo in cui sono presenti al tavolo sia il rappresentate russo che quello statunitense. Ad un certo punto il diplomatico russo chiama il suo paese Unione Sovietica. Potrebbe sembrare un lapsus ma così non è stato. 

E quando l’esponente USA sottolinea come l’URSS non ci sia più da tempo, il russo si alza in piedi e grida: “È quello che vi abbiamo fatto credere”. Ad un certo punto le immagini virano su San Pietroburgo che diventa la capitale dell’URSS. Il tutto è infine coronato dalla resurrezione miracolosa di Lenin. 

Come mai I Simpson sono gialli? Il motivo è unico

Ovviamente non c’è nessun riferimento all’Ucraina o all’invasione di Putin. Tuttavia molti hanno notato come già molti anni fa si parlava delle mire espansionistiche del presidente russo e come questo aveva intenzione di rifondare l’Unione Sovietica.

Ucraina, la profezia inquietante di un secolo esatto fa: la Terza Guerra Mondiale arriverà dalla Russia. Libero Quotidiano il 22 febbraio 2022

Con la drammatica escalation della tensione al confine tra Russia e Ucraina con una guerra che rischia di scoppiare nel cuore dell'Europa, sono tornate in auge nei blog e nei social delle vecchie profezie attribuite al cosiddetto veggente di Voralberg. Si tratta di una serie di drammatiche visioni profetiche che hanno un secolo esatto, e riportano elementi inquietanti sulle dinamiche, così si legge nelle "profezie", che porteranno alla Terza Guerra Mondiale, presentando analogie con la cronaca di questi giorni.

Un video che si trasformò da semplice curiosità a un vero e proprio scandalo mondiale .

Il veggente di Voralberg era un contadino e nell’anno 1922, a Locchan Bregenz in Germania, ebbe una serie di visioni che un frate benedettino trascrisse e nei decenni seguenti finirono in molti altri testi. Cosa si legge in queste presunte profezie? "Il misfatto giungerà improvvisamente dalla Russia. Ovunque tumulto e distruzione" sono le parole che hanno fatto balzare sulla sedia gli appassionati di profezia e materie "occulte".

Insomma, la Terza Guerra Mondiale può partire dalla Russia. "Come un fulmine a ciel sereno la Russia marcerà prima sulla Germania, poi in Francia, Italia e Inghilterra, e ancora "il Reno sarà devastato da aeroplani e armate di invasione". 

Il conflitto provocherà "corruzione generale" e "grande carestia": per fare la farina gli uomini useranno la "corteccia degli alberi" e mangeranno l'erba dei prati. Il veggente parla di rivolte politiche nelle quali molti vengono incarcerati e una "rovina" che giunge improvvisa dalla Russia. L'immagine vista dal presunto profeta è quella di una strada ampia che separa qualcosa, con soldati, donne, vecchi e bambini, una ghigliottina e corpi decapitati.  Il conflitto, secondo queste visioni, si estenderà in tutto il mondo con Parigi e Roma distrutte, come gran parte della Terra, dove pochissimi sopravvivranno. 

Papa Francesco e la profezia di Fatima: alla consacrazione venerdì 25 marzo vuole anche Ratzinger. Il Tempo il 24 marzo 2022.

Il terzo segreto di Fatima? “O la Russia si converte oppure ci porta diritti verso la fine del mondo”. Ne è convinto Papa Francesco che domani, venerdì 25 marzo, durante la celebrazione della Penitenza che presiederà alle ore 17 nella Basilica di San Pietro, ha voluto anche il Papa emerito Ratzinger che si unirà nella consacrazione alla Madonna di Russia e Ucraina nel corso della Celebrazione Penitenziale nella Basilica di San Pietro. Ad annunciarlo è stato monsignor Georg Ganswein, segretario personale del papa emerito. L’evento si terrà alle 17 al Monastero Mater Ecclesiae quando Bergoglio consacrerà all’Immacolato Cuore di Maria la Russia e l’Ucraina . “Naturalmente, il Papa emerito Benedetto XVI risponderà alla richiesta di Papa Francesco; unendosi in preghiera riguardo alla consacrazione di Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria”, ha confermato Ganswein.

Papa Francesco, la guerra in Russia nella profezia di Fatima: il 25 marzo un segno decisivo. Giada Oricchio su Il Tempo il 17 marzo 2022.

Papa Francesco prima prega per i bambini innocenti vittima della furia di Vladimir Putin in Ucraina, poi evoca scenari apocalittici con lo spettro del nucleare e infine cita la profezia di Fatima sulla fine del mondo. Il prossimo 25 marzo, durante la celebrazione della Penitenza nella Basilica di San Pietro, Bergoglio consacrerà la Russia e l'Ucraina all’Immacolato Cuore di Maria. E il portavoce della Santa Sede, Matteo Bruni fa sapere che “lo stesso atto, lo stesso giorno, sarà compiuto a Fatima dal cardinale Krajewski, Elemosiniere di Sua Santità, come inviato del Santo Padre”.

La Chiesa è convinta che sia accaduto qualcosa di provvidenziale e che la Regina del Rosario avesse annunciato: “Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte”. Così, la consacrazione della Russia è la strada per un nuovo periodo di pace nel mondo. Sarebbero stati i vescovi ucraini di rito latino a convincere il Santo Padre, che da settimane chiede il “cessate il fuoco”, a compiere il solenne gesto nella speranza che sia salvifico come da profezia.

Fatima, Papa Francesco svela la profezia. Le parole del vescovo di Mosca, il mondo con il fiato sospeso. Giada Oricchio su Il Tempo il 25 marzo 2022.

A un mese dall’invasione della Russia in Ucraina, Papa Francesco consacrerà entrambe i Paesi al Cuore immacolato di Maria secondo la profezia di Fatima. La celebrazione della penitenza è stata richiesta a gran voce da vescovi ucraini e si terrà a san Pietro oggi pomeriggio, venerdì 25 marzo.

Contemporaneamente nel santuario portoghese di Fatima, il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere apostolico, terrà la stessa omelia. Ma tutti i vescovi del mondo si uniranno alla preghiera di Bergoglio. Prima di Papa Francesco altri tre pontefici hanno consacrato la Russia e il mondo alla Madonna: Pio XII nel 1942 ha consacrato il mondo invocando la pace e la sconfitta di comunismo e nazismo, mentre nel 1952 ha consacrato i popoli della Russia per chiedere alla Madonna il crollo del comunismo. Nel 1959 invece lo ha fatto per l’Italia sempre in chiave anticomunista. Successivamente Papa Montini e Giovanni Paolo II hanno compiuto lo stesso rito di pace sempre per la Russia e per tutto il mondo.

Il vescovo di Mosca Paolo Pezzi ha spiegato a Sussidiario il significato dell’atto: “Se è vero, come dice Dante nel suo bellissimo inno alla Vergine, che Maria “è di speranza fontana vivace”, allora consacrare al suo Cuore Immacolato il nostro cuore meschino, ma pulsante di un desiderio ultimo di felicità, significa non spegnere quella fiammella del desiderio che è in noi. Il Cuore aperto a Dio, purificato dalla contemplazione di Dio è più forte dei fucili e delle armi di ogni specie”.

Fatima e fine del mondo, l'arcivescovo di Kiev: "La Russia emana il male". Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Fede e speranza, politica e odio. Nel giorno della Consacrazione di Ucraina e Russia al Cuore Immacolato di Maria, mentre a San Pietro Papa Francesco e a Fatima il cardinale Konrad Krajevski, elemosiniere del Pontefice, pregano per la pace, dal fronte arrivano parole durissime dall'arcivescovo di Kiev.

"Oggi, insieme al Santo Padre, consacreremo l'Ucraina e la Russia al Cuore Immacolato di Maria - spiega monsignor Sviatoslav Shevchuk nel suo videomessaggio in occasione del trentesimo giorno di invasione del'Ucraina -. Questa consacrazione avrà luogo in tutto il mondo. Ogni vescovo della Chiesa universale compirà questo atto. Cosa significa questo? Significa che non si può mai cercare un accordo, cooperare con questo male che la Russia oggi emana".

"E quindi - osserva ancora l'arcivescovo Shevchuk -  dobbiamo pregare per la sua conversione, per sradicare quel male, 'affinché esso - come ha detto la Madonna di Fatima - non distrugga altri stati, non diventi la causa di un'altra guerra mondiale...'. Noi, come cristiani, abbiamo il dovere di pregare per i nostri nemici". "Da trenta giorni i russi attaccano e uccidono il nostro popolo. L'aggressione russa - denuncia il monsignore - porta via le vite, distrugge le nostre città e villaggi. Ogni notte le bombe e i razzi russi cadono sulle teste dei pacifici ucraini... Nonostante tutto, l'Ucraina sta lottando! E la nostra lotta, la nostra fermezza sollevano anche molte domande. C'è qualcosa oggi per cui una persona dovrebbe dare la vita? Esiste davvero una verità oggettiva, inviolabile, che può costituire il senso della nostra vita? Esiste davvero un male oggettivo e innegabile contro il quale dobbiamo combattere con tutte le nostre forze?". 

Papa Francesco e Fatima: "Siamo impotenti". Il dettaglio sul nome di Putin. Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Papa Francesco condanna la guerra. Nell'omelia pronunciata nel corso dell'atto di consacrazione di Ucraina e Russia al Cuore Immacolato di Maria, nella Basilica di San Pietro a Roma, il Pontefice ha rivolto un pensiero a quanto sta accadendo. "In unione con i Vescovi e i fedeli del mondo, desidero solennemente portare al Cuore immacolato di Maria tutto ciò che stiamo vivendo - spiega ai fedeli in riferimento all'invasione russa - rinnovare a lei la consacrazione della Chiesa e dell'umanità intera e consacrare a lei, in modo particolare, il popolo ucraino e il popolo russo, che con affetto filiale la venerano come Madre. Non si tratta di una formula magica, ma di un atto spirituale". Per Bergoglio si tratta del gesto del pieno affidamento dei figli che, "nella tribolazione di questa guerra crudele e insensata che minaccia il mondo, ricorrono alla Madre, gettando nel suo Cuore paura e dolore, consegnando se stessi a lei".  

