Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2019

 

LA MAFIOSITA’

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

                  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

PARTE PRIMA   

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire Omertà. I post-social dei mafiosi.

Censura e mafia. Non si può offendere Falcone e Borsellino.

La Mafia è femmina.

Una vita sotto copertura.

Damiano Caruso e la mafia.

Quelli che non si ricordano mai. Giancarlo Siani, Pino Puglisi.

Quelli che non si pentono mai: Raffaele Cutolo.

Quelli che si pentono. Buscetta, Contorno e gli altri.

Il Carcere Ostativo per i mafiosi. “Lasciate ogni speranza voi ch’intrate”.

Mafie. Chi comanda dietro le sbarre.

I mafiosi son gli opposti. Corsi e ricorsi storici ideologici.

Gialli: Borsellino, Rossi, Pantani. E’ depistaggio continuo.

Il racconto delle Stragi: Capaci e via D'Amelio.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: il coraggio di essere eroi.

La strage di Capaci 27 anni dopo. Chi era Giovanni Falcone.

In ricordo di Cesare Terranova.

Cesare Terranova. Lotta alla mafia? Polizia più efficiente e niente leggi speciali.

5 Aprile 1973 – Attentato Al Questore Angelo Mangano.

21 luglio 1979. Boris Giuliano: il nodo irrisolto del delitto.

Il Papa, la Mafia, le mafie. L’ignoranza dell’origine del termine.

Mafia esercito della Cia.

L’Antimafia Parla troppo.

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quattromila mafie spadroneggiano in Europa.

L’integrazione delle mafie straniere in Italia.

Pecunia non olet: Le Mafie del Nord Italia.

La mafia, conviene, ma non esiste. O almeno come oggi ce la propinano.

Perché la ‘ndrangheta è ormai la mafia più potente e ricca del mondo.

Le vacche sacre della 'ndrangheta non sono più intoccabili.

Le 10 Mafie di Roma: Cosa Nostra, Mafia Capitale, I clan degli zingari.

Le Mafie di Napoli: Cosa Nostra e Camorra.

Mafia Export.

La Mafia di Foggia è la "nuova Gomorra".

La Mafia del “tranquillo” Veneto.

La mafia nigeriana.

La Mafia Albanese.

La mafia cinese.

La Mafia Messicana.

La Mafia Colombiana.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Non è mafia...

Le Barzellette dell’Antimafia.

L’Antimafia Clero-Comunista.

Antimafia o Comitato di salute pubblica?

I complici di Stato.

Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generalissimo lasciato solo da tutti.

Federica Angeli: i segreti di una star.

Paolo Borrometi: i segreti di una star.

Roberto Saviano: i segreti di una star.

Agguato a un giornalista. Spari contro il direttore di “Campania notizie”.

Lettera di Tina Palomba, una giornalista ignorata dall’antimafia di maniera.

Lettera di Francesco Amodeo, un giornalista ignorato dall’antimafia di maniera.

L'Antimafia è stata usata come mezzo per la gestione del potere.

Denunci la mafia ma non sai se lo Stato ti protegge. Il caso di Natale Giunta.

Interdittiva antimafia e comunicazione antimafia: le differenze.

Interdittiva antimafia. Il criterio del "più probabile che non”.

Interdittiva antimafia. Perseguitato dai burocrati: suicida Rocco Greco.

Quei pentiti che non convincevano Falcone.

Caccia alle streghe. L’inquisizione dell’Antimafia moralizzatrice.

Romeo & Company. Sei meridionale? Sei Mafioso!

La gogna antimafiosa.

 Paolo Giambruno. «Non era un prestanome del boss, va riabilitato». Ma lui ormai è morto…

I clan uccisero sua sorella ma lo Stato le nega i soldi.

Carolina Girasole. Assolta dopo 5 anni l’ex sindaca antimafia.

Le vittime dell’antimafia: Cosimo Commiso.

Così il Governo gestisce i testimoni di giustizia.

Il Proibizionismo agevola la mafia.

La nuova vita dei beni confiscati alla mafia tra business, propaganda e fondi Ue.

La Cultura della Legalità e dell'Antimafia.

Il Business delle costituzioni di parte civile. Sicilia: l'associazione dei furbetti dell'anti mafia.

Il Business dei sequestri preventivi infondati. La Storia dei Cavallotti.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Non si possono vedere nemmeno da morti.

Un Domicilio per tutti.

Liberi di scegliere.

Le madri coraggio. Sfuggire ai clan.

Mafie, viaggio tra i figli del clan: ecco la “generazione paranza” da strappare alla criminalità.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La mafia in Parlamento. Il caporalato col portaborse.

Lo strano caso dei braccianti.

118 & Company. Quando il volontariato diventa caporalato.

Non è un mondo per archeologi.

Non è un mondo di avvocati incinte.

Il braccino corto degli imprenditori.

L'università dei nuovi pro(f)letari.

La vera vita dei proletari digitali.

Le Cooperative: «Caporalato e sfruttamento».

Il dumping contrattuale.

Il call center dei laureati con 110 e lode (che lavorano per 600 euro al mese).

Il Caporalato dei supermercati.

Il caporalato dei sindacati.

Lo sfruttamento delle badanti.

Riders: Cornuti e mazziati.

La vita degli addetti alle pulizie.

Fra i migranti le prostitute schiave.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Soggetti deboli: amministratore di sostegno... o di saccheggio?

Crisi delle grandi aziende: la Mangiatoia dei Commissari Giudiziali.

“Legge sovraindebitamento: salva-suicidi o ammazza Imprese?”.

Case all’asta.

Le Aste truccate e l’inutile dimenarsi delle vittime.

La vera storia di Sergio Bramini.

Le aste immobiliari e gli affari dei magistrati furbetti.

Il «caso Gazzetta» e le aziende sequestrate: «Lo Stato non deve depauperare i beni».

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fusioni dei potenti.

Ue, 11.800 lobby per influenzare le istituzioni.                           

Se comandano i Tassisti.

Il Pd è lobby continua.

Camera dei Deputati. Elettricisti a peso d'oro.

La Casta dei Sindacalisti.

Gli uomini d'oro di Banca d'Italia.

La guerra dei medici ai medici.

La Giustizia può attendere.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I politici massoni.

Aboliamo la Democrazia.

Aboliamo la Massoneria.

Il rapporto massoneria-mafia.

"Avete paura? Non ci conoscete”.

Carlo Freccero Direttore Di Rai2: Bestemmie, Porno Rai E Massoneria.

Quelli del Bilderberg.

 

PARTE SECONDA         

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Si muore più in pace che in guerra.

Come riconoscere il volto delle mafie.

La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.

Fisco, ultima frontiera: evasori come i mafiosi.

La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».

La cupola degli esattori infedeli e l’estorsione legalizzata.

Mafia-Affari-Finanza.

La cupola dei politici. Anche di sinistra. Per insabbiare il Dossier mafia-appalti si uccisero Falcone e Borsellino e si processarono i Ros?

La cupola dei politici. La viltà e la trattativa Stato-Mafia per salvarsi il culo.

La Cupola internazionale. La Pista Americana, la Deindustrializzazione, Gladio ed servizi segreti.

La Cupola internazionale. La Pista Russa. Il Comunismo Mafia di Stato.

La cupola dei Giornalisti.

La Cupola degli Appalti.

La cupola della solidarietà.

Terre a Fuoco. Il traffico di rifiuti è meglio della droga.

La Mafia Portuale.

Spacciatori di frutti proibiti.

Spacciatori di "oro nero".

La cupola del Contrabbando.

Gomorra nera a Roma.

La mafia del calcio.

La mafia sanitaria.

I bambini scippati dalla Giustizia.

La Cupola delle Occupazioni delle case.

Pizzo e tangenti dietro ai negozi del centro commerciale.

La Cupola dei parcheggiatori abusivi.

“L'Italia è un paradiso per gli zingari”.

La Cupola della Pubblica Amministrazione mafiosa.

Whistleblowing. La Cupola gerarchica omertosa e vessatoria.

I concorsi pubblici ed i metodi paramafiosi.

Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».

Comunisti. Lobby Continua.

I Complotti dei Banditi di Stato. La cupola dei "Fumus" Giudiziari.

“Figli di Trojan”.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PARTE SECONDA

 

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Si muore più in pace che in guerra.

Narcos peggio della guerra. Donne, il carnefice è in casa. Il rapporto delle Nazioni Unite sugli omicidi nel mondo. Quasi mezzo milione le vittime totali in un anno, la cifra più elevata dell’ultimo quarto di secolo. Alessandro Fioroni il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Narcos peggio della guerra. Quante persone vengono uccise ogni anno nel mondo? Un quesito per nulla ininfluente al quale ha risposto un rapporto dell’Unodoc (l’ufficio delle Nazioni Unite che si occupa del controllo delle droga e della prevenzione del crimine). I dati si riferiscono al 2017 e mostrano una realtà non priva di sorprese. Gli omicidi presi in considerazione escludono quelli avvenuti per mano delle forze dell’ordine. Il totale delle vittime è stato di 464mila e si tratta del numero più alto degli ultimi 25 anni.

La mafia uccide più dei conflitti. Il 19% delle persone ha perso la vita a causa della criminalità organizzata ( più delle 89mila morte durante le guerre e le 26mila che invece sono cadute in episodi di terrorismo). In ogni caso la probabilità di essere uccisi attualmente è minore di anni fa. Nel 1993 morivano assassinate il 7.4 delle persone su 100mila, oggi il 6,1. Ciò è comunque dovuto all’aumento della popolazione mondiale.

Chi muore? Il rapporto ha messo in evidenza come la maggior parte delle vittime e dei carnefici sono uomini (quasi il 90% del totale). Soprattutto ragazzi tra i 15 e i 29 anni con variazioni a secondo del continente. Stessa composizione anagrafica per le donne ma le cause di morte sono specifiche: gli assassini sono soprattutto familiari. Si tratta di parenti ( 24%) o dei partner ( 34%). In questi casi quasi mai chi uccide è un criminale, così come il tenore di vita non è caratterizzato necessariamente da degrado o povertà. Il femminicidio dunque è una causa di morte presente a livello planetario.

Dove si muore di più. A guidare la classifica delle zone più pericolose è l’America. Per l’Unodoc nel periodo di riferimento sono state uccise 17 persone su 100mila abitanti, anche se esistono sensibili variazioni di numero tra paesi del continente. Sulla media incide sensibilmente la presenza di bande dedite al narcotraffico o composte da giovanissimi come le cosiddette pandillas. Situazione nettamente più “tranquilla” in Asia, Oceania e Europa. Le persone assassinate sono in media 3 ogni 100mila. Un calo registrato a partire dagli anni ’90 quando si viaggiava su numeri molto più alti. Un ultimo dato è quello che riguarda la categoria dei giornalisti. Chi fa questo lavoro rischia sempre di più. Nel 2008 le vittime erano 46, nel 2012 sono state 124. Dopo 5 anni ben 127 operatori dell’informazione sono caduti in paesi dove non c’è un conflitto armato.

·         Come riconoscere il volto delle mafie.

Come riconoscere il volto delle mafie. Un libro dei magistrati Pignatone e Prestipino permette di capire in che modo le organizzazioni criminali abbiano occupato il territorio nazionale, scrive Roberto Saviano il 7 marzo 2019 su L'Espresso. "Modelli criminali”, libro di Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino edito da Laterza, è un manuale fondamentale, uno strumento utile per capire cosa siano le mafie, come si sono trasformate ed evolute e come, contestualmente, si sia trasformata ed evoluta la società civile che delle mafie costituisce il brodo di coltura, l’humus, il corpo sano di cui loro sono il parassita. E “Modelli criminali” mostra cosa sia il “metodo Pignatone”, la sua capacità di leggere le mafie con il know how acquisito attraverso l’esperienza e con la consapevolezza di avere a che fare con organizzazioni in continua evoluzione. Il “metodo Pignatone” in questi anni ha dimostrato che il sistema mafie esiste anche quando non ci sono faide, esecuzioni o emanazioni meridionali dirette. Se, da un lato, il fatto che il gruppo di Massimo Carminati non fosse calabrese, campano, pugliese o siciliano poteva metterlo al riparo dall’attenzione dell’antimafia, dall’altro Pignatone riesce a dimostrare come il meccanismo mafioso prescinda dal legame con i territori che siamo abituati a considerare d’elezione delle mafie, ed esiste nel metodo e quindi nello strumento attraverso cui le organizzazioni ottengono il potere e intimidiscono per mantenerlo. Quando si parla di mafie - attive in Italia sin dalla seconda metà dell’800 - e del contrasto alle mafie, vale la pena sottolineare un dettaglio che spesso sfugge: tutto appartiene ancora alla nostra storia recente. Nonostante l’Italia sia il Paese con l’antimafia più sviluppata al mondo, la consapevolezza di cosa siano le mafie e gli strumenti che ci siamo dati per contrastarle, non li possediamo che da pochi decenni. Fino al gennaio del 1992 (anno della sentenza in Cassazione del Maxi Processo di Palermo) non si era arrivati a stabilire che Cosa nostra fosse una struttura unitaria. Solo una volta compreso questo ci si è potuti concentrare non più su cosa fosse Cosa nostra ma su chi ne facesse parte. Oppure si pensi che fino al 2010 la ’ndrangheta non era annoverata tra le mafie nel codice penale. Spesso lo diamo per scontato, ma per arrivare a stabilire giudiziariamente l’esistenza delle mafie ci sono voluti decenni e ciò che più ha rallentato la consapevolezza sulle mafie, e quindi il contrasto giudiziario, è stato l‘errore di relegarlo a fenomeno folcloristico e culturale. Spesso l’opinione pubblica, sentendosi offesa da ciò che emergeva dalle indagini, dalle sentenze e dal racconto giornalistico o letterario, ha cominciato a contrastare non solo la mafia ma anche l‘antimafia. E come diceva Borsellino, nel contrasto alle mafie, la partecipazione attiva delle comunità su cui esse agiscono è fondamentale. Da qui la modernità del “metodo Pignatone” - utilizzato anche a Milano e raccontato insieme a Prestipino nel libro precedente: “Il contagio: Come la ’ndrangheta ha infettato l‘Italia” - che dimostra come le mafie siano mafie anche dove non siamo abituati a considerarle di casa. Nel “Contagio” si racconta l’arrivo della ’ndrangheta a Milano che non è semplicemente luogo di conquista, territorio colonizzato o non immune, ma tessuto poroso, completamente permeabile, che agisce da catalizzatore e moltiplicatore. A Roma la situazione è differente, la vicinanza al Sud non consente comunque di applicare le stesse chiavi di lettura che utilizziamo per le mafie tradizionali, ma essendo un crocevia da decenni si è creata questa commistione: molti esponenti delle mafie tradizionali vi si sono stabiliti e hanno iniziato a interagire con i componenti delle organizzazioni locali, in particolare con coloro che prima rapinavano banche e ora trovano nel traffico di cocaina un’attività meno rischiosa e più redditizia. Si è quindi realizzato uno scambio di “saperi” criminali: gli autoctoni hanno favorito i mafiosi tradizionali grazie alle loro relazioni sul territorio e i mafiosi hanno insegnato agli autoctoni la pratica del metodo mafioso. Lo strumento che “Modelli criminali” ci dà, consente di capire come le mafie siano non solo una struttura storicamente data, più vecchia persino dello Stato unitario, ma che mafiose sono prassi criminali in continua evoluzione che possono innestarsi indipendentemente dalla vicinanza territoriale o dalla “tradizione mafiosa”. Mafia ed economia, mafia e tessuto imprenditoriale, mafia e imprese sofferenti: analizzare questi binomi ci permette di comprendere come le mafie appartengano a ogni luogo e come il rischio più grande per le democrazie è che le loro economie inizino a mafiosizzarsi.

·         La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.

SANREMO, COSA NOSTRA. Marco Molendini per Dagospia il 17 ottobre 2019. Gira la ruota di Sanremo. Al Festivalone torna Lucio Presta, dopo sette anni. Il suo cavallo di Troia è Amadeus, ragioniere della conduzione cerimoniosa, stile «signori e signori ecco a voi...». Torna Presta e non se ne andrà, almeno non del tutto, Ferdinando Salzano. E' la legge dello spettacolo made in Italy guidato, condotto e comandato da pochi tycoon che fanno il buono e cattivo tempo anche perché da viale Mazzini, al massimo, possono fornire la scorta. La Rai non sarebbe mai capace di reggere da sola la macchina festivaliera (non lo è più da anni) senza la presenza di chi è in grado di accendere le luci e farla girare. Salzano, con la sua F&P, è il monopolista del mercato musicale nazionale: si può fare un Festival della canzone italiana senza bussare alla sua porta? Tanto più che oggi la musica è dominata da artisti fatti in casa, in un andirivieni dove la data di scadenza del successo è sempre più ravvicinata. Certo, non sarà più come negli ultimi anni, con Salzano mano operativa del direttore artistico Baglioni, in un conflitto di interessi diretto ed esplicito. Anche Presta ha i suoi conti da fare: vuoi che al Sanremo del suo Amadeus non convochi gli altri suoi artisti? Ne ha bisogno, ne hanno bisogno loro, gli artisti, ne ha bisogno il Festival. Ci sono da celebrare i 70 anni del più folle appuntamento musicale mondiale: in quale altro paese ci si mobilita per una settimana ad ascoltare canzoni per lo più dimenticabili, ripetute in continuazione in una sorta di bombardamento a tappeto che poi dal lunedì viene sostituito da un immancabile oblio da saturazione (a parte piccole eccezioni: lo è stato un anno fa Mahmood)? Una vocazione televisiva al martirio tutta italiana: del resto succede ogni giorno coi talk politici e gli spettatori che seguono programmi dove si alternano sempre le stesse persone, che dicono le stesse cose. Una recita dalle repliche infinite. Tornando al Festival, anche Presta avrà da festeggiare, appena finito Sanremo farà 60 anni, sperando che ci sia da brindare anche per il successo. Intanto si è scaldato mettendo le mani su Castrocaro, la gara delle voci nuove (ormai è tutta una gara di voci nuove). Poi è passato al festival della Leopolda del suo ultimo artista, Matteo Renzi (si siederà in platea all'Ariston?). Qualche giorno fa è stato segnalato già in azione a Sanremo: c'è da dare una bella mano a Amadeus se non vuole farlo naufragare. E c'è da fare anche un po' di scongiuri. La storia insegna che il Festival è campato di alti e bassi, trionfi, cadute e resurrezioni. Ed è troppo tempo che le cose vanno bene: esattamente da cinque anni, tre di Conti, due di Baglioni. Comunque non resta che rimboccarsi le mani e fare appello a tutti i conflitti di interesse possibili. Quindi dentro gli artisti della sua Arcobaleno 3. Chissà che non ci sia spazio anche per Roberto Benigni, guardacaso attore nel ‘’Pinocchio’’ di Garrone, in cui l'ex regista (il suo, di Pinocchio, finì in lacrime e sangue) è Geppetto: il film, coprodotto dalla Rai, uscirà a Natale, chissà che a febbraio non abbia ancora bisogno di un rinfresco di promozione. Della partita potrebbe allora far parte anche la coppia di Castrocaro, De Martino-Belen (che stavolta dovrà usare una farfallona al posto della farfallina se, dopo otto anni da quell'exploit, vorrà alzare un clamore adeguato). Poi c'è Bonolis, già convocato alla Leopolda: farà la doppietta? Amadeus, che ha fatto sapere che vuole «un festival straordinario», che è già un bel proposito, ha già fatto un po' di telefonate ai vecchi amici. La prima, ma non c'era neanche bisogno di farla, a Fiorello: il cui nome viene evocato ogni volta che c'è da immaginare un ospite per l'Ariston. E sembra difficile che possa sottrarsi facendo l'anguilla, per vari motivi. Per amicizia, per colleganza (ai tempi di Cecchetto e di Radio Deejay), per contratto visto il nuovo rapporto con la Rai (debutta il 4 novembre con ‘’Viva Raiplay’’). Rosario ha già posto una condizione, un po' per gioco, un po' sul serio: ha detto che vuole il neopensionato Mollica sul balconcino dei collegamenti del Tg1. Al festival transiteranno, come sembra, anche gli altri amici dei vecchi tempi di Amadeus compreso Jovanotti, altro ragazzo fortunato della scuderia Cecchetto: e poi Sanremo è sul mare e uno scampolo di Jova beach party ci sta bene. Al resto ci penserà la Rai, con un po' di autopasserelle di programmi e qualche ospite a cachet, orizzontandosi anche con i tour promozionali: ci starebbero provando con Lady Gaga. Quanto al Festivalone, fra tocchi e ritocchi, la pappa sarà sempre la stessa anche se tornano le Nuove proposte, vale a dire i giovani con gara a sé separata dai big e l'età minima di partecipazione abbassata a 15 anni. La ruota della fortuna della caccia ai big, intanto, sta già girando: ci sono le canzoni da ascoltare, gli equilibri da centellinare, le pressioni da controllare, i tour da promuovere. Difficile escludere la scuderia Salzano e non credo che nessuno voglia farlo anche perché, insieme a Presta, a far ritorno a Sanremo c'è Giammarco Mazzi, suo sodale ma anche sodale di Salzano come regista e organizzatore di quel gigantesco giro musical-produttivo che si è stabilito da qualche anno attorno all'Arena di Verona, diventata il luogo delle grandi celebrazioni del pop nazionale, in un format di incontri e incroci con tanto di regolare ripresa televisiva da parte della Rai. Insomma, il cerchio si chiude. I conflitti di interesse sono il sale del successo. Sarebbe impossibile il contrario, il conflitto di interesse è il rubinetto attraverso il quale passa tutto il mondo dello spettacolo nazionale.

Da “la Stampa” il 17 ottobre 2019. Un primo vincitore per Sanremo c' è già. E a metterlo nero su bianco lo scorso settembre ci ha pensato il numero uno della Rai, Fabrizio Salini che ha affidato ad Antonio Marano, già vice direttore generale della Rai e presidente di Rai pubblicità il progetto "tra palco e città". Marano nei fatti coordinerà praticamente tutto del prossimo Festival: dalla logistica, alla valorizzazione editoriale alle strutture tecniche. Naturalmente - scrive l' Ad di viale Mazzini - in raccordo con tutte le direzioni competenti. Nella sostanza la prossima edizione del concorso canoro ligure sarà la prova generale del nuovo piano editoriale che l' amministratore delegato della Rai sta portando a compimento dove i direttori di rete avranno sempre minor peso rispetto alle nuove direzione sui generi che stanno per essere varate. Un modo, dicono i più maliziosi di viale Mazzini non solo per svuotare i capi dei tre canali senza rimuoverli - a cominciare proprio dalla Rete ammiraglia con l' evento clou - ma di riscrivere il perimetro editoriale della Tv pubblica anche sul fronte dei ricavi pubblicitari. Perché come dice un vecchio slogan Sanremo è sempre Sanremo ma oltre allo share deve portare a casa gli spot pubblicitari.

S. Can. per “il Messaggero” il 17 ottobre 2019. Sarà la prima Leopolda senza il Pd. E dunque la colonna sonora non potrà che non essere questa: Non avere paura, l'ultima canzone di un altro scissionista, Tommaso Paradiso, ex voce dei The Giornalisti. Quella che andrà in scena a partire da oggi fino a domenica è l'edizione numero 10 della kermesse di Matteo Renzi, pronto a battezzare nell'ex stazione ferroviaria di Firenze Italia Viva. «Abbiamo dovuto togliere i guardaroba: stiamo superando le 20mila iscrizioni», dicono dall'organizzazione. La regia dell'evento è nelle mani di Lucio Presta, il super agente televisivo ormai inseparabile braccio destro dell'ex premier (nonché allenatore nel duello tv dell'altro giorno con Matteo Salvini). Si parte oggi parlando di strategie green da mettere in manovra con il ministro Teresa Bellanova, domani poi toccherà a un piano per la famiglia con il titolare del relativo dicastero Elena Bonetti. E sarà anche svelato il nuovo logo (messo ai voti in rete). Domenica il finale: con la piantumazione («Per ogni tessera pianteremo un albero») e una serie di scosse ben assestate alla manovra. «Vedrete - racconta un parlamentare - torneremo all'assalto su Quota 100: non ci piace». Lo slogan di questa Leopolda è Italia VentiNove perché il nuovo partito guarda ai prossimi 10 anni. Ma dalle parti del leader aggiungono anche con una battuta Italia VentiNuovi. Arriveranno altri parlamentari a rinforzare la pattuglia di Iv? Renzi sta pensando ai tempi dell'annuncio. «Deciderà Matteo, ma è probabile che ci saranno sorprese in questo senso», raccontano dall'organizzazione. «E comunque sia non arriveranno dal Pd». E dunque dal Misto, ma forse anche da Forza Italia e, addirittura, dal M5S? Anche se la linea sembra essere questa: «I nuovi arrivi saranno ufficializzati dopo la Leopolda, d'altronde l'effetto confronto tv ha fatto aumentare le richieste», raccontano i renziani. Dunque si tratterà di aspettare. Anche Maria Elena Boschi conferma la notizia: «Non so se anche dal Pd, sicuramente ce ne sono di interessati che arriveranno nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Tra un anno saremo a parlare di tutt'altri numeri». L'unico addio al Nazareno sicuro che si paleserà sarà quello di Isabella Conti, sindaco di San Lazzaro di Savena (Bologna), paladina dei nidi gratis. Per il resto in quota Pd ci saranno il sindaco Dario Nardella, a portare i saluti di Firenze, e l'europarlamentare Simona Bonafè. La scenografia gioca molto sul numero 10 e sul palco è stato piazzato un albero, come segnale di quanto l'ambiente sarà centrale. Il convitato di pietra sarà il Pd (e il premier Conte). «Sto vedendo un po' di terrorismo in giro, credo che stiano mettendoci attorno un po' di filo spinato per evitare che arrivino dirigenti dem», dice il capogruppo di Iv al Senato Davide Faraone. In effetti, il governatore Enrico Rossi e il senatore Luigi Zanda hanno consigliato di non andare. Nardella ammette: «C'è curiosità da parte di tutti su questa Leopolda».

Le consulenze della «Casaleggio Associati» alle aziende anti M5S. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 su Corriere.it. Consulenze e polemiche. La Casaleggio Associati e Davide Casaleggio finiscono aal centro di un caso per un eventuale conflitto di interessi. L’imprenditore, fondatore del M5S, ha tra i suoi clienti alcune aziende come Lottomatica, Philip Morris e Moby, con contratti di consulenza in alcuni casi siglati pochi mesi prima delle elezioni Politiche del 2018, che hanno visto trionfare i Cinque Stelle. La questione — sollevata dal Fatto Quotidiano — è focalizzata proprio su quelle aziende di gioco d’azzardo, tabacco (e navi) che hanno posizioni contro cui si è schierato in passato il Movimento. Per Lottomatica il rapporto con la società milanese è legato al portale di “Generazione Cultura”, un concorso che mette in palio stage retribuiti per giovani laureati in collaborazione con la Luiss. Philip Morris ha chiesto una consulenza sulla comunicazione digitale in Italia, una consulenza pagata , secondo la ricostruzione oltre 500.000 euro. Cifra simile anche per l’iniziativa di Moby Lines «“naviga italiano» per sollecitare la politica a intervenire sulle norme per i marittimi comunitari. Moby è un’ azienda di Vincenzo Onorato, armatore napoletano, che possiede anche Tirrenia e Toremar. Recentemente, il 9 ottobre, il tribunale fallimentare di Milano ha rifiutato un’istanza di fallimento nei confronti della compagnia. Le tre consulenze rappresentano una buona fetta dei ricavi della Casaleggio , che ha dichiarato 1,17 milioni di euro di ricavi nel 2017 e 2,04 nel 2018 . «Non ci relazioniamo con il governo o forze politiche per svolgere il nostro lavoro, né per acquisire clienti. Consigliamo le aziende per cui lavoriamo su come utilizzare al meglio la tecnologia dal 2004 e già da allora eravamo tra i primi in Italia posizionati sul mercato come società di consulenza strategica per la Rete. Anche il Fatto Quotidiano si rivolse alla Casaleggio Associati per avviare la sua presenza online alla sua nascita», ha replicato la Casaleggio Associati. Ma la vicenda ha assunto anche un contorno politico. Per Anna Maria Bernini di Forza Italia si tratta di «un palese conflitto d’interessi che i Cinque Stelle fingono però di ignorare». E argomenta: «La Casaleggio, inoltre, lucra su settori come il gioco e il tabacco contro cui il Movimento ha condotto violente battaglie ideologiche. Siccome Di Maio mette sempre ai primi punti del programma grillino proprio il conflitto d’interessi, non potrà sfuggire a questa gigantesca contraddizione».

·         Fisco, ultima frontiera: evasori come i mafiosi.

Fisco, ultima frontiera: evasori come i mafiosi. Errico Novi il 22 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Pd verso il sì all’ipotesi 5s sui sequestri preventivi. Provvedimento estremo, discusso fino alla tarda serata di ieri, prima ancora che in Consiglio dei ministri, già nel lungo vertice di maggioranza. Trattativa difficile, ma agevolata da una paradossale convergenza. Il Pd è a un passo dal via libera sulla norma più dura, proposta dal M5S, dell’intero piano di governo per il fisco: i sequestri e le confische preventive ai presunti evasori. Provvedimento estremo, discusso fino alla tarda serata di ieri, prima ancora che in Consiglio dei ministri, già nel lungo vertice di maggioranza che il premier Giuseppe Conte conduce in due tempi: prima con la delegazione 5 Stelle guidata da Luigi Di Maio, quindi con le altre, quella del Pd innanzitutto, capitanata da Dario Franceschini. Nell’accordo vacillano diversi passaggi. Eppure sembra reggere, almeno al momento di mandare in stampa questa edizione del giornale, l’intesa sulla proposta più restrittiva in campo fiscale. Che non è l’abbassamento da 150mila a 100mila euro dell’importo per il quale chi froda l’erario può essere condannato a una pena detentiva, né l’innalzamento di quest’ultima, nel massimo, da 6 a 8 anni, ma la clamorosa estensione ai reati fiscali delle misure di prevenzione antimafia. Ebbene sì. Con una certa agilità assai superiore rispetto agli ostacoli trovati da altre richieste del Movimento, sembra destinata a entrare nel decreto fiscale collegato alla Manovra l’ulteriore ampliamento del cosiddetto doppio binario. Introdotti nel 1992, divenuti da allora un pilastro del Codice antimafia, sequestri e confische preventivi sono ormai sempre applicabili, da fine 2017, anche per la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione. Una scelta del legislatore che ha suscitato perplessità nella stragrande maggioranza dei giuristi italiani. Il provvedimento che ha equiparato boss e tangentisti è la legge 161 del 17 ottobre 2017. Entrata in vigore durante il governo Gentiloni. E fortemente voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi vicesegretario dem. Non sono servite neppure le osservazioni con cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel promulgare le nuove, pesantissime norme, ne ha suggerito un «attento monitoraggio». Sono stati i dem dunque a far cadere per primi l’argine che teneva sequestri e confische preventivi nel operimetro della lotta alla mafia. L’antefatto spiega la relativa fluidità con cui una svolta così severa pare ormai incamminata verso il Parlamento. Di fatto, diventerebbe possibile anche per gli illeciti fiscali più gravi il sequestro in prima battuta e, in via definitiva, la confisca dei beni per chi è semplicemente «indiziato» del reto. In particolare per ipotesi come reati come la “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”. Ai “soggetti indiziati” di simili delitti verrebbero loro sottratti i beni “dei quali possono disporre, quando il loro valore risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si abbia motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

BASTA UN INDIZIO E PERDI TUTTO. Indizi. Non accuse provate. Non ci sarà bisogno di condanne definitive. Anzi, qualora l’assimilazione dei sequestri ai presunti evasori avvenisse davvero secondo lo schema già previsto per mafiosi ( e corrotti, da fine 2017), non sarebbe necessario neppure il rinvio a giudizio. Nel giudizio di prevenzione, parallelo a quello penale, non vigono i principi del giusto processo sanciti dalla Costituzione. Nei confronti dei presunti criminali tributari scatterebbero dunque violentissime limitazioni delle garanzie costituzionali.

EVASORI IN CELLA, I DUBBI DI ARDITA. Proprio l’eccentricità delle misure di prevenzione rispetto ai principi cardine del diritto penale appare, almeno al Movimento 5 Stelle, un valido motivo per applicarle anche in campo tributaristico. Un’anomalia che si traduce nell’impossibilità tecnica di includere tali provvedimenti all’interno di eventuali condoni, o di amnistie e indulti. Si tratterebbe di una svolta di una tale severità che persino un magistrato noto per la sua fermezza e intransigenza come Sebastiano Ardita fa notare come andrà comunque mantenuto un «criterio di proporzionalità nel rispetto dei valori della Carta». Certo, il togato eletto al Csm per Autonomia e Indipendenza, il gruppo guidato da Davigo, riferisce le sue perplessità soprattutto al carcere per gli evasori. Ma colpisce che persino un pm con il suo approccio culturale sia poco convinto dell’impostazione che la maggioranza sembra aver scelto. Ardita comunque, in una intervista all’Adn- kronos, individua un profilo critico della linea panpenalistica in campo fiscale anche nel rischio paralisi per il sistema penale: «Verrebbe ingolfato da un fiume di processi che», dice, «produrrebbero pene detentive teoriche: cioè sanzioni che rimangono sospese o devono essere convertite in misure alternative». Ma poi proprio un simile risvolto che si nasconderebbe dietro lo slancio “general- preventivo” della maggioranza fa dire al consigliere del Csm che «la misura più adatta in questi casi, e anche la più proficua per l’erario, potrebbe essere la confisca», che prevede, appunto, «un procedimento agile e accelerato» e che renderebbe «veloce l’apprensione delle somme sottratte al fisco».

ALTRO CHE DEPENALIZZAZIONE. Al momento le misure di prevenzione sono parte di un tutto. L’idea è che una loro introduzione non debba escludere la maggiore facilità nell’applicare anche pene detentive alle più gravi fattispecie di frode fiscale. Il che genera un ulteriore paradosso. Se come segnalato da Ardita, includere nell’ombrello del processo penale una più vasta gamma di casi «ingolferebbe il sistema penale», va ricordato che proprio per scongiurare tale spauracchio era stata ipotizzata una linea uguale e contraria: un intervento di depenalizzazione, che avrebbe dovuto innanzitutto riguardare proprio i reati fiscali. L’ipotesi era stata discussa da Anm e avvocatura, che l’avevano proposta a Bonafede come soluzione condivisa per ridurre i tempi dei processo. Ipotesi accantonata. E ora sostituita con il suo esatto contrario.

·         La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».

Favori in cambio di un lavoro: così cambia il sistema corruzione. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 su Corriere.it da G. Bianconi. Monza i rivenditori di protesi pagavano i medici di base che reclutavano pazienti e chirurghi che installavano i loro prodotti, mentre visite e prescrizioni dell’ortopedico venivano retribuite «in nero»; a Trecastagni, in provincia di Catania, un funzionario comunale ha disegnato il bando per raccogliere e smaltire rifiuti «su misura» della ditta che ha vinto l’appalto, in cambio dell’assunzione del figlio e altre due persone, più 3.000 euro ogni volta che i pagamenti alla ditta superavano i 40.000. A Trento alcuni dipendenti della Asl «soffiavano» i requisiti stabiliti dalla gara per far vincere l’impresa amica, in cambio di mazzette da 5.000 e 20.000 euro, mentre a Benevento il dirigente comunale leggeva le offerte contenute nelle buste chiuse con una microtelecamera, per poi spifferarle alle aziende amiche che così presentavano proposte più vantaggiose, e con questo giochino guadagnava dal 5 al 7 per cento su ogni lavoro assegnato. Un dirigente Anas di Roma s’è fatto promettere e consegnare da un imprenditore almeno 450.000 euro mascherati da pagamenti per consulenze private; invece un funzionario del Comune di Monteparano, in provincia di Trapani, ha dato il via libera alla costruzione abusiva di un centro per anziani in cambio dell’assunzione della moglie in quell’attività. A Bolzano il direttore dell’ufficio edilizia dell’ospedale frazionava gli appalti per favorire alcune aziende, in cambio di denaro ma anche lavori di ristrutturazione, tinteggiatura, falegnameria, traslochi e altri favori. A volte dietro la corruzione si nascondono piccole miserie, che svelano un Paese impoverito al punto che il prezzo per vendere le proprie funzioni si riduce a pochi soldi o qualche posto di lavoro per familiari o amici. È ciò che raccontano i casi raccolti nel rapporto dell’Autorità anticorruzione che Raffaele Cantone ha confezionato come ultimo atto prima del rientro in magistratura: i 117 arresti (si tratta dunque di accuse, prima delle verifiche nei processi) eseguiti tra il 2016 e il 2019 significano all’incirca uno ogni 10 giorni, e Cantone denuncia che nonostante questa media «la corruzione sembra sparita dall’agenda politica, è scomparsa dai riflettori, non se ne parla quasi più». Forse è uno dei motivi per cui ha deciso di lasciare,durante il governo Lega-5 Stelle, prima della scadenza naturale del mandato. Sebbene più della metà degli episodi contestati dalla magistratura siano concentrati nelle quattro regioni meridionali a più alta concentrazione criminale, la corruzione resta un’emergenza nazionale che attraversa la penisola da nord a sud, con il Lazio al secondo posto e la Lombardia al sesto. «Al sud c’è una corruzione più pulviscolare, al nord è di maggiore qualità e quantità», spiega Cantone. E le nuove caratteristiche sociologiche del fenomeno, le forme mutate di remunerazione delle attività illecite, spiegano l’evoluzione del Paese anche sotto questo profilo. Rispetto al passato e alla Tangentopoli scoperta negli anni Novanta («realtà imparagonabile, la situazione è certamente migliorata, il quadro di oggi resta preoccupante ma non devastante come allora», dice l’ormai ex presidente dell’Anac) la burocrazia dei dirigenti e funzionari, dei dipendenti e commissari, ha superato la classe politica; sebbene sindaci, vicensindaci, assessori e consiglieri comunali siano quasi un quarto degli arrestati. Che a volte creano un vero e proprio sistema. Come in Veneto, dove la richiesta di tangenti tra il 10 al 20 per cento su ogni pagamento per la manutenzione del verde pubblico sperimentata a Montegrotto Terme è stata «esportata» ad Abano Terme, e ripristinata a Montegrotto dove — secondo le accuse — per gli importi più ingenti, dai contanti si era passati a fatture per una società gestita dall’ex sindaco.