"In questi giorni notizie e immagini di morte continuano a entrare nelle nostre case, mentre le bombe distruggono le case di tanti nostri fratelli e sorelle ucraini inermi. L'efferata guerra, che si è abbattuta su tanti e fa soffrire tutti, provoca in ciascuno paura e sgomento. Avvertiamo dentro un senso di impotenza e di inadeguatezza", sono le parole del Pontefice, che non pronuncia mai il nome di Vladimir Putin. A rivelare il motivo diversi analisti, che ricordano come in caso di conflitti anche i suoi predecessori abbiano fatto lo stesso. Insomma, quello del Papa sarebbe un modo per evitare di gettare benzina sul fuoco. Tornando all'omelia, Bergoglio ha proseguito: "Qualcuno ha detto che un cristiano senza amore è come un ago che non cuce: punge, ferisce, ma se non cuce, se non tesse, se non unisce, non serve. Oserei dire non è cristiano". 

E ancora, appellandosi a tutta la comunità perché "in ciò che conta non bastano le nostre forze". Per Bergoglio infatti "noi da soli non riusciamo a risolvere le contraddizioni della storia e nemmeno quelle del nostro cuore. Abbiamo bisogno della forza sapiente e mite di Dio, che è lo Spirito Santo, quello Spirito che ci dà armonia perché lui è l'armonia". Un chiaro riferimento all'Ucraina e alla necessità di contribuire tutti alla fine di questa guerra.

Fatima, Antonio Socci e la consacrazione di Papa Francesco: l'evento miracoloso che segue il rito. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Ci sono molte drammatiche analogie fra i giorni che stiamo vivendo e quelli che precedettero la Prima guerra mondiale, da cui scaturirono i totalitarismi del Novecento e la Seconda guerra mondiale, con i fantasmi che ancora oggi agitano il mondo. Anche cento anni fa si poteva intuire quale abisso stava per spalancarsi. Il 29 luglio 2014, Winston Churchill scriveva a sua moglie: «Ogni cosa tende alla catastrofe e al collasso (come se) un'ondata di follia avesse colpito la mente del mondo cristiano». E il ministro degli esteri inglese, Edward Grey, il 3 agosto 1914, mentre si stava decidendo l'entrata in guerra, affermò: «Le luci si stanno spegnendo in tutta l'Europa. Dubito che le vedremo accendersi di nuovo nel corso della nostra vita». Fu una carneficina. Il papa Benedetto XV continuò a implorare la fine dell'«inutile strage». Ma nessuno lo ascoltò. Come oggi i potenti non ascoltano l'identico grido di papa Francesco, anche se rischiamo una terza guerra mondiale e l'apocalisse nucleare. Iniziative diplomatiche e appelli di Benedetto XV furono snobbati con disprezzo. Così, il 5 maggio 1917, il papa implorò solennemente la Madonna come «regina della Pace», perché venisse lei in aiuto dell'umanità. I poteri mondani neanche se ne accorsero.

Eppure solo otto giorni dopo, il 13 maggio 1917, la Madre di Dio rispose veramente a quell'accorata invocazione apparendo a Fatima, in Portogallo, il Paese che anticamente era chiamato "Terra di Santa Maria". Un'apparizione clamorosa in cui la Madonna darà la prova della sua presenza il 13 ottobre con il miracolo del sole, davanti a 70 mila persone, fra cui agnostici e giornalisti laici che riportarono fedelmente i clamorosi eventi. La Madonna scelse il luogo più misero e sperduto e le persone più irrilevanti, dei bambini poveri e analfabeti. A loro, alla loro preghiera (la recita quotidiana del rosario) e ai loro sacrifici, la Madonna attribuì l'incredibile potere di abbreviare la guerra in corso. Il suo "esercito" per cambiare il corso della storia era composto da tre bambini poveri.

MESSAGGIO PROFETICO

Follia? Sì, la follia del cristianesimo per cui il vero protagonista della storia non sono i potenti, ma è il mendicante: la preghiera e il sacrificio degli umili. Inoltre la Madonna affida ai tre bambini un messaggio profetico straordinario: preannuncia quello che sarebbe accaduto di lì a poco (la rivoluzione bolscevica in Russia) e prospetta delle conseguenze catastrofiche che però - attenzione - Pietro e la Chiesa potranno scongiurare. Al Papa, infatti, in unione con tutti i vescovi, la Madonna chiederà di consacrare la Russia al suo Cuore immacolato per sottrarre il mondo alle forze del male che altrimenti provocheranno persecuzioni alla Chiesa e terribili sofferenze all'umanità. Chi non è cristiano ne sorriderà. Ma il fatto che le profezie pronunciate a Fatima dalla Madonna si siano avverate dovrebbe consigliare riflessione. Papa Francesco ha accolto l'invito dei vescovi ucraini, consacrando (con il mondo) la Russia e l'Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, come la Madonna aveva chiesto a Fatima e lo fa oggi, 25 marzo, festa dell'Annunciazione, per chiedere il dono della pace al Principe della pace che venne nel mondo da quel sì di Maria. Non è un gesto di magia, ma di fede, di amore e di speranza. Non è possibile dire cosa può accadere dopo questa consacrazione, perché non si può entrare nella sovrana libertà di Dio. Ma i cristiani sono certi che l'atto del Vicario di Cristo porterà, per vie misteriose, grandi grazie all'Ucraina, alla Russia e al mondo, nei modi e nei tempi che solo Dio conosce.

Si può riconoscere l'azione della Provvidenza nel mondo, ma occorre uno sguardo che va in profondità perché essa è discreta: Dio rispetta la libertà umana, vuole lasciare all'uomo il merito di riconoscere la verità, così - diceva Pascal - ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuole vedere e ha lasciato abbastanza ombra per chi non vuole vedere. Dopo le precedenti consacrazioni, in effetti, si può intravedere una mano provvidenziale che ha indirizzato certi passaggi storici. Alcuni esempi. Essendosi verificato quanto profetizzato a Fatima dalla Madonna, Pio XII, nell'imperversare della seconda guerra mondiale, farà la consacrazione il 31 ottobre 1942, ma per motivi diplomatici e politici non sarà nominata esplicitamente la Russia. La veggente di Fatima, suor Lucia, fece sapere che tuttavia «il Buon Dio mi ha già mostrato il suo compiacimento dell'atto, sebbene incompleto rispetto al suo desiderio, compiuto dal Santo Padre e da molti vescovi. Egli promette per questo di far finire presto la guerra. La conversione della Russia (però) non è per adesso». In effetti c'è chi ha notato che subito dopo la consacrazione, nel giro di pochi giorni, si verificano eventi imprevisti e clamorosi: il 4 novembre la sconfitta dell'Asse a El Alamein, l'8 novembre lo sbarco degli angloamericani nell'Africa del Nord e il 2 febbraio '43 la capitolazione tedesca a Stalingrado. Pare che Churchill abbia commentato: «la ruota del destino si è girata». La guerra terminò prima rispetto alle cupe previsioni. Nel maggio 1952, in una nuova apparizione a suor Lucia, la Madonna sollecitò «la consacrazione della Russia al mio Cuore Immacolato», senza la quale «la Russia non potrà convertirsi, né il mondo avere la pace».

Pio XII il 7 luglio 1952 pubblicò la Lettera apostolica ai popoli della Russia "Sacro vergente anno" e consacrò finalmente la Russia al Cuore Immacolato di Maria, ma mancò l'unione dei vescovi di tutto il mondo in questo atto. Non si realizzò la conversione della Russia, ma ancora una volta - se guardiamo i fatti - si può dire che si verificarono grazie straordinarie. Due insospettabili storici laici come Nekric e Geller, nella loro "Storia dell'Urss", scrivono: «Il discorso pronunciato da Stalin al XIX Congresso, il 14 ottobre del 1952, fu dedicato alla motivazione ideologica dell'imminente offensiva in Europa occidentale... Predice l'avvento al potere dei partiti comunisti... Stalin voleva assistere alla trasformazione sovietica dell'Europa nel corso della sua vita. Si preparava una nuova guerra, ma la Storia ci mise lo zampino. Alla fine del febbraio 1953... Stalin fu improvvisamente colpito da un'emorragia celebrale. Il 5 marzo egli moriva». Tutto questo accadde nel giro di otto mesi dalla consacrazione della Russia. Chi ci ha salvato da quella progettata invasione sovietica e dalla guerra mondiale? Forse - come dice la Madonna - colui che «abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili»? Giovanni Paolo II avrà un rapporto speciale con la Madonna di Fatima. Nella sua percezione apocalittica di quegli anni, per ben tre volte fa appello alla Madonna: nel 1981 con un atto di affidamento, poi, nel 1982 e nel 1984, con solenni consacrazioni al suo Cuore Immacolato. Ma anche in questi due casi non vengono adempiute tutte le richieste della Madonna perché non fu menzionata esplicitamente la Russia (e pochi vescovi parteciparono a quell'atto). Tuttavia la risposta fu comunque un'abbondanza di grazie. Gli anni 1982-1984 sono cruciali. In epoca successiva abbiamo scoperto che proprio in quei mesi abbiamo rischiato - e più volte - l'apocalisse nucleare. Era infatti un periodo di altissima tensione est-ovest. Presidente Usa era Reagan. Il leader sovietico era Andropov il quale era persuaso che gli americani stavano per prepararsi all'attacco nucleare sferrando il primo colpo.