CANTONE, EVASIONE FISCALE NON SI VINCE CON LE MANETTE. (ANSA il 17 ottobre 2019) - "È giusto dare un segnale contro l'evasione, che è strettamente legata alla corruzione e che è un danno a tutti. Va bene inasprire le pene ma non è con le manette che si vince l'evasione, così come per la corruzione". Lo ha detto il presidente dell’Anac Raffaele Cantone durante la presentazione a Roma del rapporto sulla corruzione in Italia nel triennio 2016-2019.

Da repubblica.it il 17 ottobre 2019. Quarantasette politici arrestati, 20 dei quali sindaci. Sono alcuni numeri che emergono dal dossier "La corruzione in Italia nel triennio 2016-2019: numeri, luoghi e contropartite del malaffare", presentato dal presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, al suo ultimo bilancio in Anticorruzione e presto di ritorno in magistratura. Il report analizza i casi registrati nell'ultimo triennio: "Il 74% delle vicende (113 casi) ha riguardato l'assegnazione di appalti pubblici, a conferma della rilevanza del settore e degli interessi illeciti a esso legati per via dell'ingente volume economico. Il restante 26% (39 casi) è composto da ambiti di ulteriore tipo (procedure concorsuali, procedimenti amministrativi, concessioni edilizie, corruzione in atti giudiziari)". Un bilancio a tinte fosche, soprattutto per gli appalti pubblici, ma non certo paragonabile a Tangentopoli. Se non altro perché la "mazzetta" sembra essere tramontata, rimpiazzata da beni materiali e non, ben più facili da occultare. "Il livello di mazzette è molto meno significativo del passato, si tratta di episodi di piccolo calibro", recita il dossier. Alla tangente ora si preferiscono favori, un esempio per tutti: il posto di lavoro. Nel dettaglio "fra agosto 2016 e agosto 2019 sono state 117 le ordinanze di custodia cautelare per corruzione spiccate dall'Autorità giudiziaria in Italia e correlate in qualche modo al settore degli appalti: esemplificando è quindi possibile affermare che sono stati eseguiti arresti ogni 10 giorni circa". "Si tratta in ogni caso di una approssimazione per difetto rispetto al totale, poiché ordinanze che ictu oculi non rientravano nel perimetro di competenza dell'Anac non sono state acquisite - si osserva nel dossier dell'Anac - In linea con questa cadenza temporale sono anche i casi di corruzione emersi analizzando i provvedimenti della magistratura: 152, ovvero uno a settimana (solo a considerare quelli scoperti)". "Nel periodo in esame sono stati 207 i pubblici ufficiali/incaricati di pubblico servizio indagati per corruzione - si legge nel dossier - Indicativo è il tasso relativo all'apparato burocratico in senso stretto, che annoverando nel complesso circa la metà dei soggetti coinvolti si configura come il vero dominus: 47 dirigenti indagati, ai quali ne vanno aggiunti altrettanti tra funzionari e dipendenti più 11 rup (responsabile unico del procedimento)".

Gli appalti pubblici e la deregulation. Anche se non se ne parla, non vuol dire che la corruzione sia diminuita o scomparsa. Cantone lo spiega: "La parola corruzione nell'ultimo periodo è quasi scomparsa dall'agenda. Sembra quasi non ce ne si occupi. Invece da questo rapporto emergono dati in chiaro scuro. Noi tutto sommato scopriamo l'acqua calda ma adesso abbiamo le prove". Ad allarmare è la situazione negli appalti pubblici. "La corruzione, - si legge ancora nel dossier - benché all'apparenza scomparsa dal dibattito pubblico, rappresenta un fenomeno radicato e persistente, verso il quale tenere costantemente alta l'attenzione. Al tempo stesso, occorre rilevare come la prevalenza degli appalti pubblici nelle dinamiche corruttive giustifichi la preoccupazione nei confronti di meccanismi di deregulation quali quelli di recente introdotti, verso i quali l'Anac ha già manifestato perplessità".

Meno tangenti, più "benefit". Quello che emerge dal rapporto dell'Anac è anche un cambio di modalità. La corruzione in Italia si dematerializza, alla vecchia tangente si sostituisce spesso il pagamento con beni o servizi, più difficilmente dimostrabile come reato per gli inquirenti. L'assegnazione di un posto di lavoro a un parente o un sodale, oppure di una consulenza reale o fittizia fino ad arrivare alla concessione di benefit come viaggi, cene, ristrutturazioni edilizie. Ed anche, talvolta, il soddisfacimento della richiesta di prestazioni sessuali. "Il denaro continua a rappresentare il principale strumento dell'accordo illecito - si legge nel documento - tanto da ricorrere nel 48% delle vicende esaminate, sovente per importi esigui (2.000-3.000 euro ma in alcuni casi anche 50-100 euro appena) e talvolta quale percentuale fissa sul valore degli appalti". Ma il resto degli episodi si consuma in altro modo. La 'ritirata' del contante è legata spesso alla "difficoltà di occultamento delle somme illecitamente percepite", così "si manifestano nuove e più pragmatiche forme di corruzione".

La mappa della corruzione. Tornando agli arresti, la relazione rileva che "a essere interessate sono state pressoche' tutte le regioni d'Italia, a eccezione del Friuli Venezia Giulia e del Molise. Cio' non implica che queste due regioni possano considerarsi immuni, ma semplicemente che non vi sono state misure cautelari nel periodo in esame". Dal punto di vista numerico, spicca il dato relativo alla Sicilia, dove "nel triennio sono stati registrati 28 episodi di corruzione (18,4% del totale) quasi quanti se ne sono verificati in tutte le regioni del Nord (29 nel loro insieme). A seguire, il Lazio (con 22 casi), la Campania (20), la Puglia (16) e la Calabria (14)". Di queste ordinanza di custodia cautelare per corruzione "il 74% ha riguardato l'assegnazione di appalti pubblici, a conferma della rilevanza del settore e degli interessi illeciti a esso legati per via dell'ingente volume economico". "Credo sia giusto un inasprimento delle sanzioni verificato ai casi più gravi. - ha commentato poi, a margine, Cantone rispondendo a una domanda sull'evasione fiscale - Non ho mai pensato che con le manette si risolvano i problemi ma l'evasione è un reato grave. Naturalmente va verificato come è scritta la norma prima di dare un giudizio".

La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi». Errico Novi il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. La Suprema corte contro lo stop alle misure alternative. Depositata l’ordinanza con cui la prima sezione ha rimesso la legge “spazza corrotti” alla Consulta.

La Cassazione. Si può con una certa soddisfazione notare come il circuito fra dottrina e Corti superiori funzioni bene. E cioè come vi sia un dibattito giuridico molto dinamico attorno a temi di diritto che la politica tratta a volte con una certa sbrigatività.

Lo si può dire a proposito di un’ordinanza, la numero 1992 del 2019, emessa lo scorso 18 giugno dalla Cassazione e che ieri è stata depositata. Si tratta della decisione che ha rimesso d’ufficio alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della legge “spazza corrotti” per la parte in cui la riforma preclude l’accesso alle misure alternative persino per il peculato. Da ieri sappiamo che le ragioni della scelta compiuta dalla Cassazione sono ancora più sorprendenti, e incoraggianti, di quanto si fosse inteso. Prima di tutto perché hanno a che vedere con la violazione non del principio di irretroattività ma del principio di ragionevolezza, e silurano dunque le nuove norme in assoluto, non solo rispetto alla loro applicabilità ai reati commessi prima che la riforma entrasse in vigore. Inoltre le motivazioni dell’ordinanza si agganciano addirittura alle tesi affermate dall’accademia negli Stati generali dell’esecuzione penale.

L’irragionevolezza. Certo, a essere presa di mira è l’ostatività ex articolo 4 bis estesa a una fattispecie specifica qual è il peculato. Ma la Cassazione afferma la generale necessità di un «fondamento logico e criminologico» delle «scelte legislative» che riguardano la sanzione dei comportamenti illeciti. In sostanza, assimilare i “corrotti” a mafiosi e terroristi è, per la Suprema corte, irragionevole. Vi è quanto meno il sospetto che la “spazza corrotti” violi il principio costituzionale di ragionevolezza ( come aveva già segnalato, con ordinanza analoga, la Corte d’appello di Palermo), ed è per questo che il giudice di legittimità ha deciso di rimettere la questione alla Consulta. Dopo l’udienza con cui proprio un mese fa, la prima sezione, presieduta da Giuseppe Santalucia e con Raffaello Magi relatore, aveva assunto la decisione depositata ieri, si era dato per scontato che l’avesse voluto affermare il principio di irretroattività. L’ordinanza infatti riguarda il caso di un condannato in via definitiva per peculato, Alberto Pascali, che si è visto negare la possibilità di chiedere la messa alla prova ed è stato costretto a valicare la soglia del carcere di Bollate. In particolare, la Cassazione è intervenuta sulla successiva scarcerazione di Pascali, ordinata l’ 8 marzo dalla gip di Como Luisa Lo Gatto, convinta della inapplicabilità della norma che estende l’articolo 4 bis ai reati di corruzione, peculato compreso, anche per le condotte precedenti l’entrata in vigore della “spazza corrotti”. A chiamare in causa la Suprema corte è stata la Procura di Como, che ha impugnato l’ordinanza della gip. Nella decisione depositata ieri dalla Cassazione ci sono aspetti di straordinario interesse. Senz’altro quello della probabile irragionevolezza della “spazza corrotti” nella parte in cui estende il 4 bis a reati come il peculato, e assimila così i “corrotti” a mafiosi e terroristi. Vizio energicamente denunciato nella memoria difensiva predisposta, per Pascali, dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini. «In particolare la condotta di peculato», afferma la Cassazione, «non appare contenere — fermo restando il suo comune disvalore — alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore, trattandosi di condotta realizzata senza uso di violenza o minaccia e difficilmente inquadrabile — sul piano della frequenza statistica — in contesti di criminalità organizzata». In altre parole, non si può trattare il peculato come la mafia.

Il carcere e la riforma. Non è finita qui. Perché nel ritenere irragionevole precludere l’accesso immediato, per i corrotti, a misure alternative come la messa alla prova, la Cassazione “resuscita”, per così dire, la riforma del carcere in realtà mai venuta alla luce. Lo fa con un omaggio ai principi di quella rivoluzione incompiuta, pure contenuti, sotto forma di delega, in una legge entrata in vigore: «Va segnalato come nella scorsa legislatura», ricorda la Cassazione, «siano stati approvati in Parlamento più punti di legge delega — la n. 103 del 2017 ( la riforma penale dell’ex ministro Orlando, ndr) — tendenti alla riconsiderazione complessiva delle preclusioni legali di pericolosità in sede di accesso alle misure alternative, con riaffidamento al giudice del compito di valutare la sussistenza delle condizioni di ammissione». E, aggiunge la prima sezione persino con un certo “coraggio politico”, «il mancato esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa la necessaria riconsiderazione organica del sistema delle presunzioni, tradottasi», appunto, «in legge nel 2017». Nel sospettare l’incostituzionalità dell’estensione al peculato del regime ostativo ex articolo 4 bis, la Cassazione insomma si riconnette alla lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale. Quanto meno rispetto alla necessità di affidare al giudice la valutazione dell’effettiva, persistente pericolosità del soggetto. Una rivoluzione nella rivoluzione. Che non potrà certo far vivere una riforma penitenziaria lasciata morire, ma che almeno può eliminare le parti più irragionevoli della spazza corrotti.

·         La cupola degli esattori infedeli e l’estorsione legalizzata.

Agenzia delle Entrate e gli esattori infedeli. Sono centinaia i reati commessi dai "controllori" a colpi di mazzette (prese) che costeranno condanne. Fabio Amendolara il 25 giugno 2019 su Panorama. Un catalogo ben assortito. C’è chi ha offerto a imprenditori facoltosi e rinomati un facile accesso a rateizzazioni a cui non avevano diritto, chi aveva addirittura una tariffa prezzi in base allo sconto da applicare sulle tasse, chi pretendeva compensi in euro da comuni cittadini per accelerare il suo lavoro e chi, più mestamente, si è accontentato di un bracciale d’oro. E così, anche quest’anno, uno dopo l’altro funzionari, dirigenti e anche qualche direttore dell’Agenzia delle entrate sono finiti nella rete della magistratura. Lo scorso anno l’Agenzia del fisco aveva messo le mani avanti, pubblicando i dati sconcertanti sul 2017: 562 dipendenti finiti sott’accusa, 455 indagati e 107 condannati. Ma cosa è accaduto dopo il 31 dicembre 2017? Quello era l’ultimo giorno del conteggio voluto da Antonino Maggiore, ex generale della Guardia di finanza che dal 12 settembre 2018 ha preso le redini dell’Agenzia. La rotta dei reati, stando alla cronaca, non si è invertita. E anche nell’ultimo anno, e fino a qualche giorno fa, molti avvisi di garanzia, ordinanze di arresto e sentenze di condanna hanno funestato le giornate dell’ex generale che deve aggiornare la statistica, applicare sospensioni e avviare procedimenti disciplinari verso i sottoposti. Tanti casi, è ovvio, non sono ancora giunti a una condanna definitiva e, quindi, per tutti, vale il principio d’innocenza. Ma una ricognizione tra le ultime notizie è particolarmente istruttiva.

Spesso le accuse riguardano reati molto gravi, come la corruzione. A volte, invece, questioni mediaticamente fastidiose, come i furbetti del cartellino. Nel marzo 2018, a Caserta ne hanno beccati 16. Pur di assentarsi durante le ore di lavoro, per timbrare la scheda presenze, utilizzavano persino l’usciere. Il gip ne ha puniti sette, sottoponendoli all’obbligo di presentazione, per tre volte alla settimana, alla polizia giudiziaria. Altri nove sono finiti sul registro degli indagati. Ma in Campania è un altro il caso che imbarazza di più gli uffici romani di via Cristoforo Colombo: l’arresto ai domiciliari di Emilio Vastarella, 58 anni, direttore provinciale a Salerno. È finito in un’inchiesta della Procura antimafia che ipotizza un collegamento tra un imprenditore caseario e un vecchio boss della camorra cilentana. Mafia a parte, il caso che riguarda Vastarella (che con la criminalità organizzata non c’entra) è legato a dei regali: un bracciale in oro e diamanti e un orologio di lusso, in cambio di un abbuono di 60 mila euro sul pagamento di una sanzione comminata all’imprenditore. Dalla direzione centrale dell’Agenzia delle entrate, dopo aver adottato i provvedimenti previsti dalla normativa interna, hanno annunciato che in un eventuale processo si costituiranno parte civile a tutela della propria immagine. Per il danno all’immagine, in realtà, si sono già mossi per un altro direttore. Ex direttore, in realtà. A Firenze, Nunzio Garagozzo, già condannato per corruzione, dovrà restituire ciò che risparmiò un’impresa. La stangata della Corte dei conti è arrivata un anno fa, con un maxi risarcimento da oltre 7 milioni di euro, frutto in gran parte della cifra (circa 6,6 milioni) fatta risparmiare all’impresa alla quale era stato aggiustato un controllo fiscale. In cambio, l’ex direttore avrebbe ottenuto una tangente di 300 mila euro per sé e per due intermediari. Il danno di immagine provocato all’Agenzia delle entrate è stato stimato in 200 mila euro. Ma non sempre le mazzette contestate sono così cospicue. A Cosenza, per esempio, nel settembre 2018, accelerare un atto di successione, un dipendente si è contenuto con un «extra» di 300 euro. Ma gli è andata male, perché il cittadino l’ha denunciato e il caso è finito in Procura. Un mese dopo è finita nei guai una sua collega a Codogno: anche lei aiutava gli utenti a compilare le dichiarazioni di successione, con tariffe fino a 500 euro. E sempre a ottobre, un funzionario romano, Orazio Orrei, è stato accusato di aver manipolato pratiche per garantire uno «sconticino» sulle tasse intascando appena 25 euro. In realtà, sostengono gli investigatori, lavorava sulla quantità: sarebbero state alterate più di 2.000 pratiche, per un ammanco procurato all’erario ipotizzato in 550 mila euro. Il caso è diventato mediatico perché nel polverone giudiziario è finito anche l’attore Carlo Giuffré, icona della commedia all’italiana. Secondo l’accusa avrebbe ottenuto dal funzionario uno sconto da 65 mila euro tra omessi versamenti d’imposta e indebiti riporti di credito. Ma Giuffré non è l’unico vip finito sui giornali insieme a funzionari del Fisco. Flavio Briatore, a causa di uno yatch di 63 metri, era finito sotto inchiesta per questioni tributarie (che poi si sono risolte in Cassazione per l’accusa di fatture inesistenti, per l’omesso versamento Iva, invece, fu rimandato tutto alla Corte d’appello). Il suo contatto nell’Agenzia delle entrate era il direttore dell’ufficio di Genova Walter Pardini, che in passato era già incappato in inconvenienti giudiziari. Il gip in un’ordinanza spiegò il perché di quei contatti: «L’accordo comprendeva l’attività di Briatore volta a convogliare personaggi illustri e a fornire visibilità alle attività di Pardini in Kenya (che gestiva un resort ndr)». Una promozione che Briatore ha negato. Appena qualche settimana e la direzione centrale del Fisco ha incassato un’altra grana: a Vasto, un’inchiesta ha travolto i vertici dell’ufficio abruzzese, sott’accusa per abuso d’ufficio e tentata concussione per aver agevolato una società nella vendita di un ramo aziendale. E ancora: a Brescia da poco in Procura hanno depositato tre richieste di rinvio a giudizio in un’inchiesta per presunte mazzette che ha coinvolto in tutto una decina di dipendenti per omessa denuncia, abuso d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico. L’accesso a quest’ultimo, a livelli da Grande fratello, invece, è contestato a un capo area di Varese: è entrato per 120 volte nell’anagrafe tributaria, non si sa ancora per quale ragione. E poi ci sono le condanne: a Potenza per i giudici è responsabile di accesso abusivo a sistemi informatici, Lucia Muscaridola, ex dirigente soprannominata «Lady fisco». Per lei, un anno e sei mesi di reclusione. A Ravenna, invece, è toccato a Nicola Ricciardi, che di anni ne ha avuto sei per una tentata induzione indebita ai danni di alcuni imprenditori. Il catalogo, come si diceva, è questo. Ed è ancora lungo. 

"Agenzia delle entrate? Estorsione". Quella confessione dell'ex dirigente. L'ammissione a Striscia la notizia: "Trovo inaccettabile quello che succede". Luca Romano, Giovedì 31/03/2016, su Il Giornale. "Finalmente un organo di informazione che dice la verità". Così Luciano Dissegna, ex dirigente e funzionario dell'Agenzia delle Entrate, commenta con Striscia la notizia una serie di servizi particolarmente taglienti e accusa il fisco di funzionare in base "al cosiddetto obiettivo monetario". "Più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi. Credo che, a fine anno, i dirigenti più grossi portino a casa anche 70-80mila euro in più", racconta all'inviato Riccardo Trombetta l'ex dirigente, che individua nei piccoli imprenditori i più colpiti dagli accertamenti fiscali. Dissegna spiega che quando "arriva un accertamento da 100mila euro", davanti alla proposta di pagarne solo metà "ci si trova costretti a pagare". E non ha mezzi termini: "Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi".

Le Entrate puniscono un loro ex. Revocato l'incarico per le critiche al blitz di Cortina. Giovanni Bucchi su Italia Oggi Mercoledì 8 aprile 2015. Le sue critiche indirizzate ai vertici dell'Agenzia delle Entrate sono state ritenute troppo dure. Il suo comportamento bollato come «gravemente lesivo». Motivo per cui Orazio Luciano Dissegna, ex dirigente delle Entrate, non potrà più assistere i contribuenti in contenzioso con il Fisco davanti alla Commissione tributaria. Lo ha deciso la Direzione Giustizia Tributaria del Ministero dell'Economia e delle Finanze che qualche giorno fa gli ha recapitato una comunicazione nella quale annuncia «la predisposizione del provvedimento di revoca» dalla qualifica di «difensore». Il motivo? Le continue esternazioni contro l'Agenzia, a partire dalla sua lettera pubblicata ormai tre anni fa sul Gazzettino dopo il blitz di un'ottantina di funzionari a Cortina nel pieno delle vacanze natalizie di fine 2011. Si trattò di un'operazione dal fortissimo impatto mediatico che - come avrebbe in seguito spiegato l'allora dg delle Entrate Attilio Befera -, fruttò alle casse dello Stato il recupero di oltre 2 milioni di euro tra tasse evase (Ires, Irap e Iva) e sanzioni. Sessantaquattro anni, ex sindaco del Comune di Romano D'Ezzelino in provincia di Vicenza, Dissegna ha iniziato la gavetta professionale nell'ufficio del registro di Montebelluna, fino a diventare direttore dell'Agenzia delle Entrate nello stesso comune trevisano, quindi a Thiene e a Schio, salvo poi dimettersi nel 2009 accettando il prepensionamento di 8 anni in protesta contro i piani alti dell'ente statale. Il burrascoso rapporto è poi continuato anche negli anni successivi. La vicenda che ha condotto alla revoca del suo incarico, raccontata ieri dal Gazzettino, scaturisce proprio da una lettera spedita da Dissegna al quotidiano veneziano all'indomani del massiccio controllo organizzato dai funzionari del Fisco nella Perla delle Dolomiti. «Non so se i vantaggi legati ai quattro soldi che l'Agenzia delle Entrate è riuscita (o riuscirà) a recuperare siano superiori agli svantaggi conseguenti allo sputtanamento della località e all'odio sociale che si sta diffondendo verso i commercianti» aveva tuonato Dissegna. Il quale qualche tempo dopo si era spinto oltre diffondendo un appello al mondo politico e universitario dal significativo titolo «Fate schifo», con 15 declinazioni di questa invettiva perlopiù a difesa di piccoli imprenditori, artigiani e partite Iva, tutti ritenuti troppo vessati dalle tasse e dalla stretta al controllo fiscale. Al quartier generale delle Entrate certi toni non erano affatto passati inosservati. E così il 19 aprile 2012 ecco arrivare dagli uffici di Venezia la «proposta di revoca dell'autorizzazione all'esercizio delle funzioni di assistenza tecnica in materia tributaria», facoltà questa che gli era stata concessa proprio in quanto ex dirigente. Dopo quasi tre anni, da Roma il Ministero ha comunicato di accogliere la richiesta della sezione regionale ritenendo le «espressioni» usate da Dissegna «un chiaro esempio di comportamento gravemente lesivo nei confronti dell'Amministrazione finanziaria stante che, anche al di fuori dell'attività professionale, il difensore deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro». Detto ciò, si spiega che «è in corso di predisposizione il provvedimento di revoca». Dal canto suo, oltre alle dichiarazioni successive al blitz di Cortina, Dissegna non è mai stato tenero con i suoi ex datori di lavoro. In una sua lunga intervista rilasciata nel giugno del 2014 a Stefano Lorenzetto de il Giornale, che lo aveva descritto come un «funzionario pentito», il tributarista aveva attaccato nuovamente le Entrate sostenendo che l'Agenzia «procura più danni che vantaggi alla nazione», invitando il premier Matteo Renzi a istituire piuttosto «l'Agenzia delle uscite per mettere sotto controllo la spesa pubblica, il vero cancro di questo Paese».

Striscia la notizia vs agenzia delle entrate: “estorsione legalizzata”. Lo scontro. Marco Leard lunedì 2 maggio 2016. “Rapine in corso”: Striscia la Notizia non usa giri di parole contro l’Agenzia delle Entrate. Ormai quello tra il tg satirico e il Fisco è un braccio di ferro: da settimane, il programma di Canale5 sta trasmettendo servizi che denunciano errori e presunte vessazioni commesse ai danni dei cittadini in merito ad accertamenti sul valore catastale. E le accuse che volano sono pesanti. Forte delle testimonianze e delle proteste raccolte, il notiziario di Antonio Ricci ha infatti parlato di “vera e propria estorsione legalizzata“. Non solo. Secondo Striscia la Notizia, l’Agenzia delle Entrate avrebbe organizzato “una campagna contro i contribuenti al solo scopo di far cassa facilmente“. Il tg satirico ha dato spazio alle rimostranze di cittadini che si sono visti assegnare sanzioni a seguito di un accertamento sul valore catastale ritenuto errato dai diretti interessati. Spesso – ha infatti denunciato Striscia – i funzionari del Fisco hanno paragonato tra loro terreni e immobili di differente entità, magari senza nemmeno effettuare opportuni sopralluoghi. Dopo una contrattazione con l’Agenzia stessa, molti contribuenti ‘malcapitati’ hanno comunque accettato di versare l’importo patteggiato pur di non spendere ulteriori soldi tra avvocati e ricorsi. Da settimane, il programma di Antonio Ricci documenta anomalie e casi sospetti, utilizzando toni severi nei confronti dell’Agenzia. In alcuni servizi, ad esempio, il tg satirico ha inserito spezzoni del film Il Padrino, attribuendo a Don Vito Corleone commenti velenosi. Nemmeno un’intervista al viceministro Enrico Zanetti ha chiarito del tutto la vicenda, ed i servizi di Striscia sono proseguiti. Ma all’Agenzia delle Entrate non l’hanno presa bene ed hanno sollecitato l’Avvocatura dello Stato a denunciare la trasmissione e Mediaset sia per diffamazione sia per istigazione a delinquere. Quest’ultima accusa sarebbe dovuta ad un cartello dai toni minacciosi comparso in un filmato (“Trovare l’indirizzo del funzionario e bruciargli la casa“). Come riporta Repubblica, l’Agenzia ha inoltre dichiarato che alcuni dei contribuenti vessati hanno detto in televisione cose parziali, interessate o false, che Striscia non ha mai chiesto verifiche o repliche e che, in caso di errori, il Fisco avrebbe ammesso le sua colpe.

E Antonio Ricci ha replicato così: “L’Agenzia vuole trascinarci in Tribunale? Sarebbe una causa temeraria. Chi glieli paga chiedo io, gli avvocati? Noi in ogni caso abbiamo centinaia di cittadini pronti a difenderci in qualsiasi sede, incluso il Tribunale per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo (…) L’Agenzia vuol far credere che abbiamo aizzato i cittadini quando è vero il contrario”. In merito al cartello violento comparso in video, Ricci ha precisato che Striscia si sarebbe limitata a riportare lo sfogo di un contribuente esasperato. Ed ha aggiunto che le azioni violente contro l’Agenzia, che pure non sono mancate, “sono tutte precedenti alle nostre inchieste“. Intanto, in una circolare del 28 aprile, l’Agenzia indica ai dipendenti nuove modalità di accertamento, introducendo il confronto preventivo con il contribuente e suggerendo sopralluoghi nella zona di ubicazione, ma anche documentazioni più precise nell’avviso di rettifica. Novità che Striscia ha attribuito al proprio lavoro di denuncia. Ma il braccio di ferro continua.

"Gli abusi del Fisco". Se la vita è una tassa...TP2414/10/2018. La vita è una tassa. Esordisce così il libro “Gli abusi del Fisco” di Peter D'Angelo e Fabio Valle, edito da Chiarelettere. Dal titolo ci si aspettano numeri, conti nel difficile mondo, spesso incomprensibile del calcolo delle tasse, ci si ritrova, invece, a leggere storie di uomini e donne, imprenditori, gente della porta accanto che racconta lapropria vita. Gli autori nero su bianco stanano i lati oscuri del fisco e li raccontano attraverso gli accertamenti fiscali che spesso poi si sono dissolti in bolle di sapone per alcune aziende, nel frattempo però l'azienda ha già chiuso in Italia, licenziato i propri dipendenti e aggredito altri mercati. Nel libro a mettere in discussione tutto il sistema è Luciano Dissegna, ex dirigente dell'Agenzia: “A distruggere la piccola e media imprenditoria è proprio l'Agenzia, la più importante istituzione economica del Paese". E a rimarcare la stessa posizione è Renato Fiorenza, dirigente in pensione: “La categoria più colpita è quella dei piccoli imprenditori, è più facile pescare quintali di alici che pescare qualche squalo”. Dietro le imprese ci sono famiglie, ci sono operai con le rispettive di famiglie, ci sono i sacrifici di investimenti. Gli autori raccontano la vita di un panettiere di Rovigo, le sue ore fatte di notti di lavoro e di impasti, fino a quando il fisco non contesta 144 mila euro di presunta evasione. Il paradosso delle azioni portate avanti dall'Agenzia è una cospicua riduzione del presunto debito se viene accettato e pagato subito dall'evasore. In questo caso ad esempio da 144 mila euro l'Agenzia si accontenta di 8000, il panettiere paga ma allo stesso tempo è costretto a licenziare due operai, non ha più fatto alcun investimento. Lo strumento utilizzato prevalentemente dal fisco è quello presuntivo, un fisco indicato come cieco e presuntuoso, che non conosce più la realtà economica del territorio. Succede quindi che le aziende lasciano il mercato italiano e aggrediscono quelli esteri, licenziando i dipendenti che diventano disoccupati e che saranno assistiti dal welfare. Si racconta ancora la storia di un' azienda friulana, la Bernardi, con 1200 dipendenti e 164 punti vendita nel mondo. L'azienda è pronta a stipulare un contratto con la Coin per rifornire i loro punti vendita ma nel 2012 l'Agenzia chiede 190 milioni di euro per presunte tasse non pagate nel 2007. Salta subito l'accordo con la Coin, il Tribunale di Napoli dichiara illegittima la richiesta dell'Agenzia ma la Bernardi è già in amministrazione controllata. Il caso è grottesco perchè la Coin prima di fare un accordo con i Bernardi aveva chiesto all'Agenzia i carichi pendenti fiscali: non c'era nulla. Nessuna evasione. Salvo poi saltare fuori dopo qualche settimana la cartella da 190 milioni di euro, successivamente annullata. Un errore del fisco che rende fatale la vita ad una azienda, rende precarie le condizioni di una famiglia e ne annienta i sogni. Tra gli ultimi marchi a lasciare l'Italia anche la Bikkemgers, dopo un accertamento di 130 milioni di euro. Anche qui tutto finito in una bolla di sapone. Emerge dal libro che l'Agenzia delle Entrate non funziona, che ingolfa la giustizia con una serie di accertamenti, tanti, per poi finirne a riscuotere davvero poco. Una serie di ingiustizie che descrivono non solo lo stato dell'Agenzia delle Entrate ma del Paese.

·         Mafia-Affari-Finanza.

OSTENSIONE DI SINDONA. Maurizio Caprara per il “Corriere della Sera” il 5 agosto 2019. Contrassegnato dalla scritta «Riservato» il «Rapporto ispettivo» della Banca d' Italia sulla Banca Privata Finanziaria Spa è dell' aprile 1972. Riguarda controlli eseguiti dal settembre 1971 al marzo successivo, dunque un po' più di un anno prima rispetto a quando Giulio Andreotti avrebbe definito Michele Sindona un «salvatore della lira». La Banca Privata era uno strumento della finanziaria Fasco di Sindona. Nel suo funzionamento gli ispettori dell' istituto centrale guidato dal governatore Guido Carli rilevavano «gravi e numerose irregolarità». Descrivevano la Banca Privata così: «Il sistema contabile era lacunoso poiché non offriva la possibilità di effettuare controlli concomitanti». Oppure: «Non erano appostate a "sofferenze" tutte le esposizioni verso clienti nei confronti dei quali erano in corso atti di rigore o che versavano in gravi e non transitorie difficoltà economiche». Uno dei dettagli: «Per favorire la clientela era diffuso il ricorso alla emissione di assegni circolari mediante accorgimenti (indicazioni di ordinari di fantasia (...))». Sono elementi che risaltano tra le 2.300 pagine di atti della commissione parlamentare d' inchiesta sul caso Sindona, attiva al principio degli anni 80, desecretate su indicazione del presidente della Camera Roberto Fico. Da informative, fonogrammi e altri documenti riaffiora un lato dell' Italia da non rimuovere: esistevano nello Stato anticorpi che avrebbero potuto impedire danni prodotti da Sindona, ma non ebbero per tempo né i mezzi né la forza necessari per bloccare quel banchiere abile nello sfruttare vuoti normativi e agganci politici, in particolare nel versante andreottiano della Democrazia cristiana. Colpisce, tra le carte sul futuro mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli, ucciso mentre esplorava la ragnatela degli affari di Sindona, rintracciare comunicazioni sull'estradizione del bancarottiere dagli Stati Uniti firmate da Girolamo Tartaglione nel 1976 e 1977 più un accenno a un'inchiesta di Giovanni Falcone. Tartaglione e Falcone si occuparono di tanti casi, però in seguito sarebbero stati accomunati da come finirono le rispettive vite: nel sangue. Il primo, direttore generale degli Affari penali nel ministero della Giustizia, fu assassinato nel 1978 dalle Brigate rosse. Il secondo, giudice passato allo stesso ministero, dalla mafia nel 1992. Non è detto che documenti liberati dal segreto ribaltino la storia. Ma è bene che nell' Archivio storico della Camera dei deputati siano accessibili queste carte. Uno dei doveri di chi vive nel presente è evitare errori e orrori del passato.

·         La cupola dei politici. Anche di sinistra. Per insabbiare il Dossier mafia-appalti si uccisero Falcone e Borsellino e si processarono i Ros?

Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini. Damiano Aliprandi il 25 Ottobre 2019 su Il Dubbio. In esclusiva I contenuti dei verbali dell’interrogatorio a Leonardo Messina. Anche in un’audizione della commissione antimafia, presieduta da Luciano Violante, alla domanda se nella gestione mafiosa ci fossero ditte nazionali rispose: «La calcestruzzi spa di Riina». Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno. Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”. Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima». La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini. Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio. Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra. Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino – avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca. Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte». Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 – la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo. Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini. Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina». Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati.

Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato. Damiano Aliprandi il 3 luglio 2018 su Il Dubbio. La corte smonta il luogo comune di uno stato inerme e piegato agli interessi di Cosa nostra nel periodo delle stragi. Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore». Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio. Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte» : furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale. Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti. Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero». Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.

Mafia Appalti, concausa della strage di via D’Amelio? Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco». Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra.

La prima versione sulla strage. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.