STANISLAV PETROV

In questo contesto accadono una serie di incidenti pericolosissimi in cui si sfiorò la catastrofe. Come l'episodio del 26 settembre 1983 quando il tenente colonnello dell'esercito sovietico Stanislav Petrov ebbe dai satelliti la segnalazione di cinque missili intercontinentali partiti dal Montana. In una manciata di secondi doveva decidere: guerra nucleare o no? Qualcuno illuminò la sua mente e lui intuì che non era un attacco, ma poteva essere un errore tecnico. Così non attivò la procedura. Vide giusto e l'umanità fu salva. Per caso... o per intervento del Cielo? Solo due mesi dopo, fra il 2 e l'11 novembre 1983, si ripeté il "miracolo" per l'esercitazione segreta con cui la Nato simulò un attacco nucleare chiamato in codice "Abile arciere". Ma la tensione cresceva sempre più. In questo contesto il 25 marzo 1984, Giovanni Paolo II, a San Pietro davanti alla statua della Madonna di Fatima, compie la consacrazione dicendo fra l'altro: «Dalla guerra nucleare, da un'autodistruzione incalcolabile, da ogni genere di guerra, liberaci!». Suor Lucia, anni dopo - grazie a un'apparizione che ebbe nel 1985 - affermerà che questa consacrazione del 1984 salvò il mondo da una guerra che sarebbe scoppiata proprio nel 1985. È vero? La storia cosa dice? Al Cremlino, Cernenko succede ad Andropov nel febbraio '84. È in corso la crisi degli euromissili. Secondo gli storici lo scontro Nato-Patto di Varsavia tocca il culmine.

L'Urss è in forte crisi, non regge la sfida dello scudo spaziale di Reagan. Di fronte al tracollo economico e alla vulnerabilità militare al Cremlino si valuta la possibilità di attacco "preventivo" all'Occidente. Il generale Akhromejev affermò che in effetti il 1984 fu l'anno più pericoloso. E il 25 marzo 1984 il Papa fa la consacrazione. Verso luglio, quasi di colpo, il Cremlino accantona l'ipotesi bellica, aprendo la strada, nel marzo 1985, a Gorbacev e al suo tentativo di riforma. Perché? Anni dopo si è scoperto il fatto che potrebbe aver determinato questa salvifica svolta. Alberto Leoni, esperto di storia militare, ha raccontato l'"incidente" che mise fuori uso il potenziale militare sovietico nel 1984: l'esplosione dell'arsenale di Severomorsk, nel Mare del Nord. «Senza quell'apparato missilistico che controllava l'Atlantico» spiega Leoni «l'Urss non aveva più alcuna speranza di vittoria. Per questo l'opzione militare fu cancellata». Quell'evento decisivo accadde due mesi dopo la solenne Consacrazione, precisamente il 13 maggio 1984, anniversario e festa della Madonna di Fatima e dell'attentato al Papa. Una coincidenza impressionante. Ma era solo l'inizio. Suor Lucia dirà di quella consacrazione: «Guardate verso Est. La risposta si è vista!». Infatti nel 1989 avvenne l'impensabile: crollò il comunismo. Sia chiaro, ci sono ragioni storiche di tale crollo. Ma tutti ritenevano che un regime come quello sovietico avrebbe agonizzato molto più a lungo e sarebbe finito solo in modo traumatico, violento. Forse con una guerra. Invece implose su se stesso in pochi mesi e - questo è "miracoloso" - senza una sola vittima. Inimmaginabile per quell'impero comunista.

LA BANDIERA ROSSA AMMAINATA

Qualcuno ha lasciato discretamente la "firma" su quel miracolo. Perché l'ufficiale liquidazione dell'Urss avviene nel 1991: l'8 dicembre, festa dell'Immacolata Concezione. La promessa della Madonna a Fatima era stata questa: «alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà». Non solo. Dopo più di 70 anni la bandiera rossa con falce e martello viene ammainata dal Cremlino (sostituita dall'antica bandiera russa) il 25 dicembre 1991, il giorno di Natale della Chiesa cattolica. Non fu la «conversione della Russia» promessa a Fatima, ma di sicuro nella terra di Solzenicyn tornò la libertà religiosa e una certa democrazia. Purtroppo oggi, per una serie disastrosa di errori (anche dell'Occidente), la storia è tornata indietro. L'involuzione autoritaria si è accentuata con l'invasione russa dell'Ucraina decisa da una classe dirigente che proviene dal passato sovietico. Ci troviamo di nuovo con una guerra nel cuore dell'Europa, a un passo da un possibile conflitto mondiale. Per questo papa Francesco torna a implorare la Madonna con una consacrazione solenne ed esplicita della Russia e dell'Ucraina, insieme a tutti i vescovi. Implorerà accoratamente: «Tu, stella del mare, non lasciarci naufragare nella tempesta della guerra». Anche la storia insegna a confidare nell'umile e mite Madre di Gesù. Qualche anno fa il "National Geographic" le dedicò una copertina con un titolo significativo: "«aria. La donna più potente del mondo». Per milioni di cristiani è così. 

Fatima, monisgnor Roche: "Terza guerra mondiale a pezzi. Durante la settimana santa..." Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Il mondo è sull'orlo del precipizio e le notizie della guerra in Ucraina si intrecciano, in Vaticano, con le suggestioni su Fatima e la profezia sulla fine del mondo che da cento anni lega l'Apocalisse alla Russia sovietica prima e post-comunista poi. Anche per questo durante la settimana santa è opportuno rivolgere una preghiera "per tutti i fratelli e le sorelle che vivono l'atrocità della guerra, in particolare in Ucraina". E' il suggerimento di monsignor Arthur Roche, prefetto della congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, che in una lettera a tutti i vescovi del mondo invita "alla prudenza, evitando gesti e comportamenti che potrebbero potenzialmente essere rischiosi" per la pandemia. 

Nelle festività pasquali degli anni passati, segnati dalla difficile situazione della pandemia, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha offerto alcune linee guida per aiutare i Vescovi nel loro compito di valutare le situazioni concrete e di provvedere al bene spirituale di pastori e fedeli nel vivere la Settimana Santa, centro di tutto l'anno liturgico", ricorda il prefetto nella lettera.

"In considerazione del rallentamento della pandemia, seppur con velocità diverse nelle singole Nazioni, non intendiamo offrire altre linee guida per le celebrazioni della Settimana Santa: l'esperienza che le Conferenze Episcopali hanno maturato in questi anni è certamente in grado di affrontare le diverse situazioni nel modo più conveniente, sempre avendo cura di osservare le norme rituali contenute nei libri liturgici. Per tanto ci permettiamo solo di rivolgere a tutti un invito alla prudenza, evitando gesti e comportamenti che potrebbero potenzialmente essere rischiosi. Ogni valutazione e decisione venga sempre presa di concerto con la Conferenza Episcopale, che terrà in debita considerazione le normative che le competenti autorità civili disporranno nei diversi Paesi. In questi giorni più volte il Santo Padre ci ha invitato a pregare chiedendo a Dio il dono della pace per l'Ucraina, perché venga a cessare questa 'guerra ripugnante'. Insieme all'Ucraina vogliamo ricordare anche tutti gli altri conflitti, purtroppo sempre numerosi, in molti paesi del mondo: una situazione che Papa Francesco ha descritto come una terza guerra mondiale a pezzi. Nella celebrazione della Passione del Signore del Venerdì Santo, la liturgia ci invita ad innalzare a Dio la nostra supplica per la Chiesa e per il mondo intero. Nella preghiera universale invocheremo il Signore per i governanti (IX orazione) perché illumini la loro mente e il loro cuore a cercare il bene comune nella vera libertà e nella vera pace, e per quanti sono nella prova (X orazione) perché tutti sperimentino la gioia di aver trovato il soccorso della misericordia del Signore. Fin da subito facciamo nostra questa preghiera per tutti i fratelli e le sorelle che vivono l'atrocità della guerra, in particolare in Ucraina. Ricordiamo che 'in caso di grave necessità pubblica, il vescovo diocesano può permettere o stabilire che si aggiunga un'intenzione speciale' (Missale Romanum, editio typica tertia, p. 314, n. 13). La celebrazione della Pasqua - concude Roche - porti a tutti la speranza che viene solo dalla risurrezione del Signore".

Il Papa e la consacrazione a Maria di Ucraina e Russia: «Liberaci dalla guerra e dalla minaccia nucleare». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

La celebrazione solenne di Francesco a San Pietro: «Abbiamo dimenticato la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di caduti nelle guerre mondiali».

Dopo aver parlato, Francesco rimane a pregare a lungo in silenzio, gli occhi chiusi, la mano destra a coprire il viso. «Dio ha cambiato la storia bussando al Cuore di Maria. E oggi anche noi, rinnovati dal perdono di Dio, bussiamo a quel Cuore. In unione con i vescovi e i fedeli del mondo, desidero solennemente portare al Cuore immacolato di Maria tutto ciò che stiamo vivendo: rinnovare a lei la consacrazione della Chiesa e dell’umanità intera e consacrare a lei, in modo particolare, il popolo ucraino e il popolo russo, che con affetto filiale la venerano come Madre». È il giorno dell’Annunciazione, che il Papa ha scelto per l’ atto di «consacrazione e affidamento» alla Madonna nella Basilica di San Pietro, una preghiera planetaria per la pace che unisce tutte le diocesi del mondo, anche Benedetto XVI segue la cerimonia dal monastero vaticano Mater Ecclesiae. «Non si tratta di una formula magica, ma di un atto spirituale», spiega Francesco. «È il gesto del pieno affidamento dei figli che, nella tribolazione di questa guerra crudele e insensata che minaccia il mondo, ricorrono alla Madre - come i bambini, quando sono spaventati, vanno dalla mamma a piangere, a cercare protezione - gettando nel suo Cuore paura e dolore, consegnando se stessi a lei».