Violante: «Per Falcone l’indagine su mafia-appalti era la più importante». Damiano Aliprandi il 5 Novembre 2019 su Il Dubbio.  L’ex presidente dell’antimafia al processo di appello sulla presunta trattativa. È stato ascoltato per fornire I necessari chiarimenti su modalità e circostanze dei suoi contatti, tra ottobre e novembre del 1992, con il generale Mario Mori. «Giammanco mi chiese di incontrarci prima delle stragi. Più volte mi chiese di incontrami e cercava di illuminarmi sull’inconsistenza di quel rapporto riferendosi appunto all’indagine mafia- appalti. Mi colpiva l’insistenza di Giammanco di definire quel rapporto privo di fondamento». Sono le parole di Luciano Violante, ex presidente della Commissione antimafia negli anni delle stragi del ‘92 e del ‘93. Già sentito in primo grado, è stato risentito ieri al processo d’appello sulla trattativa fra Stato e mafia per chiarire alcuni aspetti. Durante l’audizione emerge la questione inedita dell’ex capo della Procura di Palermo, Pietro Giammanco, proprio sul dossier mafia appalti. Parliamo dell’indagine del Ros dei carabinieri, nata sotto la spinta di Falcone, che riguarda il monopolio degli appalti pubblici e privati da parte della mafia di Riina, dove erano coinvolte aziende importanti a carattere nazionale. Violante ha espresso quindi delle perplessità circa il singolare tentativo di convincimento portato avanti da Giammanco. Ma poi ha aggiunto anche un altro particolare: «Eravamo molto amici io e Falcone, ricordo che lo vidi molto preoccupato come mai lo avevo visto prima e fece un accenno a questa questione: riteneva importante quell’indagine mafia- appalti». La richiesta di archiviazione è stata redatta il 13 luglio del 1992, poi depositata formalmente tre giorni dopo la morte di Borsellino. L’archiviazione poi è stata firmata dal Gip in meno di un mese, ovvero il 14 agosto del ’ 92. Violante è stato ascoltato per fornire i necessari chiarimenti su modalità e circostanze dei suoi reiterati contatti, tra ottobre e novembre del 1992, con il generale Mario Mori alla luce delle spontanee dichiarazioni rese sul punto dallo stesso Mori all’udienza del 21 gennaio del 2016; nonché su sue eventuali interlocuzioni da cui avrebbe tratto timori circa possibili iniziative in ordine al mancato rinnovo dei decreti applicativi del 41 bis nel mese di novembre del 1993, ed ancora chiarimenti sulle ragioni della mancata audizione di Vito Ciancimino dinnanzi alla Commissione antimafia da lui presieduta. Per quanto riguarda il 41 bis, Violante ha spiegato quanto il regime duro fosse particolarmente penoso e restrittivo per i detenuti. «All’epoca quel regime carcerario – ha spiegato Violante – era stato deciso anche per persone per cui non ricorrevano particolari elementi di pericolosità. Ora non posso escludere di aver fatto delle richieste per avere un report sull’andamento di quel regime all’epoca al ministro Conso, col quale avevo un certo rapporto, ma non ci fu risposta e non ho mai sollevato formalmente in ambito politico la questione». Per quanto riguarda la mancata audizione di Vito Ciancimino, Violante ha spiegato: «Mori mi chiese di sentirlo riservatamente, ma io risposi subito che non facevo incontri riservati. "Come cortesia", disse ancora lui, perché Ciancimino aveva delle cose rilevanti da dire. Una richiesta che non mi sembrò inerente ad alcuna trattativa, ma una normale negoziazione di polizia. Conoscendo Mori, non mi stupì che potesse prendere un’iniziativa del genere». Un metodo, secondo Violante, che avrebbe spesso portato a dei risultati investigativi importanti. Entrambi, sia Violante che Mori, intanto, ricordano i tre distinti incontri, ma li collocano in date diverse. «Ciancimino chiedeva di essere sentito senza condizioni tramite una lettera il 29 ottobre. Sulla busta non c’è francobollo né timbro postale e quindi presumo che sia stata consegnata a mano – ha raccontato Violante -. Se davvero Ciancimino avesse deciso di venire in Antimafia prima del 20 ottobre sarebbe singolare l’attesa di dieci giorni per l’invio della richiesta formale. Più credibile mi sembra che egli abbia comunicato al colonnello Mori tale decisione dopo il 22, data nella quale io non ne avevo parlato in Commissione perché non conoscevo questa intenzione, e prima del 27, data nella quale io, informato dal colonnello, informai a mia volta l’ufficio di presidenza. Così potrebbe spiegarsi la consegna alla Commissione della lettera di Ciancimino il 29 ottobre». Violante ha raccontato che Ciancimino intendeva fornire motivazioni politiche degli omicidi di mafia. «Non volevamo offrire un palcoscenico a un personaggio discutibile. Comunque il 29 ottobre proposi alla Commissione di sentirlo, lui poi fu arrestato il 19 dicembre ‘ 92 e venne ascoltato dall’autorità giudiziaria per tutto il ‘93».

Violante: mafia-politica, l’ultimo asse da spezzare. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. La lotta a Cosa nostra spiegata ai giovani: le leggi non bastano, una democrazia non può crescere in una società che non abbia onesti comportamenti. La mafia — la Cosa nostra siciliana che ha lasciato segni indelebili sulla storia d’Italia, ma anche le altre grandi organizzazioni criminali: ‘ndrangheta, camorra o comunque si chiamino — ha bisogno di convivere con il potere. È da lì che trae la propria forza: dalla capacità di imporre un rapporto occulto con chi amministra la cosa pubblica, che diventa vitale per garantirsi guadagni illeciti e impunità. In cambio di appoggi elettorali, tangenti o altre forme di corruzione e di sostegno. Sono gli «equilibri mafiosi» che Luciano Violante individua come l’asse da spezzare affinché la battaglia contro la mafia (le mafie) sia vinta definitivamente. Dalla società civile, oltre che dalle forze di polizia dalla magistratura — la prima linea — e dalla classe politica; che fa più fatica di tutti, in quanto diretta protagonista nella convivenza che spesso diventa collusione e complicità. Prima di diventare presidente della Camera nel 1996, l’ex magistrato Violante guidò la Commissione parlamentare antimafia all’indomani delle stragi del 1992, la stagione più buia per lo Stato da cui però è nata la riscossa che ha portato alla sconfitta dei Corleonesi. Non della mafia, ma della sua componente terroristica, quella che insieme agli equilibri fece saltare in aria le persone per imporne di nuovi. Determinando mutamenti interni ed esterni all’organizzazione che hanno cambiato Cosa nostra e il suo modo di agire. Trasformandola in un’entità che tende a inabissarsi, continuando a proliferare ma «sotto il pelo dell’acqua», per non destare interesse e di conseguenza allarme. L’Antimafia di Violante fu quella che più di ogni altra si dedicò all’analisi e alla denuncia dei rapporti con la politica, e dopo un quarto di secolo l’ex presidente — che ha continuato a studiare il fenomeno e la sua evoluzione — ha deciso di rivolgersi ai giovani. Ragazzi e ragazzi che al tempo delle bombe non erano nati, o ancora non potevano capire quello che stava accadendo, ai quali racconta la mafia attraverso la lotta alla mafia. Cominciata prima del ’92, e costellata di stragi e omicidi eccellenti consumati quando a reagire e rompere gli equilibri erano in pochi. Troppo pochi. Tutti caduti, o quasi: da Boris Giuliano a Piersanti Mattarella, da Cesare Terranova a Carlo Alberto dalla Chiesa, passando per Gaetano Costa, Pio la Torre, fino a Rocco Chinnici e altri. A volte sconosciuti o dimenticati. Uccisi «mai per caso», ma perché ciascuno di loro costituiva un granello di sabbia che rischiava di inceppare l’ingranaggio, e dunque andava rimosso. Esempi e frammenti di storia civile da non dimenticare, anzi da riscoprire: «La lotta alla mafia è una straordinaria chiave di lettura della nostra storia… La storia dell’antimafia non è la storia d’Italia, ma serve a capire la storia d’Italia». Quella di ieri e quella di oggi, si deduce leggendo il libro («Colpire per primi. La lotta alla mafia spiegata ai giovani», edizioni Solferino). Che non si limita a parlare del passato ripercorrendo le tappe fondamentali del contrasto alle cosche, i successi e le sconfitte, ma affronta pure i nodi del presente. Come la normativa antimafia sempre in evoluzione, dai beni confiscati alle interdittive per tentare di preservare l’economia legale da infiltrazioni illegali, alle regole sull’incandidabilità di condannati e personaggi ambigui, peraltro «approvate con larghissima maggioranza ma non necessarie; infatti nessuno obbliga i partiti a candidare persone inaffidabili, e nessuno obbliga i cittadini a votarle». Il problema è che le leggi — come gli arresti, i processi e le condanne — non bastano; né possono diventare un alibi per delegare tutto alle istituzioni. Serve l’impegno dei singoli, affinché si tramuti in etica collettiva: «Una democrazia non può nascere né crescere in una società che non abbia onesti comportamenti, nella quale i cittadini non si prodighino per far emergere i valori civili». Per questo, oltre alla storia della mafia, è importante conoscere la storia della lotta alla mafia.

La questione morale di Enrico Berlinguer. Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981. «I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio......

nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati - di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

“PERCHE’ AVETE ARCHIVIATO MAFIA-APPALTI?”

 Borsellino, gli atti del Csm e le sue domande sul caso “mafia e appalti”. Errico Novi il 18 luglio 2019 su Il Dubbio. In un articolo del “Foglio” gli interrogativi del magistrato sul dossier dei Ros. Luigi Patronaggio, allora pm a Palermo, fu audito dal Csm.

Borsellino. gli atti del Csm. Sul Foglio di ieri c’è un magistrale articolo intitolato “La verità ritrovata”. Un contributo straordinario offerto a chi volesse liberarsi dal labirinto della “trattativa Stato-mafia”. Anche ai giudici della Corte d’appello di Palermo, dunque, chiamati a rivalutare la sentenza emessa in primo grado; a riconsiderare, soprattutto, la posizione di alcuni uomini dello Stato come Mario Mori e Giuseppe De Donno. I carabinieri del Ros ritenuti colpevoli di aver trattato con Cosa nostra e di averne favorito i propositi assassini nei confronti di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli altri eroi massacrati a Capaci e via d’Amelio. Nella pronuncia firmata dal presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto, lo snodo cruciale è nella presunta “preoccupazione” dei mafiosi per la scoperta, fatta da Borsellino, dei contatti fra gli stessi uomini del Ros e Vito Ciancimino.

L’omaggio a Borsellino. Come si può ben comprendere, il servizio proposto ieri dal Foglio, a firma di Ermes Antonucci, è anche un omaggio reso allo scoccare dei 27 anni da via D’Amelio. Si chiude non a caso con la seguente frase: «Il modo migliore per commemorare il sacrificio di Paolo Borsellino è fare luce, una volta per tutte, su ciò che accadde attorno a questa indagine negli ultimi giorni di vita del magistrato e subito dopo la sua morte». L’indagine è quella su “mafia e appalti”, avviata su impulso di Falcone, condotta materialmente dal colonnello Mori e dal capitano De Donno, esposta dai due ufficiali del Ros in una informativa del 20 febbraio 1991, ma non assegnata a Falcone, che proprio all’epoca sta per trasferirsi dalla Procura di Palermo al ministero della Giustizia. Ne diventano titolari alcuni sostituti dell’ufficio siciliano, allora diretto da Pietro Giammanco: i pm Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Borsellino, racconta il Foglio, non smette mai di coltivare l’interesse per un fascicolo che pure non è affidato a lui. Se ne occupa a distanza ma con attenzione. Tanto è vero che, un anno e mezzo dopo l’informativa del Ros, reagisce con evidente smarrimento di fronte agli esiti dell’inchiesta. Segnala che la stessa ansia è comune ai militari del Ros, dei quali ha fiducia e che, secondo la sentenza dello “Stato- mafia”, lo avrebbero invece disgustato per i traffici con Ciancimino.

Una riunione drammatica. Tali interrogativi vengono esplicitati eccome dal magistrato ucciso a via d’Amelio. Avviene in una riunione in Procura, a Palermo, il 14 luglio 1992. Cinque giorni prima che il tritolo esploda sotto casa della mamma di Paolo e che massacri, con il magistrato, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, la scorta. In quella riunione, Borsellino ascolta il collega Lo Forte spiegare che l’inchiesta “mafia e appalti” offre elementi di assai minore consistenza del previsto non tanto a carico di Angelo Siino, il mafioso considerato ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, quanto nei confronti dei politici e degli imprenditori che, secondo il Ros, Siino avrebbe coinvolto nella cupola degli affari. Il giorno prima Lo Forte e Scarpinato, non a caso, hanno finito di redigere la richiesta di archiviazione dell’indagine. Tre giorni dopo via d’Amelio, la depositano, vistata intanto dal capo dell’ufficio Giammanco. Il gip Sergio La Commare emette l’ordinanza di archiviazione alla viglia di Ferragosto.

Date fondamentali. Ci sono dunque quattro date. Tre sono note: via d’Amelio, il deposito della richiesta di archiviazione di “mafia e appalti”, l’accoglimento di tale richiesta firmato il 14 agosto. La prima data invece non la conosceva nessuno. O quasi. La prima data è quella del 14 luglio 1992. L’ultima riunione in Procura a cui abbia partecipato Paolo Borsellino. Come si è scoperto di quell’assemblea tra pm? La risposta spiega anche cosa c’entri il Dubbio con il pregevole contributo reso ieri dalFoglio alla ricostruzione dei fatti. Il vertice a Palermo voluto dal procuratore Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’ 92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Vengono sentiti in audizione pochi giorni dopo via D’Amelio. Tra loro c’è anche Luigi Patronaggio, ormai notissimo come procuratore di Agrigento.

La testimonianza di Patronaggio. «Il collega, il procuratore Borsellino, chiede addirittura delle spiegazioni, vuole chiarezza, su determinati processi», racconta Patronaggio al Csm, «chiede spiegazioni su un procedimento riguardante Siino Angelo e altri, e capisco che qualche cosa non va». Patronaggio aggiunge che, secondo Borsellino, «i carabinieri si aspettavano da questa informativa risultati giudiziari di maggiore respiro». Il Dubbio, cioè questo giornale, c’entra perché sulla diversità di aspettative rispetto a “mafia e appalti” ha pubblicato articoli per i quali i magistrati Lo Forte e Scarpinato hanno sporto querela. E c’entra anche perché le audizioni al Csm che segnalano tale diversità di aspettative sono state depositate non solo da Basilio Milio, difensore di Mori, al processo d’appello sulla “trattativa”, ma anche da Simona Giannetti, avvocata dei giornalisti del Dubbio, al processo per diffamazione seguito alle querele di Lo Forte e Scarpinato. Ma alla vigilia del 19 luglio, a 27 anni da via D’Amelio, viene prima di tutto un’altra aspettativa. Manifestata ieri da Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo: «L’impegno per la verità di mio padre e di Falcone credo che debba essere presente ancora oggi per far luce sulle tante omissioni e sulle irregolarità che hanno caratterizzato le indagini e i processi su via d’Amelio». C’è un modo per onorare la ricorrenza. E anche per uscire dal labirinto.

Paolo Borsellino e la verità ritrovata. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Ermes Antonucci su Il Foglio. In occasione del ventisettesimo anniversario della strage di Via D’Amelio, in cui il 19 luglio 1992 morirono il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina), il Foglio è in grado di rivelare alcuni aspetti inediti del grave contrasto che prima della strage caratterizzò il rapporto tra Borsellino e i colleghi della procura di Palermo, dove prestava servizio, in particolare attorno all’indagine che con molta probabilità contribuì all’uccisione del magistrato da parte di Cosa nostra, quella su mafia e appalti.

Ma andiamo con ordine. La strage di Via D’Amelio è in larga parte ancora avvolta nel mistero, ancor di più dopo che nel 2017 la Corte di Assise di Caltanissetta, con la sentenza del processo Borsellino quater, ha svelato l’incredibile depistaggio delle indagini realizzato attraverso le rivelazioni di alcuni falsi pentiti (tra cui Vincenzo Scarantino), che ha prodotto “uno dei più gravi errori giudiziari della storia del nostro Paese”, costata la condanna all’ergastolo di otto innocenti. A Caltanissetta è ora in corso il processo sul depistaggio, che vede imputati tre poliziotti accusati di aver “indottrinato” i falsi pentiti, mentre la procura di Messina sta valutando l’operato del pool di pubblici ministeri all’epoca in servizio a Caltanissetta che portarono avanti l’indagine depistata (pool composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, deceduto, e dai sostituti Antonino Di Matteo, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, con questi ultimi due ora formalmente indagati).Tutto ruota intorno a una riunione del 14/7/92, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino. Ricordate mafia e appalti? Per commemorare il sacrificio di Borsellino urge fare luce su ciò che accadde attorno a un’indagine archiviata subito dopo la sua morte.

La sentenza del Borsellino quater ha stabilito che ad accelerare l’uccisione di Borsellino furono diversi motivi, come il probabile esito sfavorevole del maxiprocesso e la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti, in particolare in materia di mafia e appalti. Si tratta della celebre indagine fortemente voluta da Giovanni Falcone, e poi ripresa da Borsellino, incentrata sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi. L’inchiesta fu condotta, tra la fine degli anni ‘80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno. Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. La persona di riferimento del sistema di gestione illecita degli appalti veniva individuata in Angelo Siino, poi passato alla storia come il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia e appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del Ministero della Giustizia e riteneva di fondamentale importanza l’informativa. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Alla fine, il 7 luglio 1991 la procura chiese solo cinque provvedimenti di custodia cautelare. Non solo, ai legali dei cinque arrestati fu incredibilmente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, col risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte di indagine che chiamava in causa esponenti politici.

Dopo l’uccisione di Falcone, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise di riprendere l’inchiesta riguardante il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti e fornirle un nuovo slancio, considerandola di grande importanza. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con Mori e De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini in materia di mafia e appalti riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani Pulite. Nonostante l’attenzione riposta da Borsellino all’indagine mafia appalti, il 13 luglio 1992, con il magistrato ancora in vita, i sostituti procuratori Lo Forte e Scarpinato stilarono la richiesta di archiviazione, vistata dal procuratore Giammanco e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino. L’indagine venne poi archiviata a tempo record, il 14 agosto, quindi in pieno periodo ferragostano, dal gip Sergio La Commare. Da allora nulla è stato chiarito, nonostante gli appelli avanzati da Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, soprattutto dopo la scoperta dell’epocale depistaggio: “Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione”. 

Lo scorso anno, la sentenza di primo grado del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, pronunciata dalla Corte d’assise di Palermo, ha voluto improvvisamente riscrivere la storia dell’uccisione di Borsellino, slegandola dall’indagine mafia e appalti. I giudici, infatti, dando ragione ai pm palermitani che nel tempo hanno portato avanti l’inchiesta sulla trattativa (Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia), nella sentenza affermano che ad accelerare l’uccisione di Borsellino fu proprio la trattativa tra le istituzioni e Cosa nostra, la cui esistenza sarebbe stata scoperta dal magistrato. La Corte d’assise di Palermo si spinge persino oltre, smentendo quanto stabilito dalla sentenza Borsellino quater: “Non v’è neppure certezza che il dott. Borsellino possa avere avuto il tempo di leggere il rapporto ‘mafia e appalti’ e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche soltanto delegate alla polizia giudiziaria, che, conseguentemente, possano avere avuto risalto esterno giungendo alla cognizione dei vertici mafiosi così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio del dott. Borsellino medesimo”. Questa interpretazione sembra essere in palese contrasto con la cronologia degli eventi effettivamente avvenuti e sopra ricordati, che vedevano Borsellino in prima linea per rilanciare l’indagine sulla gestione mafiosa degli appalti. 

Ma c’è di più. Come noto, all’indomani della strage di Via d’Amelio, che seguì l’uccisione di Giovanni Falcone, all’interno della procura di Palermo si aprì una gravissima frattura e ben otto magistrati (inclusi Vittorio Teresi, Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato) chiesero un cambio al vertice della procura, oltre che segnali concreti da parte delle istituzioni a tutela delle toghe. Poche settimane dopo Giammanco venne effettivamente trasferito dal Consiglio superiore della magistratura e al suo posto arrivò, qualche mese dopo, Gian Carlo Caselli. Per comprendere cosa stesse accadendo nella procura di Palermo, tra il 28 e il 31 luglio 1992 il Csm convocò i magistrati palermitani. Le audizioni non sono mai state rese pubbliche, ma il Foglio è ora in grado di rivelarne i contenuti. Le audizioni infatti sono state anticipate dall’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, nel processo d’appello sulla trattativa, e depositate dall’avvocato Simona Giannetti, legale di Piero Sansonetti (ex direttore del Dubbio) e del giornalista Damiano Aliprandi, nel processo per diffamazione avviato contro di loro su querela di Lo Forte e Scarpinato (oggi procuratore generale di Palermo), per una serie di articoli pubblicati sul Dubbio proprio sulla vicenda dell’improvvisa archiviazione dell’indagine mafia e appalti dopo la morte di Borsellino. Dalla lettura delle audizioni dei magistrati della procura di Palermo di fronte al Csm emergono diversi aspetti inediti e di fondamentale importanza. Tutto ruota intorno a una riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive, ma anche per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti, racket delle estorsioni”. Il giorno prima Lo Forte e Scarpinato avevano terminato di redigere la richiesta di archiviazione dell’indagine mafia e appalti voluta da Borsellino. Nella riunione del 14 luglio, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata. Non solo. Emergono il forte interesse riposto da Borsellino all’indagine, il suo malcontento per le modalità con cui l’indagine era stata gestita, e la sua profonda fiducia nei confronti dell’operato dei carabinieri del Ros (e questo, lo ricordiamo, a cinque giorni dalla sua uccisione, a dispetto delle ricostruzioni dei teorici della “trattativa”, secondo cui il magistrato il 28 giugno 1992 sarebbe rimasto sconvolto dalla scoperta, tramite Liliana Ferraro, vicedirettore agli Affari Penali al ministero della Giustizia, dei contatti tra i Ros e Vito Ciancimino). Alla riunione partecipò anche Luigi Patronaggio, all’epoca da soli due mesi sostituto procuratore a Palermo, che in seguito al Csm riferisce: “Prima di questo momento io non avevo cognizione diretta delle divergenze e delle spaccature, incomincio a capire che esistono queste divergenze e queste spaccature proprio da questa riunione di martedì 14 luglio 1992”. Patronaggio afferma infatti che la riunione gli sembrò “una sorta di ‘excusatio non petita’”, cioè “si invitano i singoli colleghi a parlare di determinati processi perché sono attenzionati dall’opinione pubblica e la cosa mi stupisce, mi stupisce ancora di più quando il collega, il procuratore Borsellino, chiede addirittura delle spiegazioni, vuole chiarezza, vuole chiarezza su determinati processi, chiede, si informa, e per cui già capisco che qualche cosa non mi convince, non va”. Il procedimento in questione su cui Borsellino chiede insistentemente chiarezza è proprio quello su mafia e appalti, che vedeva coinvolto Angelo Siino e altri: “Paolo Borsellino – aggiunge Patronaggio – chiede spiegazioni su un procedimento riguardante Siino Angelo e altri, e capisco che qualche cosa non va evidentemente, perché mi sembra insolito che si discuta così coralmente delle relazioni dei colleghi assegnatari dei processi, una riunione che doveva avere tutt’altro carattere se non quello di salutarci prima di andare (in ferie, ndr)”. 

In quella riunione, emergono il forte interesse riposto da Borsellino all’indagine, il suo malcontento per le modalità con cui era stata gestita. Gli atti inediti del Csm dimostrano che pochi giorni prima di morire Borsellino nutriva ancora piena fiducia nei carabinieri del Ros.

Non solo Borsellino chiede spiegazioni sull’indagine mafia e appalti, ma lo fa in difesa dell’operato dei carabinieri, a conferma della profonda fiducia che a soli cinque giorni dalla strage di Via D’Amelio ancora vi era tra il magistrato e il Ros: “Borsellino in questa ottica – ribadisce Patronaggio al Csm – chiese spiegazioni su questo processo contro Siino Angelo perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri verosimilmente, e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè se era stata fatta o non era stata fatta una cosa, ma più che altro era il contorno generale del procedimento, chi c’era, chi non c’era, perché poi in buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici di un certo peso entravano soltanto per un mero accidente”. Insomma, “Borsellino chiese spiegazione di carattere estremamente generale, chi erano i politici, ma perché….”. Borsellino, infatti, ricorda Patronaggio, in assemblea “disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati giudiziari di maggiore respiro”, non solo nei confronti di politici ma “anche nei confronti degli imprenditori”, e “su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell’imprenditore in questo contesto”. Anche Antonella Consiglio, da pochi mesi sostituto procuratore a Palermo, nell’audizione al Csm conferma che, quando nella riunione del 14 luglio Lo Forte relazionò sull’indagine mafia e appalti, “Paolo Borsellino fu l’unico che aveva qualche argomento in più, che ebbe qualche argomento che interessò i colleghi”. Insomma, a dispetto di quanto sostenuto dai sostenitori della “trattativa” Stato-mafia e anche dagli stessi giudici del processo di primo grado, questi atti inediti del Csm dimostrano che pochi giorni prima di morire Borsellino nutriva ancora piena fiducia nei carabinieri del Ros, tanto da lamentarsi con i colleghi della procura perché il dossier redatto dai Ros sull’indagine mafia e appalti non aveva ricevuto l’ampio respiro atteso. Gli atti, così, confermano anche che fino all’ultimo Borsellino si occupò proprio dell’indagine sulla gestione mafiosa degli appalti, un interesse costante che è stato ritenuto dalla sentenza Borsellino quater uno dei motivi che spinse Cosa nostra a uccidere il magistrato. Indagine di cui, però, la procura di Palermo chiese l’archiviazione dopo soli tre giorni dall’uccisione di Borsellino, ottenendola il 14 agosto 1992. Il modo migliore per commemorare il sacrificio di Paolo Borsellino è fare luce, una volta per tutte, su ciò che accadde attorno a questa indagine negli ultimi giorni di vita del magistrato e subito dopo la sua morte.

Trattativa, Di Pietro a Palermo: "Falcone mi disse di controllare gli appalti in Sicilia". "Borsellino fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L'indagine mafia-appalti fu fermata. Come accadde con Mani pulite". Lo ha detto Antonio Di Pietro al processo d'appello sulla trattativa Stato-mafia davanti alla corte d'assise d'appello. Stato-mafia, la Corte: Berlusconi teste assistito Strage Borsellino. Indagato Cinà, il medico di Riina. La procura cauta. Rai News il 3 ottobre 2019. Di Pietro oggi presente nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, per il processo di appello Stato-mafia. L'ex pm di "Mani pulite" depone davanti alla Corte d'assise d'appello presieduta da Angelo Pellino (giudice a latere, Vittorio Anania) come teste dalla difesa degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. "Conoscevo sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino, avevamo rapporti professionali, non posso certo dire di essere stato loro amico perché li ho frequentati solo per motivi di lavoro", così inizia la deposizione di Antonio Di Pietro.  "Mi sono occupato di indagini che collegavano Milano a Palermo sia con Borsellino che con Falcone - dice - Il dottor Falcone all'epoca in cui iniziai l'indagine Mani pulite, o meglio quando feci la prima attività esterna con l'arresto di Mario Chiesa, il 7 febbraio 1992, era il direttore generale degli Affari penali a Roma. Io ebbi modo di confrontarmi con anche per ragioni diverse dalle indagini, come l'avvio della informatizzazione degli uffici giudiziari". "Io all'epoca ero consulente del ministero di giustizia ed ebbi modo di confrontarmi con lui sia nella sua nuova veste di direttore generale agli affari penali sia per la sicurezza delle aule bunker e le carceri di massima sicurezza", dice. E aggiunge: "Falcone mi fece un po' da insegnante, se così si può dire, con le autorità giudiziarie internazionali". "Falcone mi disse: 'controlla appalti'" Prima della strage di Capaci, nella primavera del 1992, in pieno periodo di tangentopoli, "Falcone mi disse: 'Guarda negli appalti in Sicilia'. Era un riferimento a coordinare le indagini sul territorio nazionale". Così Antonio Di Pietro proseguendo la sua deposizione al processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia. "Falcone fu il mio maestro nel campo delle rogatorie - prosegue Di Pietro - mi disse di controllare gli appalti in Sicilia. L'indicazione era quella capire se alcune imprese del Nord si fossero costituite in associazioni temporanee di imprese con imprenditori siciliani per l'aggiudicazione di lavori nell'isola". "Falcone mi disse che in Sicilia bisognava fare i conti con un terzo soggetto. Accanto ai politici e agli imprenditori, i mafiosi. Ne parlai con Borsellino, che però non mi disse quello che stava facendo, non mi disse che stava lavorando sul rapporto mafia e appalti, e che stava ascoltando il pentito Mutolo. Mi disse però che dovevamo tornare a incontrarci, era convinto che in Italia ci fosse un sistema di spartizione nazionale attorno agli appalti"  ha detto Antonio Di Pietro. Il rapporto dei Ros 'Mafia-appalti del 1991' "Borsellino non mi parlò del rapporto del Ros mafia e appalti del 1991. Ma - ha proseguito Di Pietro - il giorno del funerale di Giovanni Falcone con Borsellino parlammo degli stessi argomenti affrontati con Falcone e rimanemmo che ne avremmo dovuto riparlare. Mi disse 'Bisogna fare presto', in riferimento alla necessità di un coordinamento delle indagini sul territorio nazionale. Come sapete questo non fu possibile. E dopo la sua morte compresi meglio la diffusione del sistema, continuai a indagare e arrivò una segnalazione del Ros su un possibile attentato contro di me".  "Con il dottor Borsellino non avevamo una indagine comune ma un obiettivo. In quella occasione della camera ardente siamo rimasti che ci saremmo rivisti da lì a breve", ha poi aggiunto Di Pietro. "Ogni giorno si scopriva qualcosa - aggiunge Di Pietro - ma la Sicilia restava silente. Borsellino mi disse: 'Dobbiamo coordinare l'indagine' e di quello ci stavamo occupando". Borsellino alludeva alla necessità di coordinare le indagini sugli appalti in corso a Palermo e Milano, ha ricordato Antonio Di Pietro. "Capii allora - ha aggiunto - che Borsellino si stava occupando di questo. Cosa di cui ebbi conferma dopo tempo, quando su input del Ros andai a sentire Giuseppe Li Pera, geometra della De Eccher che mi spiegò il sistema degli appalti in Sicilia e mi fece i nomi di Siino e Salamone". Ma Borsellino, il 19 luglio del 1992, venne assassinato e i due magistrati non ebbero il tempo di fare il punto sulla tranche di mani pulite che portava alla Sicilia. "Anni dopo, quando Caselli arrivò a Palermo - ha spiegato - il coordinamento si fece e dopo uno scontro con Ingroia, entrambi volevamo fare le indagini, si stabilirono in una cena a casa di Borrelli le regole per poter indagare contemporaneamente in modo efficace sugli appalti". "Parte tangente Enimont a Salvo Lima" L'ex pm di Mani Pulite Antonio di Pietro ha inoltre affermato: "Scoprimmo che parte della tangente Enimont attraverso Paolo Cirino Pomicino era arrivata a Salvo Lima. Parte dei soldi di Gardini - ha spiegato Di Pietro - sono finiti a Salvo Lima in Cct (buoni del tesoro ndr)". "Il Ros mi informò 2 giorni prima: stanno ammazzando Borsellino" Dopo la strage di Capaci e pochi giorni prima della strage di via D'Amelio, nell'estate del 1992, l'ex pm Antonio Di Pietro, fu informato "che doveva essere ucciso". Lo dice lo stesso ex magistrato di Mani pulite deponendo al processo sulla trattativa tra Stato e mafia a Palermo. "Due giorni prima dell'omicidio di Borsellino - racconta in aula - il Ros mi informò: "guardate che stanno ammazzando Borsellino" e anche io dovevo essere ammazzato". "Borsellino ucciso per indagini su appalti" "Sono convinto - ha concluso Di Pietro - che Paolo Borsellino fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L'indagine mafia-appalti fu fermata. E dopo fu fermata 'mani pulite' attraverso una campagna di delegittimazione e di dossieraggio ai miei danni ordita su input di politici specifici che poi mi spinse a dimettermi dalla magistratura". 

Di Matteo infanga Berlusconi. Ira di FI: "In Rai è inaccettabile". Le dichiarazioni choc del pm: "Patto tra clan e Berlusconi". Insorgono gli azzurri: "Quello di Di Matteo un vaniloquio da mitomane". Angelo Scarano, Domenica 03/11/2019, su Il Giornale. Ancora una volta bufera sulla Rai. E questa volta tocca a Rai Tre e all'Annunziata. A scatenare una vera e propria bufera sono state le parole del pm Di Matteo ospite a In Mezz'Ora. Nel corso del suo intervento, il magistrato ha parlato anche del processo Dell'Utri lasciandosi andare a commenti che non hanno alcun fodnamento giudiziario. Di Matteo ha affermato: "Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell'Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l'allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell'Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l'allora imprenditore Berlusconi". Parole molto pesanti che di fatto hanno scatenato l'immediata reazione di Forza Italia. Il primo a criticare fortemente l'intervista andata in onda sul servizio pubblico è Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai che all'Adnkronos afferma: "Oggi su Rai Tre è andato in onda un vaniloquio da mitomane, protagonista il dott. Nino Di Matteo, sedicente magistrato, di sicuro membro del Csm con l'ossessione per Silvio Berlusconi, che cita a casaccio dati giudiziari e si duole -a che titolo, non si sa- della presunta superficialità degli italiani. È la prova (televisiva), che chiunque a casa ha potuto per fortuna apprezzare, di quanto male possano intendere il loro delicatissimo e rispettabile lavoro alcuni magistrati vanitosi, a caccia di protagonismo personale e politico. Non solo inventano processi ridicoli e squalificanti persino per uno studente di giurisprudenza (figuriamoci per un magistrato) ma pretendano pure che diventino, per tutti gli italiani, unico elemento di discriminazione politica verso chi, evidentemente, qualificano loro avversario politico. Fossi un magistrato, mi guarderei la puntata di Mezz'Ora in più, prenderei appunti per capire come non ci si comporta se si vuol bene alla magistratura, e poi chiederei a Di Matteo i danni d'immagine". Poi è intervenuto anche il portavoce dei gruppi alla Camera e al Senato, Giorgio Mulè: "Oramai in Rai siamo all’anarchia informativa: oggi pomeriggio è stato il turno di Rai Tre di incaricarsi di lordare impunemente Silvio Berlusconi attraverso un’intervista a un magistrato nella trasmissione di Lucia Annunziata. Accostare il presidente Berlusconi e Forza Italia addirittura alle stragi di Cosa Nostra degli anni Novanta - aggiunge - merita solo un’espressione: fa schifo. Perchè significa bestemmiare la storia e l’impegno di Berlusconi, dei governi a sua guida e di Forza Italia per fare in modo di arrestare i boss e far pagare ai mafiosi in carcere ogni loro responsabilità. Un impegno straordinario che oggi non ha trovato spazio in Rai, neanche sotto forma di dubbio, durante l’inginocchiamento davanti al magistrato intervistato. Questa Rai delle marchette al governo e della crocifissione dell’opposizione merita la stessa espressione dell’intervista di oggi: fa schifo".

Lucia Annunziata nel mirino di FI: la puntata di Mezz'ora in più con il pm Di Matteo è un processo al Cav. Libero Quotidiano il 3 Novembre 2019. Dopo le accuse di Daniela Santanchè alla Rai, rea di fare una televisione di parte, viale Mazzini torna a scatenare la bufera. Questa volta nel mirino è Lucia Annunziata e il suo programma Mezz'ora in più, dove si è assistito a un vero e proprio processo contro Berlusconi. Ospite della trasmissione è il pm Nino Di Matteo il quale - senza ragione - si è sbilanciato sul l'udienza Dell'Utri con tanto di commenti privi di riscontro giudiziario.  "Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell'Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l'allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell'Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l'allora imprenditore Berlusconi". Ma Forza Italia non è rimasta di certo a guardare: "Oggi su Rai Tre è andato in onda un vaniloquio da mitomane, protagonista il dott. Nino Di Matteo, sedicente magistrato, di sicuro membro del Csm con l'ossessione per Silvio Berlusconi, che cita a casaccio dati giudiziari e si duole - a che titolo, non si sa inveisce Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai all'Adnkronos - della presunta superficialità degli italiani. È la prova (televisiva), che chiunque a casa ha potuto per fortuna apprezzare, di quanto male possano intendere il loro delicatissimo e rispettabile lavoro alcuni magistrati vanitosi, a caccia di protagonismo personale e politico".

Trattativa, Berlusconi sarà sentito come indagato di reato connesso l’11 novembre. Di Pietro: “Parte tangente Enimont a Lima”. Essendo indagato dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del '92 e '93, l'ex premier potrà non rispondere su circostanze che potrebbero riguardare la sua posizione. Qualora il fondatore di Forza Italia, però, decidesse di rispondere dovrà dire la verità. All'udienza di oggi ha deposto l'ex pm di Mani Pulite. Il Fatto Quotidiano il 3 ottobre 2019. Silvio Berlusconi dovrà sedersi sul banco dei testimoni e rispondere alle domande su uno dei periodi più bui della storia italiana: il biennio tra il 1992 e il 1994. Solo che potrà avvalersi della facoltà di non rispondere. Lo ha deciso la Corte d’assise d’appello di Palermo dopo una breve camera di consiglio. Berlusconi si dovrà presentare accompagnato dal suo legale dato che sarà sentito come indagato di reato connesso: come è stato confermato nei giorni scorsi, infatti, è indagato dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del ‘92 e ‘93. L’ex premier potrà non rispondere su circostanze che potrebbero riguardare la sua posizione. Qualora il fondatore di Forza Italia, però, decidesse di rispondere dovrà dire la verità. A chiedere la sua deposizione è stata la difesa di Marcello Dell’Utri, il suo storico braccio destro condannato in primo grado a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Il dispositivo della corte: Berlusconi –“Silvio Berlusconi deve apparire davanti alla Corte nella veste di teste assistito ai sensi del 197 bis con tutte le garanzie previste. Va inoltre precisato che l’esame dovrà svolgersi in conformità con l’articolo 210, comma 6, e fissa l’esame il giorno 11 novembre, con l’invito a farsi assistere da un difensore di fiducia”, ha detto il presidente Angelo Pellino leggendo l’ordinanza. “Si prende atto che, dalla comunicazione ricevuta dalla procura di Firenze, si tratta di reati per i fatti di strage del 1993 a Roma, Firenze, Milano e a Fornello del 1994. Tenuto conto di ciò ritiene che Berlusconi debba essere sentito come indagato di reato connesso, secondo l’articolo 210 comma 6, e dunque con la facoltà di avvalersi della facoltà di non rispondere”.

L’indagine di Firenze – A rendere nota l’indagine a carico dell’ex premier sono stati i suoi stessi avvocati, depositando alla corte di Palermo la documentazione ottenuta dalla procura di Firenze. Per la prima volta era stato messo nero su bianco che l’ex presidente del consiglio è accusato di tutta la strategia stragista del 1993: dal fallito attentato contro Maurizio Costanzo alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Berlusconi è già finito sotto inchiesta a Firenze e Caltanissetta per le stragi: per due volte è sempre uscito dalle indagini grazie a un provvedimento di archiviazione. Tra le ventitré contestazioni dei giudici fiorentini, però, questa volta ce n’è anche una assolutamente inedita: il tentato omicidio del pentito Totuccio Contorno del 14 aprile del 1994. All’epoca Berlusconi era stato già eletto presidente del consiglio da 16 giorni.

Di Pietro: “Parte tangente Enimont a Lima” – Nell’udienza di oggi è stato ascoltato Antonio Di Pietro, che ha raccontato un dettaglio inedito sulla maxi tangente Enimont: “Scoprimmo che parte della tangente attraverso Paolo Cirino Pomicino era arrivata a Salvo Lima“. L’ex pm di Mani pultie è stato citato dalla difesa di uno degli imputati, l’ex capo del Ros Mario Mori, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato e condannato in primo grado a 12 anni di carcere. “Scoprimmo che parte della tangente Enimont attraverso Paolo Cirino Pomicino era arrivata a Salvo Lima“. È una rilevazione inedita quella fatta da Antonio Di Pietro, sentito come testimone al processo d’appello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia in corso davanti alla corte d’assise d’appello di Palermo. L’ex pm di Mani pultie è stato citato dalla difesa di uno degli imputati, l’ex capo del Ros Mario Mori, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato e condannato in primo grado a 12 anni di carcere. A stretto giro è arrivata la replica di Cirino Pomicino: “Macché tangente Enimont, Di Pietro, come è noto, non sa l’italiano. Non si tratta di una tangente, ma di un finanziamento politico alla corrente andreottiana. Ricordo al signor Di Pietro che io sono stato assolto dall’ipotesi di corruzione nel processo. Fu un finanziamento per tutta la corrente andreottiana. Ricordo che venne a casa mia Ferruzzi, e non Gardini, come dice Di Pietro. Anche perché i rapporti con Gardini erano pessimi. Ferruzzi finanziò l’intera campagna elettorale del 1992. Non solo, girai quelle somme a tutti i deputati della corrente”. Tra quelli appunto anche Salvo Lima. In un interrogatorio del 20 novembre 1993, in effetti, Cirino Pomicino aveva detto ai magistrati: “La rimanente somma è stata da me distribuita ad altri candidati della Dc della mia corrente ai quali pure non spiegai la provenienza del denaro e significativamente: 1,5 miliardi e mezzo all’onorevole Lima. Infatti incontrai lo stesso in un’occasione di un convegno di Milano nel novembre 1991 e gli dissi che avevo avuto un significativo contributo finanziario per la prossima campagna elettorale di cui avrei consegnato di lì a poco la somma di 1,5 miliardi di lire nelle sue mani, cosa che feci la metà di dicembre del ’91 consegnando all’onorevole Lima parte dei titoli ricevuti per un controvalore di 1 miliardo e mezzo. In verità a gennaio 1992 Lima mi restituì alcune cedole”.

“Borsellino mi disse: dobbiamo vederci” – Di Pietro ha anche riferito dei suoi rapporti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con cui, prima degli attentati di cui furono vittime, parlò della possibilità che ci fosse una “mani pulite” siciliana. “Davanti alla bara di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino mi disse: dobbiamo fare presto, dobbiamo vederci o sentirci nei prossimi. Dobbiamo trovare il sistema. Capii allora che Borsellino si stava occupando di questo. Cosa di cui ebbi conferma dopo tempo, quando su input del Ros andai a sentire Giuseppe Li Pera, geometra della De Eccher che mi spiegò il sistema degli appalti in Sicilia e mi fece i nomi di Siino e Salamone”. Ma Borsellino, il 19 luglio del 1992, venne assassinato e i due magistrati non ebbero il tempo di fare il punto sull tranche di mani pulite che portava alla Sicilia. “Anni dopo, quando Caselli arrivò a Palermo- ha spiegato – il coordinamento si fece e dopo uno scontro con Ingroia, entrambi volevamo fare le indagini, si stabilirono in una cena a casa di Borrelli le regole per poter indagare contemporaneamente in modo efficace sugli appalti”.

Stato-mafia, Di Pietro, Falcone, Borsellino e quei dialoghi sugli appalti. Aaron Pettinari il 03 Ottobre 2019 s Antimafia Duemila. E' il tema delle indagini su affari-politica e mafia ad essere stato approfondito oggi nel processo d'Appello sulla trattativa Stato-Mafia. Un'udienza, quella celebrata, davanti alla Corte d'Assise d'Appello presieduta da Angelo Pellino (giudice a latere, Vittorio Anania), dedicata in particolare all'audizione dell'ex magistrato Antonio Di Pietro, chiamato a testimoniare dalle difese degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. L'ex pm di "Mani pulite", partendo dall'avvio dell'inchiesta che si sviluppò dopo l'arresto di Mario Chiesa, nel febbraio 1992, ha riferito degli incontri avuti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino prima degli attentati di quello stesso anno. "Conoscevo sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino, avevamo rapporti professionali, non posso certo dire di essere stato loro amico perché li ho frequentati solo per motivi di lavoro. Il dottor Falcone all'epoca in cui iniziai l'indagine Mani pulite, o meglio quando feci la prima attività esterna con l'arresto di Mario Chiesa, il 7 febbraio 1992, era il direttore generale degli Affari penali a Roma. Io ebbi modo di confrontarmi con lui anche per ragioni diverse dalle indagini, come l'avvio della informatizzazione degli uffici giudiziari". "Io - ha proseguito Di Pietro - all'epoca ero consulente del ministero di giustizia ed ebbi modo di confrontarmi con lui sia nella sua nuova veste di direttore generale agli affari penali sia per la sicurezza delle aule bunker e le carceri di massima sicurezza. Falcone mi fece un po' da insegnante, se così si può dire, con le autorità giudiziarie internazionali in materia di rogatorie". In uno di quegli incontri, a detta dell'ex leader Idv, Falcone gli disse "di controllare gli appalti in Sicilia. L'indicazione era quella di capire se alcune imprese del Nord si fossero costituite in associazioni temporanee di imprese con imprenditori siciliani per l'aggiudicazione di lavori nell'isola". "Falcone - ha proseguito Di Pietro - mi disse che in Sicilia bisognava fare i conti con un terzo soggetto. Accanto ai politici e agli imprenditori, i mafiosi". Quegli stessi argomenti furono ripresi anche con Paolo Borsellino: "La prima volta lo incontrai sempre negli uffici Affari Penali, ed i discorsi possono essere stati sempre generici. Poi, quando ci vedemmo alla Camera ardente di Falcone, dopo Capaci, parlammo nuovamente. Mi disse 'Bisogna fare presto', 'dobbiamo andare di corsa', in riferimento alla necessità di un coordinamento delle indagini sul territorio nazionale. Come sapete questo non fu possibile. Però non mi disse quello che stava facendo, non mi parlò del rapporto mafia-appalti e che stava ascoltando il pentito Mutolo". Un tema centrale, specie per la difesa dei due carabinieri che individua proprio nell'inchiesta mafia-appalti il motivo per cui vi fu l'accelerazione della strage che uccise Paolo Borsellino in quell'estate. Un argomento che in primo grado non ha convinto i giudici che invece hanno accolto la ricostruzione dell'accusa individuando proprio nella trattativa il motivo de "l'improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione del dottore Borsellino". Sempre rispetto al famoso incontro di maggio Di Pietro ha aggiunto: "Con il dottor Borsellino, parlai pochi minuti. Non avevamo una indagine comune ma un obiettivo. In quella occasione della camera ardente siamo rimasti che ci saremmo rivisti da lì a breve. Io capii allora che Borsellino si stava occupando di questo o che avrebbe voluto occuparsi di questo. Ma solo poi ebbi un quadro più grande. Perché le cose le scoprivamo pian piano". Rispondendo ad una domanda del Presidente Pellino se con Borsellino avesse ipotizzato una connessione tra le indagini su Mafia e appalti e la strage di Capaci, l'ex senatore ha risposto: "Non ne parlammo in questi termini. Quelli furono momenti brevi e di commiato in cui mi disse delle frasi secche. C'era questa convinzione di rivedersi ed il riferimento era alle indagini di Mani Pulite, gli appalti e le tangenti che interessavano anche la Sicilia". Nel corso dell'udienza Di Pietro ha più volte dovuto specificare che né Falcone né Borsellino gli parlarono direttamente di indagini in corso o del rapporto mafia-appalti. Dell'esistenza di quel documento ne apprese solo in un secondo momento. "Lo appresi dopo - ha riferito - quando su input del Ros andai a sentire Giuseppe Li Pera, geometra della de Eccher, che diceva di non essere ascoltato da nessuno. Andai ad interrogarlo a Roma e mi spiegò il sistema degli appalti in Sicilia e mi fece i nomi di Siino e Salamone. Ricordo che al tempo mi arrabbiai perché presi atto che già lì era contenuto il nome di Salamone. Lo avessi saputo prima l'avrei acquisito anche se non posso dire quale copia del rapporto sarebbe stato". Tuttavia, della doppia refutazione, rispondendo ad una domanda del sostituto procuratore generale Fici, avrebbe saputo solo dai giornali. "Non so neanche come stanno i fatti".

La tangente Enimont a Salvo Lima. Riannodando il filo dei ricordi Di Pietro ha anche ricostruito le indagini svolte che lo portarono a scoprire la maxi tangente Enimont. "L'obiettivo era quello di trovare chi faceva la provvista. Vi era un filo - ha detto rivolgendosi alla Corte - Riscontrai che parte di quella tangente Enimont da 150 miliardi di lire, attraverso Paolo Cirino Pomicino, era arrivata a Salvo Lima. Parte dei soldi di Gardini, circa 5,2 miliardi, sono finiti a Salvo Lima in Cct (buoni del tesoro, ndr). Ovviamente non potemmo chiedere a lui, che ormai era morto. Altri fondi finirono in Vaticano, ma nonostante le rogatorie presentate dallo Ior e dalla Città del Vaticano non ebbi alcuna risposta". Di Pietro ha anche raccontato che di queste cose avrebbe dovuto parlare anche con lo stesso Raul Gardini, il giorno in cui si suicidò: "Quel suicidio è il dramma che mi porto dentro. Nel luglio del 1993 l'avvocato di Raul Gardini, che all'epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell'interrogatorio l'imprenditore tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l'arresto. E io dissi di aspettare. E' questo il dramma". La mattina dopo, infatti, l'imprenditore si uccise con un colpo di pistola.

L'informativa del Ros sull'attentato. L'ex pm di Mani Pulite, rispondendo alle domande dell'avvocato Milio, ha riferito anche in merito a quella famosa informativa del Ros, che due giorni prima della strage di via d'Amelio, avvisò di un progetto di attentato nei confronti suoi e di Borsellino. Dopo l'attentato del 19 luglio Di Pietro proseguì con le proprie indagini ma senza cercare confronti ulteriori: "Andai avanti per la mia strada da solo, non mi confrontai più con nessuno, ero impaurito, c'era stata la segnalazione del Ros. Quindi mi chiusi, continuai da me, all'interno dello stesso pool. A dimostrazione che non mi fidavo di nessuno procedevo anche nel frazionare vari elementi di indagine tra gli organi investigativi ed io ero l'unico ad avere il quadro completo". "Sono convinto - ha detto Di Pietro nel corso dell'esame - che Paolo Borsellino fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L'inchiesta "Mani pulite" è stata fermata quando è arrivata allo stesso punto del rapporto tra Mafia e appalti. Ma non è che questa evoluzione tangentopoli-mafiopoli l'abbiamo scoperta noi, lo sapevano pure le pietre, noi abbiamo scoperto il meccanismo. Solo che a un certo punto, finita la stagione delle stragi, è arrivata una stagione legislativa che ha fermato questa indagine, piaccia o non piaccia è questa la verità". E poi ha concluso: "Io sono stato fermato da una delegittimazione gravissima portata avanti in modo abnorme. Nei miei confronti sono stati svolti una serie di dossieraggi portati avanti da personaggi su ordine di alcuni politici che hanno portato alle mie dimissioni. Da lì a poco sarebbe arrivata non solo una grossa indagine nei miei confronti ma anche una richiesta di arresti e io mi dimisi per potermi difendere. Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm. Tra i 1995 ed il 1996 furono fatte delle inchieste al Copsi e ci fu anche l'accordo in Parlamento per riprendere tutto questo con la successiva legislatura, ma io sto ancora aspettando".

Le parole di Siciliano. Prima dell'ex leader dell'Italia dei Valori a salire sul pretorio era stato l'ex direttore del Carcere di Opera, Giacinto Siciliano. Questi, chiamato a riferire sul periodo di co-detenzione tra il boss Antonino Rotolo ed il collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico. Siciliano, dopo aver spiegato quelli che sono i vari sistemi di controllo e di sorveglianza all'interno del carcere per i detenuti, non ha potuto escludere in maniera assoluta che vi possa essere stato un dialogo tra i due. D'Amico, sentito al processo trattativa aveva raccontato dei dialoghi avuti “nei momenti della socialità oppure da cella a cella, parlando dalle finestre". In uno di questi gli fu riferito da Rotolo che "Antonino Cinà, il medico di Totò Riina, fu usato come uomo di collegamento con ambienti delle istituzioni". E sempre nello stesso carcere, ebbe anche una conversazione con Vincenzo Galatolo dell’Acquasanta (padre di Vito, il pentito che ha rivelato il piano per uccidere il pm Nino Di Matteo) si aspettava “da un momento all’altro” la notizia della morte del magistrato. "Ritengo difficile che possano esservi state lunghe conversazioni ma non posso escludere a priori che vi siano state" ha detto l'ex direttore del Carcere di Opera.

Berlusconi sarà sentito come "indagato di reato connesso". Prima di rinviare il processo al prossimo 14 ottobre il Presidente Pellino, sentite le parti, ha sciolto la riserva sulle modalità in cui dovrà essere ascoltato l'ex Premier Silvio Berlusconi, oggi assente, come comunicato dai suoi difensori nelle scorse settimane, per un impedimento. La Corte d'Assise d'Appello, dopo una breve camera di consiglio, ha stabilito che il fondatore di Forza Italia sarà sentito il prossimo 11 novembre alle 10,30 come indagato di reato connesso, quindi accompagnato da un legale. "Silvio Berlusconi deve apparire davanti alla Corte nella veste di teste assistito ai sensi del 197 bis con tutte le garanzie previste. Va inoltre precisato che l'esame dovrà svolgersi in conformità con l'articolo 210, comma 6, e fissa l'esame il giorno 11 novembre, con l'invito a farsi assistere da un difensore di fiducia" ha detto il presidente Pellino leggendo l'ordinanza. "Si prende atto che, dalla comunicazione ricevuta dalla procura di Firenze, si tratta di reati per i fatti di strage del 1993 a Roma, Firenze, Milano e a Fornello del 1994". Tenuto conto di ciò la Corte "ritiene che Berlusconi debba essere sentito come indagato di reato connesso, secondo l'articolo 210 comma 6, e dunque con la facoltà di avvalersi della facoltà di non rispondere". A chiedere la deposizione dell'ex Presidente del Consiglio era stata la difesa di Marcello Dell'Utri. Secondo l'ordinanza dello scorso luglio Berlusconi dovrà riferire "quanto sa a proposito delle minacce mafiose subite dal governo da lui presieduto nel 1994 mentre era premier". Secondo la sentenza di primo grado la minaccia fu trasmessa per tramite dell'ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado a 12 anni. I giudici, nelle motivazioni della sentenza dell'aprile 2018 avevano scritto che "con l'apertura alle esigenze dell'associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell'Utri nella sua funzione di intermediario dell'imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992". Inoltre, si legge, che nonostante non vi sia “prova diretta dell'inoltro della minaccia mafiosa da Dell'Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.

Di Pietro: «Paolo Borsellino ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia- appalti». Damiano Aliprandi il 4 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Antonio Di Pietro al processo d’appello sulla trattativa. L’ex pm di “mani pulite” ha rivelato che fu Giovanni Falcone a dirgli: «se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli affari in Sicilia». Un fiume in piena l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, sentito come teste – citato dalla difesa degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno – nell’ambito del processo d’appello sulla presunta trattativa stato- mafia. «Che c’azzecca con la trattativa», ha sbottato ad un certo punto Di Pietro. In effetti nulla. Nel senso che l’ex magistrato, in qualità di testimone ha affermato che «Paolo Borsellino è stato ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia appalti». Però con la trattativa c’entra, nel senso che nelle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, il giudice della corte d’assise di Palermo Montalto ha sentenziato che non solo la trattativa ci sarebbe stata, ma che Borsellino sarebbe stato fatto fuori perché avrebbe potuto opporsi. Ma non solo. Scartando l’ipotesi di mafia appalti, ha anche scritto che l’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier. Però varie testimonianze, atti pubblici come le audizioni al Csm e, non per ultimo, lo stesso Di Pietro, smentiscono tutto ciò. Borsellino aveva già avuto copia del dossier mafia appalti depositato dagli ex Ros per volere stesso di Falcone. Non solo lo ha letto quando era ancora procuratore a Marsala, ma ha anche svolto indagini informali visto che l’ex procuratore capo della procura di Palermo Petro Giammanco non gli aveva dato la delega. Quest’ultima – come ha detto anche il legale della famiglia Borsellino durante il processo d’appello Borsellino Quater – gli sarebbe stata data da Giammanco, tramite una telefonata, la domenica mattina presto. Lo stesso giorno in cui verrà ucciso dalla mafia. Ma ritorniamo alla testimonianza di Di Pietro. «Il primo che mi disse di fare presto – ha spiegato l’ex pm – e di chiudere il cerchio fu Paolo Borsellino. In quell’incontro, il giorno del funerale di Falcone, eravamo d’accordo di rivederci per stabilire dei collegamenti d’indagine». Poi ha sottolineato che «era presumibile che anche soggetti politici e istituzionali del Sud fossero coinvolti». La conferma del collegamento affari- mafia, Di Pietro ha spiegato che l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini, una provvista da 150miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima». La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Da ricordare l’intervista che gli fece Luca Rossi, quando parlò di una possibile connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cuiil primo era stato in qualche modo coinvolto e che il secondo stava studiando. Ma anche il nome di Gardini, in realtà, già appare proprio nel dossier mafia appalti, quando controllava la Calcetruzzi Spa, identificata dai Ros come quella collegata con la spartizione degli appalti tra mafia, imprese e politica. Imprese, appunto, che erano anche del Nord. Tutto ciò trova conferma anche nella sentenza della Cassazione del 2012 che respinse la revisione del processo Panzavolta, ex ad della Calcestruzzi condannato per aver favorito i boss. La sentenza riporta in primo piano proprio i rapporti tra Gardini e Cosa nostra. Poi Gardini, già indagato per tangentopoli, si suicidò. Il suo gesto, ha spiegato durante il processo Di Pietro «è il dramma che mi porto dentro». Nel luglio del 1993 «l’avvocato di Raul Gardini, che all’epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell’interrogatorio l’imprenditore tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l’arresto. E io dissi di aspettare», ha raccontato Di Pietro. La mattina dopo si uccise con un colpo di pistola. L’esame di Di Pietro, come detto, ha ruotato soprattutto sul famoso dossier mafia appalti, e sui colloqui che ebbe con Paolo Borsellino prima e dopo la strage di Capaci. E su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruzione politico- amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché in quel dossier comparivano imprese del Nord, coinvolti nell’inchiesta Mani pulite. Inchiesta che, all’epoca, lo porta ad avere «colloqui frequenti e approfonditi» con entrambi i magistrati uccisi nel ‘ 92. I primissimi rapporti sono stati con Falcone, che gli dice di puntare molto sulle rogatorie internazionali, «materia per me all’epoca sconosciuta – ha rivelato -. Lui mi fece un po’ da insegnante in questa prima fase, per poter realizzare al meglio queste rogatorie». Che sono importanti perché rappresentano «l’unico modo per ritrovare la provvista». Mani pulite, infatti, poggia su un presupposto nuovo per l’epoca: non indagare su chi prendeva la tangente, non solo almeno, ma su come si formava, a monte, la “provvista”. E fu Giovanni Falcone, come ha rivelato l’ex pm, a dirgli: «Ma se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli appalti in Sicilia». Poi Falcone è stato ucciso a via Capaci, e Di Pietro continuò il discorso con Borsellino: «Dobbiamo fare presto, dobbiamo sbrigarci, dobbiamo andare di corsa», ha testimoniato sempre Di Pietro. Si accorda con Borsellino per incontrarsi e iniziare a coordinare le indagini che riguardavano tutto il territorio nazionale. «Con Borsellino parlai poco, ma ho capito che stava andando in quella direzione. Anche se non sapevo dei suoi colloqui con Mutolo e del rapporto del Ros del ‘ 91. Io il bandolo della matassa l’ho ritrovato dopo, all’epoca del suicidio di Gardini», ha sottolineato l’ex pm di Mani Pulite. «Dopo la morte di Borsellino rimasi scosso – ha proseguito l’ex pm – avevo capito la diffusione del sistema, mi chiusi in me e continuai a indagare. Intanto, era arrivata una segnalazione del Ros, per una minaccia di attentato nei miei confronti. E con un ufficiale del Ros, di cui non ricordo il nome, andai a parlare in carcere con l’ex capo area della Rizzani De Eccher in Sicilia, il geometra Giuseppe Li Pera». Quell’ufficiale era l’allora capitano Giuseppe De Donno, rivela in aula il suo legale, l’avvocato Francesco Romito. Di Pietro – incalzato dall’avvocato Basilio Milio, legale degli ex ros -, ha raccontato di aver subito delegittimazioni attraverso indagini contro di lui. «Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm», ha sottolineato Di Pietro. Il magistrato Salamone, fratello di Filippo più volte definito come il “re degli appalti”: quest’ultimo compariva anche nel famoso dossier dei Ros nato sotto l’impulso di Giovanni Falcone e al quale era interessato Borsellino. La corte d’assise d’appello ha convocato Silvio Berlusconi che dovrà presentarsi, come chiesto dalla difesa di Marcello Dell’Utri, ma potrà avvalersi della facoltà di non rispondere.

Giovanni Falcone parlò di mafia-appalti un anno prima di morire. Nell’archivio di Radio Radicale la registrazione di un convegno del 15 marzo 1991, a un mese di distanza dal deposito del dossier dei ros. Il giudice: «è molto più grave di come appare. È illusorio pensare che imprese appartenenti ad altre attività rimangano immuni da certi tipi di collegamenti» Damiano Aliprandi il 21 Maggio 2019 su Il Dubbio. «Si potrebbe dire che abbiamo fatto dei tipi di indagini a campione, da cui si può dedurre con attendibilità un certo tipo di condizionamento, ma l’indagine, di cui mi sono occupato a Palermo, mi induce a ritenere che la situazione sia molto più grave di quello che appare all’esterno». È Giovanni Falcone che parla e lo dice in un convegno dedicato alla criminalità e appalti organizzato il 15 marzo del 1991 presso Castel Utveggio sul monte Pellegrino a Palermo. Esattamente a un mese di distanza da quando depositò nella cassaforte della Procura di Palermo il dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori. Lo fece due giorni prima di abbandonare la Procura per andare a lavorare al ministero della Giustizia. Il giudice Giovanni Falcone, dilaniato dal tritolo il 23 maggio del ’ 92 a Capaci, ha precisato durante questo convegno che non può entrare nei dettagli, ma qualcosa però lo anticipa. Il convegno, in futuro poco preso in considerazione, è reperibile nel prezioso e immenso archivio di Radio Radicale, che rischia di scomparire. Un documento importante perché Falcone, dopo vari passaggi tecnici sul nuovo codice di procedura penale appena varato e specificando l’importanza del condizionamento mafioso negli appalti – dove interessate non sono solo le aziende locali, ma anche quelle nazionali, ha tenuto a precisare il magistrato – ha così concluso: «Io credo che la materia dei pubblici appalti è la più importante perché è quella che consente di far emergere come una vera e propria cartina di tornasole quel connubio, quell’ibrido intreccio tra mafia, imprenditoria e politica in termini di condizionamento della prima sulle seconde nell’ambito dei pubblici finanziamenti».

Non di Gladio, non di “entità” non meglio definite: Falcone parla delle cose che si toccano con mano. L’argomento che scotta di più, quello che è «molto più grave di come appare», è quello sulla mafia e gli appalti, dove c’è «una indistinzione – così dice al convegno – tra imprese meridionali e imprese di altre zone d’Italia per quanto attiene al condizionamento e all’inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa». Falcone poi aggiunge: «E questo nel futuro verrà fuori!». Sembra proprio che stia anticipando il dossier, e che lo faccia ancora di più quando in un passaggio spiega che «è illusorio pensare che imprese appartenenti ad altre attività, che dovevano essere realizzate in altre zone d’Italia, rimangano immuni da certi tipi di collegamenti, sia che lo vogliano sia che non lo vogliano». Ma da dove lo deduce Falcone tutto ciò? «Sono state acquisite intercettazioni telefoniche di chiarissime indicazioni, di precise scelte operative, a cui tutti sottostanno, a pena di conseguenze gravissime o autoesclusione dal mercato», spiega Falcone più avanti. Il dossier mafia appalti contiene numerose intercettazioni dove, appunto, si evince questa regia occulta.

In sintesi, dopo aver riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, ha anche testualmente affermato: «Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora», alludendo non solo ad un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. Dagli atti giudiziari, in primis la sentenza di Catania del 2006 sulle stragi del ’92, emerge, d’altronde, che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia aveva costituito uno dei molteplici moventi che avevano indotto Cosa nostra a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane. Sulle richiesta di archiviazione in merito all’argomento “filone mafia appalti”, è scritto nero su bianco che tale movente «aveva influito fortemente nella deliberazione adottata da Cosa nostra di attualizzare il progetto, già esistente da tempo, di uccidere Falcone e Borsellino, atteso che era intenzione dell’organizzazione criminale neutralizzare l’intuizione investigativa di Falcone in relazione alla suddetta gestione illecita degli appalti, le indagini sulla quale avrebbero aperto già nel 1991 scenari inquietanti e, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”».

La figlia di Borsellino: “Perché avete archiviato mafia-appalti?”. La denuncia della figlia del magistrato ucciso a via d’Amelio svela in tv il più grande depistaggio della giustizia italiana, scrive Damiano Aliprandi il 5 Febbraio 2019, su Il Dubbio. «Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione». Le parole, durissime, sono di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia a via D’Amelio nel 1992, che domenica sera è stata ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Una lunga intervista, quella di Fazio, preceduta dalle terribili immagini di quel tragico 19 luglio 1992. «Come mai – le ha chiesto il conduttore – ha deciso di parlare proprio ora?». Fiammetta ha risposto partendo da quanto avvenuto un paio di anni fa, ovvero la fine di un processo che non era riuscito ancora a fare piena luce su quanto avvenuto. «Nell’aprile del 2017 – ha raccontato Fiammetta Borsellino – il bilancio è stato amarissimo. C’è stata una sentenza che svelava il grande inganno di Via D’Amelio, in quello che poi verrà definito il depistaggio più grave della storia di questo Paese». Fiammetta ha poi spiegato che le indagini e i processi sono stati una storia di bugie. Borsellino non si è risparmiata e ha fatto nomi e cognomi delle persone coinvolte nel grande depistaggio. «La Procura di Caltanissetta – ha detto – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto». Fiammetta Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco – morto lo scorso dicembre -, ex Capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto Sostituti Procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato, oltre a chiedere misure di sicurezza eccezionali per prevenire nuove stragi. Al suo posto – il 15 gennaio del 1993 – arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros capitanati dal generale Mario Mori. Il biennio di Giammanco – ricordiamo – fu un periodo caldissimo. Stragi, inchieste delicate, gravi accuse nei suoi confronti poi definitivamente archiviate. L’unica certezza è che gli attriti all’interno della Procura non mancavano. A partire dal disagio di Giovanni Falcone, cristallizzato negli stralci del suo diario pubblicati dalSole24ore dopo l’attentato di Capaci. Tanti sono i passaggi che evocavano il suo malessere per spiegare la sua decisione di lasciare la Sicilia per il ministero: «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?». Gli stralci dei diari furono confermati da Paolo Borsellino durante la sua ultima uscita pubblica a Casa Professa. Ma anche quest’ultimo era sofferente. Una sofferenza che ritroviamo narrata in un articolo di Luca Rossi pubblicato sul Corriere della Sera il 21 luglio, due giorni dopo la strage di Via D’Amelio (l’intervista era del 2 luglio precedente – come confermò nella testimonianza a Palermo del 6.7.2012). Vale la pena riportarla, soprattutto quando l’eroico magistrato gli ammise testualmente: «Devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle». Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Il riferimento era all’inchiesta sul dossier mafia- appalti. Ma ritorniamo all’intervista della figlia più piccola di Paolo Borsellino e della sua decisione di rompere il silenzio in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’ 92, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». In quell’occasione ci fu una diretta Rai condotta proprio da Fazio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo».

Continua con le sue considerazioni sul depistaggio. «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi – ha aggiunto Fiammetta Borsellino -. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. Fu un depistaggio grossolano perché le indagini furono totalmente delegate ad Arnaldo La Barbera, una persona che era un poliziotto da un lato e dall’altro pare che ricevesse buste paga dal Sisde per condurre una vita dissoluta in giro per l’Italia». Fiammetta poi racconta la vicenda di Scarantino che «fu vestito da mafioso» e che si prestò per far condannare persone poi rivelatesi innocenti. Fiammetta non risparmia nessuno, oltre ai poliziotti, anche i magistrati che «evitarono confronti che avrebbero fatto crollare immediatamente l’impianto accusatorio». Sappiamo che l’anno della svolta è il 2008, quando parlò Spatuzza: dopo gli opportuni riscontri, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Fiammetta Borsellino parla proprio dell’incontro che lei ha avuto con i fratelli Graviano al 41 bis. «Questa esigenza è venuta fuori da un percorso privato – ha detto Fiammetta Borsellino -. Avevo la necessità di dare voce a un dolore profondo che era stato inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. Lo chiamo il mio viaggio nell’inferno dei silenzi, dei cancelli. È stato però un viaggio di speranza. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare. Forse quando intrapresi quel viaggio ero io stessa quella bambina che spera nel cambiamento, nel cambiamento delle coscienze». E quando Fazio le domanda se c’è qualcuno del quale si fida, lei risponde: «Né io né tutta la mia famiglia – risponde Fiammetta – pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene».

Poi aggiunge: «Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Fazio le chiede su che cosa stava lavorando suo padre, cosa c’era di così di indicibile tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». A quanto detto occorre solo fare una piccola precisazione sulla sequenza degli atti che importarono l’archiviazione dell’indagine aperta con il deposito della nota informativa “mafia appalti” da parte dei Ros su insistenza di Giovanni Falcone. Occorre rammentare che dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip nello stesso 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte».

Fiammetta Borsellino a Bari: «Ragazzi, non seguite le "liturgie" dell'antimafia». La figlia di Paolo Borsellino ha incontrato gli studenti dell'istituto Marconi del capoluogo e del Fiore di Modugno. Enrica D'Acciò il 29 Ottobre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Le nostre città sono cambiate, la mafia è cambiata. Ai ragazzi dico: pretendete modelli concreti di legalità, persone che mettono davvero in pratica certi valori, oltre le liturgie dell’antimafia». Minitour barese per Fiammetta Borsellino, figlia più piccola del magistrato Paolo, impegnata in un percorso di memoria e verità sui depistaggi che seguirono alla strage di via D’Amelio, in cui morirono suo padre e cinque agenti della scorta. Ieri è stata ospite dell’istituto «Guglielmo Marconi» di Bari, oggi sarà all’istituto «Tommaso Fiore» di Modugno, per un percorso di legalità a cura dell’associazione «Cariatide».

Cosa accade durante questi incontri? Chi sono i ragazzi che incontra?

«Questi incontri sono un momento di confronto importante, di grande partecipazione spontanea, specie se i ragazzi sono stati accompagnati, dai docenti e dagli operatori, ad avvicinarsi e ad interrogarsi su alcuni temi. Si tratta, di solito, di tappe di un percorso più articolato, in cui i ragazzi imparano a riflettere su ciò che accade attorno a loro».

Non ci sono dunque solo baby criminali? A Bari, in particolare, l’età media in cui si comincia a delinquere è sempre più bassa…

«È un tema che emerge spesso, anche oggi ne abbiamo parlato. I ragazzi sono affascinati da modelli negativi, alla ‘Gomorra’ per intenderci. E questo perché chi cresce in contesti di degrado spesso non ha alternative. Non che questo sia una giustificazione ma è indubbio che, per alcuni ragazzi, nati e vissuti in certi contesti, alcuni modelli sono più vicini, più attraenti. Ma c’è anche una seconda ragione. Questi modelli negativi offrono ai ragazzi l’opportunità di raggiungere, in poco tempo, il riconoscimento sociale e i soldi. Ma, attenzione, si tratta solo di un’illusione. Se uccidi a 16 anni, entri in una spirale di morte. Se delinqui da 16 anni, presto o tardi dovrai fare i conti con il carcere. Durante questi incontri, nelle scuole, parlo ai ragazzi di quest’illusione, invitandoli a guardare più lontano. Certo, questo non basta. È necessario offrire loro modelli concreti, non solo parole, di legalità».

Che ricordo ha di Palermo, e dei giovani palermitani, quando frequentava anche lei la scuole superiore?

«Sono sempre stata una ragazza che ha vissuto la sua città, frequentavo anche i quartieri più degradati, perché facevo volontariato e perché credevo e continuo a credere che proprio nei quartieri più difficili, più degradati, si nasconde la bellezza più autentica. Adesso Palermo, come Bari e altre città del Mezzogiorno, è molto cambiata: ci sono i turisti, le zone pedonali, le attività commerciali, un processo di riqualificazione molto complesso, in cui nuove realtà convivono con chi, in questi quartieri, ha sempre vissuto».

Significa che la mafia ha perso il controllo su certi quartieri?

«È semplicistico dire “la mafia ha vinto” così come “la mafia ha perso”. In primo luogo, perché la mafia si è riorganizzata, è cambiata e guarda con interesse tutti quei fenomeni, come per esempio il turismo, che portano soldi. Oggi poi, rispetto al passato, la mafia risiede nei centri del potere economico, se volessimo semplificare diremmo nei colletti bianchi, pur continuando a gestire, per esempio, lo spaccio in strada».

Come si fa spiegare ai ragazzi che le indagini sulla strage di via D’Amelio sono state sviate?