Sia l’Ucraina sia la Russia: la diplomazia spirituale di Francesco, rivolta ai popoli. «In quest’ora l’umanità, sfinita e stravolta, sta sotto la croce con te... Il popolo ucraino e il popolo russo, che ti venerano con amore, ricorrono a te, mentre il tuo Cuore palpita per loro e per tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria». Nell’omelia c’è una frase significativa: «Qualcuno ha detto che un cristiano senza amore è come un ago che non cuce: punge, ferisce, ma se non cuce, se non tesse, se non unisce, non serve. Oserei dire: non è cristiano». Dall’inizio del pontificato, Bergoglio denuncia la «guerra mondiale combattuta a pezzi» in corso, e il rischio che i pezzi finiscano per saldarsi. Nell’atto di consacrazione si prega: «Accogli, o Madre, questa nostra supplica. Estingui l’odio, placa la vendetta, insegnaci il perdono. Liberaci dalla guerra, preserva il mondo dalla minaccia nucleare». Il mondo ha «smarrito la via della pace», si dice: «Abbiamo dimenticato la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di caduti nelle guerre mondiali. Abbiamo disatteso gli impegni presi come Comunità delle Nazioni e stiamo tradendo i sogni di pace dei popoli e le speranze dei giovani. Ci siamo ammalati di avidità, ci siamo rinchiusi in interessi nazionalisti, ci siamo lasciati inaridire dall’indifferenza e paralizzare dall’egoismo».

Francesco si è confessato e poi ha confessato sei fedeli. «Se vogliamo che il mondo cambi, deve cambiare anzitutto il nostro cuore». Nella Basilica c’è il Crocifisso di San Marcello al Corso, che nel 1522 attraversò le strade di Roma perché finisse la «Grande Peste» e la devozione popolare considera miracoloso: lo stesso Crocifisso che il Papa volle con sé due anni fa, il 27 marzo 2020, la sera storica nella quale pregò da solo, in una piazza San Pietro vuota, per chiedere la fine della pandemia. C’è anche la statua della Madonna di Fatima, cui si ricollega l’atto di consacrazione: nel santuario portoghese, in contemporanea, la stessa celebrazione è guidata dal cardinale Konrad Krajewski, già inviato da Francesco in Ucraina. Nell’omelia, il Papa sospira: «In questi giorni notizie e immagini di morte continuano a entrare nelle nostre case, mentre le bombe distruggono le case di tanti nostri fratelli e sorelle ucraini inermi. L’efferata guerra, che si è abbattuta su tanti e fa soffrire tutti, provoca in ciascuno paura e sgomento. Avvertiamo dentro un senso di impotenza e di inadeguatezza». Come Maria davanti all’angelo, nel racconto evangelico dell’Annunciazione, «abbiamo bisogno di sentirci dire “non temere”». Gli uomini, però, non ce la fanno: «Non bastano le rassicurazioni umane, occorre la presenza di Dio, la certezza del perdono divino, il solo che cancella il male, disinnesca il rancore, restituisce la pace al cuore. Ritorniamo a Dio, al suo perdono». Francesco ripercorre il racconto evangelico. «Maria non solleva obiezioni. Le basta quel non temere, le basta la rassicurazione di Dio. Si stringe a Lui, come vogliamo fare noi stasera». La terza frase dell’angelo a Maria è: «Lo Spirito Santo scenderà su di te» Il Papa spiega: «Ecco come Dio interviene nella storia: donando il suo stesso Spirito. Perché in ciò che conta non bastano le nostre forze. Noi da soli non riusciamo a risolvere le contraddizioni della storia e nemmeno quelle del nostro cuore. Abbiamo bisogno dello Spirito d’amore, che dissolve l’odio, spegne il rancore, estingue l’avidità, ci ridesta dall’indifferenza. Quello Spirito che ci dà l’armonia, perché Lui è l’armonia. Abbiamo bisogno dell’amore di Dio perché il nostro amore è precario e insufficiente. Senza amore, infatti, che cosa offriremo al mondo?». Maria risponde all’Angelo: «Avvenga per me secondo la tua parola». Francesco conclude: «Quella della Madonna non è un’accettazione passiva o rassegnata, ma il desiderio vivo di aderire a Dio, che ha “progetti di pace e non di sventura”. È la partecipazione più stretta al suo piano di pace per il mondo. Ci consacriamo a Maria per entrare in questo piano, per metterci a piena disposizione dei progetti di Dio. La Madre di Dio prenda oggi per mano il nostro cammino: lo guidi attraverso i sentieri ripidi e faticosi della fraternità e del dialogo, sulla via della pace».

Papa Francesco e Fatima, perché il Corriere della Sera lo ha "sbianchettato". Renato Farina su Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Per l'opinione pubblica più azzimata e á la page, non solo d'Italia ma del pianeta, è come se non fosse accaduto nulla l'altro ieri in San Pietro e in tutte le chiese cattoliche del mondo. Eppure il Papa venerdì pomeriggio ha investito il suo cuore, la sua testa, la sua autorevolezza morale, la forza organizzativa dei suoi apparati in Vaticano e nei cinque continenti, dovunque esista un prete o anche soltanto un povero battezzato analfabeta, in un gesto «assoluto», quello che più esprime il possesso che Dio gli ha affidato delle chiavi di Pietro. Ha visto la famiglia dei popoli sprofondare nell'abisso e si è posto frammezzo. Travolga me la cattiveria, ma tu Madre di tutti noi, dona luce, ferma la tempesta che travolge gli inermi. Anche per un osservatore non cattolico e non credente sono state, quelle trascorse a tu per tu con una presenza misteriosa e amata, le due ore più drammatiche da quando siede sulla cattedra di Vicario di Cristo. Qualcosa da raccontare con timore e tremore. Invece niente. Perché? Bavaglio, sbianchettamento, banalizzazione.

LA SUPPLICA A MARIA - E dire che in fondo è stato anche l'evento più politico, proprio perché totalmente religioso, e dunque capace di suscitare imprevedibili iniziative di pace, si chiama potenza dello Spirito, che è invisibile e soffia dove vuole. Forse conta persino più di una telefonata di Macron, che ne fa mille, tutte senza sugo, ma raccontate come se fosse appeso al suo filo il destino delle genti. Forse il giornale unico collettivo, almeno quello dominante, non gradisce si corra in fretta verso la fine delle ostilità ascoltando la strada della diplomazia costi quel che costi promossa dal Papa? Ha messo «tutto a disposizione», anzitutto sé stesso, offrendo il luogo per la trattativa, in Vaticano o in qualunque nunziatura, lui presente oppure no. Tutto per fermare la guerra tra due popoli cristiani che lui profetizza, sa, teme, non vuole credere porti ad un conflitto nucleare. Ha scritto due pagine di supplica alla Vergine, le ha fatte tradurre in 35 lingue, facendole giungere a ogni vescovo dell'Orbe. Ha scelto la strada strana di Gesù. La moneta di Cesare porta alla morte. È il tempo di usare un'altra moneta. Non è stato capito, e perciò è stato censurato? Oppure è stato cancellato, trasferito tra le notizie da «periferia esistenziale», proprio perché è stato compreso fin troppo bene? Da molto vicino a papa Francesco mi è stato risposto: «La seconda che hai detto». Stupore e delusione restano. Ma era prevedibile. Infine il Pontefice argentino ha constatato che quando abbandona il linguaggio politicamente corretto e usa le parole della «follia» cristiana, allora gli si applica quella che lui stesso ha definito «la cultura dello scarto». E questo proprio soprattutto in Italia, e nella sua Roma, dove tutti i detentori delle reti di comunicazione gli rendono omaggio e amplificano atti e parole: ma stavolta no. Silenzio quasi universale. La consacrazione dell'umanità intera, e in special modo di Russia e Ucraina, al Cuore Immacolato di Maria, perché «cessi la guerra efferata» e sia allontanata la minaccia di un'ecatombe nucleare, è stata trattata come fosse una folcloristica danza intorno a un totem goffamente femminile, come si faceva nelle società arretrate contro la siccità, una roba vintage.

LO SGARBO DEL CORRIERE - Breve elenco: il Corriere della Sera non dedica all'evento non dico un pezzettino di prima pagina ma neppure un articolo di cronaca. Quasi sia stato il rito di un parroco démodé, buono per i bollettini parrocchiali. Anzi, il quotidiano di via Solferino fa un incredibile sgarbo al Papa. Pur di sigillare l'interpretazione di un Vaticano belligerante contro Putin, fornita nei giorni scorsi da un «retroscena» di Massimo Franco che favoleggiava di un cambio di atteggiamento di Bergoglio, che finalmente si sarebbe convinto della necessità di armare la resistenza, dopo un presunto periodo filo-putiniano; ieri il Corriere ha insistito facendo indossare la mimetica al Vaticano. Davanti al grido muto di Francesco in San Pietro non si limita alla censura, ma gli contrappone di fatto il cardinale Pietro Parolin. Il quale ha avuto il merito qualche giorno fa di rivendicare il diritto del popolo ucraino alla legittima difesa. Lo dice il catechismo. E c'è una parte degli apparati ecclesiastici che preferisce sottolineare questi aspetti piuttosto che l'«addio alle armi» di Bergoglio. Aldo Cazzullo - ovviamente ignaro dell'uso politico del suo articolo - scrive con sacrosanta passione della resistenza indomita ed esemplare di Kiev e la esalta insieme alla figura del segretario di Stato di Sua Santità. Perfetto. Equilibrato. Ma la direzione non dà spazio, lo ripeto perché non riesco a crederci, nemmeno di sguincio, con un titolo, un commentino, alla richiesta di pace alla maniera del Papa. Non è mainstream ma siccome è pur sempre il Sommo Pontefice, non si può polemizzare, meglio nascondere. Vale anche- questo deporre il Papa nel sottoscala come una vecchia scopa - per il Tg1. La Stampa, il Qn (Resto del Carlino,Nazione, Giorno), Sole 24 Ore, persino il Messaggero (incredibilmente per il quotidiano romano) non si sognano di richiamare sulle loro prime pagine il monito-supplica del Papa al Cielo ma anche ai potenti di questa terra.