«Comincio col dire che il mio è un percorso di verità e memoria, che vuole superare certe liturgie dell’antimafia. Continuo col dire che sono stati attivati percorsi istituzionali, che sono in corso processi, che riguardano anche figure istituzionali importanti. Tutto ciò naturalmente non può spiegarsi in uno o due incontri, proprio perché riguarda figure istituzionali significative. Non è facile da affrontare, non è facile da capire, ma è indispensabile per ricostruire la verità e la memoria».

Andare oltre le liturgie non è semplice, specie se i ragazzi, spesso loro malgrado, ne sono protagonisti.

«Quello che suggerisco loro è di non soffermarsi all’apparenza, alle parole, alla vetrina dei fenomeni. Devono cercare chi, dall’amministratore locale in su, certi valori li mette in pratica, pretendere che certi valori, tanto proclamati, diventino concreti».

Mafia-appalti: promemoria (per Travaglio), scrive Damiano Aliprandi il 7 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Travaglio nel suo consueto editoriale dove indica presunte fake news, scrive testualmente: «Falso che Paolo Borsellino sia stato ucciso per l’indagine del Ros “mafia-appalti” archiviata dopo la sua morte (vecchia pista ridicolizzata da tutte le sentenze su via D’Amelio e da quella di primo grado sulla trattativa)». Si apprende così che il direttore de Il Fatto Quotidiano considera valide (tranne il Borsellino ter che prende in considerazione mafia- appalti) le sentenze oggi considerate frutto del depistaggio più grande della storia e non considera la sentenza del Borsellino quater che, oltre, a smascherare il depistaggio, ha considerato eccome il dossier mafia- appalti, ritendendolo un probabile movente che ha accelerato la decisione di compiere la strage di Via D’Amelio. Ma prima ancora che uscissero le motivazioni della sentenza del Borsellino Quater, il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, in commissione Antimafia, aveva parlato della pista del rapporto mafia- appalti, come, appunto, possibile movente della strage in cui morì il giudice Paolo Borsellino. «Allora, di quel rapporto Paolo Borsellino – ha spiegato Paci – chiederà copia quando si trova ancora a Marsala, quando è ancora procuratore della Repubblica di Marsala». Poi prosegue: «Altro dato che emerge inquietante è che, spesso ci siamo soffermati a pensare a quest’aspetto, già nel 1991 Cosa nostra vuole organizzare un attentato a Paolo Borsellino a Marsala. Per quest’attentato che non va in porto muoiono due mafiosi, i fratelli D’Amico, i capi famiglia della famiglia di Marsala. Muoiono perché si dice si oppongano all’eliminazione di Paolo Borsellino a Marsala». Si chiede il magistrato: «Che cosa ha fatto Paolo Borsellino nel 1991 di particolare? Questo è un altro rovello che ha spesso accompagnato i nostri approfondimenti. Paolo Borsellino viene a conoscenza del rapporto tra mafia e appalti, di tutto quello che è collegato a mafia e appalti. Non viene a conoscenza del fatto solamente che c’è un’appendice del rapporto tra mafia e appalti a Pantelleria. Evidentemente, viene a conoscenza di quelle famose notizie che riguardano la De Eccher, il rapporto con imprenditori del Nord e, soprattutto, la vicenda che riguarda l’amministratore della società, comunque legato mani e piedi al potere politico romano». Una ipotesi – quella di Paci – che indirettamente smentisce la sentenza di primo grado sulla trattativa, visto che nelle motivazioni a firma del giudice Montalto si legge che non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia- appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse». Ma c’è, appunto, la sentenza recentissima del Borsellino Quater che dedica un capitolo proprio a mafia appalti. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché sì sono resi conto che il dottore Borsellino era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse alla pari del dottore Falcone». La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanati dal generale Mario Mori e depositata nel ’ 91 su spinta di Giovanni Falcone. Giuffrè conferma le precedenti dichiarazioni secondo cui «il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura». Ma qui, in fondo, parliamo di una sentenza non definitiva. Però c’è quella del 21 aprile del 2006 (confermata poi in Cassazione) da parte della Corte d’Assiste di Catania che riguarda esattamente i processi per le stragi nelle quali morirono Falcone e Borsellino. Una sentenza, definitiva, che mette un sigillo alla fake news di Travaglio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano «pericolosi nemici» di Cosa Nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. In aggiunta riportano la testimonianza di Pulci che riferiva di aver saputo che avevano accelerato l’esecuzione «poiché il dottor Borsellino si era confidato con una persona delle istituzioni e questa persona aveva avvertito che Borsellino poteva fare più danno di quello che stava facendo Falcone e hanno accelerato l’esecuzione». Questo passaggio smentirebbe anche la cosiddetta trattativa visto che secondo la sentenza di Palermo sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone. Ma questa è un’altra storia.

Borsellino quater, la prescrizione salva Scarantino. Condannati gli altri falsi pentiti. La sentenza d'appello conferma i 10 anni per Andriotta e Pulci. Ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 15 novembre 2019. Il falso pentito Vincenzo Scarantino non sconterà alcuna condanna per il colossale depistaggio attorno alla strage Borsellino. La prescrizione - ovvero il troppo tempo trascorso dai fatti - lo ha salvato, i giudici della corte d'assise d'appello di Caltanissetta non hanno potuto che prenderne atto, come già avevano fatto i colleghi del primo grado. La sentenza di secondo grado conferma anche le condanne per gli altri due falsi pentiti, come aveva chiesto il procuratore generale Lia Sava e il sostituto Fabiola Furnari: 10 anni per Francesco Andriotta e Calogero Pulci. E per due esecutori della strage del 19 luglio 1992 in cui morirono il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, i boss Salvino Madonia e Vittorio Tutino, a cui è stato inflitto un altro ergastolo.

Il processo. Il processo Quater si fonda sui racconti di Gaspare Spatuzza, il vero pentito della strage che nel 2008 ha svelato la grande impostura di Scarantino. L'ex killer del clan di Brancaccio ha segnato una strada per le indagini sui misteri che ancora avvolgono quei giorni. Ha scritto la corte d’assise nelle motivazioni della sentenza: "Soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise Borsellino e i poliziotti. "È uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana". Ora, a Caltanissetta, c’è un processo a tre poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino che avrebbero avuto un ruolo nella costruzione del falso pentito Scarantino, accanto all’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002.

Indagini che puntano al cuore dello Stato. Ha scritto ancora la corte d’assise di Caltanissetta: "È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi". Gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino dovevano scoprire i responsabili delle bombe, invece costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti. La corte non crede per ansia di giustizia e di risultato. No. Vennero suggerite a Scarantino "un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero". Il furto della 126 rubata mediante la rottura del bloccasterzo è la verità che ha poi raccontato nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza. Come facevano i suggeritori a sapere la storia della 126? "È del tutto logico ritenere — scrivono ora i giudici — che tali circostanze siano state suggerite a Scarantino da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte".

I misteri che restano. Chi ispirò i suggeritori? La corte ricorda che il 13 agosto 1992, il centro Sisde (il servizio segreto civile) di Palermo, comunicò alla sede centrale che "la locale polizia aveva acquisito significativi elementi sull’autobomba". E ancora la corte rileva "l’iniziativa decisamente irrituale" dell’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato per mafia dai pm di Palermo nel dicembre del 1992. "Una richiesta di collaborazione decisamente irrituale — ribadisce la sentenza — perché Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria". Tanta "rapidità nel chiedere la collaborazione di Contrada già il giorno immediatamente successivo alla strage — scrivono ancora i giudici — a cui fece seguito la mancata audizione del dottore Borsellino nel periodo dei 57 giorni" che gli rimasero da vivere. Col Sisde collaborava anche il capo della Mobile La Barbera, pure questo ricorda la sentenza. Ed è stato scritto, per la prima volta: c’è un "collegamento tra il depistaggio dell’indagine e l’occultamento dell’agenda rossa di Borsellino". Perché per i giudici La Barbera è anche "intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre".

Borsellino quater, ergastoli per Via d’Amelio. Prescrizione per Scarantino. Damiano Aliprandi il 15 Novembre 2019 su Il Dubbio. Arrivata la decisione sul Borsellino quater, Ribadita la sentenza di appello, per giungere alla verità. Per il “falso pentito” Vincenzo Scarantino, è giunta la conferma della prescrizione. Confermata la condanna all’ergastolo per la strage di Via D’Amelio per boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino. Così come è stata confermata la condanna nei confronti dei due falsi pentiti Calogero Pulci e Francesco Andriotta: 10 anni per reato di calunnia. Per il “falso pentito” Vincenzo Scarantino, invece, è giunta la conferma della prescrizione del reato in considerazione del riconoscimento di una attenuante per essere stato determinato da altri a commettere il reato. Si è così dovuto arrivare alla sentenza del Borsellino quater, oggi ribadita dalla sentenza di appello, per giungere alla verità. A pagina 1735 delle motivazioni, infatti, si osserva che : “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna e alla pena detentiva perpetua di Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso, per il loro ritenuto concorso nella strage di via D’Amelio”, quali autori materiali nella fase esecutiva dell’attentato che, la domenica del 19 luglio 1992, costò la vita del dottor Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina, tutti appartenenti alla polizia di stato. Ben quattro sono stati i processi che si sono succeduti sulla strage di Via D’Amelio. I primi tre il frutto di errori, depistaggi tramite falsi pentiti, irritualità processuali. Il Borsellino 1, con la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 27 gennaio che ha riconosciuto colpevoli del delitto di strage, sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Candura, per aver partecipato a vario titolo alle fasi esecutive dell’attentato e alla decisione deliberativa lo stesso Scarantino (autoaccusatosi), Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, condannato il primo a 18 anni di reclusione e gli altri tre all’ergastolo. Con riferimento allo Scarantino la sentenza è divenuta irrevocabile in quanto non impugnata, confermata in secondo grado e Cassazione il 18 dicembre del 2000. Ma in quest’ultima sentenza le dichiarazioni accusatorie di Scarantino vengono ritenute attendibili solo con riferimento al segmento della fase esecutiva relativa al furto della Fiat 126. Per contro, nel resto, le propalazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta vengono valutate non attendibili su alcuni punti. Arriviamo quindi al Borsellino Bis che ha avuto come imputati sia alcuni dei mandanti che taluni esecutori materiali della strage, fra i quali anche quelli chiamati in correità da Scarantino, in concorso con gli imputati del Borsellino 1, e precisamente Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso e Gaetano Murana. In primo grado, la corte d’assise di Caltanissetta, con sentenza del 13 febbraio 1999, ha confermato sostanzialmente, quanto agli imputati chiamati in correità da Scarantino, i risultati della sentenza di secondo grado del Borsellino 1 e quindi assolto gli imputati ritenendo privo di riscontro le dichiarazioni di Scarantino e Andriotta. Ma poi, come un fulmine in ciel sereno, la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, con sentenza del 18 marzo 2002, relativamente ai sopra richiamati imputati, ha ribaltato le conclusioni del giudice di primo grado e ha rivalutato integralmente le dichiarazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta. Per tali ragioni, in riforma della sentenza impugnata, ha condannato gli stessi imputati per il delitto di strage. Arriviamo al Borsellino ter. Nell’estate del 1996 le indagini sulla strage di via D’Amelio, mai cessate nonostante la celebrazione dei due giudizi precedenti, subivano una ulteriore svolta a seguito della cattura e della decisione di collaborare di alcuni mafiosi direttamente implicati negli avvenimenti. I racconti dei collaboratori permettevano così di arricchire il quadro degli esecutori materiali e di risalire a parte dei mandanti interni diversi dagli imputati nei due precedenti processi. In tale processo, benché fra gli imputati non figurassero quelli chiamati in correità da Scarantino, venivano in ogni caso analizzate e valutate in primo grado le dichiarazioni accusatorie dello stesso e, in ordine ad esse, la Corte d’Assise con sentenza del 9 dicembre 1999 ha concluso ritenendo espressamente che non se ne dovesse tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di Via D’Amelio perché inattendibili. L’impianto di questa sentenza, parzialmente modificato dalla sentenza d’appello del 7 febbraio 2002, sempre senza che venisse intaccato il ragionamento valutativo in ordine alla figura di Scarantino, veniva definitivamente confermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 17 gennaio 2003, con la quale venivano annullate le assoluzioni di Benedetto Santapaola, Antonino Giuffrè, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi, pronunciate in secondo grado, e veniva disposto il rinvio davanti alla Corte d’Appello di Catania che con sentenza divenuta definitiva condannava all’ergastolo i suddetti imputati. Il colpo di scena con Spatuzza Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – il prete ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino. Tali dichiarazioni puntualmente riscontrate (anche per il tramite di altro collaboratore, Fabio Tranchina), smentivano radicalmente le dichiarazioni accusatorie di Scarantino, Andriotta e Candura. A quel punto il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta chiedeva, in data 13 ottobre 2011, alla Corte d’Appello di Catania la revisione delle sentenze di condanna inflitte in esito dei processi cosiddetti Borsellino1 e Borsellino bis. Il 13 luglio 2017, la Corte d’Assise d’Appello di Catania ha accolto tale richiesta di revisione, scagionando definitivamente tutti coloro che erano stati ingiustamente condannati sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti. Grazie alle dichiarazioni di Spatuzza, la procura di Caltanissetta ha potuto così certificare il depistaggio operato dai falsi pentiti su pressione di altri elementi. Arriviamo così alla sentenza di primo grado del Borsellino Quater che ha condannato all’ergastolo i veri esecutori della strage e a 10 anni i falsi pentiti Andriotta e Calogero Pulci. Per Scarantino, invece, è stata dichiarata la prescrizione del reato in considerazione del riconoscimento di una attenuante per essere stato determinato da altri a commettere il reato. Oggi è arrivata la conferma in secondo grado.

Borsellino quater, Repici: ''Apparati di Stato dietro strage e depistaggio di via d'Amelio''. Aaron Pettinari su Antimafia duemila il 14 Ottobre 2019. La discussione al processo d'Appello della parte civile di Salvatore Borsellino. Nelle ultime udienze hanno parlato i difensori. Domani si torna in aula. Il processo d'Appello Borsellino quater, in corso davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, è alle sue battute conclusive con la Procura generale che ha già chiesto la conferma delle condanne di primo grado e le parti civili che hanno già ultimato le proprie discussioni di fronte alla corte. Tra queste vi è quella di Salvatore Borsellino rappresentata dall'avvocato Fabio Repici. "Sin dal primo grado l'impostazione di questa difesa era stata differente rispetto le altre parti che individuavano la responsabilità di Scarantino nella calunnia - ha ricordato lo scorso 24 settembre - Come si poteva pensare che tutto il depistaggio fosse derivato dalla mente di un soggetto che era un piccolo delinquente di borgata estraneo a Cosa nostra, soggetto con esperienze di vita francamente non eccessivamente esaltanti, e che però avrebbe avuto le doti intellettive per costruire nei verbali prima e negli esami dibattimentali una storia che era la storia di un evento criminale tra i più importanti della storia italiana? Questa era un'impostazione. Impostazione che fu seguita fino all'ultimo dalla Pubblica accusa che infatti chiese una significativa, direi durissima condanna all'esito del dibattimento". Secondo Repici quello di via d'Amelio "è vero che si è trattato di uno dei più gravi depistaggi della storia italiana" ma Scarantino non è stato altro che "il primo delle vittime". "Fu il primo degli arrestati. - ha proseguito - fu arrestato prima lui di quelli che furono arrestati nel 1993 e nel 1994 - dove vi fu la conferenza stampa del 19 luglio, direi un po' blasfema anche nella commemorazione del secondo anniversario della stragi di via d'Amelio - gli altri furono arrestati dopo, lui fu il primo. Si parte con la vicenda di Candura e l'obiettivo è arrivare a Scarantino. Si arriva a Scarantino e poi quello che segue".

Depistaggio proseguimento della strage di via d'Amelio. Riprendendo le valutazioni dei giudici di primo grado l'avvocato di Salvatore Borsellino ha ricordato come su Scarantino si sia giunti alla conclusione che il picciotto della Guadagna è stato "indotto a mentire" e quindi commettere i delitti di calunnia. "C'era un soggetto che era nelle mani di alcuni, e quelli alcuni erano lo Stato, essendo in condizioni di cattività, cioè di gestione della sua vita da parte di uomini dello Stato - ha ricordato ancora Repici - Questo è il nocciolo del processo. Il dato centrale. La centralità del depistaggio non è una questione che la Corte ha ritenuto doverosamente centrale perché, trattandosi di uno dei più gravi depistaggi della storia d'Italia, è necessario rimboccarsi le maniche e farci i conti. Perché in realtà quel depistaggio altro non è che la prosecuzione della strage. Quel depistaggio altro non è che il principale elemento sintomatico sul quale poi riflettere in ordine al dato sul quale si è impegnata la Procura generale nella sua requisitoria: se la strage di via d'Amelio sia da attribuire in via esclusiva a Cosa nostra - e così non è - oppure se ci siano degli altri partecipi. E solo la lettura corretta, e neanche intelligente, semplicemente adesiva ai dati probatori sul depistaggio, solo una lettura corretta sul depistaggio ci dice che quel depistaggio è la prosecuzione della strage. E che quindi i soggetti estranei a Cosa nostra che hanno compartecipato alla decisione, e per un pezzettino almeno anche all'esecuzione, perché non ci possiamo dimenticare la dichiarazione reiterata, puntuale e mai modificata di Gaspare Spatuzza resa in fase di interrogatorio, resa nei vari esami dibattimentali circa la presenza al momento del caricamento dell'esplosivo nel sabato sera 18 luglio 1992 della Fiat 126, nel garage di Villasevaglios, di un uomo che non era di Cosa nostra ("Quell'uomo era un uomo di apparato, era un uomo di polizia o Servizi segreti")". Repici ha anche ricordato la "prudenza" di Spatuzza nell'individuazione del soggetto laddove, in sede di interrogatorio, a richiesta di riconoscimento fotografico, aveva indicato in termini di somiglianza un soggetto che era esattamente un funzionario di Polizia in servizio al Sisde, cioè esattamente un uomo di Polizia e di Servizi Segreti.

Molteplici interessi per una strage. "Nelle motivazioni della sentenza di primo grado si parla della presenza di soggetti esterni nella strage di via d'Amelio. Che il depistaggio costruito su Scarantino sia stato un depistaggio con responsabilità istituzionali è scritto in sentenza - ha proseguito Repici - Che il depistaggio abbia avuto quale scopo quello di occultare responsabilità esterne a Cosa nostra è scritto nella sentenza. E' rimasto ancora aperto il dato relativo alla causale, alle ragioni che hanno portato alla strage di via d'Amelio. Forse ci si è sforzati di individuare una causale secca e specifica, e allora si è detto l'indagine Mafia-Appalti, si è detto la collaborazione di Mutolo, se ne sono ipotizzate altre sulla scorta di dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Con Brusca si è detto l'avvio della trattativa tra pezzi di apparati istituzionali e Cosa nostra. A me sembra di abbastanza lapalissiana evidenza come è sbagliato cercar di individuar una singola e specifica per un delitto così clamoroso che cambiò forse ancora più della strage di Capaci i binari della storia di questa nazione. E forse la letteratura alle volte serve per farci venire in mente ipotesi di realtà. In realtà la strage di via d'Amelio, nel senso dell'uccisione di Paolo Borsellino, che comportò l'uccisione di altre cinque persone, è stato un accadimento che fu per vari interessi in quel momento assolutamente necessitato. Esattamente come nella "cronaca di una morte annunciata" di Marquez". Repici ha evidenziato come la sentenza di primo grado abbia dato molto valore alle parole di Giuffrè sull'indagine Mafia-Appalti ma, giustamente, ha anche ricordato come "la cosa non è stata ricostruita in modo documentale". "Ci sono elementi di prova - ha proseguito rivolgendosi alla Corte - che sono insuperabili circa il fatto dell'esistenza di due diverse informative del Ros, una depositata alla Procura di Palermo nelle mani di Giovanni Falcone a febbraio 1991, ma la seconda - quella con i dati che sarebbero stati l'oggetto della protezione da parte della Procura della Repubblica - sono stati depositati a settembre 1992. Questo è un dato cartaceo, documentale, insuperabile. Le intercettazioni con i nomi - per intenderci - di Mannino, Lima, e altri le aveva il Ros ma non le avevano i Magistrati. Non sappiamo se confidenzialmente ufficiali del Ros li abbiano potuto segnalare a Magistrati ed amici, ma il dato documentale è che l'informativa con le intercettazioni che risalgono a ben prima del febbraio del 1991, perché risalgono al 1990, vengono depositate a settembre 1992".

E così il Ros, alcuni ufficiali del Ros, costruiscono una "vulgata" che diventa una propaganda di intossicazione nella ricostruzione delle cose. Il legale di Salvatore Borsellino ha anche ricordato la testimonianza di Carmelo Canale, nel 1992 tenente, "il militare che più di tutti in quel momento collaborava con Paolo Borsellino e che, a proposito della riunione segreta avuta da Paolo Borsellino il 25 giugno del 1992 alla Caserma di Piazza Verdi, la Caserma Carini, con Mario Mori, in quel momento vice comandante del Ros, e Giuseppe De Donno, Capitano impegnato in quella indagine su Mafia-Appalti, ha detto che l'oggetto di interesse di Borsellino non era l'indagine Mafia-Appalti. Il motivo per cui Borsellino convoca quella riunione è perché è convinto che il capitano De Donno sia stato l'estensore del documento anonimo ribattezzato Corvo 2 che nel giugno 1992, dopo la strage di Capaci, era stato inviato a numerose autorità e a numerosi soggetti; e sul quale poi ci fu una bega ricostruita in altro processo con l'intervento a stoppare le indagini proprio del comandante del Ros Antonio Subranni in data 8 luglio 1992". Di diversa rilevanza, per Repici, è la vicenda che ha riguardato Gaspare Mutolo. "La questione Mutolo si aggancia in modo sconvolgente al depistaggio sulla strage di via d'Amelio. Perché Paolo Borsellino sente Mutolo l'1 luglio, Mutolo a Borsellino confida la decisività nelle relazioni tra Stato e Cosa nostra di un uomo che si chiama Bruno Contrada, parla anche di un Magistrato, e poi cosa accade? Accade che il giorno dopo la strage di via d'Amelio, anzi dopo poche ore, proprio quell'uomo, Bruno Contrada, l'uomo che aveva colto per le parole di Mutolo l'attenzione di Paolo Borsellino, come oggetto a cui indirizzare i propri sforzi per coglierne le responsabilità criminali, proprio quell'uomo passa ad essere uno dei protagonisti del depistaggio sulla morte di Paolo Borsellino".

Vero o Falso. Repici ha poi sottolineato come la Corte evidenzi nella sentenza di primo grado alcune dichiarazioni calunniose messe in bocca a Scarantino e riferite da Francesco Andriotta contengono dei dati di realtà: "Come è possibile che Scarantino abbia potuto riferire circostanze vere? Come è possibile che nelle dichiarazioni di Andriotta del 1993, prima ancora di Scarantino, ci siano elementi di verità? C'è solo - questa mi sento di non condividere - una piccola défaillance nelle motivazioni della sentenza. Lette in modo minimalista si potrebbe dire che la Corte ha sostenuto che il dottor Arnaldo La Barbera, o altri investigatori avevano dei confidenti segreti, riservati, di cui non è mai stato fatto il nome e non si è mai saputo nulla, i quali confidenti erano portatori di quei dati cognitivi al dottor La Barbera, e il dottor La Barbera li ha messi in bocca a Scarantino. Ora il punto è che finché si vuole mantenere una argomentazione siffatta nell'ambito del ragionevole le fonti confidenziali riservate di un funzionario di polizia non possono che essere dei delinquenti, cioè dei mafiosi per forza di cose. Sulla strage di via d'Amelio non possono essere stati esponenti della banda Rom del Nord Italia. Ma questo è sicuramente un discorso che diventa del tutto illogico". Secondo il legale "cede di fronte alla evidenza dimostrativa da parte di quei dati che io avevo riferito e cioè: alcuni uomini dello Stato sapevano verità sulla strage di via d'Amelio perché erano uomini dello Stato che l'avevano saputo in diretta e che quindi, in una logica cinghia di trasmissione, avevano informato direttamente o indirettamente, secondo me molto più indirettamente, il dottore La Barbera, perché certo non possiamo ipotizzare - perché siamo anche qui fuori dal campo ragionevole - che tutto il depistaggio sia stato costruito da Arnaldo La Barbera e dai suoi subordinati. Ma d'altronde se uno pensa alle dichiarazioni di Spatuzza e alla presenza di un esponente delle istituzioni a caricare, a supervisionare il caricamento della Fiat 126, capisce chiaramente com'è che in ambito istituzionale, anzi in ambito di apparati di Polizia e di intelligence, avevano loro le informazioni, esattamente come le avrebbero avute i mafiosi che avrebbero partecipato alla strage di via d'Amelio. Per quello non esistono le fonti in alcun modo, diciamo, rivelabili. Perché era un discorso indicibile. Perché era il discorso della complicità di pezzi di Stato nella commissione della strage di via d'Amelio". Ancora Repici ha ricordato l'inquietante dato per cui "le dichiarazioni di Scarantino e le dichiarazioni di Spatuzza sono due storie pressoché uguali" dove a cambiare sono solo "alcuni nomi", tanto che Spatuzza, in un colloquio investigativo del giugno 1998, davanti ai procuratori Vigna e Grasso arrivò a dire "Guardate io non lo so se Scarantino ha rubato la macchina, ma se Scarantino l'ha rubata è sicuro che a lui gliel'hanno rubata poi". "Addirittura - ha aggiunto Repici nella sua ricostruzione - nella versione di Scarantino la macchina è consegnata alle stesse persone a cui l'ha consegnata Spatuzza. C'è solo una differenza. Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria d'Italia, cioè Scarantino, è servito ad occultare la partecipazione alla strage di esponenti dello Stato. E infatti nella versione di Scarantino esiste solo Cosa nostra. Ed è qui che si arriva a Scotto. Repici dapprima ha ricordato le propalazioni del picciotto della Guadagna su Gaetano Scotto ("Gaetano Scotto, è il fratello di Pietro, ha informazioni da Pietro a proposito della captazione abusiva delle telefonate sul telefono dell'utenza in uso nei giorni 17-18 e 19 alla mamma di Borsellino. Gaetano Scotto, uomo d'onore, andò al bar Badalamenti ed ha riferito quello che aveva appreso dal fratello, e quindi sostanzialmente diede l'input sul momento in cui si doveva commettere la strage"). Poi ha rammentato che su Pietro Scotto, condannato in primo grado e poi assolto in Appello ed in Cassazione, le emergenze investigative erano ben precedenti rispetto a Scarantino e venivano direttamente dai familiari di Borsellino con "la nipote che lo riconobbe come soggetto che operava nelle centraline telefoniche di quel palazzo in precedenza rispetto alla strage. E poi c'era una consulenza tecnica, a firma Genchi, su quella ipotesi di capostazione abusiva. Questi dati erano conosciuti come dati già acquisiti in fase di investigazione agli stessi investigatori. E quindi è ovvio chi sia la fonte di Scarantino. Con Cecilia Fiore, figlia di Rita, nipote di Paolo, ci aveva parlato Arnaldo La Barbera, erano state raccolte le sue dichiarazioni. La consulenza l'aveva avuta Arnaldo La Barbera e passa nei verbali di Scarantino questo dato". Ma Repici ha anche ricordato che secondo le dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia Scotto "era un personaggio del mandamento di Resuttana, del clan Madonia, che teneva i rapporti tra Cosa nostra, gli uomini della Polizia e del Sisde". "Ecco la coincidenza. A scomparire nelle dichiarazioni di Scarantino è sempre la parte relativa alle relazioni con apparati deviati dello Stato. Quindi Scarantino serve ad occultare le responsabilità di apparati istituzionali. E perfino le accuse false di Scarantino su Scotto sono state coerenti con quell'indirizzo, quell'obiettivo, togliere le responsabilità esterne a Cosa nostra".

Non solo. Repici ritiene di fatto che "le stragi del 1992 sono partite dal 1989. E la fase del 1992 è quella in cui si pone in essere quel progetto criminale che a me non viene di chiamare in altro modo che golpista, si pone in essere in modo violento il momento principale di quel progetto golpista e a quel punto tanta è la convergenza degli interessi che ci sono dietro le stragi che perfino uomini di Cosa nostra definitivamente o solo temporaneamente possono essere sacrificati". Ed è per questo motivo che il depistaggio arriva a colpire uomini di Cosa nostra nelle responsabilità. "Così gli investigatori, uno su tutti Arnaldo La Barbera, che nel 1989 depistava le indagini in favore di Gaetano Scotto sull'omicidio di Nino Agostino, nel 1994 si trovano nella necessità di sacrificare i loro stessi protetti". Proseguendo nell'arringa Repici ha anche ricordato fatti come l'intercettazione del dicembre 1993 tra il collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo, e Francesca Castellese, genitori del piccolo Giuseppe (ucciso e sciolto nell'acido dalla furia omicida di Cosa nostra). Intercettazioni in cui la donna dice "non parlare di via d'Amelio, non parlare della strage Borsellino" per poi aggiungere "ci sono i poliziotti infiltrati". "Questo è il pensiero che una madre che ha un bambino al tempo sequestrato da criminali - ha sottolineato - Il timore era quello. Perché aveva capito che la ragione di quel sequestro era mantenere l'occultamento di responsabilità indicibili sulla strage di via d'Amelio". Repici ha anche evidenziato come, diversamente dagli altri collaboratori di giustizia, i familiari di Scarantino non siano mai stati "uccisi" o raggiunti da "atti minatori". "Ad uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria ha partecipato obtorto collo o meno, ma consapevolmente, l'organizzazione criminale Cosa nostra - ha aggiunto Repici - Cioè gli uomini di Cosa nostra hanno avuto la certezza indiretta che era un depistaggio eppure non hanno reagito. Hanno avuto certezza indiretta che quelle dichiarazioni erano false eppure, se erano contro qualcuno di loro era un disegno al quale dovevano collaborare, e hanno collaborato. Perché sennò non si spiega perché per Buscetta, per Marino Mannoia, per Di Matteo e per altri, si è intervenuti e per Scarantino o i suoi familiari no. Quindi si trattava di un disegno condiviso, accettato a ben volere da Cosa nostra. Quindi quel depistaggio di Stato è stato condiviso da Cosa nostra". Durante l’arringa Repici, discutendo della posizione dell’imputato Calogero Pulci ha ricordato come le sue propalazioni siano state usate a riscontro di Scarantino in secondo grado a riscontro delle accuse nei confronti di Gaetano Murana, uno dei soggetti ingiustamente condannati per la strage. Ed ha anche evidenziato come per Murana in primo grado era stata chiesta ed ottenuta l’assoluzione dagli stessi Pm (allora erano Anna Maria Palma e Nino Di Matteo, ndr). Su Murana non vi fu appello dei Pm di primo grado ma fu proposto dalla Procura generale. “Allora mi volete spiegare che cosa c’entra la centralità di Di Matteo in queste vicende, che aveva chiesto l’assoluzione, appellata da un altro? Poi spunta il calunniatore a far condannare il calunniato. E questo lo dico ad esempio esemplificativo di come le posizioni di tutti coloro che hanno operato, tutti, ciascuna rispetto alle proprie azioni”. Quindi è stato fatto interrotto dalla Presidente Andreina Occhipinti, per “attenersi ai fatti del procedimento”, nel momento in cui stava tornando a ricordare la conferenza stampa di luglio in ciao proprio la dottoressa Boccassini valutava positivamente Scarantino.

La difesa di Madonia: "Non prese parte a summit sulle stragi". Venerdì scorso si è tenuta la discussione dell'avvocato Flavio Sinatra, avvocato del boss Salvatore Madonia (condannato in primo grado all'ergastolo ed imputato per la strage assieme a Vittorio Tutino) il quale ha escluso che il suo assistito fosse stato presente alla famosa riunione del dicembre 1991, in cui fu deliberata la strategia stragista dell'anno successivo, chiedendo ai giudici l'assoluzione. Altri imputati, per il reato di calunnia, sono i falsi pentiti Francesco Andriotta, Calogero Pulci e Vincenzo Scarantino. I primi due sono stati condannati a 10 anni per calunnia mentre il terzo, come riconosce la sentenza di primo grado, è stato "indotto a mentire".

Montante: "La storia di Scarantino come in un Truman show". Nonostante il giudizio della Corte l'avvocato di Scarantino, Calogero Montante, aveva presentato ricorso per chiedere un'assoluzione completa. "La storia di Vincenzo Scarantino ha tutte le caratteristiche di un Truman Show - ha rappresentato ai giudici durante l'arringa lo scorso 4 ottobre - E anche qui il protagonista è un burattino le cui fila vengono mosse da sapienti orchestranti. Possiamo mai imputare al protagonista di questo Truman show una qualche responsabilità per condotte lucidamente determinate e volute da altri?". L'avvocato ha quindi evidenziato come Scarantino "una volta arrestato per una falsa accusa, comprende sempre più di essere stato incastrato. Nella sua mente si fa strada l'idea che l'unico modo per uscire da quel tunnel sia cedere alle pressioni dei suoi aguzzini, ed iniziare a collaborare". L'ex picciotto della Guadagna ha passato "due anni di inferno tra un carcere e l'altro, vittima di continue vessazioni, minacce ed angherie preordinate. Che scelta ha un uomo normale che si trovi in una situazione del genere se non quella di cedere alle pressioni dei suoi aguzzini? Chiunque avrebbe fatto lo stesso, e probabilmente lo avrebbe fatto anche prima di Scarantino che ha resistito per quasi due anni, passandone di tutti i colori, prima di iniziare la sua falsa collaborazione". Montante ha anche evidenziato che "chiedere la conferma del proscioglimento per prescrizione di Scarantino equivale a chiedere che lo stesso venga riconosciuto colpevole del delitto di calunnia; significa rimanere indifferenti di fronte alle sconcertanti verità emerse nel corso del processo di primo grado in ordine all'esistenza del depistaggio e prendersela con l'anello più debole della catena solo per consegnare un capro espiatorio all'opinione pubblica. Noi non possiamo, non dobbiamo, accettare questo compromesso morale; se l'esistenza del depistaggio è ormai un dato pacifico, non si può ammettere che Scarantino sia stato qualcosa di più di un mero strumento inerte nelle mani dei depistatori, come pur sostenuto dalla Procura Generale. Se veramente vogliamo assaporare il fresco profumo di libertà di cui parlava Paolo Borsellino, dobbiamo rinunciare a qualsiasi compromesso morale e dichiarare a testa alta che Scarantino non c'entra nulla con il depistaggio".

«Stop alle intercettazioni delle telefonate tra magistrati e Scarantino». Le dichiarazioni dell’agente Giampiero Valenti, in aula a Caltanissetta al processo per il depistaggio su via D’Amelio. Forse, i dialoghi più delicati potrebbero non esserci. Damiano Aliprandi il 19 Ottobre 2019 su Il Dubbio. «Mi ordinarono di interrompere la registrazione di Vincenzo Scarantino perché il collaboratore doveva parlare con i magistrati», ha detto ieri il teste Giampiero Valenti in aula a Caltanissetta, nel processo sul depistaggio della strage di Via D’Amelio. È una rivelazione che arriva a sorpresa nel processo dove sono imputati un funzionario del gruppo Falcone- Borsellino, Mario Bò, e due ex ispettori, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Da qualche tempo, a Messina, sono indagati anche due ex sostituti della procura di Caltanissetta, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Per quest’ultima indagine sono state recuperate delle bobine dove potrebbero esserci diversi dialoghi tra il falso pentito e i magistrati inquirenti di allora. Il procuratore Maurizio de Lucia ha disposto che il contenuto venga trascritto. Ma, intanto, adesso, si scopre che i dialoghi forse più delicati potrebbero non esserci. Dialoghi che secondo l’accusa potevano provare un accordo per aggiustare le dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio. Ma ritorniamo alle dichiarazioni di Valenti. Oggi ispettore superiore, 25 anni fa viene inserito anche lui nel pool di esperti e funzionari del gruppo Falcone- Borsellino per contribuire alle indagini sulle stragi del ’92 come informatico. Quattro anni fa viene indagato insieme ai colleghi dell’epoca Di Ganci, Militello e Guttadauro, che lui chiama “compagni di sventura”, per concorso in calunnia: la procura di Caltanissetta li accusa di aver avuto un ruolo nella manipolazione del finto pentito Vincenzo Scarantino, contribuendo di fatto al clamoroso depistaggio delle indagini. La stessa accusa a cui devono rispondere i tre ex poliziotti a processo Mario Bo, Matteo Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sia Valenti che gli altri tre colleghi vengono definitivamente archiviati dalla procura nissena lo scorso febbraio. «Il mio compito era quello di gestire la famiglia di Scarantino e le loro esigenze: la spesa, i bambini da portare a scuola e mi è capitato pure di accompagnare lui o la signora a Imperia per una visita oculistica», ha detto ancora Valenti. «Non ricordo esattamente dove si trovasse il telefono in quella casa. Quando poi finì l’attività di intercettazione ci chiesero di firmare dei brogliacci. Riconosco la mia firma – ha riposto dopo aver letto un verbale mostratogli dai pubblici ministeri Gabriele Paci e Stefano Luciani – ma nego di conoscere quella che è l’attività di intercettazione». Il mistero si infittisce. «Sono stato uno stupido – ha proseguito ancora Valenti – perché non avevo alcuna esperienza. Non capisco perché questo verbale non lo firmò chi gestiva l’attività e lo fecero firmare all’ultima ruota del carro». Valente precisa che non avrebbe mai avuto a che fare con le intercettazioni di Scarantino. Mai gestite, mai registrate, mai ascoltate. L’unico coinvolgimento, sempre marginale a suo dire, avviene quando il collega gli avrebbe detto «fammi compagnia, vieni con me», accompagnandolo a interrompere l’intercettazione in corso perché Scarantino avrebbe dovuto parlare di lì a poco al telefono con i magistrati. «Perché non fece una relazione di servizio di quella richiesta illecita?», hanno incalzano le parti civili, gli avvocati Pino Scozzola e Rosalba Di Gregorio. Il poliziotto ha risposto che non gli sembrò una cosa illecita, aggiungendo: «A chi dovevo fare una relazione di servizio? Al mio ufficio, che mi aveva chiesto di staccare quella intercettazione?».

BORSELLINO. IL MOVENTE “MAFIA-APPALTI” & TAV INSABBIATO E LO SPATUZZA DIMENTICATO PER 21 ANNI, scrive il 5 Febbraio 2019 Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci. Botti da novanta sulla strage di via D’Amelio. Ai microfoni di “Che tempo che fa”, Fiammetta Borsellino denuncia con forza straziante tutti i buchi nell’inchiesta, punta l’indice contro gli inquirenti che non hanno voluto vedere e soprattutto indica nel dossier “Mafia appalti” il nodo insabbiato e invece movente principale di quella strage, ancora oggi senza colpevoli. Secondo botto. A Roma una verbalizzazione esplosiva, quella del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il quale racconta come addirittura 21 anni fa, nel carcere dell’Aquila, aveva già svelato il taroccamento del falso pentito Vincenzo Scarantino e la pista fasulla seguita dai magistrati, a due big delle istituzioni: l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e il suo vice, Piero Grasso, che ne prenderà il posto per poi tuffarsi in politica. Per la serie: sapevano e non hanno mosso un dito. Partiamo da quest’ultima, incredibile vicenda, che la dice lunga sullo stato comatoso – e già da decenni – della giustizia di casa nostra. Si trattò di un cosiddetto “colloquio investigativo”, quello tra gli “interroganti” Grasso e Vigna e il picciotto Spatuzza, soprattutto per sondare la possibilità di arruolarlo tra i collaboratori di giustizia.  Colloqui non possono essere utilizzati a fini processuali, ma risultare molto utili per trovare nuovi elementi e aprire nuove piste investigative. Il colloquio clou si svolse nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998, ma si desume dal contesto che non si trattava certo del primo. A Spatuzza venne chiesto di Scarantino. Dalla lettura del verbale risulta in modo chiarissimo che Spatuzza scagionò totalmente sia Scarantino che gli altri indagati e poi ingiustamente condannati (scontando 16 anni). Chiese esplicitamente Grasso: “Scarantino che c’entra?”. E rispose Spatuzza: “Non esiste completamente”. Ecco un commento espresso dall’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari: “Certo, leggendo ora quel verbale qualche rammarico viene. Forse se si fosse battuta quella pista qualcosa sarebbe venuta fuori prima e quegli innocenti non sarebbero andati in galera”. Solo qualche rammarico…Va ricordato per sommi capi come nacque il “caso Scarantino”. Tutta la colpa, oggi, viene scaricata sull’ex capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, incaricato delle prime indagini. Di tutta evidenza, comunque, pur sempre alle “dipendenze” della magistratura inquirente. Il primo fascicolo venne assegnato a due toghe, Anna Maria Palma (all’epoca considerata una ‘toga rossa’, dopo molti anni passata come capo di gabinetto nel Senato retto da Renato Schifani) e Carmine Petralia; pochi mesi dopo affiancati dall’oggi mitico Nino De Matteo, allora pm di primo pelo, del quale oggi dice Fiammetta: “perchè affidargli un caso del genere se non era esperto di mafia?”. E nessuno tra gli inquirenti ha mai tenuto in considerazione le parole di Ilda Boccassini, che aveva messo in guardia a chiare lettere sulla totale non attendibilità né credibilità del pentito Scarantino. Il processo per il depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio vede oggi alla sbarra solo tre poliziotti del team di La Barbera. Perchè nessun altro, fino ad oggi, è stato chiamato a risponderne? Mistero.

QUEL DOSSIER BOLLENTE “MAFIA-APPALTI”. Nino Di Matteo alla seconda storia bollente, certo non meno clamorosa. A “Che tempo che fa” Fiammetta Borsellino rammenta: “Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione”. Parole, oltre che amarissime, anche durissime, soprattutto nei confronti di quei magistrati che “archiviarono” quella pista bollente a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio. Attenzione alle date. Il 13 luglio 1992 la procura di Palermo chiede l’archiviazione dell’inchiesta sul dossier Mafia-appalti. La richiesta arriva dai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, altra icona antimafia oggi. La firma del procuratore capo Pietro Giammancoviene apposta quando Borsellino è stato ucciso da appena tre giorni. Mentre l’archiviazione finale è sottoscritta dal gip di Palermo, Sergio La Commare, il 14 agosto. Vale a dire: quando tutti sono sotto l’ombrellone di ferragosto, alla procura si pensa bene d’insabbiare – è il caso di dirlo vista la temperatura delle spiagge palermitane – il super giallo che era alla base dell’ultima maxi inchiesta di Falcone e Borsellino. Anche l’iter di quell’inchiesta è tutto avvolto nel mistero. Il materiale base era costituto dalle indagini effettuate dal Ros di Palermo, la bellezza di 890 pagine finite a febbraio 1991 sulla scrivania di Falcone e Borsellino che drizzarono subito le antenne e cominciarono ad approfondire quelle indagini. Nel dossier venivano indicati appalti, imprese colluse o in fase collusiva, importi, piste da seguire. Di tutto e di più, compresi gli interecci tra mafia e aziende non solo siciliane ma anche del nord. E big come ad esempio la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi. Fu proprio allora che Falcone sbottò: “La mafia è entrata in Borsa!”, riferendesi allo stesso gruppo Ferruzzi, con la sua propaggine siciliana, la Calcestruzzi, sulla quale le cosche avevano allungato i tentacoli. Impegnati nelle indagini ben otto magistrati, alle prese con il parto del topolino, l’inspiegabile archiviazione. Ma l’inchiesta, ormai, era “bruciata”: per il semplice motivo che da Palazzo di Giustizia erano “uscite” notizie sui personaggi e le imprese coinvolte. Nella stessa ordinanza di archiviazione, paradossalmente, viene ammesso: “Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati”. E invece di continuare ad indagare archiviate tutto? Altra vicenda ai confini della realtà.

IL J’ACCUSE DI IMPOSIMATO E LA PISTA TAV. Come assolutamente paradossale è la finta ignoranza di inquirenti e non solo su tutta la “Mafia-appalti” story. Per il semplice motivo che era stranota. A denunciarla con gran forza, infatti, era stato già nel 1995 Ferdinando Imposimato, che nella relazione di minoranza firmata per la Commissione Antimafia all’epoca presieduta da Tiziana Parenti, individuò proprio nel dossier Mafia-Appalti il vero movente per la strage di via D’Amelio. Ma con un altro elemento bomba da nessuno mai neanche lontanamente sospettato: i grandi affari in vista del Treno ad Alta Velocità, quel TAV che sta mandando in tilt il governo gialloverde. Nelle loro primissime indagini, infatti, Falcone e Borsellino puntarono i riflettori proprio su quella quarantina di imprese impegnate sul fronte dei lavori pubblici. E molte di quelle erano già pronte a tuffarsi nel grande business del decennio (anni ’90) e non solo, come si vede oggi, quello griffato TAV. Tra le società finite nel mirino non c’era solo la Calcestruzzi. Ma ad esempio la trentina Rizzani De Eccher e la napoletana Fondedile-Icla, la sigla del cuore di ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino. Non solo. Perchè Ferdinando Imposimato, insieme a Sandro Provvisionato, nel 1999 scrissero un j’accuse in piena regola, “Corruzione ad Alta Velocità”, in cui veniva dettagliato per filo e per segno quell’affaire, partito da 27 mila miliardi di lire e già all’epoca lievitato a 150 mila. Imposimato e Provvisionato, in particolare, accendevano i riflettori proprio sul dossier Mafia-appalti da un lato, e sugli insabbiamenti delle prime inchieste sull’Alta velocità dall’altro (a livello milanese il pm Antonio Di Pietro alle prese con “l’Uomo a un passo da Dio”, Chicci Pacini Battaglia). Ma leggiamo qualche passaggio-base del volume, da tutti ignorato “politicamente” perchè l’alta velocità era la più colossale occasione per imprese, mafia e politica di intrecciare connection & affari arci miliardari. Da pagina 62: “La Fondedile nel 1992 era stata incorporata dall‘Icla.Ma proprio la Fondedile lo stesso anno era stata oggetto di un’indagine condotta sia dalla squadra mobile di Caltanissetta, sia dal Ros dei carabinieri di Palermo, a proposito di alcuni appalti irregolari acquisiti da mafiosi, imprenditori e politici. Il contenuto di quelle due indagini era finito sul tavolo dell’allora procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. In quei rapporti spiccavano nomi di mafiosi del calibro di Angelo Siino, indicato come il ‘proconsole di Totò Riina‘, l’uomo di Cosa nostra nel settore degli appalti, nonché quelli di aziende di importanza nazionale, come la Rizzani De Eccher, la Saiseb e, appunto, la Fondedile. Capo zona per la Rizzani De Eccher era quel geometra Giuseppe Li Pera che diventerà un collaboratore di giustizia in grado di mettere in serie difficoltà la procura di Palermo. Capo zona in Sicilia per la Fondedile era invece Gaspare Di Caro Scorsone, già denunciato per associazione a delinquere di stampo mafioso per gli appalti della superstrada Mussomeli-Caltanissetta”. Continua la già allora esplosiva ricostruzione (siamo nel 1999!): “Le confessioni di Li Pera sono esplosive, anche se tutte da verificare: il geometra ricostruisce il funzionamento del sistema degli appalti in Sicilia, rivolge accuse ai magistrati, chiamati in causa con nomi e cognomi. Essi sono: il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco (oggi Fiammetta Borsellino si chiede: “perchè non fu mai interrogato?”, ndr), oltre a quattro suoi sostituti: Guido Lo Forte, considerato vicinissimo al procuratore; Roberto Scarpinato, considerato un magistrato al di sopra di ogni sospetto e molto amico di Giovanni Falcone; Giuseppe Pignatone (oggi procuratore capo a Roma, ndr) e Ignazio De Francisci, entrambi da anni alla procura di Palermo”. E poi – in modo che più chiaro non si può – Imposimato e Provvisionato denunciano il “sistema degli appalti nel quale sarebbe maturata almeno una delle stragi che insanguinarono il 1992: quella in cui morì, 57 giorni dopo Giovanni Falcone, Paolo Borsellino – assassinato insieme a cinque uomini della scorta – quasi ossessionato, nei giorni immediatamente precedenti la sua tragica fine, proprio da quel dossier, il dossier Mafia-appalti”. Così scrissero 20 anni fa esatti Imposimato e Provvisionato. Perchè nessuna toga mai ha pensato di seguire quella pista chiara e non visibile solo per chi non voleva e non vuole vedere?

P.S. La Voce ha costantemente seguito la pista “Mafia-appalti” come documentano le nostre raccolte. Fin dal 1993, quando ‘lievitava’ l’affare Tav. E abbiamo incalzato soprattutto dopo la illuminante relazione di Ferdinando Imposimato alla commissione antimafia, mentre gli altri membri dormivano e troppi tacevano. Ancor più dopo l’uscita di “Corruzione ad Alta Velocità” che già nel 1999 forniva riscontri arcidocumentati. Nel totale silenzio dei media di regime: quei media omertosi e complici – ricordava sempre Imposimato – finanziati proprio dai signori della Tav.

Il Dossier mafia-appalti: “quali intrecci non ancora rivelati?”. Dopo la strage di Capaci, il giudice Paolo Borsellino voleva riprendere le investigazioni riguardanti gli sviluppi di quel DOSSIER mafia appalti di cui prima il ROS e poi Falcone si erano occupati...

Informativa Mafia Appalti 1991 da Wikipedia. L’informativa Mafia Appalti è stata la prima operazione che ha fatto luce sulle connessioni mafioso-politico-imprenditoriali, svolta in Sicilia. L’informativa Mafia Appalti, nasce dalla collaborazione di Giovanni Falcone, del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno ma era contrastata oltre che dai mafiosi, dai politici, dagli imprenditori, perfino da diversi elementi della procura stessa di Palermo: l’ordinanza fu congelata per 5 mesi, dal procuratore capo di Palermo, che sosteneva l’inutilità di una tale inchiesta, poi l’inchiesta fu inviata a tutte le procure della Sicilia, fu inviata a Roma, fu data per intero agli avvocati degli indagati, fu data sottobanco ai politici e mafiosi, in modo da avvisare i delinquenti mafiosi interessati e dare loro tempo di scappare. Infine su 45 richieste di custodia cautelare di mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani, 24 di loro per associazione mafiosa e 21 di loro per associazione per delinquere finalizzate alla spartizione degli appalti pubblici, ne furono eseguite solo 5 personaggi.

L’inchiesta su mafia e appalti inizia nel 1988, in seguito ad una delazione ricevuta dai carabinieri che indagano sull’assassinio di un allevatore in un comune delle Madonie. Il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte. Il ROS indicò in Angelo Siino il riferimento centrale per la gestione illecita di tutte le gare pubbliche in Sicilia. Il dossier fu dato a Giovanni Falcone depurato dei nomi di politici, Salvo Lima, Rino Nicolosi, presidente della Regione Siciliana e Calogero Mannino. Il 9 luglio 1991, furono arrestati Angelo Siino organizzatore, un massone mafioso legato ai Brusca di S. Giuseppe Jato. Il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia occidentale della Rizzani De Eccher di Udine, e gli imprenditori Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici. All’inizio del 1992, si aggiungeranno Vito Buscemi e Rosario Cascio. Angelo Siino in particolare spiegò che da un dato momento in poi Cosa Nostra non si accontentò più di estorcere tangenti, ma passò direttamente a far aggiudicare gli appalti a imprese a lei sottomesse. Dirigevano gli appalti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Buscemi, Giuseppe Lipari, Giovanni Bini responsabile della Calcestruzzi Spa del gruppo Italcementi, di proprietà Ferruzzi, Antonino Reale, Benedetto D’Agostino, Agostino Catalano (amministratore della Reale costruzioni e consuocero di Vito Ciancimino). Paolo Borsellino aveva deciso di approfondire l’indagine mafia e appalti. Pietro Giammanco, procuratore capo della Repubblica a Palermo, il 13 luglio 1992, fece depositare da Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato e controfirmò il 22 luglio la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, che venne eseguita il 14 agosto 1992.

Perché Scarpinato affossò l’inchiesta mafia- appalti? Era clamorosa e forse Borsellino fu ucciso perché quel fascicolo era finito sulla scrivania. Damiano Aliprandi il 3 Maggio 2018 su Il Dubbio. Non esiste nessuna sentenza che collega la morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la presunta trattativa Stato- mafia, mentre in alcune sentenze emerge un movente ben chiaro e che fu anche l’inizio della guerra dei cent’anni tra alcuni magistrati e i carabinieri dei Ros guidata da Mario Mori: l’indagine su mafia-appalti condotta da quest’ultimi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, in cui si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio, « la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti ». A questa si aggiunge un’altra sentenza, quella della Corte d’Assise di Caltanissetta relativa al processo Borsellino- ter, in cui viene riportata la testimonianza di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, il quale disse che la mafia era preoccupata circa l’interesse di Falcone e Borsellino per l’indagine mafia- appalti. Un particolare non da poco è stato il suo riferimento a Falcone quando disse che la «mafia era stata quotata in borsa». Sì, perché il magistrato lo disse all’indomani della quotazione di una delle società appaltatrici che erano sotto la lente di ingrandimento dei Ros. La sentenza in questione aveva tratto anche una riflessione. « Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Cosa nostra, tuttavia si legge nel dispositivo della sentenza – l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta ed ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone ». Come se non bastasse, si aggiunge la testimonianza di Antonio Di Pietro, all’epoca dei fatti componente del pool Mani Pulite. L’ex magistrato ha dichiarato più volte, sia durante il processo Borsellino- ter e sia recentemente, che Borsellino – lo incontrò poco prima della strage di via D’Amelio – era interessato a mafia- appalti e che avrebbe voluto collegare l’indagine palermitana a quella milanese. Il punto è importante, perché gli elementi di collegamento spuntarono fuori durante l’inchiesta Mani Pulite. Parliamo di attività imprenditoriali sospette relative a imprese del nord come la Calcestruzzi di Gardini, impresa capofila del gruppo Ferruzzi Spa che compariva nell’indagine mafia- appalti dei Ros. L’inchiesta mafia- appalti, quindi, era potenzialmente una bomba potentissima visto che scoperchiava legami tra mafia, personalità politiche di rilievo e società appaltatrici in mano a persone vicine ad alcuni magi- strati. Ma non solo. Parliamo di una bomba che non sarebbe deflagrata solamente in Sicilia, ma anche in tutta la penisola ( la testimonianza di Di Pietro docet) e le schegge avrebbero sconfinato oltre le Alpi visto che l’inchiesta avrebbe potuto toccare il sistema di riciclaggio internazionale. In merito a quest’ultimo punto, in realtà, Falcone aveva già fiutato qualcosa qualche anno prima che ricevesse il fascicolo dell’indagine mafia- appalti. Nel giugno 1989, infatti, si era incontrato con la sua collega svizzera Carla Del Ponte nella villa che aveva preso in affitto all’Addaura, vicino Palermo, per discutere di riciclaggio del denaro sporco tramite aziende all’estero e, coincidenza vuole, fu in quel momento che la mafia collocò una bomba sullo scivolo di accesso al mare della villa, dentro un borsone da sub. Per fortuna venne notata da uno degli agenti della scorta di Falcone e disinnescata dagli artificieri. Nel 1991 Falcone prese in mano l’informativa dei Ros e un anno dopo fu ucciso.

Sembra ragionevole pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi per il loro interesse all’inchiesta dei Ros sui grandi appalti pubblici che la Procura di Palermo, però, archiviò appena qualche giorno dopo la morte di Borsellino. La richiesta di archiviazione – esattamente il 13 luglio, quando Borsellino era ancora in vita e interessato a prenderla in mano – fu avanzata dagli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, vistata dal procuratore Giammanco tre giorni dopo l’uccisione di Borsellino e archiviata definitivamente il 14 agosto dal gip di Palermo Sergio La Commare. Parliamo dell’archiviazione più breve della storia, avvenuta il giorno prima di ferragosto, quando solitamente gli uffici dei tribunali sono semideserti. Il gip La Commare è lo stesso che, qualche mese dopo – esattamente il 23 dicembre, altra data particolare, antivigilia di Natale – convaliderà l’arresto di Bruno Contrada ( ex capo della Mobile di Palermo, ex vicedirettore del Sisde, ex capo della criminalpol di Palermo) richiesto sempre da Lo Forte e Scarpinato. Nello stesso anno, gli stessi magistrati archiviano l’indagine sui mafiosi e arrestano chi per anni è stato in prima linea contro la mafia. A quel punto, mafia-appalti, che doveva essere una bomba che avrebbe fatto tremare l’Italia intera, era stata quindi disinnescata. In realtà, precedentemente, aveva già subito un depotenziamento. Come? Ricordiamo che l’informativa mafia-appalti dei Ros era di 890 pagine ed era stata ricostruita la mappa del malaffare siciliano dove erano elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di quasi tutti i partiti e aziende. Il dossier passò nelle mani di ben otto sostituti procuratori di Palermo. Furono indagate soltanto cinque persone. Ma accadde qualcosa di grave. Tutti i coinvolti nell’informativa dei Ros – gli imprenditori, i politici e i mafiosi -, ricevettero l’elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Da chi? Dalle risultanze processuali, risulta assolutamente certo che l’ informativa del febbraio del 1991, denominata “mafiaappalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi. I Ros accusarono i magistrati della procura di Palermo e viceversa. Alla fine tutto fu archiviato. Si legge nell’ordinanza di archiviazione: « Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati ». Qualunque sia la verità, con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino dei Ros e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di mafia- appalti e, ricordiamolo nuovamente, ritenuto dai Ros “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio morì Paolo Borsellino.

Mafia e Appalti: Falcone lavorò su quel dossier sparito. Lo aveva ricevuto nel febbraio del 1991 e lo considerava importantissimo. Damiano Aliprandi il 4 Maggio 2018 su Il Dubbio. Nel corso dei processi per le stragi siciliane del 1992, dalle persone informate sui fatti ( come l’ex generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno dei Ros, e poi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca), era emerso che la gestione illecita del sistema di aggiudicazione degli appalti in Sicilia era stato il movente principale dell’attacco mafioso. Cioè era la ragione che aveva indotto “Cosa nostra” a deliberare ed eseguire le terribili stragi siciliane che portarono all’uccisione di Falcone, Borsellino e molte altre persone. Emerse, in sostanza, l’interesse che alcuni ambienti politico– imprenditoriali e mafiosi avevano ad evitare l’approfondimento dell’informativa dei Ros mafia- appalti, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici. Le indagini, le quali avevano aperto già nel 1991 scenari inquietanti, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese di “Tangentopoli”. L’interesse della mafia a neutralizzare le indagini eliminando fisicamente i magistrati ai quali venivano notoriamente riconosciute la capacità professionale e la volontà per svolgerle, si era rafforzato quando Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, si era fortemente determinato a sviluppare le indagini in questione, riprendendole e indirizzandole nel solco originariamente tracciato da Giovani Falcone. Tutto ha avuto inizio la mattina del 20 febbraio del 1991 quando il capitano Giuseppe De Donno consegnò, all’allora sostituto procuratore Giovanni Falcone, le conclusioni dell’ indagine sulla mafia- appalti sottoscritta dal generale Mori. De Donno, che Falcone chiamava affettuosamente Peppino e che era uno dei pochi investigatori che si permetteva di dare al giudice del ‘ tu’, valendosi delle confidenze di un geo- metra, Giuseppe Li Pera ( nell’indagine dei Ros ci sono le sue intercettazioni), che lavorava in Sicilia per una grossa azienda del Nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare siciliano, ed aveva elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di rilievo e aziende di primaria importanza. In questo elenco c’erano anche nomi legati a magistrati siciliani. Falcone si interessò molto dell’indagine dei Ros. Infatti, a distanza di un mese dalla consegna dell’informativa, in un importante convegno organizzato a marzo del ’ 91 dall’Alto Commissario Antimafia, dopo avere riconosciuto che il condizionamento mafioso esisteva sia al momento della scelta delle imprese, sia nella fase esecutiva, con caratteristiche ambientali e totalizzanti ( senza escludere, quindi, le imprese del Nord), e dopo aver fatto cenno ad alcune intercettazioni telefoniche da cui risultavano varie modalità operative, aveva testualmente affermato: « Ormai emerge l’imprescindibile necessità di impostare le indagini in maniera seriamente diversa rispetto a quanto si è fatto finora », alludendo non solo a un salto di qualità investigativa, ma all’utilizzazione nelle indagini su mafia- appalti dell’apparato dell’Alto Commissario e, cioè, teorizzando la messa a disposizione delle informazioni raccolte nel circuito dei servizi al pubblico ministero e, comunque, la sinergia tra l’intelligence e le investigazioni sul territorio. In pratica aveva non solo intuito l’importanza di mafia- appalti, ma aveva fatto capire la sua intenzione di creare un nuovo ed efficace metodo di investigazione. Fu un campanello d’allarme per quanti, mafiosi e contigui, noti e non ancora noti, avrebbero potuto essere attratti nel cono di luce di questo programma. C’è una testimonianza che conferma il timore di Cosa nostra. Riportiamo un brano tratto dalla sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta del 2000: « A dire del Siino ( considerato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) , le indagini promosse dal giudice Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”, avevano portato alla sua eliminazione. Difatti, in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr. Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare”» . A distanza di qualche mese dal suo intervento, Giovanni Falcone, dopo essere stato isolato dai suoi colleghi e scansato dal Csm, accetterà dal ministro Martelli la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il ministero della Giustizia. Il dossier dei Ros rimase nelle mani dei sostituti procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, in seguito il Procuratore Giammanco affiancherà altri sostituti, tra i quali Roberto Scarpinato, cioè l’attuale Procuratore generale di Palermo. Nonostante ciò, Falcone non recise i suoi collegamenti con le articolazioni operative delle indagini a Palermo. Si fidava però di uno solo collega, ovvero Paolo Borsellino. In quel frangente si verificò una circostanza molto significativa e che turbò molto Falcone. L’intero rapporto mafia appalti fu consegnato dal procuratore Giammanco al ministro Martelli, che tuttavia lo restituì alla Procura di Palermo, senza aprire il plico, avendo riscontrato in Giovanni Falcone una sorta di lamentela sulla condotta del magistrato, il quale nel consegnare il rapporto aveva inteso delegare alla politica l’intera questione anziché promuovere le dovute indagini di riscontro. E addirittura, la lettera di restituzione fu inviata al Csm per conoscenza, per rimarcare l’anomalo comportamento del procuratore Giammanco. Falcone era interessato a mafia-appalti collegandolo perfino con le indagini milanesi. Di questo si trova riscontro nella testimonianza di Antonio Di Pietro nell’ambito del processo Borsellino ter. Si parla sempre di imprese e casualmente – come raccontò l’ex giudice di Mani Pulite – cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa ( quella di Gardini) o la De Eccher, tutte imprese del nord coinvolte in mafia- appalti. Di Pietro disse di averne parlato con Falcone. «Quella era l’essenza della mia inchiesta – raccontò Di Pietro durante il processo – cioè la scoperta che le imprese nazionali dovunque andavano si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino. Ma attenzione – sottolineò Di Pietro-, anche quando Falcone era ancora vivo». Falcone, ribadiamolo, non perdeva di vista quell’indagine, anche se formalmente non era di sua competenza. La conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, aveva lanciato un appello esclamando che «la mafia è entrata in borsa», per dire che società quotate in borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra”. Il grumo di interessi che riguarda gli appalti, fa maturare la decisione della mafia di punire i vecchi referenti politici come Salvo Lima, accusati di non essere più in grado di svolgere utili mediazioni. Mancavano solo 11 giorni all’attentato, il tritolo per Capaci era già partito quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva che stava arrivando la sua ora. Quel pizzino di morte fu l’ultimo avvertimento prima di quel boato che il 23 maggio 1992 sventrò l’autostrada uccidendo con Giovanni Falcone anche sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Solo Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, voleva risalire a quella inchiesta e a quel dossier dei Ros per scoprire gli assassini di Falcone. Alla prossima puntata parleremo di questo.

Il rapporto “Mafia e Appalti”. La Repubblica il  23 agosto 2019. Il tema del c.d. rapporto "mafia e appalti" redatto da R.O.S. dei Carabinieri nel 1991 è stato oggetto di una amplissima attività istruttoria, sia orale che documentale, che la Corte ha stentato ad arginare per l'iniziale difficoltà di comprendere le finalità probatorie perseguite. Ben diciannove testimoni (Umberto Sinico, Gioacchino Natoli, Massimo Ciancimino, Carlo Vizzini, Giuseppe Lipari, Liliana Ferraro, Claudio Martelli, Giovanni Brusca, Angelo Siino, Antonino Giuffrè, Riccardo Guazzelli, Luciano Violante, Giovanna Livreri, Gian Carlo Caselli, Alfonso Sabella, Nicolò Marino, Guglielmo Sasinini, Vittorio Aliquò ed Agnese Piraino Leto) hanno a vario titolo riferito anche riguardo alla vicenda del rapporto "mafia e appalti" e sulla stessa, soprattutto per iniziativa delle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, sono stati acquisiti innumerevoli documenti per lo più diretti a documentare gli esiti di complessi procedimenti svolti si sia dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, sia presso Autorità Giudiziarie a seguito di denunzie che hanno visto come protagonisti alcuni magistrati delle Procure di Palermo e Catania ed alcuni appartenenti al R.O.S. dei Carabinieri. Molta di tale attività istruttoria si è incentrata, per iniziativa della Pubblica Accusa, sulla dimostrazione di una doppia refertazione dei Carabinieri del R.O.S. verso le Procure di Palermo e Catania che avrebbe avuto l'effetto di sottrarre per molto tempo alle indagini del primo Ufficio alcuni "politici" tra i quali Calogero Mannino (si vedano, per tutte, le dichiarazioni del teste Gioacchino Natoli [...]); e, per iniziativa delle difese degli imputati sopra ricordati, invece, sulla negazione di tale accadi mento (per vero con prova riguardante non l'informativa definitiva consegnata nel febbraio 1991, ma alcune informative preliminari contenenti la mera trascrizione di intercettazioni consegnate ai Dott.ri Falcone e Lo Forte già il 2 luglio 1990 e il 5 agosto 1990) e, semmai, sulla dimostrazione di anomalie procedurali da parte di taluni magistrati della Procura di Palermo ad iniziare dal magistrato che all'epoca (fino al 1992) la dirigeva, il Dott. Giammanco [...]. La Corte ritiene di dovere omettere qui un resoconto dettagliato di tutte le risultanze probatorie offerte dalle parti sulle questioni prima accennate, poiché queste appaiono di scarsissima (se non nulla) rilevanza per i fatti oggetto dell'imputazione di reato elevata in questo processo (e, per tale ragione, sono state anche respinte tutte le richieste di ulteriori acquisizioni documentali reiterate dalle difese ancora in sede di discussione e, conseguentemente e subordinatamente, anche dal P.M. persino in sede di replica all'ultima udienza del 16 aprile 2018). La vicenda del rapporto "mafia e appalti" nasce e si sviluppa ben prima dei fatti riconducibili alla c.d. "trattativa" tra esponenti delle Istituzioni ed i vertici mafiosi e non sembra alla Corte che possa essere in alcun modo collegata e connessa a questa se non per quell'esile filo che sarebbe costituito soltanto dall'ulteriore prova di rapporti tra alcuni esponenti politici ed alcuni appartenenti all'Arma da un lato e tra tal uni di questi ultimi ed alcuni mafiosi dall'altro. Sennonché, quanto al primo profilo, ai fini della prova dei fatti che rilevano in questa sede, appare sufficiente quanto già verificato e riportato sopra riguardo ai rapporti tra l'On. Mannino e il Gen. Subranni (nonché il M.llo Guazzelli), restando del tutto irrilevante ogni ulteriore approfondimento su eventuali favoritismi in favore del primo tanto nell'indagine "mafia e appalti" quanto nelle precedenti indagini svolte a carico del medesimo On. Mannino presso la Procura di Sciacca (pure oggetto di attività istruttoria e di un non breve excursus in sede di discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori, che, per le medesime ragioni di sostanziale irrilevanza probatoria che ha dato luogo al rigetto delle relative istanze di acquisizioni documentali, qui possono omettersi di riferire ed esaminare); quanto al secondo profilo, le risultanze, peraltro di ambigua lettura (si pensi a tutta la vicenda dei rapporti tra il M.llo Lombardo e Angelo Siino), appaiono ugualmente irrilevanti ai fini della valutazione degli accadi menti maturati a partire dai primi contatti degli Ufficiali del R.O.S. con Vito Ciancimino che hanno dato luogo alla formulazione della ipotesi di reato qui da verificare. V'è, però, un aspetto del rapporto "mafia e appalti" che appare qui rilevante approfondire in quanto in ipotesi connesso con la decisione di uccidere il Dott. Borsellino e, per meglio dire, con quell'improvvisa accelerazione impressa alla programmata esecuzione di tale omicidio di cui si è detto prima. Le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, infatti, pur contestando che vi sia stata tale accelerazione nell'esecuzione dell'omicidio del Dott. Borsellino (accelerazione che, invece, a parere di questa Corte appare inconfutabile per gli inequivocabili elementi di prova, sopra ricordati, tra loro certamente convergenti sebbene eterogenei), hanno con forza prospettato durante tutto il corso del dibattimento (con l'evidente intento di allontanare ogni possibile collegamento con la "trattativa") e, poi, ancora, in sede di discussione seppur con qualche oscillazione argomentativa (v. trascrizione udienza dell'8 marzo 2018) la convinzione che il Dott. Borsellino sia stato ucciso per la sua decisione di iniziare ad occuparsi della vicenda del rapporto "mafia e appalti". Ed in effetti, sono stati acquisiti elementi che comprovano l'intendimento del Dott. Borsellino di studiare il fascicolo relativo al rapporto "mafia e appalti" nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la strage di via D'Amelio. Di ciò ha riferito il teste delle predette difese Umberto Sinico, secondo il quale, appunto, nel giugno del 1992 vi fu presso gli Uffici della Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Palermo un incontro tra il Dott. Borsellino e il Col. Mori, ai quali, poco dopo, si era, però, aggiunto anche il Cap. De Donno [...], per parlare specificamente, per quanto probabilmente riferito poi dallo stesso De Donno a Sinico [...], proprio del rapporto "mafia e appalti" che era stato redatto, infatti, dallo stesso Cap. De Donno [...]. Per vero, come evidenziato dal P.M. nel corso della sua requisitoria all'udienza del 15 dicembre 2017 sia pure sulla scorta di una risultanza probatoria utilizzabile esclusivamente nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno e cioè la testimonianza di Carmelo Canale (il quale in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma le cui dichiarazioni rese nel processo a carico di Mori e Obinu dinanzi al Tribunale di Palermo in data 20 febbraio 2011 sono state qui acquisite su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., appunto degli imputati Subranni, Mori e De Donno), in realtà, la ragione di quell'incontro sollecitato dal Dott. Borsellino non riguardò propriamente il (contenuto del) rapporto "mafia e appalti", ma un anonimo che in quei giorni circolava e che veniva attribuito al Cap. De Donno [...]. In ogni caso, il teste Gioacchino Natoli, quindi, pur non ricordando che il Dott. Borsellino ebbe un giorno ad allontanarsi per parlare con il Col. Mori del rapporto "mafia ed appalti" [...], ha, comunque, confermato che dopo la strage di Capaci lo stesso Dott. Borsellino gli aveva chiesto una copia del rapporto "mafia e appalti" [...]. In occasione della testimonianza resa in questo processo, peraltro, il Dott. Natoli, sulla base di un ineccepibile riscontro temporale precedentemente non valorizzato, ha avuto modo di correggere una imprecisione delle sue precedenti dichiarazioni del 21 novembre 1992, allorché aveva, infatti, erroneamente riferito, non soltanto di quella richiesta di copia del rapporto "mafia e appalti" fattagli dal Dott. Borsellino, ma anche - errando - di avere parlato con quest'ultimo della c.d. doppia refertazione del R.O.S. alle Procure di Palermo e Catania, di cui egli, però, aveva appreso soltanto nel mese di ottobre 1992 e, quindi, dopo la morte del Dott. Borsellino [...]. Una ulteriore conferma della circostanza che il Dott. Borsellino si stesse interessando, almeno in termini generali, anche delle vicende di "mafia e appalti" si trae anche dalla deposizione del teste Carlo Vizzini, il quale, infatti, ha riferito che di ciò ebbe a parlare con lo stesso Dott. Borsellino nel corso di una cena avvenuta a Roma il 16 luglio 1992 ("[…]

DICH VIZZINI CARLO: - Guardi, l'argomento, prescindendo dai convenevoli e dalle considerazioni generali che si fanno in queste circostanze, credo che loro fossero reduci da un interrogatorio di un collaboratore che se non ricordo male era Mutolo. E poi l'argomento che impegnò il tempo più grande della cena, fu un forte interesse del dottore Borsellino alla vicenda di mafia e appalti ... … ... io avevo già denunciato in un convegno, alla fine del 1988, ho con me una copia del giornale L'Ora che ne parlò, ad un convegno di un altro partito dove c'erano diversi imprenditori che si lagnavano, mi permisi di dire: ma gira voce che in Sicilia gli appalti si vincano con una pistola posata sul tavolino. Il Giornale L'Ora pubblicò questa cosa, ma poi nulla ... Non ci fu nessun altro seguito. Quando ci incontrammo, in realtà era già stato arrestato quello che poi venne definito il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, il nomignolo era Bronson e il nome vero Siino. E debbo dire ... E però ancora non era diventato collaboratore di giustizia, era stato arrestato ma non era ancora collaboratore di giustizia. [...]"), pur se, poi, il teste, ridimensionando una sua precedente sintetizzazione giornalistica in cui aveva parlato di "chiodo fisso" del Dott. Borsellino, ha precisato che, ovviamente, intendeva soltanto dire, con quell'imprecisa (e infelice) espressione, che quello della vicenda "mafia - appalti" era stato l'argomento principale della conversazione di quella sera presso il ristorante romano [...] e non certo che quella fosse l'unica o principale vicenda giudiziaria di cui si occupava il medesimo Dott. Borsellino [...], tanto più che quest'ultimo neppure gli aveva parlato specificamente di un'indagine in corso [...], ma soltanto, in generale, del fenomeno in questione [...].