«INUTILE STRAGE» - E dire che era impossibile equivocare sulla volontà di Bergoglio. Nessun sostegno all'invasione e alla «guerra efferata» scatenata da Putin. Con chiarezza venerdì il Papa ha indicato che la vittima è il popolo ucraino. Però ha mostrato una delusione palpabile nei confronti delle strategie messe in atto da tutti i responsabili delle nazioni, colpevoli di vedere solo nella deterrenza con il coltello tra i denti il modo di fermare la corsa alla distruzione del mondo intero. Si può e si deve discutere se sia utopistica la via francescana sine glossa proposta dal Pontefice. Ma almeno va preso sul serio. Anche quando giudica «follia» l'incremento degli investimenti militari decisi in Italia. Eppure tutti i Papi è da almeno un secolo che ripetono inascoltati le medesime parole sull'«inutile strage» e domandano di far tacere i cannoni perché le guerre non risolvono ma aggravano irreparabilmente i guai dell'umanità. Per questo il Pontefice non nomina né tantomeno insulta Putin - il quale ha rifiutato la mediazione di Francesco, che correrebbe da lui anche domattina- vuole tenere aperto comunque uno spiraglio. Ed è deluso dai capi delle potenze occidentali che non sanno o non vogliono trovare quella crepa nel muro ideologico di Putin che lo faccia sedere a un tavolo di pace.

Papa Francesco, la profezia di Fatima sulla fine del mondo: cosa c'è dietro la mossa (e chi è davvero Bergoglio). Renato Farina su Libero Quotidiano il 17 marzo 2022.

Dev'essere impazzito. I quotidiani più importanti d'Italia e del mondo devono essersi passati questo messaggio per telepatia. E nessuno ha voluto la notizia in prima pagina. Consacrazione? Cuore Immacolato? Sarebbe questa l'alta strategia papale per la pace? Ovvio sia stata giudicata laicamente irrilevante. Persino nociva per l'immagine di un Papa fino a un attimo prima idolatrato perché sensato, conforme al pensiero politically correct. In realtà è da circa un anno, che Bergoglio ha cambiato registro e si è allontanato dal linguaggio trendy dei circoli progressisti parigini e newyorchesi: ha predicato contro il gender, spiegato che l'aborto è come ingaggiare un killer, criticato la globalizzazione e il governo mondiale che schiaccia i popoli e li omologa. Da un anno conferma gli insegnamenti di Montini-Wojtyla-Ratzinger, ma si poteva lasciar passare, alla fine ci avrebbero pensato i cardinali tedeschi a raddrizzarlo. Ma stavolta no, e i tenutari del giornale unico mondiale hanno deciso: non è più lui, non può essere Francesco quello che invece di telefonare a Biden, Putin, Xi, Zelenski, Macron (il quale ultimo - sia detto tra parentesi ha telefonato a tutti, forse anche al sottoscritto, ma non al vescovo di Roma forse perché non ha puntato il dito contro nessuno); non può essere Francesco il Papa che per ottenere la pace e far rinfoderare i missili ipersonici nucleari propone «la consacrazione di Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria».

LE PAROLE - Ha usato proprio queste parole identiche a quelle di tutti i papi del XX secolo. Soprattutto non le ha buttate lì, essendo il Pontefice romano, come condimento cattolico a un ragionamento geopolitico mondano. No. Per lui la geopolitica celeste, il riferimento a un Dio che si è incarnato attraverso una ragazza ebrea, è l'ultima risorsa dell'umanità quando l'orrore della guerra ha spezzato le dighe della ragione, e la storia obbedisce a istinti che stanno per condurre più in là dell'abisso. Invece di radunare un vertice tra potenti, convoca l'umanità a guardare alla «Vergine Madre» (Dante) per domandare il miracolo. Chiede a chi vuole e può di unirsi dalle proprie dimore il 25 marzo a lui in San Pietro o al suo cardinale elemosiniere a Fatima, nella richiesta che la salvezza venga dall'alto, da una giovane donna dal cuore puro. Ma dai? Sul serio? Via dalle prime pagine. Una notiziola di colore. Colore da madonnaro, ovvio. Ancora non ci si crede. Possibile che consacrarsi al cuore di Maria sia la risorsa più razionale che un Papa sveglio e à la page come Bergoglio può escogitare? Ma certo. È questo il cristianesimo romano e apostolico, in fondo così umano: resta solo da chiedere l'impossibile a chi l'impossibile ha sperimentato. Implorare l'impossibile - cioè la pace dalla donna che duemila anni fa recepì perfettamente il discorso dell'Angelo Gabriele che le rivelava l'assurdo destino cui era chiamata. Lei credette, perché «nulla è impossibile a Dio». E lei nei millenni ne è stata è il riflesso popolare. Fino alla chiarezza estrema del messaggio di Fatima del 13 maggio 1917 a Francesco, Giacinta e Lucia, di professione apprendisti pastori. Si noti: il 1° agosto di quell'anno Benedetto XV inviò la lettera in cui definì «inutile strage» da far cessare subito quella guerra, insensata come tutte.

NOTIZIA NASCOSTA - Rivolgersi al Cuore Immacolato come chiedeva la Madonna a Fatima, consacrare la Russia. Certo, tutto questo è suscettibile di disagi politici, di nervosismi degli apparati, ma trattasi di errore di prospettiva. Non è questo il punto che Pio XII (che ha ufficializzato la festa del Cuore Immacolato il 25 marzo, giorno del concepimento di Cristo), Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno sistematicamente rivendicato: quando l'essere umano (me e te) è onesto con sé stesso riconosce che la sua natura autentica è di essere bisognoso, il nulla incombe su di lui, e allora anche da ateo deve essere mendicante e chiedere il silenzio dei cannoni, il sorriso dei bambini e dei vecchi, il desinare povero ma sereno delle famiglie, a quella creatura «umile e alta» che nei millenni è stata ed è ancora «di speranza fontana vivace» (ancora la Divina Commedia, XXXIII canto del Paradiso, ci soccorre). E così solo tre giornali nel mondo, a quanto ci risulta, hanno dato un risalto cosmico, da prima pagina, alla decisione del Papa che sintetizziamo con il titolo dell'Osservatore Romano di ieri pomeriggio: «Il 25 marzo il Papa consacrerà Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria» (oltre a Libero, anche Avvenire).

Capiamo lo sconcerto. Francesco non sembra più il Bergoglio dei movimenti popolari che inventa slogan rivoluzionari sostenendo i limiti della proprietà privata, il diritto degli sfruttati a ribellarsi. Di colpo è uguale, identico, sia pure con il suo modo dolce e familiare di parlare a tutti i Papi degli ultimi cento anni. Hanno un bel dire che la novità di questo Papa è il saper usare un linguaggio perfetto per il mondo d'oggi. Molto laico. Molto politico. La sinistra lo ritiene il suo leader mondiale per la dottrina sociale. Da destra lo si critica esattamente per questo. Ed ecco che dice alcune parole fuori squadra, dirette direttissime verso il cielo, antiche e comprensibili a chiunque. Il cuore chi non sa cosa sia, ben al di là della sua funzione di pompa: è il tutto della coscienza. Immacolato significa ovviamente senza macchia, ma la macchia è l'ombra che ci penetra anche nei momenti più teneri. Consegnandosi a quel cuore, significa essere accarezzati e perdonati come figli. E questo ce lo dice proprio Francesco che aveva definito la Madonna «influencer» per compiacere i giovani, mentre adesso non esita a ricalcare il messaggio di Fatima. Forse in modo ancora più netto dei predecessori. A Fatima la Madonna aveva chiesto espressamente questa consacrazione della Russia, in unione a tutti vescovi, altrimenti avrebbe diffuso «i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte».

GIOVANNI PAOLO II - Nel 1984 san Giovanni Paolo II usò queste parole: «O Madre degli uomini e dei popoli, Tu che conosci tutte le loro sofferenze e le loro speranze, Tu che senti maternamente tutte le lotte tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, che scuotono il mondo contemporaneo, accogli il nostro grido che, mossi dallo Spirito Santo, rivolgiamo direttamente al Tuo Cuore: abbraccia con amore di Madre e di Serva del Signore, questo nostro mondo umano, che Ti affidiamo e consacriamo, pieni di inquietudine per la sorte terrena ed eterna degli uomini e dei popoli. In modo speciale Ti affidiamo e consacriamo quegli uomini e quelle nazioni, che di questo affidamento e di questa consacrazione hanno particolarmente bisogno». Ora Francesco precisa: Russia e Ucraina. La nostra Russia e la nostra Ucraina. Non è in ritardo. Ma è l'ultima ora probabilmente. Benedetto XVI, che scelse il nome di Benedetto anche in onore del predecessore con il medesimo nome, visitò imprevedibilmente Fatima nel maggio 2010. Pregò e pregò. Poi sostenne due cose con i giornalisti: che il famoso e cosiddetto terzo segreto non aveva esaurito la sua minaccia, ma che comunque alla fine «la misericordia è più forte». PS: nel tardo pomeriggio di ieri c'è stata una videochiamata tra Francesco e il patriarca Kirill di Russia. Buon segno.

Papa Francesco, la profezia di Fatima: attenzione al 25 marzo, perché la fine del mondo potrebbe essere vicina. Andrea Morigi Libero Quotidiano il 16 marzo 2022.

O la Russia si converte oppure ci porta diritti verso la fine del mondo. Papa Francesco ne è così convinto da annunciare che il prossimo 25 marzo, durante la celebrazione della Penitenza che presiederà alle ore 17 nella Basilica di San Pietro, consacrerà all'Immacolato Cuore di Maria la Russia e l'Ucraina. Se non fosse sufficiente a chiarire la sua intenzione, «lo stesso atto, lo stesso giorno, sarà compiuto a Fatima dal cardinale Krajewski, Elemosiniere di Sua Santità, come inviato del Santo Padre», fa sapere il portavoce della Santa Sede, Matteo Bruni. Il villaggio portoghese di Fatima è quello scelto nel 1917 dalla Madonna, proprio in coincidenza con lo scoppio della Rivoluzione sovietica, per comunicare una profezia apocalittica: «Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre».

L'esito finale non è considerato inevitabile. Come in molte altre circostanze della storia biblica, l'ira del Padreterno può essere trattenuta, anche se a talune condizioni. I tre pastorelli Lucia, Giacinta e Francisco, ai quali viene affidato il messaggio lo riportano così: «Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati». Obbedirle, in teoria, sembra piuttosto semplice. In realtà, se è vero che da oltre un secolo molti cattolici si accostano all'Eucaristia per cinque volte consecutive il primo sabato di ogni mese, la prima azione sembra invece aver trovato negli scorsi decenni ostacoli di ogni sorta. Ai tempi del comunismo, si temeva che bastasse una preghiera per far arrabbiare l'Urss e di offendere le gerarchie ortodosse del Patriarcato di Mosca. Benché le gerarchie del Pcus fossero ufficialmente atee e teoricamente indifferenti ai richiami soprannaturali, la minaccia era chiara: se ci provate, tutti i cristiani finiscono a crepare nel GULag in Siberia. Comunque ci finivano lo stesso tutti quelli che non si piegavano al totalitarismo marxista. Compreso Giovanni Paolo II, a cui spararono in piazza San Pietro proprio il 13 maggio 1981, ma che si convinse di essere sopravvissuto perché, nella ricorrenza del primo messaggio di Fatima, la Madonna deviò la pallottola. E quel proiettile ora è stato fuso nella corona della Vergine nel santuario di Fatima. Tanto valeva provarci. Tanto più ora, visto che, come aveva spiegato Benedetto XVI a Fatima nel 2010, «si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa».

LE RICHIESTE

La Chiesa quindi è convinta che sia accaduto qualcosa di provvidenziale e che la Regina del Rosario avesse già previsto un accoglimento incerto delle sue richieste. e aveva preparato la contromossa: «Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; seno, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte». L'unico scenario non ipotetico, tracciato nel messaggio è di speranza in un tempo storico in cui a regnare sarà la Madre di Dio: «Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace». È quello che il Santo Padre si appresta a fare in occasione della memoria liturgica dell'annunciazione dell'angelo a Maria e dell'incarnazione di Gesù Cristo. Come un'extrema ratio, un rimedio a cui si ricorre quando non si ha più nulla da perdere e non c'è più altro da fare. Pare che a convincere il Pontefice siano stati i vescovi ucraini di rito latino. Il 2 marzo scorso, sul sito della conferenza episcopale cattolica romana di Kiev era apparso un appello che recitava: «imploriamo umilmente Vostra Santità di compiere pubblicamente un atto di dedicazione al Santissimo Cuore Immacolato di Maria dell'Ucraina e della Russia, come richiesto dalla Santissima Vergine a Fatima. La Madre di Dio, Regina della Pace, accolga le nostre suppliche: Regina pacis, ora pro nobis!». Tradotto così, "dedicare" suona esattamente come "consacrare".

I SEGRETI

In oltre un secolo in cui si è abbondantemente e complottisticamente fantasticato sui "segreti" di Fatima, attribuendo significati occulti a quella che la Chiesa considera una rivelazione privata e non un elemento fondamentale della fede cattolica, fra gli interpreti del messaggio vi era chi aveva avuto dubbi sull'effettiva validità delle varie formule pronunciate dai Papi dopo le apparizioni di Fatima. In effetti, le modalità che sarebbero state precisate in seguito riguardavano il Vescovo di Roma in unione a tutti i confratelli nell'episcopato. E non tutti erano stati sempre pronti, concordi o disposti a quel gesto. Ma quando, nel giugno del 2000, la Santa Sede ha rivelato la terza parte del segreto di Fatima, l'allora segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, Tarcisio Bertone sottolineò che suor Lucia, in una lettera del 1989, aveva confermato personalmente che l'atto solenne e universale di consacrazione corrispondeva a quanto voleva la Madonna: "Sì, è stata fatta - aveva scritto la veggente - così come Nostra Signora l'aveva chiesto, il 25 marzo 1984". Ed evidentemente va anche ripetuta. 

L’ultima profezia di Fatima: «Ci sarà una guerra catastrofica».  Redazione su ilroma.net Lunedì 14 Febbraio 2022

Ore d’ansia peri i venti di guerra di questi giorni. E già tanti cercano un legame con i segreti della Madonna di Fatima.

Cosa dice, cosa rivela il terzo segreto di Fatima che la Madonna rivelò a Suor Lucia? Il terzo segreto è molto, e parla anche di una guerra catastrofica, un fortissimo terremoto che durerà 8 ore e non bisognerà uscire di casa, evitando di fare entrare gente sconosciuta.

La Madonna rivela una guerra nucleare

La Madonna rivela una guerra nucleare, un immenso terremoto e 3 giorni di buio sulla Terra.

L’ultima profezia di Fatima: «Non uscite di casa ci sarà un grande terremoto»

L’ultima profezia di Fatima: «Non uscite di casa, ci sarà un grande terremoto, città e villaggi rasi al suolo»

Svelata una lettera con la drammatica visione di suor Lucia: «Vedo la terra scuotersi e tremare, città e villaggi sepolti, rasi al suolo, inghiottiti, montagne di gente indifesa, vedo i fiumi e i mari che trabordano e inondano e le anime che dormono il sonno della morte»

Nel libro Fatima. Tutta la verità, scritto da Saverio Gaeta per le Edizioni San Paolo (240 pagine, 15 euro), si trova la più aggiornata e completa inchiesta sulla storia e il messaggio delle apparizioni ai tre pastorelli portoghesi. Pubblichiamo in esclusiva l’anticipazione che riguarda uno dei temi più significativi e attuali: quello relativo all’ ipotesi di un testo scritto da suor Lucia in allegato al cosiddetto “terzo Segreto”, che ne spiegherebbe con chiarezza la visione e la profezia. Le apparizioni di Fatima furono sei e si susseguirono mensilmente fra il 13 maggio e il 13 ottobre 1917, sempre in presenza di Lucia e dei suoi cuginetti Francisco e Jacinta, proclamati beati nel 2000 (anche per suor Lucia è in corso il processo di beatificazione).

Come riporta Famigliacristiana.it, il 13 luglio ci fu la rivelazione di un Segreto diviso in tre parti: le prime due vennero rese note nel 1942, mentre l’ultima è stata comunicata soltanto nel 2000, per decisione di papa Wojtyla, con un commento dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, che all’ epoca ricopriva l’incarico di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. La prima e la seconda parte del Segreto contengono la spaventosa visione dell’inferno, la devozione al Cuore Immacolato di Maria, la Seconda guerra mondiale e i problemi causati al mondo dalla Russia e dall’ ateismo comunista. La terza propone l’immagine delle sofferenze della Chiesa e del Papa, nel quale si riconobbe Giovanni Paolo II. Ma diversi accenni, fatti in passato da personalità ecclesiastiche che avevano letto integralmente il terzo Segreto, non coincidono con il testo reso pubblico, avallando l’idea che motivi prudenziali abbiano fatto mantenere riservata una parte dello scritto di suor Lucia. 

Fu sostanzialmente il timore che Lucia potesse morire senza aver comunicato a nessuno la terza parte del Segreto a spingere il vescovo di Leiria, monsignor José Alves Correia da Silva, durante la visita che le fece il 15 settembre 1943 e la lettera che le inviò il 15 ottobre successivo, a chiederle per obbedienza di mettere tutto per iscritto. In effetti in quei mesi la veggente (ultima sopravvissuta dei tre pastorelli, ndr), aveva seri problemi di salute e dovette anche subire un’operazione chirurgica alla gamba, a causa di un’infezione che la debilitò molto.

Quando le forze glielo permisero, provò a eseguire l’ordine per ben cinque volte, fra novembre e dicembre, senza risultati: «Non so che cos’ è, ma, nel momento in cui tento di accostare la penna alla carta, la mano si mette a tremare e non sono capace di scrivere neanche una parola: mi sembra che non sia nervosismo naturale, perché, nel momento in cui mi metto a scrivere una cosa differente, la mia mano è ferma. Mi sembra che non sia nemmeno timore morale, perché la mia coscienza agisce secondo la fede, e credo che sia Dio che mi dice di farlo tramite sua eccellenza. Allora non so che fare».

Il 3 gennaio 1944 avvenne la risolutiva svolta, chiarita soltanto di recente con la scoperta degli scritti inediti di suor Lucia: «Mi inginocchiai vicino al letto che, a volte, mi serve da tavolo per scrivere, e provai di nuovo, senza riuscire a fare niente; quello che più mi impressionava era che riuscivo a scrivere senza difficoltà qualsiasi altra cosa. Chiesi allora alla Madonna che mi facesse sapere qual era la volontà di Dio. E mi diressi alla cappella. Sentii allora che una mano amica, affettuosa e materna mi toccava la spalla, sollevai lo sguardo e vidi la cara Madre celeste».

L’ indicazione della Vergine fu precisa: «Non temere, poiché Dio ha voluto provare la tua obbedienza, fede e umiltà; stai serena e scrivi quello che ti ordinano, tuttavia non quello che ti è dato intendere del suo significato. Dopo averlo scritto, mettilo in una busta, chiudila e sigillala e fuori scrivi “che può essere aperta nel 1960 dal cardinale patriarca di Lisbona o dal vescovo di Leiria”». 