Quest'ultima circostanza, peraltro, trova conferma nella già richiamata testimonianza del Dott. Natoli, pure presente a quelle cena, il quale, infatti, ha riferito che, appunto, si parlò di appalti soltanto in termini di generalità e senza alcun riferimento ad indagini specifiche in corso [...]. Anche la teste Liliana Ferraro ha riferito che, in occasione di un incontro avvenuto alla fine del mese di giugno di cui si parlerà più ampiamente più avanti in altro capitolo, il Dott. Borsellino le parlò, tra l'altro, della questione del rapporto "mafia e appalti" (" .... la maggior parte del nostro colloquio ha riguardato l'indagine mafia - appalti, che era quella fatta da De Donno e dai R.O.S. "), anche se, in questo caso, l'interesse del suo interlocutore era indirizzato, più che alla vicenda processuale in sé, all'anomalo invio del rapporto al Ministero operato dal Procuratore della Repubblica di Palermo [...]. Parimenti anche il Dott. Aliquò, allora Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo, ha confermato di avere parlato del rapporto "mafia e appalti" in occasione di alcune riunioni col Dott. Borsellino, e ciò anche perché, inizialmente, si era ipotizzato pure che questo potesse essere collegato alla strage di Capaci, anche se, poi, tale ipotesi era rimasta priva di qualsiasi supporto probatorio [...]. Alla stregua dei predetti elementi di prova, dunque, può ritenersi certo che il Dott. Borsellino nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la sua morte si sia occupato (anche) del rapporto "mafia e appalti". Tuttavia, non v'è alcun elemento di prova che possa collegare tale evenienza alla improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione del Dott. Borsellino se si tiene conto, oltre del fatto obiettivo che tale indagine non era certo l'unica né la principale di cui quest'ultimo ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il Dott. Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di Giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo), che nessun spunto idoneo a collegare tra la vicenda "mafia e appalti" con la morte del Dott. Borsellino è possibile trarre dalle dichiarazioni dei tanti collaboratori di Giustizia esaminati e cui, peraltro, la vicenda "mafia e appalti" era ben nota. Inoltre, vi sono, soprattutto, alcune considerazioni, sì, di ordine logico, ma fondate su obiettive risultanze, che consentono di escludere tale ipotizzata e prospettata causale. Depone, invero, in senso contrario, innanzi tutto, il fatto che quell'interessamento del Dott. Borsellino per l'indagine "mafia e appalti" non ha avuto all'epoca alcuna risonanza pubblica. D'altra parte, non v'è neppure certezza che il Dott. Borsellino possa avere avuto il tempo di leggere il rapporto "mafia e appalti" e di farsi, quindi, un 'idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell'interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche soltanto delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano avere avuto risalto esterno giungendo alla cognizione dei vertici mafiosi così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l'esecuzione dell'omicidio del Dott. Borsellino medesimo. Ma v'è di più. V'è, infatti, un 'ulteriore considerazione che, sotto il profilo logico, consente di escludere la conclusione propugnata dalle difese prima ricordate sul possibile collegamento tra l'indagine "mafia e appalti" e l'uccisione del Dott. Borsellino. Ci si intende riferire al fatto che la vicenda "mafia e appalti", per quanto riguarda il versante mafioso, aveva già avuto esito almeno un anno prima (con l'arresto, tra gli altri, di Angelo Siino) e non si comprende, dunque, quale preoccupazione talmente viva, attuale e forte avrebbero potuto avere i vertici mafiosi per sviluppi investigativi che, al più, avrebbero potuto attingere quegli esponenti politici che avevano tratto lucro dal patto spartitorio degli appalti garantito da "cosa nostra". Né appare verosimile ritenere che tal uno di tali esponenti politici, preoccupato delle conseguenze per sé pregiudizievoli di un possibile sviluppo di quell'indagine, possa avere avuto, nei confronti dei vertici, mafiosi una "forza contrattuale" tale da imporre loro addirittura una modifica della generale strategia di contrasto allo Stato in quel momento già decisa ed in corso di attuazione. […] Si ritiene, dunque, di potere escludere con assoluta e fondata certezza che quell'input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il Dott. Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni (v. intercettazione ambientale sopra già ricordata), mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l'On. Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell'interessamento del medesimo Dott. Borsellino al rapporto "mafia e appalti", tanto più che ancora lontana - e allora assolutamente non prevedibile - era ancora la collaborazione che Angelo Siino avrebbe intrapreso con la Giustizia soltanto molto tempo dopo. Appare del tutto evidente, piuttosto, che in quel periodo deve necessariamente essersi verificata ben altra evenienza, che, per la sua importanza e rilevanza, ha avuto l'effetto di far rompere ogni indugio a Salvatore Riina, inducendolo a sconvolgere la "scaletta" del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento, all'apparenza, sarebbe stato totalmente controproducente per gli interessi dell'organizzazione mafiosa, se non altro per l'effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere "garantista", interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al "giro di vite" che il Governo si apprestava ad attuare nell'azione di contrasto alle mafie (v. quanto già osservato sopra in proposito). Ed allora, se così è, può ugualmente escludersi che tale sopravvenuta evenienza possa ricollegarsi anche alle indagini conseguenti alla collaborazione di Gaspare Mutolo, che, semmai, potevano apparire più pregiudizievoli, non già per i mafiosi, ma per alcuni alti esponenti della Polizia e per tal uni magistrati che in passato avevano intrattenuto rapporti - quanto meno ambigui - con esponenti mafiosi. E può parimenti escludersi, tra tali possibili eventi, anche la prospettata nomina del Dott. Borsellino quale Procuratore Nazionale Antimafia, frutto, peraltro, soltanto di un'improvvida "uscita" televisiva di un Ministro dell'Interno (l'On. Scotti) di un Governo in fase di rinnovo e che era stata già respinta dal medesimo Dott. Borsellino. D'altra parte, tale possibile nomina non era certo in quel momento così imminente, né sarebbe stata tale da determinare effetti di così immediato pregiudizio per gli interessi di "cosa nostra". Ed allora, è giocoforza ritenere che l'unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l'organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo - ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci - pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D'Amelio. Ora, ove anche non si volesse pervenire alla conclusione prospettata dalla Pubblica Accusa che Riina abbia deciso di uccidere il Dott. Borsellino temendo la sua opposizione alla "trattativa", conclusione che, peraltro, trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese Piraino Leto, il Dott. Borsellino pochi giorni prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (v. dichiarazione della detta teste di cui si dirà anche più avanti: ''... mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c'era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po' di tempo... dopo la strage di via ... di Capaci, dice che c'era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi « infedeli» dello Stato, e non mi dice altro ..."), in ogni caso, non v'è dubbio che quell'invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente da Istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo, dopo quell'ulteriore manifestazione di incontenibile ed efferata violenza concretizzatasi nella strage di via D'Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo. Non v'è dubbio, infatti, che quei contatti che già all'indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti Ufficiali dell'Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento di quel Ministro dell'Interno, che si era particolarmente speso nell'azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli Ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato. Si vuole dire in altre parole, che, se effettivamente quei segnali pervennero a Salvatore Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D'Amelio (e che ciò effettivamente avvenne, come si vedrà, risulta provato) è logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell'effetto positivo per l'organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D'Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale già attuata a Capaci per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi era stata la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili. Ma di ciò si dirà più diffusamente più avanti affrontando il tema dei contatti tra gli Ufficiali del R.O.S e Vito Ciancimino.

·         La cupola dei politici. La viltà e la trattativa Stato-Mafia per salvarsi il culo.

Trattativa Stato-mafia: storia di Giuseppe Russo che si ribellò al patto. Antonio Roccuzzo, Giornalista,  il 30 settembre 2019 su Il Fatto Quotidiano. La cronaca (e la storia) del dopoguerra in Italia è disseminata di “misteri”, protocolli riservati, patti segreti, strette di mano occulte. Ed è disseminata di  “indicibili intrecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia. Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa Stato-mafia legata alla stagione delle stragi del 1992. Ma ci sono storie ed episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della medesima continuità della pratica di “scambi” indicibili tra apparati e capimafia. In nome della pace sociale e dello status quo, pezzi degli apparati dello Stato hanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. E alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei decenni e forse non sono mai usciti. Esempio: prendiamo l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo, alto ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20 agosto 1977. Russo era uno tosto: indagava sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose a Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti interni all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i palermitani si piazzavano autobombe (Giuliette Alfa Romeo per l’esattezza) e così risolvevano i loro conflitti. Russo era stato collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dalla Chiesa avevano iniziato a interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagini: questa la sintesi del patto. Finché durava, non c’erano delitti, si arrestavano ladri e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni tra politica, imprese e mafia. Per decenni, la scena era stata questa: i vescovi che negano l’esistenza della mafia, i procuratori della Repubblica e i giudici di Corte d’Assise che alla fine assolvevano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno cercava). Gli unici che facevano casino erano i capipopolo che occupavano la terra e si battevano per i diritti dei contadini e per questo molti di loro erano gli unici ad essere uccisi (vedi la strage di Portella e poi i delitti dei sindacalisti Corrado Carnevale e Placido Rizzotto). Questa è stata la storia dei 25 anni che in Sicilia seguirono alla seconda guerra mondiale. Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel tacito patto di non belligeranza, rischiava. Russo lo fece, non si accontentò solo di fare qualche arresto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in testa  anche di scoprire gli affari economici dei corleonesi e voleva capire le nuove relazioni e il nuovo patto tra i corleonesi e la nuova classe politica e le imprese. Quello del colonnello Russo fu forse il primo delitto di alta mafia. E tuttavia, grazie alle lacunose e frettolosissime indagini dei suoi colleghi, per quel delitto furono imputati e condannati un gruppo di pastori e qualche balordo ai confini dei sistema mafioso. Le motivazioni del delitto? Risibili, piccole storie locali. Vent’anni dopo quel delitto, nel 1997, gli imputati saranno prosciolti e l’intera cupola di Cosa nostra (Riina, Provenzano, Bagarella e così via), saranno indagati e processati.  E saranno accertati i depistaggi degli apparati di intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché il colonnello Russo aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti scellerati tra Stato e mafia. 

La verità del Capitano Ultimo sull’arresto di Riina: “La procura fece marcia indietro”. Libero Quotidiano il 14 Giugno 2019. “Il covo di Totò Riina non fu perquisito perché io proposi, e la procura inizialmente acconsentì, di seguire i fratelli Sansone, due imprenditori molto importanti di Cosa Nostra ma fino ad allora sconosciuti”. Così il colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio, Capitano Ultimo, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7 il 14 giugno 2019. De Caprio è il carabiniere che nel 1993 ha arrestato Riina e negli anni è stato oggetto di critiche perché ritenuto responsabile dei ritardi nella perquisizione della casa del boss corleonese. “Ho ritenuto – ha spiegato De Caprio – che quella fosse un’occasione unica e irripetibile per ottenere informazioni importanti. Purtroppo dopo 20 giorni la Procura ci ripensò. Ma nessuno ha mai dato disposizioni affinché le persone che entravano in quella casa venissero perquisite”. “Fatalità del destino, in seguito appresi in un’intercettazione che il figlio di Sansone si era fidanzato con la nipote di Messina Denaro, quindi avevo ragione io”. 

La trattativa Stato-mafia. A.BOLZONI, S.PALAZZOLO e F.TROTTA il 5 agosto 2019 su La Repubblica. E' il processo che negli ultimi anni in Italia ha sollevato più polemiche e che ha spaccato anche la magistratura. Tutti ne parlano (o ne straparlano) ma pochi conoscono le pagine di questa colossale inchiesta che trae origine dai patti inconfessabili stretti prima, durante e dopo le stragi siciliane del 1992. In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo un'ampia sintesi delle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, processo che si è chiuso nell'aprile del 2018 dopo 5 anni e mezzo di udienze con un verdetto eclatante della Corte di Assise di Palermo (presidente Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille) che ha condannato a dodici anni i generali dell'Arma dei carabinieri Mario Mori e Antonino Subranni che erano ai vertici del Ros, stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri, otto anni sono stati inflitti all’ex colonnello Giuseppe De Donno, ventotto al boss corleonese Leoluca Bagarella. Assolto perché “il fatto non sussiste” per falsa testimonianza l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, assolto dal concorso esterno ma condannato per calunnia a otto anni nei confronti dell'ex capo della Polizia Gianni De Gennaro Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l'ex sindaco di Palermo. Una sentenza che ha accolto la ricostruzione dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi: e cioè che uomini dello Stato avevano negoziato in quello spaventoso 1992 con i vertici di Cosa Nostra in cambio della fine dei massacri e delle bombe. Un dialogo che sarebbe proseguito anche l’anno successivo. Il processo d'appello è iniziato a fine dell'aprile scorso ed è in pieno svolgimento. Ancora prima delle condanne un altro giudice aveva assolto l'ex ministro Calogero Mannino - che aveva scelto il rito abbreviato - dall'accusa anche lui di avere partecipato alla trattativa Stato-mafia. Di più: di essere lui stesso l'origine del patto in quanto terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l'omicidio di Salvo Lima. L'ex ministro Mannino è stato assolto in primo grado e un paio di settimane fa anche in Appello “per non avere commesso il fatto”. Da una parte una Corte che sostiene che sia stato Mannino la "miccia”  del "dialogo” e dall'altra una Corte che lo esclude categoricamente. In attesa della sentenza d'Appello per gli imputati già condannati con il rito ordinario, leggiamoci le carte sullo Stato che processa se stesso. Non era mai accaduto che rappresentanti delle istituzioni a così alto livello e capimafia fossero seduti insieme sul banco degli imputati. Oggi - proprio grazie a questo processo - qualcosa in più sappiamo, nonostante i troppi “non ricordo” degli uomini delle istituzioni chiamati a testimoniare. Ma resta l’interrogativo più grande: Paolo Borsellino, che aveva appreso del patto segreto degli alti ufficiali dei carabinieri con Vito Ciancimino, fu ucciso perché voleva fermare la trattativa fra Stato e mafia?

La Trattativa Stato-mafia e la legge italiana. La Repubblica 5 agosto 2019. Tema ricorrente del presente processo, al di là della formale imputazione racchiusa nel capo A) della rubrica, è stato quello della cosiddetta "trattativa Stato-mafia" cui si sono riferiti molti testimoni escussi e le stesse parti (Pubblico Ministero e difensori sia delle parti civili che degli imputati) di questo processo. Col termine "trattativa" si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l'accusa, già a decorrere dall'omicidio dell'On. Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata "cosa nostra". In termini di fatto, sugli incontri ed i contatti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata "cosa nostra", fatta salva l'esatta collocazione temporale del loro inizio di cui si dirà più avanti, non v'è sostanziale contestazione. V' è, invece, contrasto sulle ragioni di tali contatti ed anche di ciò si dirà meglio più avanti esaminando le risultanze probatorie del dibattimento. Poiché, però, nell'affrontare tale tema si sono spesso sovrapposti giudizi e valutazioni di tipo etico-politico rispetto a giudizi e valutazioni di tipo strettamente giuridico che sono i soli che possono trovare ingresso in questa sede, è opportuno formulare alcune considerazioni anche in questo caso in termini di generalità prima di affrontare ed esaminare tutte le risultanze probatorie acquisite. Si è sostenuto, invero, soprattutto da parte delle difese degli appartenenti alle Istituzioni qui imputati, che la "trattativa", se finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, giammai può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell'ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l'ulteriore commissione di così gravi crimini. Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discrezionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali. Tale affermazione è certamente vera, ma copre soltanto una parte della problematica giuridica sottesa. Non sembra, innanzi tutto, che possa ritenersi lecita, in via generale, una "trattativa" da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali, non, eventualmente, con singoli compartecipi di una associazione mafiosa e nei limiti delle "concessioni" che lo Stato può riconoscere in forza di disposizioni di legge dettate con finalità premiali della collaborazione con la Giustizia, bensì con soggetti che si pongano in rappresentanza dell'intera associazione mafiosa e richiedano, nell'interesse di questa, benefici che esulino dai perimetri normativi ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva comportino un riconoscimento della stessa organizzazione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento. Il tema, come è noto, era già venuto all'attenzione del dibattito pubblico alla fine degli anni settanta, soprattutto dopo il sequestro dell'On. Aldo Moro da parte dell'organizzazione terroristica denominata "Brigate Rosse", allorché si pose il dilemma tra la linea della c.d. "fermezza" e quella propugnata da coloro che ritenevano possibile "trattare" con i terroristi ed eventualmente far loro qualche concessione (si ipotizzò anche la liberazione di qualche detenuto) pur di salvare una vita umana (quella dell'ostaggio). Lo Stato scelse la via dell'assoluta "fermezza", sintetizzata, come meglio non si potrebbe, nelle parole pronunziate da uno dei più importanti leader politici dell'epoca, la cui elevatissima statura morale è ancor oggi unanimemente riconosciuta: "lo ritengo che la fermezza dello Stato, la sua ripulsa netta ad ogni ricatto e ad ogni cedimento sia anche la via che può consentire di salvare la vita di uno qualunque dei suoi cittadini. Tale linea (seppure con talune, per lo più celate, oscillazioni: v., ad esempio, vicenda che riguardò l'Assessore ai Lavori Pubblici della Regione Campania, Ciro Cirillo, sequestrato dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981 e rilasciato il successivo 24 luglio 1981) venne poi sostenuta, fino alla sua consacrazione legislativa, quando si sviluppò il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione nonostante in tali casi non si ponesse un problema di cedimento dello Stato o di riconoscimento di organizzazioni a questo dichiaratamente contrapposte. Ma, ritornando all'ambito del fenomeno mafioso che riguarda questo processo, va ricordato che il legislatore, dopo ampio dibattito del controverso tema che implica inevitabilmente profili di eticità e di bilanciamento tra deroghe del trattamento sanzionatorio e benefici che lo Stato può trarre in termini di prevenzione di reati e di scompaginamento delle organizzazioni criminali, ha dettato nel 1991 una disciplina che riconosce a singoli appartenenti alle associazioni mafiose, che, dissociandosi da queste, inizino un percorso di collaborazione con la Giustizia, ben determinati e specifici benefici sia in tema di trattamento sanzionatorio sia in tema di protezione. Tra le finalità dichiarate di tale normativa, oltre a quella di assicurare alla Giustizia i colpevoli di gravi delitti già commessi, v'è certamente anche quella di prevenire l'ulteriore commissione di altrettanto gravi delitti, ma tale specifica finalità non è disgiunta - ma si pone anzi in rapporto di stretta strumentalità - con quella di disarticolare le organizzazioni mafiose che da sempre condizionano la vita democratica del nostro Paese, controllandone capillarmente ampie aree del territorio nazionale ed una non irrilevante parte dell'economia nazionale, il cui ordinato ed ordinario sviluppo è alterato dall'afflusso di ingentissimi capitali di provenienza illecita. Al di fuori di tale perimetro normativo - o peggio, in assenza di copertura legislativa - in uno Stato democratico non vi possono essere "lecite" concessioni o riconoscimenti di sorta che proprio perché diretti, non a favore di singoli soggetti che si dissociano dall'organizzazione mafiosa, ma, in sostanza, a favorire l'associazione mafiosa stessa nel suo complesso, sia pure con finalità di prevenzione, inevitabilmente e oggettivamente la rafforzano come potere alternativo e contrapposto a quello dello Stato, talmente potente e forte, che quest'ultimo, appunto, deve "trattare" con essa e concedere benefici utilizzando la propria discrezionalità amministrativa in modo distorto ed al di fuori dei parametri che dovrebbero governarla, tanto che ciò avviene, non già in modo trasparente e palese, ma, al contrario, occulto e non dichiarato. E', dunque, certamente riduttivo - e sicuramente giuridicamente errato - guardare ad una "trattativa" con una organizzazione criminale come se fosse il normale esplicarsi di una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e, quindi, sempre lecita anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni se queste non si concretizzino anche nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione, non potendo, comunque, il giudice penale invadere l'ambito della discrezionalità amministrativa che il legislatore, riformando, ad esempio, l'art. 323 c.p., ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato. Si vuole dire, in altre parole, che una "trattativa" di singoli esponenti delle Istituzioni, quand'anche avallata dal potere esecutivo, non può giammai essere ritenuta "lecita" nell'Ordinamento se, come detto, priva di copertura legislativa e tale è certamente una "trattativa" che conduca, secondo l'ipotesi accusatoria da verificarsi, ad esempio, ad omettere atti dovuti quali la ricerca e l'arresto di latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l'esclusione del trattamento penitenziario previsto dall'art. 41 bis Ord. Pen., non sulla base delle valutazioni che la legge impone (in primis, l'assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedimenti, con ciò realizzandosi, in fatto, una situazione giuridica non dissimile da quella estrema della liberazione di detenuti in cambio del rilascio dell'ostaggio che tal uni ipotizzarono – senza seguito proprio per l'impercorribilità di tale soluzione senza violare le regole dell'Ordinamento democratico - in occasione del sequestro dell'On. Aldo Moro. L'uso così distorto della discrezionalità del potere esecutivo, infatti, in tal caso, proprio perché dimostra e manifesta l'alterazione dell'ordinario evolversi dell'iter deliberativo dovuto all'intervento o alla richiesta dell'associazione mafiosa o anche soltanto la necessità dello Stato di addivenire unilateralmente alla concessione di benefici al di fuori delle regole normative, esalta, nei fatti, la forza stessa dell'organizzazione mafiosa, che può permettersi, infatti, di piegare lo Stato sino a far sì che siano violate le leggi che il medesimo Stato si è dato, e, dunque, in conclusione rafforza l'associazione mafiosa nel suo complesso contribuendo al perpetuarsi del suo potere. Nessuna attività che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi "lecita", laddove costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitivamente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio. E, peraltro, è bene precisare anche che giammai possono ricondursi all'esercizio dei poteri discrezionali provvedimenti comunque viziati nella causa che li originano e che, conseguentemente, già, di per sé e per definizione, trascendono l'ambito della discrezionalità riconosciuta all'organo politico/amministrativo. […] In altre parole, pur se emanati nell'ambito di una attribuzione caratterizzata da discrezionalità, violano la legge i provvedimenti viziati sotto il profilo dell'eccesso di potere, ravvisabile laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell'atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare, ovvero dello sviamento di potere, ravvisabile allorché il potere pubblico sia stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l'attribuzione. […] Ma, in realtà, le considerazioni suddette, qui necessariamente introdotte perché il tema della "trattativa" ha attraversato tutto il processo ed è stato ripetutamente richiamato, sotto vari profili, da tutte le parti sino alla fase conclusiva della discussione, hanno una limitata rilevanza, poiché la questione della "trattativa", a dispetto dell'attenzione anche mediatica che si è concentrata su di essa, non costituisce, di certo, in realtà, l'aspetto centrale del presente processo. Non è oggetto di contestazione, infatti, in questa sede, la condotta in sé, pur se illecita, degli esponenti delle Istituzioni che ebbero, appunto, a "trattare" con alcuni esponenti dell'associazione mafiosa "cosa nostra", né la legittimità di eventuali provvedimenti conseguentemente adottati dal potere esecutivo, quanto, piuttosto, la condotta che costituisce l'antecedente fattuale di tale "trattativa" (che, dunque, non necessariamente deve fungere, essa, da presupposto fattuale e logico della formulazione accusatoria di minaccia, potendo porsi, con quest'ultima, invece, anche in rapporto di mera occasionalità) o che, eventualmente, ha trovato, comunque, origine in quell'approccio da parte di esponenti delle Istituzioni che potevano far ritenere che vi potesse essere una "apertura" dello Stato verso tal une richieste provenienti dalla organizzazione criminale che aveva scatenato la guerra contro lo Stato medesimo. Ci si intende riferire, in particolare, alla condotta di minaccia che taluni esponenti dell'associazione mafiosa avrebbero rivolto nei confronti del Governo della Repubblica con la finalità di ottenere benefici nei confronti di un numero indeterminato di appartenenti a quella organizzazione criminale e, quindi, in sostanza, di quest'ultima nel suo complesso, ed alla condotta di tal uni esponenti delle Istituzioni, i quali, prima di fatto istigandola e, poi, nel farsi tramite di tale minaccia (dunque, quale che sia la modalità attraverso la quale essi l'abbiano recepita e cioè nell'ambito di una "trattativa" ovvero per altra via) verso il potere esecutivo e, dunque, agevolandola, avrebbero, secondo l'accusa, concorso nella commissione del medesimo reato. Ma prima di esaminare le risultanze probatorie in ordine a tali condotte e, quindi, anche la riconducibilità delle stesse a fattispecie di reato, è necessario affrontare alcune questioni di carattere generale che attengono al reato in concreto in questa sede contestato.

L'accusa: minaccia a “corpo politico”. La Repubblica.  il 6 agosto 2019. Agli imputati Riina, Brusca, Bagarella, Cinà, Subranni, Mori, De Donno e Dell'Utri, unitamente ad altri soggetti nei cui confronti si è proceduto separatamente (Provenzano Bernardo e Mannino Calogero) ovvero deceduti (Parisi Vincenzo e Di Maggio Francesco), il P.M. contesta il reato di minaccia ad un corpo politico previsto dall'art. 338 c.p., per avere, in particolare, usato minaccia a rappresentanti del Governo della Repubblica al fine di turbare la regolare attività di quest'ultimo (v. imputazione di cui al capo A). Tale contestazione, per le problematicità dell'ipotizzata figura di reato evidenziate anche dai difensori degli imputati sin dalle battute iniziali del processo (v. richiesta di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. già avanzata in sede di questioni preliminari dagli imputati Mori e Subranni e, sotto altro profilo, dagli imputati Riina e Bagarella) rende necessarie alcune considerazioni di carattere generale. La prima, certamente principale e fondamentale, questione riguarda la configurabilità di tale reato rispetto ad un organo costituzionale qual è il Governo della Repubblica. Si sostiene, infatti, in particolare da parte della difesa dell'imputato Dell'Utri [...], con l'avallo anche di autorevole dottrina, che la nozione di "corpo politico" di cui all'art. 338 c.p. non può ricomprendere gli organi costituzionali (come, appunto, il Governo o le Assemblee legislative o la Corte Costituzionale) per i quali, infatti, il codice penale appresta una specifica tutela con la previsione di cui all'art. 289 c.p. (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali). Tale argomentazione è stata, poi, ripresa, nel prosieguo della discussione, anche dalle difese di tutti gli altri imputati del medesimo reato. Ed in effetti, la nozione di "corpo politico" è stata sempre alquanto controversa nella dottrina penalistica più tradizionalista, che spesso ha stentato ad individuare gli organi riconducibili a tale previsione a differenza di quanto, invece, è più semplice fare per le concorrenti nozioni di "corpo amministrativo" e "corpo giudiziario" pure richiamate nel medesimo articolo 338 c.p. [...].In realtà, però, la difficoltà principale non va individuata nella nozione di "corpo politico", bensì in quella più ristretta di "corpo" laddove non v'è diretta corrispondenza con l'esplicitazione normativa terminologica degli organi dello Stato. Tuttavia, col termine "corpo" può ritenersi, in sostanza, che il legislatore abbia inteso riferirsi genericamente ad ogni autorità o organo costituiti in collegio, come si ricava dal successivo riferimento contenuto nello stesso art. 338 c.p. […]. Già tale definizione impone, dunque, con tutta evidenza, di includere tra i "corpi politici", innanzitutto, proprio il Governo della Repubblica, che costituisce, anzi, il principale organo che, in forma collegiale, svolge una attività indubitabilmente "politica" . Ed in tal senso, infatti, si è espressamente pronunziata la Suprema Corte con una sentenza Cv. Cass. Sez. VI 18 maggio 2005 n. 32869) volutamente pressoché trascurata dalle difese […]. In realtà, l'affermazione della Suprema Corte è assolutamente chiara ed inequivocabile, laddove fa seguire l'indicazione del Governo della Repubblica (così come quelle analoghe del Parlamento e delle Assemblee Regionali) alla definizione di "Corpo politico" che nella stessa sentenza viene offerta: "Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica"[...]. La seconda questione da affrontare ancora in termini di generalità è quella della configurabilità della fattispecie criminosa dell'art. 338 c.p. nel caso in cui la violenza o minaccia sia perpetrata nei confronti, non dell'intero Governo riunito, ma nei confronti di uno o più Ministri che del Governo fanno parte. Si è visto, invero, che soggetto passivo del reato è l'organo pubblico dello Stato nell'integrità della sua composizione collegiale mediante la quale esercita le sue funzioni. Tuttavia, deve ritenersi configurabile il reato in esame anche quando la minaccia, seppure indirizzata nei confronti di un solo componente dell'organo collegiale non in presenza dello stesso organo collegiale riunito, sia, però, diretta a minacciare l'intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l'attività (interpretazione ora, come si vedrà, rafforzata, per quanto si dirà più avanti, dalla modifica apportata dalla legge 3 luglio 2017 n. 105 che ha inserito le parole ", ai singoli componenti" dopo le parole "Corpo politico, amministrativo, giudiziario"). In sostanza, si configura, comunque, il reato previsto dall'art. 338 c.p. Quando l'agente, pur rivolgendo la minaccia ad un componente eventualmente non in presenza dell'organo collegiale riunito, mira non già alla persona fisica del componente medesimo, ma al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l'attività.