In quel momento Lucia ebbe una nuova visione interiore: «Sentii lo spirito inondato da un mistero di luce che è Dio e in Lui vidi e udii: - la punta della lancia come una fiamma che si allunga fino a toccare l’ asse terrestre; - e questa sussulta: montagne, città, paesi e villaggi con i loro abitanti vengono sepolti; - il mare, i fiumi e le nubi escono dagli argini, debordano, inondano e trascinano con sé in un vortice un numero incalcolabile di case e persone: è la purificazione del mondo dal peccato in cui si è immerso; - l’ odio, l’ ambizione provocano la guerra distruttrice!; - quindi nel palpito accelerato del cuore e nel mio spirito udii risuonare una voce soave che diceva: “Nel tempo, una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, santa, cattolica, apostolica. Nell’ eternità, il Cielo!”. Questa parola “Cielo” riempì la mia anima di pace e felicità, a tal punto che, quasi senza rendermene conto, continuai a ripetere a lungo: “Il Cielo! Il Cielo!”. Non appena passò quella soverchiante forza soprannaturale, mi misi a scrivere e lo feci senza difficoltà, il giorno 3 gennaio 1944, in ginocchio, appoggiata sul letto che mi servì da tavolo».

Indubbiamente le frasi che si leggono nel diario di Lucia del 3 gennaio risultano molto forti e drammatiche, con le immagini delle acque che debordano e uccidono. Però, mentre qui si trattava di fogli personali, già in una lettera di ben sei anni prima la veggente aveva descritto immagini ancor più intense e sconvolgenti. Infatti, sul finire del 1937, il vescovo Correia da Silva inviò a Lucia, per verificare che il contenuto fosse esatto, la bozza della biografia su Jacinta scritta da José Galamba de Oliveira, pubblicata in prima edizione nel maggio del 1938. Nella lettera di risposta, la veggente non suggerì particolari modifiche, ma piuttosto approfittò della circostanza per lasciarsi andare a un’intima confessione con il vescovo di Leiria, parlando di particolari che si intuiscono correlati al Segreto, soprattutto in relazione all’ immagine della «luce immensa che è Dio» presente anche nella “terza parte” rivelata.

Innanzitutto un auspicio: «Se solo il mondo riconoscesse il momento di grazia che ancora gli è concesso e facesse penitenza»; quindi la confidenza: «Vedo, nella luce immensa che è Dio, la terra scuotersi e tremare dinanzi al soffio della Sua voce: città e villaggi sepolti, rasi al suolo, inghiottiti; montagne di gente indifesa; vedo le cataratte fra tuoni e lampi, i fiumi e i mari che trabordano e inondano e le anime che dormono il sonno della morte!...» (e la frase si conclude con dei puntini sospensivi, simili a quell’ «ecc.» che si legge al termine della “seconda parte” del Segreto, dopo l’annotazione sul Portogallo e la fede). 

"Quando il mondo chiederà pace e sicurezza e rimpianti per tutto il male che ha fatto, l’improvvisa distruzione della nuova armagedon è arrivata e soffriranno".

Queste sono state le profezie della vergine di Fatima quando sono comparsi tre bambini nel 1917 e ha detto che in queste date del 2005 sarebbe finita. 

Lucia aveva solo 10 anni quando avvennero le apparizioni, iniziate il 13 maggio 1917. Lucia e i suoi due cugini videro la Vergine Maria su un albero per un periodo di sei mesi.

La religiosa carmelita Lucia del Cuore Immacolato, ultima sopravvissuta dei tre bambini che hanno garantito di vedere la Vergine Maria nella località portoghese di Fatima, deceduta all’età di 97 anni febbraio 14, 2005. Morì nel convento di Coimbra dove viveva dal 1948.

Questo messaggio è stato letto da Papa Giovanni Paolo II che ha deciso di non rivelare questo segreto perché ha considerato che facendolo avrebbe portato al mondo panico e disperazione.

Ora viene rivelato un’altra parte di questo messaggio. 

NON PER CAUSARE IL PANICO, MA PERCHÉ SI CONSIDERA CHE LE PERSONE SONO GIÀ PREPARATE A CONOSCERLO E POSSONO PRENDERE COSCIENZA DI QUELLO CHE SI AVVICINA NELLE PROSSIME DATE.

La sorella Lucia ha diffuso il messaggio prima di tutto a Papa Giovanni Paolo II, che al termine di leggerlo stava tremando e ha deciso di non renderlo pubblico per paura della reazione.

La vergine ha detto testualmente a Lucia: "Non aver paura, piccola mia. Sono la Madre del Cielo, che ti parla e ti chiede di rendere pubblico questo messaggio al mondo intero.

Facendo questo troverai forti resistenze.

Ascoltate bene e fate attenzione a quello che dico: gli uomini devono essere corretti. Con umili suppliche, dovete chiedere perdono per i peccati commessi e che potete commettere. Vuoi che ti dia un segnale affinché ognuno accetti le mie parole che, dal tuo intermediario, dico al genere umano. Hai visto il prodigio del sole e tutti, credenti, miscredenti, contadini, cittadini, saggi, giornalisti, laici, preti, lo hanno visto tutti.

Una grande punizione cadrà sul genere umano intero, non oggi né domani, ma nella seconda metà del XX secolo. L ‘ avevo già rivelato ai bambini Melania e Maximino, in ′′ la Salette “, e oggi lo ripeto a te perché il genere umano ha peccato e ha calpestato il dono che gli concede. Da nessuna parte del mondo esiste l’ordine e Satana regna sulle più alte postazioni determinando il piano delle cose.

′′ poiché gli uomini sono guidati dal demonio, seminando odio e vendetta ovunque

Gli uomini fabbricano armi mortali che possono distruggere il mondo in pochi minuti.

Metà dell’umanità può essere spaventosamente distrutta

Ci saranno conflitti tra ordini religiosi

Dio consentirà a tutti i fenomeni naturali come fumo, grandine, freddo, acqua, fuoco, riempimenti, terremoti, tempo inclemente, disastri terribili e inverni estremamente freddi come quelli di questi tempi di finire con la terra poco a poco,

Ci saranno malattie senza cura, la gente prende in giro i santi e la chiesa.

Ci saranno omicidi fuori controllo, la gente si ucciderà a vicenda, molte persone soffriranno.

Alcuni fenomeni naturali avverranno prima del 2005 e continueranno da lì in poi con maggiore intensità e distruzione, il clima cambierà improvvisamente, clima estremo.

Non sopravviveranno, mancanza di carità verso il prossimo e non amatevi l’un l’altro come mio figlio li ha amati.

Molti vorranno essere tra i morti, poiché milioni di persone perderanno la vita in pochi secondi e soffriranno troppo, arriveranno nuove forme di vita e contribuiranno alla distruzione per ottenere più potere per loro e procreare la loro nuova razza.

Le punizioni davanti a noi sulla Terra sono inimmaginabili, ma arriveranno senza dubbio.

Dio aiuta il mondo, ma chi non di testimonianza di fedeltà e fedeltà verso El sarà distrutto in modo irrimediabile, poiché molti gli hanno già voltato le spalle e lui non può fare nulla di fronte a questo ′′

Padre Agostino, che risiede a Fatima, ha ricevuto il permesso da Papa Paolo VI, di visitare la sorella Lucia.

Il padre Agostino esprime che lei lo ha ricevuto molto congoiato, con le lacrime agli occhi gli ha detto:

′′Padre, la Madonna è molto triste perché nessuno si è interessato alla sua profezia del 1917, alla gente non interessa questa profezia.

Così, mentre i buoni devono percorrere una strada stretta; i cattivi stanno percorrendo un sentiero ampio che li porta direttamente alla distruzione e credi, padre, che la punizione arriverà molto presto a partire dal 2006 e arriverà senza potersi fermare.

Molte anime possono perdersi e molte nazioni e stati scompariranno dalla Terra; il mondo può essere perso per sempre.

È giunto il momento per tutti di trasmettere il messaggio di Nostra Signora ai suoi familiari, ai suoi amici e al mondo intero.

Siamo vicini all’ultimo minuto, all’ultimo giorno e la catastrofe sta arrivando.

(ATTENZIONE) CHE CI ASPETTI?

Ovunque si parla di pace e sicurezza, ma la punizione arriverà senza nulla che possa fermarlo.

UNA GUERRA SENZA precedenti  PROVOCERÀ UNA DISTRUZIONE NUCLEARE.

Questa guerra può distruggere tutto, sarà un disastro.

L ‘oscurità cadrà poi su di noi per 72 ore (3 giorni) e la terza parte che sopravviverà a queste 72 ore di buio e sacrificio; inizierà a vivere in una nuova era.

In una notte molto fredda, 10 minuti prima di mezzanotte

Segreti di Fátima. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

I Segreti di Fátima sono, secondo la Chiesa cattolica, tre messaggi rivelati dalla Madonna a tre pastorelli nel corso di alcune apparizioni iniziatesi il 13 maggio 1917 a Fátima in Portogallo. I pastorelli erano i bambini Lúcia dos Santos di 10 anni, Francisco Marto di 9 anni e Jacinta Marto di 7 anni.

Bisogna precisare che, nonostante si parli sempre di tre segreti, il Segreto di Fatima è considerato dai credenti un'unica rivelazione, divisa in tre parti. Secondo la dottrina cattolica questo fenomeno appartiene alla categoria delle rivelazioni private.

Secondo le memorie scritte dalla mistica Suor Lúcia, nei primi giorni del luglio 1917 la Madre Vergine rivelò ai tre infanti un segreto che "sarebbe stato buono per alcuni e negativo per altri".. Con la terza parte delle sue memorie, pubblicate nel 1941, Lúcia spiegò che il segreto è uno solo, ma formato da tre momenti.

Questo fatto accomuna i Tre Segreti di Fatima e madre Lucia con Mélanie Calvat di La Salette, i cui resoconti delle visioni furono pubblicati venti anni dopo gli eventi .

Storia dei Segreti di Fátima

La storia dei Segreti di Fátima inizia il 13 luglio 1917, quando i tre bambini riferirono di aver incontrato per la terza volta la Madonna. Nel 1919 morì Francisco, seguito da sua sorella Jacinta nel 1920, a causa dell'influenza spagnola, cosicché Lúcia divenne l'unica testimone vivente.

Nel 1941, su invito del vescovo di Leiria monsignor José Alves Correia da Silva, Suor Lucia scrisse che l'unico segreto che le era stato rivelato il 13 luglio di 24 anni prima era in realtà diviso in tre parti, di cui la terza non poteva essere ancora svelata. Di conseguenza comunicò al vescovo solo le prime due parti del segreto, che furono rese pubbliche da Pio XII nel 1942, in occasione della consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria.

La terza parte del segreto venne scritta il 3 gennaio 1944, per essere poi affidata in busta chiusa a mons. Correira, che a sua volta la consegnò a papa Pio XII. Il terzo segreto, secondo le raccomandazioni della Madonna stessa, avrebbe dovuto essere letto e rivelato solo nel 1960.

Giovanni XXIII, che lo lesse nell'agosto del 1959, ritenne opportuno non rivelarlo; stessa decisione fu presa da Paolo VI, che lesse il testo nel 1965. Fu papa Giovanni Paolo II, in occasione della beatificazione di Jacinta e Francisco il 13 maggio 2000, a divulgare il contenuto del segreto.

I tre segreti

I tre segreti sarebbero un unico messaggio, diviso in tre parti.

Riguardo al primo, suor Lucia scrive che la Madonna mostrò ai tre pastorelli:

«[...] un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco, i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana che fluttuavano nell'incendio [...]. I demoni si riconoscevano dalle forme orribili e ributtanti di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti e neri. Questa visione durò un momento. E grazie alla nostra buona Madre del Cielo, che prima ci aveva prevenuti con la promessa di portarci in Cielo (nella prima apparizione), altrimenti credo che saremmo morti di spavento e di terrore.»

In pratica, la prima parte del segreto parla della visione dell'inferno. Suor Lúcia, scrive di "un grande mare di fuoco, con demoni e anime", citando le parole della Madonna:

«Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace.»

Suor Lucia disse di riconoscere il "grande segno" nella straordinaria aurora boreale che illuminò il cielo nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1938 (dalle 20:45 all'1:15, con brevi intervalli), inoltre identificò il secondo conflitto mondiale con quello annunciato nella visione, descrivendolo come «Una guerra atea, contro la fede, contro Dio, contro il popolo di Dio. Una guerra che voleva sterminare il giudaismo da dove provenivano Gesù Cristo, la Madonna e gli Apostoli che ci hanno trasmesso la parola di Dio e il dono della fede, della speranza e della carità, popolo eletto da Dio, scelto fin dal principio: "la salvezza viene dai giudei"»

In realtà, la Seconda Guerra Mondiale scoppiò il 1º settembre 1939, durante il pontificato di papa Pio XII, essendo il suo predecessore Pio XI, nominato nella profezia, morto il 10 febbraio 1939. Inoltre la profezia fu rivelata da suor Lucia solo nel 1941, dopo l'inizio del conflitto stesso. Ma suor Lucia affermò che la Seconda Guerra Mondiale era iniziata, in realtà, durante il pontificato di Pio XI, con l'annessione dell'Austria da parte della Germania nazista.

Il terzo segreto venne scritto separatamente da suor Lucia, nella lettera consegnata nel 1944 al vescovo di Leiria:

«Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa, che è Dio, ("qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti") un vescovo vestito di bianco, ("abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre") insieme a vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo, con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce, venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.»

Il terzo segreto, rivelato solo nel 2000, secondo l'allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, si riferirebbe alla Penitenza e al sacrificio dei martiri della Chiesa.

Rivelazioni successive

Anche dopo gli eventi del 1917, suor Lúcia ebbe altre rivelazioni.

Nel suo scritto "Memorie di Suor Lucia"[9], lei stessa rivela i dettagli, ricevuti il 13 giugno 1929:

«Poi la Madonna mi disse: «È arrivato il momento in cui Dio chiede che il Santo Padre faccia, in unione con tutti i Vescovi del Mondo, la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato, promettendo di salvarla con questo mezzo. Sono tante le anime che la giustizia di Dio condanna per i peccati commessi contro di Me, che vengo a chiedere riparazione: sacrificati per questa intenzione e prega». Informai di tutto il confessore, che mi ordinò di scrivere ciò che la Madonna voleva che si facesse.»

Successivamente suor Lucia rivela anche che, ma la data non è specificata e non sappiamo se ciò sarebbe avvenuto giorni o anni dopo, la Madonna le avrebbe detto lamentandosi:

«Non hanno voluto soddisfare la Mia richiesta!...Come il re di Francia, si pentiranno e la faranno, ma sarà tardi. La Russia avrà già sparso i suoi errori per il mondo, provocando guerre e persecuzioni alla Chiesa: il Santo Padre avrà molto da soffrire.»

Controversia fatimita

Controversie precedenti alla rivelazione del segreto

Nel 1963 la rivista tedesca Neues Europa pubblicò una versione del testo in cui erano presenti riferimenti ad una guerra nucleare su vasta scala e ad una grave crisi della Chiesa cattolica. L'editore della rivista, Louis Emrich, disse di avere avuto il testo da un esponente della diplomazia; secondo la fonte, papa Giovanni XXIII avrebbe incaricato il cardinale Alfredo Ottaviani di preparare un estratto del testo originale per inviarlo ai vertici delle grandi potenze mondiali allo scopo di scongiurare lo scoppio di una nuova guerra mondiale. Il testo dell'articolo, ripreso da altri giornali, ebbe una grande diffusione e in riferimento alla presunta fonte fu definito "versione diplomatica". Diversi studiosi hanno messo in rilievo numerose incongruenze riguardanti la struttura e il contenuto del testo, arrivando alla conclusione che si trattava di un falso. Nessun commento ufficiale sul testo divulgato da Neues Europa venne effettuato dalla Santa Sede, tuttavia una smentita indiretta giunse dal cardinale Ottaviani, che nel 1967 affermò che non aveva senso discutere dei contenuti del Terzo segreto di Fátima poiché nessuna parte di questo era stata rivelata.

Controversie successive alla rivelazione del segreto

Alcuni studiosi delle apparizioni di Fatima, fra cui il sacerdote Padre Nicholas Gruner, il giornalista italiano Antonio Socci e l'avvocato americano Christopher A. Ferrara, sostengono la tesi che non tutto del Terzo segreto di Fátima sia stato ancora rivelato. In particolare ritengono che dopo la frase di suor Lucia, contenuta nella sua quarta memoria: "In Portogallo, si conserverà sempre il dogma della fede", ci debba essere dell'altro. Il terzo segreto è infatti una visione, e così come la Madonna spiega nella seconda parte del segreto la visione contenuta nella prima parte, analogamente ritengono che debba esistere una quarta parte che spiega la visione contenuta nel terzo segreto. Inoltre il movimento fatimita, guidato da Padre N. Gruner, sostiene fermamente che la consacrazione della Russia richiesta dalla Madonna a suor Lucia non sia stata compiuta nei termini e nei modi richiesti, e quindi sarebbe ancora da fare.

Papa Paolo VI, chiudendo la III Sessione del Concilio Vaticano II, il 21 novembre 1964, “affidò il genere umano” al Cuore Immacolato di Maria, nella stessa cerimonia in cui, applaudito in piedi dai Padri Conciliari, proclamò la Madonna “Mater Ecclesiae” (cfr. Insegnamenti di Paolo VI, vol. II, 1964, p. 678).

Giovanni Paolo II fece due consacrazioni del mondo al Cuore Immacolato di Maria, una a Fatima, il 13 maggio 1982, e l'altra a Roma, il 25 marzo 1984.

A maggio del 2017, il cardinale Burke, firmatario dei Dubia, dichiarò che, sebbene Giovanni Paolo II avesse consacrato il mondo intero (inclusa la Russia) al Cuore Immacolato di Maria, "oggi sentiamo nuovamente la chiamata di Nostra Signora di Fatima a consacrare la Russia al Suo Cuore Immacolato, in accordo con la Sua esplicita istruzione".

Rispondendo ad una domanda riguardo al Terzo Segreto, papa Benedetto XVI ha dichiarato ai giornalisti che "commetterebbe un grave errore chi volesse credere il messaggio profetico di Fatima si sia già del tutto attuato".

In seguito, auspicò che in occasione del centenario delle apparizioni nel 2017, "potesse avere luogo la promessa profetica del trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità", aggiungendo che "le sofferenze della Chiesa derivavano non da nemici esterni, quanto piuttosto dal suo interno".

Tutto ciò significherebbe che la Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato ancora non è avvenuta, così come il trionfo mariano e il periodo di pace concesso da Dio'

Apparizioni collegate

Nel villaggio di Hrushiw (Grushew, o Gruscevo), in Ucraina, il 12 maggio 1914 la Vergine sarebbe apparsa a 22 contadini per un giorno, profetizzando che il Paese avrebbe perso la sovranità e che per otto decenni ci sarebbero state sofferenze e persecuzioni, al termine delle quali la cristianità avrebbe trionfato e l'Ucraina sarebbe tornata libera. La Madonna avrebbe detto inoltre che lo scoppio della guerra mondiale era imminente e che la Russia sarebbe diventata un paese senza Dio.

Lo stesso villaggio ucraino sarebbe stato di nuovo teatro di un’apparizione il 26 aprile 1987, quando la Madonna sarebbe apparsa a una donna di nome Maria Kyzyn. L’apparizione sarebbe stata visibile per un mese ai pellegrini che vi giungevano al ritmo di 80.000 al giorno. NellE apparizioni alla Kyzin, la Madonna invita la Russia a convertirsi al cristianesimo, senza accennare a una mancata consacrazione papale della Russia al Cuore di Maria.

«È per tramite vostro e del sangue dei martiri che avverrà la conversione della Russia. Pentitevi e amatevi gli uni e gli altri. Stanno per arrivare i tempi che sono stati preannunciati come quelli della fine del tempo; guardate la desolazione che circonda il mondo: i peccati, l'accidia, il genocidio...Se per la Russia non c'è ritorno al cristianesimo, ci sarà una terza guerra mondiale e il mondo intero si troverà davanti alla rovina.»