Il pentito Giuffré e l'attacco allo Stato. La Repubblica il 7 agosto 2019. Sono stati acquisiti sicuri elementi di prova che consentono di collocare alla fine del 1991 l'inizio della nuova strategia mafiosa (decisa dopo alcuni anni di voluta "sommersione" in attesa della conclusione del c.d. "maxi processo") che avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni delle Stato e, più specificamente, contro rappresentanti di queste che o avevano tradito aspettative e promesse ovvero costituivano il nucleo operativo - e, nel contempo, la "punta di diamante" - con il quale lo Stato aveva più efficacemente contrastato l'organizzazione mafiosa "cosa nostra". In particolare, molteplici elementi di prova indicano che nel detto periodo, certamente antecedente anche alla conferma della sentenza del maxi processo da parte della Corte di Cassazione in data 30 gennaio 1992, si tennero una riunione della "commissione regionale" ed una riunione della "commissione provinciale di Palermo" di "cosa nostra", entrambe convocate da Salvatore Riina, all'epoca, di fatto, al di là della formale esistenza degli organismi collegiali prima ricordati, capo assoluto ed incontrastato dell'organizzazione mafiosa. Entrambe le riunioni, quindi, sono servite al Riina per fare recepire e ratificare a quegli organismi collegiali la sua volontà di sferrare un violento attacco allo Stato e ciò una volta acquisita, da parte dello stesso Riina, la consapevolezza che, contrariamente alle tante assicurazioni a più livelli manifestategli (e da lui, quindi, "girate" ai sodali per giustificare quella fase di "sommersione" che si protraeva da alcuni anni e sostanzialmente interrotta soltanto, nell'agosto del 1991, dall'omicidio Scopelliti, commesso, però, in Calabria al fine di evitare l'immediato diretto collegamento con "cosa nostra"), il maxi processo avrebbe avuto, infine, una conclusione infausta per l'associazione mafiosa da lui capeggiata. Delle predette riunioni ha riferito, innanzi tutto, Antonino Giuffrè, collaboratore di comprovata affidabilità per la gran mole di riscontri acquisiti, con sentenze passate in cosa giudicata, sul ruolo apicale dallo stesso svolto nell'ambito dell'associazione mafiosa ("capo" di uno dei "mandamenti" all'epoca più importanti, quello di Caccamo), sui rapporti diretti e personali con i vertici di questa, Riina e, soprattutto, Provenzano, e su molteplici vicende criminali, sia direttamente vissute, sia conosciute in virtù del suo ricordato ruolo, sempre tutte raccontate con assoluta coerenza. Ebbene, Giuffrè ha, innanzitutto, raccontato di avere egli stesso partecipato, per la carica di capo "mandamento" che rivestiva, ad una riunione, appunto, della "commissione provinciale" che si tenne nel mese di dicembre 1991 e nella quale si deliberò di uccidere, da un lato, Lima ed altri politici che avevano tradito le attese di "cosa nostra" e, dall'altro, alcuni magistrati che storicamente venivano considerati nemici di "cosa nostra" ("lo ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra del dicembre del 91, se la memoria non mi inganna, dove appositamente c'è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e ha cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei Magistrati, quali Falcone e Borsellino. Questo è stato fatto in una famosa riunione del 91, del dicembre del 91. Tanto è vero che poi nel 92 ci sarà l'uccisione di Lima e del dottore Borsellino, del dottore Falcone, eccetera, eccetera. Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano ... Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell'ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell'87, quando c'è stato il cambiamento di rotta, venivano ... Erano stati considerati inaffidabili questi politici”). Giuffré ha indicato, quale luogo di tale riunione, seppur non in termini di assoluta certezza, la casa di certo Guddo, certamente identificabile in Girolamo Guddo proprietario di una villa presso la quale, come emerso in molteplici processi, si tennero in quel periodo molte riunioni dei vertici mafiosi (''Non me lo ricordo con precisione, ma buona parte delle riunioni venivano fatte in unacasa di Guddo, se vado bene, nell'abitazione di Guddo, dove vi era un grande garage con attigua una grande stanza dove vi era sistemato un grande tavolo, dove ci sedevamo. […] Chi fosse il Guddo io non lo so, cioè, perché non l'ho mai frequentato, lo vedevo là, lo conoscevo, poi successivamente, a distanza di tempo, mi è stato dai Marcianò diciamo portato avanti, che aveva degli interessi sulla zona di Termini Imerese, mi sembra di avergli fatto pure qualche favore, niente di tutto questo"). In quella occasione, quindi, ancora secondo Giuffrè, Riina comunicò la sua decisione a tutti capi "mandamento" facenti parte della "commissione provinciale" (" .. Angelo La Barbera, Raffaele Ganci, Peppino Farinella, Salvatore Madonia, io, Matteo Motisi, Salvatore Cangemi, Giovanni Brusca, Graviano, Giuseppe Graviano, Peppuccio Montalto, Salvatore Biondino, cioè tutta la commissione al completo, tutti i capi mandamento della provincia di Palermo"), i quali accolsero la decisione medesima con assoluto silenzio ("Diciamo che è stato commentato con l'assoluto silenzio, non c'è stato nessun commento. Già di per se stesso, come io ho detto in altre circostanze, è stata una riunione glaciale, di ghiaccio. Diciamo che non c'è stato ... Si sentivano le mosche che volavano, non c'è stato nessun commento da parte di nessuno"). Tale decisione del Riina fu sostanzialmente, innanzi tutto, quella di arrivare alla "resa dei conti" nei confronti di tutti coloro che avevano dato assicurazione che, alla fine, sarebbe stato possibile evitare gli ergastoli già inflitti nei gradi di merito del maxi processo ("È stato la conclusione diciamo di tutto un periodo di tempo, dalla metà degli anni 80 e anche prima, fino ad arrivare a quella data ein modo particolare da un lato vi era stato un abbandono, possiamo dire tranquillamente, da parte ...Cioè, un abbandono dell'appoggio politico di cui Cosa Nostra aveva goduto e quando parlo dell'appoggio politico, in modo particolare mi intendo riferire a quelli che erano i discorsi a livello di processi, vi erano state delle azioni molto importanti da parte delle forze di Polizia sotto la guida del dottore Falcone e del dottore Borsellino, discorsi importanti nella prima metà dell'80, quando già c'era stato Michele Greco con il mandato di cattura e poi ci saranno altre operazioni importanti che hanno interessato anche l'America, Milano, eccetera, eccetera, e poi in modo particolare con il Maxi Processo. Cioè, nel momento in cui si è visto che le situazioni andavamo sempre peggio, diciamo che c'è stato, come ho detto, il discorso della resa dei conti nei confronti di tutti gli avversari di Cosa Nostra che avevano, ci avevano abbandonato. E anche una questione, come ho detto in altre circostanze, di immagine da parte di Salvatore Riina, dove in diverse circostanze, per rassicurare le persone che avevano dei familiari in carcere, eccetera, eccetera, diceva che la situazione dei carcerati, la situazione degli ergastoli si doveva risolvere. Mettiamoci in testa, diceva che dobbiamo farci ha nostra bella associazione, però di ergastoli nemmeno a parlarne. Poi, successivamente, il dire di Salvatore Riina è stato smentito in seno anche alla Commissione, quindi c'è stata un intervento molto brutale da parte del Salvatore Riina contro quei personaggi che lui riteneva e che noi ritenevamo dei traditori. Da quel momento in poi iniziò una politica di aggressione violenta contro tutti questi personaggi”) e ciò in quanto, ormai, il Riina aveva acquisito la consapevolezza che, in realtà, a causa di un intervento attribuito al Dott. Falcone, con la sentenza della Corte di Cassazione sarebbero state confermate le condanne all'ergastolo già inflitte dai giudici di merito ("Si sapeva ufficiosamente se non vado male dei ricordi l'esito del Maxi Processo, che come ho detto è in forma ufficiosa. Ecco, posso dire che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso .... ........ Sì. sì. lo vado a confermare perché già si vociferava che a causa di tutto un discorso anche precedente che c'era stato, cioè la sentenza andava male .... ... ... Diciamo che questa era ormai la strategia ufficiale, che diventava ufficiale e operativa nell'ambito di Cosa Nostra. Quindi diciamo che da quel momento in poi, dopo questa delibera. diventava ufficiale quanto era stato deciso contro i politici, cioè diciamo contro i nemici giurati di Cosa Nostra. Falcone e Borsellino. e contro i politici che si erano defilati nell'appoggiare Cosa Nostra ... ... .... Erano delle voci che già giravano all'interno di Cosa Nostra. quindi mi sembra che sia stato Riina in quella sede. ma già era un discorso che si avvalorava perché vi erano state... C'erano dei presupposti che già il cambiamento della sezione del processo. cioè tutto un complesso di situazioni che già nell'ambito nostro girava la voce che il processo, la sentenza andava male ... ... ... Ricordo così diciamo a memoria a gomito, cioè, vi era stato anche un discorso travagliato in seno alla Cassazione dove doveva essere un procedimento che doveva andare in una determinata sezione. non mi ricordo se fosse quella presieduta da Carnevale e invece il processo è stato mandato in un'altra sezione. Questo è un discorso così che vagamente che mi vado a ricordare. Ci sono stati dei travagli anche all'interno della Cassazione. Comunque sono mi sembra di essere 99% certo che già a fine del 2001 si aveva sentore che il Maxi Processo prendeva una brutta piega.. ... . ... Cioè, chiedo scusa, parliamo del 91"). E' importante evidenziare per ciò che riguarda più specificamente i fatti oggetto di questo processo e per le considerazioni che si faranno sulla c.d. "trattativa", che in quella riunione del dicembre 1991, ancora secondo Giuffré, venne esplicitato dal Riina esclusivamente un intendimento di vendetta ("La strada si doveva completamente abolire, tanto è vero che poi c'è stato l'omicidio Lima, quindi ... ... .... Diciamo in modo particolare in quella sede, cioè, l'eliminazione di tutti... Una vendetta cioè nei confronti di tutte quelle persone che non avevano adempiuto a dare una mano a Cosa Nostra, e qua parliamo per quanto riguarda i politici. Per quanto riguarda i Magistrati, diciamo che, come ho detto ieri, si trattava di persone, particolarmente il dottore Borsellino e il dottore Falcone, pericolose, che avevano lottato contro Cosa Nostra in modo particolarmente forte e intransigente, quindi diciamo che ... "), mentre soltanto in una seconda successiva fase avrebbe poi preso campo l'intendimento di ricattare e minacciare lo Stato ("Diciamo che questo discorso di ricatto, di minaccia, è una tappa successiva al discorso delle stragi del 93, in modo particolare su Firenze, su Milano e su Roma. Diciamo che sono due tappe successive. Una prima tappa è quella dell'eliminazione delle persone che non avevano mantenuto, come ho detto, ripeto, gli impegni presi nei confronti di Cosa Nostra. Poi, successivamente, è scattato in contemporanea diciamo anche il discorso del ricatto e delle minacce allo Stato.... ... ...Il discorso poi, mi riallaccio al discorso del Provenzano in modo particolare.... ... ...Poi successivamente con il Provenzano. Diciamo che per quanto riguarda il 91 io le posso parlare di quello che le ho parlato, del discorso dell'eliminazione dei politici. Per quanto riguardano i discorsi di Firenze e altro, io ero completamente all'oscuro, come ho sempre detto e riferisco a questa Corte"). Ancora per quanto riguarda il Giuffrè è opportuno qui ricordare che, secondo il predetto collaborante a quella riunione della "commissione provinciale" non partecipò Provenzano, pur non essendovi alcun dubbio, per i presenti, che quest'ultimo, come di consueto, avesse già precedentemente condiviso l'iniziativa con Riina ("Ripeto che non mi risulta a me che il Provenzano sia stato mai presente a una riunione di Commissione. Le posso tranquillamente dire che il Provenzano a detta di lui, a detta del Riina, a detta sia del Provenzano ... Era a conoscenza sempre di tutto, di quello che avveniva nelle iniziative del Provenzano, tramite incontri che avevano privatamente tra di loro e tramite delle lettere che si scambiavano, questo sì .... ..... ..... C'è stato, per quello che io potevo capire, sin dall'inizio della loro ascesa al potere, diciamo, un ... Hanno intrapreso la strada di comune accordo, si sono scambiati anche le zone di influenza dove potere operare ed ecco perché può sembrare una anomalia, che dice che quando mi si dice che il Provenzano ha partecipato alle riunioni di Commissioni, io devo dire no perché non l'ho mai visto, però con questo non è che vado a dire che Provenzano non c'entra niente nei discorsi. Ne è ugualmente consapevole e responsabile quanto lo è Salvatore Riina, per le ragioni di cui sto dicendo, che era sempre informato, era sempre a conoscenza e portavano avanti la stessa strategia, sia per quanto riguarda i discorsi nella guerra di mafia, sia per quanto riguarda l'eliminazione delle persone che poi dovevano essere eliminate"), circostanza che, d'altra parte, trova diretto riscontro nel fatto che già da alcuni mesi Provenzano aveva manifestato allo stesso Giuffrè l'intendimento di uccidere Lima (P.M DEL BENE: - Senta, allora procedo ad una contestazione per sollecitarle il ricordo su questo profilo, di questa interlocuzione con Provenzano, verbale di interrogatorio di Giuffrè Antonino reso alla Procura della Repubblica di Palermo il 26 settembre 2009, pagina Il, a penna, per le Difese. A specifica domanda del Pubblico Ministero, il signor Giuffrè, ebbe a rispondere: in tuffa onestà le devo dire una cosa, io ero stato informato che Lima doveva essere ucciso. Da chi? Dice il Pubblico Ministero. Giuffrè: da Provenzano. Pubblico Ministero: quando? Giuffrè: prima di andare a finire in galera, circa un sei mesi prima. Poi proseguendo, cioè, dice il Pubblico Ministero? Giuffrè: nel 91, nell'estate del '91, settembre; DICH. GIUFFRE': - Confermo quanto lei mi sta contestando diciamo che già c'era anche su Lima la voce che doveva essere ... Per quelle circostanze che ho detto in precedenza; P.M. DEL BENE: - Quindi Provenzano era informato di questa decisione antecedentemente alla riunione a casa di Guddo, mi pare di capire. Questo vorrei capire comprendere, signor Giuffrè, mi perdoni.; DICH. GIUFFRE': - Sì, sì, tranquillamente, tranquillamente, sì.. .. … ... Contribuì indubbiamente perché, veda, Salvatore Riina un giorno mi disse che, parlando del Provenzano, che ... Io con Bino posso avere delle vedute un pochino diverse, dice e forse è anche giusto così, però nel momento in cui noi ci alziamo dal tavolo, siamo in perfetta sintonia. Quindi da queste parole che mi ha detto il Salvatore Riina e da quanto mi diceva il Provenzano, diciamo che per quanto riguarda in modo particolare gli attacchi contro i politici e contro .. ... ...Erano... ... ...il Provenzano ne era a conoscenza ed era in perfetta sintonia, diciamo, con il Salvatore Riina .. "). E' da segnalare, inoltre, che Giuffrè, però, ha negato che in occasione della detta riunione della "commissione provinciale" del dicembre 1991 si sia parlato di rivendicare gli omicidi che sarebbero stati commessi a nome della Falange Armata ("P. M. TARTAGLIA: - Per quanto riguarda le riunioni alle quali lei ha partecipato personalmente, lei ricorda se in queste riunioni, quando si parlò dell'eliminazione di Lima e delle successive attività in programma, fu avanzata da qualcuno la proposta di rivendicare queste azioni con la sigla della Falange Armata?; DICH. GIUFFRE': - Completamente no"). Infine, pur non avendovi partecipato per non avere titolo, Giuffrè, sulla base delle regole dell'attività di "cosa nostra" da lui conosciute, ha ipotizzato che quella riunione del dicembre 1991 potesse essere stata già preceduta da altra riunione della "commissione regionale" ("Potrebbe essere un discorso inverso … ... .... Cioè che già c'erano stati degli accordi con le altre province su questa strategia e poi successivamente ne veniva data comunicazione dallo stesso Riina a livello provinciale, a Palermo").

Giovanni Brusca e le “colpe” di Falcone. La Repubblica l'8 agosto 2019. Le predette dichiarazioni trovano in gran parte riscontro nelle parole di un altro soggetto che, rivestendo anch'egli la carica di capo "reggente" di un "mandamento" della provincia di Palermo (quello di San Giuseppe Jato), aveva titolo per partecipare alle riunioni della "commissione provinciale".

Ci si intende riferire all'odierno imputato Giovanni Brusca, il quale ha, innanzitutto, confermato l'insoddisfazione che montava in Salvatore Riina per l'andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l'On. Lima sul quale il Riina aveva fatto affidamento per "aggiustare" il maxi processo (" .. . da quando ... durante il primo Maxiprocesso che io andavo dai cugini Salvo affinché intervenissero per intervenire sul presidente, su quella che era la situazione, per ottenere un favore positivo e le risposte erano sempre negative, quando io portavo le risposte da Totò Riina dice: "lo a questo lo devo ammazzare" e dipende dal tono e il modo come lo diceva per me già era sentenza, non c'era bisogno di aspettare il '92. Poi era sempre il ritornello che continuava, ma già per me era il quadro. Siccome poi questa volontà è andata avanti che primo grado, secondo grado, in Cassazione non ha fatto niente, quindi è arrivato al punto quando poi ha chiuso il conto ... .... .... Non era un 'esternazione di quella "Ah, a questo lo devo ammazzare" o "Questo di qua" o un certo spazio, lo spazio di un ripensamento era l' l%. Cioè, si poteva salvare ... .... ..... si poteva salvare se l'onorevole Lima avrebbe portato un risultato positivo per Cosa Nostra .... .... .... io siccome ho vissuto in prima persona, sia perché imputato, ma perché mi ci mandava, prevalentemente era l'interesse di Totò Riina per il Maxiprocesso affinché venisse manipolato, aggiustato per ottenere un esito positivo, in particolar modo quella che era la fissazione sua era il teorema Buscetta la cosiddetta commissione .... .... .... lo l'ho seguito dal primo giorno. Poi sempre un 'altra lamentela ci fu quando non intervenne perché si fece un decreto, ora non mi ricordo in dettaglio, di retroattività. che ci fu una contestazione tra Difesa. Pubblico Ministero e Corte. e lui non intervenne affinché questo decreto non passasse ... .... ..... Possiamo dire che tutte le richieste di Riina non trovavano soddisfazione"). Brusca ha, quindi, riferito che la questione del maxi processo fu oggetto di più riunioni della "commissione provinciale" tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell'evoluzione della vicenda sino a quell'intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell'esito infausto per l'associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato ("E allora. riunioni di commissione provinciale ce ne sono state più di una .... '" ... dal novanta ... '92, fino a che è arrestato Riina ho partecipato a quattro cinque o forse qualcuna di più ....... ..... E quindi io in queste riunioni successive, siccome già al fatto dell 'onorevole Lima non ci stavo attento. io stavo attento a quelle che erano le novità dell'oggetto, perché l'onorevole Lima già sapevo che ... Lima, il dottor Falcone il dottor Borsellino questi io già li sapevo da una vita, ogni volta c'erano novità dipende qual 'era l'esigenza del contendere. Attraverso questi fatti mi ricordo che si discuteva in commissione di Cosa Nostra ... .... ..... Guardi, più che discussioni c'erano ricordi. rinnovamenti ... .... .... Guardi. diciamo che da quando fu assegnato in commissione, cioè in Cassazione, cioè, facciamo un piccolo passo indietro, in Corte d'Assise d'appello il processo stava andando bene, cambiò la situazione quando cominciò a collaborare Francesco Marino Mannoia che cominciò a collaborare nel corso d'opera e stravolse quelle che erano le aspettative, tant'è che io ero stato assolto in primo grado e in secondo grado poi sono stato condannato, come tanti altri. le condanne all 'ergastolo e via dicendo. Quindi poi si sperava di poterlo aggiustare in Cassazione e da lì sono stati... ... .. .. Principalmente con la corrente ...attraverso l'onorevole Lima e l'onorevole Andreotti, poi c'erano anche... .. ....... Ma lui doveva intervenire principalmente, se non ricordo male, che ci fu di evitare la cosiddetta, la rotazione dell 'assegnazione, in maniera che ... doveva fare in modo che arrivasse al dottor Carnevale, in sostanza, questo era l'interesse di Totò Riina.... .... .. ... Che poi Totò Riina attraverso altri canali l'avrebbe ... nel merito ci sarebbe entrato, ma quantomeno voleva che lui facesse in modo che facesse assegnare questo processo al dottor Carnevale. Nel merito  lui pensava di farlo gestire attraverso un amico di Mazara del Vallo, un avvocato, non mi ricordo chi è, con Carnevale erano molto amici, amici, si conoscevano non so se per quali fini o per quali motivi ... ; ....  P.M DR. TERESI - E quindi la rotazione di questa turnazione nell'assegnazione dei processi in Cassazione, come dire, sconvolse le vostre aspettative?; IMPUTATO BRUSCA - Sì, con l'intervento del dottor Giovanni Falcone .... .... .... Ma l'abbiamo capito subito quando lui da Palermo se ne andò a Roma per andare a fare principalmente questo, perché era un lavoro suo e quindi voleva portarlo a termine .... .... .... Davamo la colpa a Falcone, ma principalmente a Martelli che gli aveva consentito di fare questo ... cioè, di andare a occupare questo posto … .... ..... Anche qui io la volontà di uccidere il dottor Falcone per me risale già subito dopo Chinnici e ho fatto pure dei tentativi, ho studiato pure degli obi... cioè delle abitudini, per una serie di fatti sempre veniva rinviato. Quando invece in ultima battuta sapevo di questo fatto, però io non sapevo ancora la volontà di Totò Riina, io c'entro, tra virgolette, per sbaglio in quest'attentato .... .... ... Cioè, io entro nella fase ... sapevo la deliberazione, sapevo la volontà di Totò Riina, io entro nel piano esecutivo di portare a termine tutta una serie di attentati omicidiari e quant'altro ... "). Indi, Brusca ha confermato che nel dicembre 1991 si tenne un'ulteriore riunione della "commissione provinciale" ("Che io mi ricordi l'ultima fu, credo, come di solito si faceva sempre, a Natale '91, tutta allargata, successivamente ... "), forse in un luogo diverso dalla casa di Guddo ("L'ultima, che io mi ricordo, fu a casa del cugino di Salvatore Cancemi, di un certo... Non mi ricordo come si chiama .... ; ... P.M DR. TERESI - È possibile che si chiami Guddo?; IMPUTATO BRUSCA - No, c'è un altro, c'è un altro che poi è stato individuato. A casa di Guddo ne abbiamo fatto altre di riunioni, ma questa che mi ricordo credo che sia l'ultima, che mi ricordo anche la presenza di Nino Giuffrè, si chiama questo ... è stato già individuato, è stata individuata pure la casa, avendo assistito ad altri processi, però in questo momento non mi viene il nome, Vito, Vito... eravamo in uno scantinato, comunque vicino la casa di Guddo, perché Totò Riina si muoveva sempre nell'ambito da casa sua dove abitava vicino alla rotonda, si muoveva, diciamo, nell'arco di un chilometro, 2 chilometri, 3 chilometri, non andava oltre .... .... .... Si muoveva nel territorio di Raffaele Ganci, di Angelo La Barbera e Salvatore Cancemi .... "), cui parteciparono quasi tutti i capi "mandamento" tra i quali anche Giuffré ("Ma partecipammo quasi ... no "quasi", tutti, credo che fu un momento che in due o tre occasioni partecipammo tutti, al/ora eravamo ... .... ..... Salvatore Riina per Corleone e capo provincia, Biondino Salvatore che sostituiva Giuseppe Giacomo Gambino, Angelo La Barbera per Porta Nuova, per Passo di Rigano che sostituiva Salvatore Buscemi, Matteo Motisi per Pagliarelli, Salvatore Montalto che sostituiva il padre per Villabate che prima era Bagheria e poi è diventato Villabate, io per San Giuseppe Jato, Giuseppe Graviano per Brancaccio, Francesco Lo lacono per Partinico che sostituiva Geraci Antonino il vecchio, Giuffi-è Antonino per Caccamo, Salvuccio Madonia per San Lorenzo, Pietro Aglieri e Carlo Greco per Santa Maria di Gesù, Raffaele Ganci per la Noce, credo di averli detti tutti ... ") e nella quale, come pure riferito dallo stesso Giuffrè, prese la parola Riina, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l'intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di "cosa nostra" ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito "cosa nostra", tra i quali Lima e, forse, Mannino (" .... Di solito in queste circostanze li prendeva sempre Salvatore Riina, erano quasi sempre monologhi, difficilmente qualcuno interveniva, perché quando parlava lui tutti gli altri ascoltavano o per amore o per timore o perché gli conveniva, era quasi sempre lui che parlava. Interveniva qualcuno tipo mi ricordo Matteo Motisi che fece un intervento, non mi ricordo qual era il motivo e quasi no lo rimproverò, ma per educazione per l'età lo mise un po' a tacere, ed era quello che voleva ... cioè, voleva uccidere tutti, che si doveva vendicare, che non riusciva più a portare avanti quelle che erano le sue esigenze, dell'interesse di Cosa Nostra, che lui stava facendo tutto, che la politica si stava ... i politicanti lo stavano tradendo. Questa è la sostanza dell'argomento... .... .. ... Sì, faceva i nomi... ... .. ... Ma principalmente c 'era il dottor Giovanni Falcone. quello era il suo chiodo fisso. poi c 'era quello del dottor Borsellino che lo nominava da tanto tempo, si è aggiunto Lima che io già sapevo e poi tutta un 'altra serie di nomi di politici ... ... .... Prima di tutto, il primo di tutti era Giovanni Falcone, il secondo era il dottor Borsellino che io sapevo già dagli anni Ottanta, si ci è aggiunto a questo, in base a quello che già ... perché nel '91 già ... non è che aspettavamo la sentenza di Cassazione che veniva confermata, sapevamo, e quindi pubblicamente esternava la volontà di uccidere Lima. Credo qualche altro politico. non mi ricordo se fece quello di Mannino o di qualche altro, il nome di qualche altro l'abbia fatto. Là, in quella circostanza, non disse: "Dobbiamo uccidere, tu pensa a questo. io penso ... "."Dobbiamo uccidere", punto .... .... .... O meglio "Ci dobbiamo rompere le corna" per semplificare il concetto della discussione... .... .. ... Le ragioni stratificate nel tempo, sommate nel tempo dell'odio di Cosa Nostra verso Giovanni Falcone. poi ritenuto addirittura responsabile della questione della Cassazione. ne abbiamo parlato, per quanto riguarda il dottore Borsellino ... .... ..... so. per l'arresto di Leoluca Bagarella, che era indagato per via Pecori Girardi per un omicidio e il dottor Borsellino non voleva accondiscendere alle sue richieste di aggiustamento da Pubblici Ministeri”). Neppure secondo Brusca in quella riunione si parlò della "Falange Armata" e, quindi, come si vede, v'è sostanziale coincidenza tra il racconto del predetto e quello del Giuffrè al di là del luogo della riunione, riferito, peraltro, da quest'ultimo in termini incerti e che, d'altra parte, a distanza di tanto tempo può essere non ben ricordato da uno di essi o da entrambi. Brusca, infine, ha attribuito quella decisione comunicata nella riunione esclusivamente a Riina ben conoscendo il potere assoluto che questi, all'epoca, esercitava in "cosa nostra" ("E in particolar modo Totò Riina. la persona di Totò Riina ... ... .... aveva un fatto specifico personale. per questo dico che aveva più interessi di tutti”) e, pertanto, ha detto di non essere a conoscenza della riunione della "commissione regionale" tenutasi a Enna ("No. non ne so nulla io di questa riunione"). Di quest'ultima riunione, tuttavia, ha parlato Malvagna Filippo (il cui racconto è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall'assenza di elementi idonei ad inficiare l'attendibilità intrinseca del dichiarante), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della "provincia" di Catania ("P. M TARTAGLIA: - ... ha avuto mai occasione di avere notizie su più generali strategie di politica criminale di Cosa Nostra? ... DICH. MALVAGNA: - Sì. io ho avuto notizie in tal senso e in particolare verso la fine del 1991 - gli inizi del 1992 si parlava ... Mio zio mi raccontò che vi era stata una riunione in provincia di Enna dove si erano riuniti tutti i vertici delle varie famiglie esistenti in Sicilia. Lui in particolar modo mi disse che aveva partecipato a questa riunione direttamente il Santapaola per quanto riguarda la famiglia. la nostra famiglia. si diceva all'epoca. E questa riunione era direttamente ... Vi era in questa riunione. era presieduta da Salvatore Riina.... ha parlato Giuseppe Pulvirenti. Lui personalmente no, aveva partecipato il. .. ... L'aveva saputo perché aveva partecipato a questa riunione il Santapaola e il Santapaola al rientro chiamò i vertici dell'organizzazione, tra cui anche il Pulvirenti, e lo mise al corrente dell'oggetto di questa riunione. ... Ma adesso i miei ricordi sono lontani nel tempo, io se non vado errato siamo agli inizi del 1992, adesso non ricordo se siamo a gennaio, a febbraio, marzo, non ricordo di preciso la data precisa. P. M TARTAGLIA: - E quando Pulvirenti agli inizi del 92 gliene parla, le parla di una riunione accaduta, verificatasi quanto tempo prima? È in grado di dirlo questo? DICH. MALVAGNA : - Ma il tempo prima non lo so, lui mi parlava di poco tempo, dieci giorni, quindici giorni, un mese massimo. Di preciso non mi specificò la data quando venne fatta, mi disse che è stata fatta lì in provincia di Enna, ... "). In quella riunione, secondo quanto poi raccontato al Malvagna, Riina aveva pronunciato la frase "qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace" ("P. M TARTAGLIA : - E Pulvirenti le ha riferito qualche frase testuale, qualche passaggio testuale dell'intervento di Salvatore Riina in quella riunione? DICH. MALVAGNA: - Sì, mi ha riferito che Salvatore Riina ebbe a dire: bisogna, qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace. .... Sì, è una frase che aveva pronunciato direttamente Salvatore Riina in quella riunione") sulla quale si tornerà più avanti per il significato che essa assume nel contesto dei fatti oggetto del presente processo. Anche in quella riunione di Enna, ancora secondo quanto appreso e, quindi, riferito da Malvagna, Salvatore Riina si era lamentato delle promesse di politici non mantenute ed aveva prospettato che a quel punto occorreva muoversi "tipo libanesi, tipo i colombiani" e cioè con una strategia di attacco frontale verso lo Stato e con azioni idonee a confondere la matrice mafiosa o terroristica dell'atto criminale ("P. M TARTAGLIA: - ... Perché bisognava fare la guerra per poi fare la pace? ... DICH. MALVAGNA : - Ma di preciso non mi è stato detto, mio zio mi ha spiegato che erano venuti meno dei agganci che a Palermo avevano. Cioè, le persone che erano, avevano fatto delle promesse, non le avevano mantenute e in particolare parlava di zio Totò era molto arrabbiato. E quindi aveva deciso di mettere in atto questa, diciamo questa strategia, loro dicevano a tipo libanesi, tipo i colombiani, un attacco frontale per poi ... Per fargli vedere che loro, cioè, meritavano ... Erano capaci di destabilizzare diciamo anche la popolazione e lui mi parlò di una cosa tipo una cosa che poi doveva anche, doveva anche confondersi questa cosa, doveva confondersi, che non dovevano capire niente se era mafia, se era ritornato il terrorismo, tutte ste così ha detto, mi ha detto questo qua .... P. M TARTAGLIA : - ... le è stato detto da chi erano rappresentati questi agganci? DICH MALVAGNA : - Ma da chi erano rappresentati nello specifico non mi venne detto, anche perché ... Non mi venne detto nello specifico"). Secondo Malvagna, in tale contesto, Riina aveva invitato a rivendicare le azioni che sarebbero state compiute con la sigla Falange Armata ("Sì, sì, direttamente il Salvatore Riina, come dicevo prima, siccome si doveva fare un po' di confusione, che non si doveva capire da dove provenisse tutto questo terremoto, disse di rivendicare qualsiasi cosa con una frase, la così detta ... Dovevano essere rivendicate dicendo che chi metteva in atto queste cose faceva parte della Falange Armata. P. M TARTAGLIA : - Questa fu quindi una richiesta di Salvatore Riina? Fu Salvatore Riina a proporre in quella sede di rivendicare gli attentati con la sigla Falange Armata? DICH MALVAGNA : - Sì, sì, si dovevano fare queste cose e rivendicarle con questa sigla di Falange Armata"), sino ad allora a tutti sconosciuta ("P. M TARTAGLIA : - ... Lei o suo zio Pulvirenti in quel momento, cioè nei primi mesi del 92, avevate mai sentito parlare della sigla Falange Armata? DICH MALVAGNA: - No, io mai. P. M TARTAGLIA: - Quindi era una sigla sconosciuta a lei e ai componenti della sua organizzazione criminale? DICH. MALVAGNA - Che io sappia sì, era la prima volta che si sentiva dire"). Della "Falange Armata" si dirà meglio più avanti, anticipando, però, sin d'ora, che effettivamente tutti i principali fatti delittuosi che da lì in poi sarebbero stati commessi da "cosa nostra" nel biennio 1992-93, ad iniziare dall'omicidio Lima, furono effettivamente rivendicati con la predetta sigla. Anche Malvagna, infine, ha confermato che già alla fine del 1991 a Catania i mafiosi erano consapevoli che il maxi processo, nel quale erano imputati anche importanti esponenti di quella "famiglia" quali Benedetto Santapaola e Carletto Campanella, avrebbe avuto un esito diverso da quello da loro sino ad allora sperato ("P. M TARTAGLIA: - ... Ora io le vorrei chiedere sinteticamente: lei ha avuto modo di commentare la vicenda e l'evoluzione del Maxi Processo con Pulvirenti o con altri soggetti del suo gruppo criminale? DICH. MALVAGNA: - Ma io ho appreso che mentre mi trovavo a Catania in una riunione, sentivo parlare il capo decina con Salvatore Santapaola, che avevano già notizie ancora prima che la Cassazione si esprimesse, che il Maxi Processo andava male . ... , io non ricordo le date precise, so che era in quel periodo, alla fine del 1991 .... Sì, c'erano parecchi imputati, c'era anche Santa paola era imputato al Maxi Processo. C'era mi sembra Carletto Campanella e qualche altro, adesso non ricordo. Però non è che se ne parlava soltanto a carattere personale, se ne parlava a carattere generale nell'ambito dell'organizzazione Cosa Nostra, perché loro avevano una... Cioè, era stata una grossa botta quella del Maxi Processo e loro avevano, non lo so, delle informazioni che si sarebbe sistemata la cosa, invece avevano informazioni che... Cioè che andava male. Prima che ancora ci ... Io mi ricordo prima che poi c'è stata la sentenza ufficiale, loro già sapevano che andava male il Maxi Processo, adesso da quale canale lo sapevano non lo so"). [...] In conclusione, dunque, può ritenersi provato che l'originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all'esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del Dott. Carnevale, dell'esito infausto che questo avrebbe avuto) e che fu recepito senza alcuna opposizione all'interno dell'associazione mafiosa "cosa nostra", fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici "storici" della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina. Può, peraltro, già qui anticiparsi che la predetta ricostruzione ha trovato ulteriore definitivo riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all'interno del carcere in cui il predetto era detenuto e di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza (v., soprattutto, intercettazioni del 6, 8, 18, 20, 29 e 31 agosto 2013, 24 e 27 settembre 2013 e 27 ottobre 2013). In sostanza, quel che si vuole qui evidenziare, per le conseguenze che successivamente si trarranno sui fatti oggetto della specifica imputazione di reato che in questa sede è stata esaminata, è che in quella prima fase - e, come si vedrà, sino al giugno 1992 - non v'era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l'assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di "trattare" contropartite di sorta ovvero di subordinare l'inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato. Invero, soltanto la dimostrazione incontenibile ed inarrestabile di forza e violenza da parte dell'associazione mafiosa, nell'ottica di Riina (''fare la guerra per poi fare la pace"), avrebbe costretto lo Stato a adoperarsi per ristabilire una situazione di reciproca non belligeranza, quale quella che per molti anni, se non decenni, sino all'irrompere sulla scena di magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e di altrettanti validi investigatori che li affiancavano (alcuni dei quali ugualmente uccisi come i predetti magistrati: tra i tanti, basti qui ricordare Ninni Cassarà e Beppe Montana), aveva caratterizzato i rapporti nel territorio siciliano (e, spesso, non solo in questo) e segnato l'esito di molti processi conclusisi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxi processo, con sentenze o che negavano addirittura l'esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell'assoluzione per insufficienza di prove. Con le sentenze del maxi processo si evidenziava, dunque, un chiaro indebolimento dell'associazione mafiosa - ed, in primis, quindi, di Salvatore Riina che, come detto, dai primi anni ottanta ne era il capo assoluto ed incontrastato - che non era più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite con i primi, ad "aggiustare" l'esito di quel processo e, conseguentemente, ad ottenere quel risultato che in passato e sino ad allora era stato indice proprio della potenza intimi datrice della mafia, ma anche - e forse soprattutto - della capacità di questa di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e contro-interessi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori). Salvatore Riina non poteva di certo consentire, senza reagire, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership e, quindi, prima ancora della sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l'insoddisfazione del "popolo" di "cosa nostra" ed una reazione di questo nei suoi confronti per non essere riuscito ad ottenere il risultato che aveva garantito fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo, aveva coinvolto i vertici di "cosa nostra" in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, creando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che già avevano approvato quella strategia a non recedere da quella decisione e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di "cosa nostra" in opposizione al "ridimensionato" Salvatore Riina. Ed infatti, già all'indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di "cosa nostra" e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l'esecuzione dell'omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992, a breve distanza di tempo seguito, prima dall' micidio del M.llo Guazzelli e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico (non a caso "voluta" da Riina in Sicilia nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il Dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), quella di Capaci, nella quale vennero uccisi lo "storico nemico n. l'' di "cosa nostra", Giovanni Falcone, la moglie che lo accompagnava e gli uomini della scorta che lo proteggevano. Sui primi due dei ricordati avvenimenti (omicidi Lima e Guazzelli) occorre, però, formulare qualche ulteriore separata considerazione per la rilevanza che essi hanno nell'ambito della costruzione dell'ipotesi accusatoria oggetto di verifica nel presente processo.

Il maxi processo e l'omicidio di Salvo Lima. la Repubblica il 9 agosto 2019. Come appena detto, il 12 marzo 1992 venne ucciso, a Palermo, l'On. Salvo Lima. Su tale omicidio, oggetto, peraltro, nell'originario unico procedimento, anche di una specifica imputazione a carico di Bernardo Provenzano poi, però, stralciata per le condizioni di salute di quest'ultimo imputato che non gli consentivano, all'epoca, la cosciente partecipazione al processo e che successivamente lo hanno condotto alla morte, è stata ugualmente svolta un'ampia istruttoria dibattimentale per la rilevanza che, secondo l'accusa, l'episodio ha avuto nell'evoluzione delle successive vicende che hanno dato luogo alla c.d. "trattativa Stato-mafia". In particolare, sono state acquisite le dichiarazioni di numerosi collaboranti (tra i quali anche alcuni degli esecutori materiali dell'omicidio) ed sono state, altresì, acquisite le sentenze, divenute definitive, con le quali sono stati condannati alcuni esponenti dell'associazione mafiosa "cosa nostra" (tra i quali Salvatore Riina) quali responsabili dell'omicidio in questione (sentenza della Corte di Assise di Palermo nei confronti di Riina Salvatore +31 pronunziata in data 15 luglio 1998; sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo in data 29 marzo 2000; sentenza della Corte di Cassazione in data 27 aprile 200 I; e, successivamente a quest'ultima, sentenze della Corte di Assise di Appello di Palermo del 10 maggio 2002 nei confronti di Madonia Francesco ed altri e del 5maggio 2004 nei confronti di Aglieri Pietro ed altri). Per la ricostruzione del fatto, dunque, può certamente rinviarsi alle predette sentenze definitive, evidenziando soltanto che il primo parziale esito avutosi con la sentenza della Corte di Cassazione del 27 aprile 2001 prima ricordato è stato certamente influenzato dall'assenza di conoscenza di elementi di fatto soltanto successivamente acquisiti grazie ad ulteriori sopravvenute importanti collaborazioni con la Giustizia da parte di altri esponenti mafiosi. Basti pensare, per ciò che rileva in questa sede in relazione alle conclusioni del paragrafo precedente, ad esempio, con riguardo alla mancata prova di una riunione della "commissione provinciale" di Palermo precedente all'omicidio Lima, che tale riunione era stata allora riferita soltanto Brusca Giovanni ed è stata, pertanto, ritenuta non riscontrata nella sentenza della Corte di Cassazione del 27 aprile 2001. Nel ricordato paragrafo precedente, però, si è già dato conto della sopravvenuta collaborazione di Antonino Giuffrè avvenuta dopo il suo arresto in data 16 aprile 2002 e delle dichiarazioni da questi rese in proposito ("lo ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra del dicembre del 91, se la memoria non mi inganna, dove appositamente c'è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e tra cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei Magistrati, quali Falcone e Borsellino. Questo è stato fatto in una famosa riunione del 91, del dicembre del 91. Tanto è vero che poi nel 92 ci sarà l'uccisione di Lima e del dottore Borsellino, del dottore Falcone, eccetera, eccetera. Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano ... Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell'ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell'87, quando c'è stato il cambiamento di rotta, venivano... Erano stati considerati inaffidabili questi politici”). Ma, in ogni caso, anche dalla più riduttiva sentenza della Suprema Corte prima ricordata, ancora per quel che rileva in questa sede, in estrema sintesi, si ricavano, comunque, l'esistenza di risalenti rapporti tra l'organizzazione mafiosa "cosa nostra" e l'On. Lima (v. la citata sentenza della Corte di Cassazione: " ... l'on. Lima, figlio d'uomo d'onore, aveva coltivato legami, per scambio di favori con uomini d'onore, quale esponente rappresentativo del partito di maggioranza in Sicilia, già all'epoca in cui era sindaco di Palermo, e sino alla sua morte, quando era parlamentare europeo ... ") e la riconducibilità dell'omicidio alla stessa "cosa nostra" (ibidem: " ... l'induzione univoca che il delitto sia frutto del concorso di più persone, per ragioni di mafia ... "). Quanto al ruolo della "commissione provinciale", d'altra parte, anche la successiva sentenza pronunziata dalla Corte di Assise di Appello in sede di rinvio il 10 maggio 2002 (divenuta irrevocabile ed acquisita agli atti), sulla scorta di precise risultanze probatorie (nonostante non fosse ancora sopravvenuto l'apporto collaborativo di Giuffrè), ha evidenziato "come in svariati ambienti di cosa nostra si fossero fatti strada, ancor prima della conclusione del maxiprocesso, sentimenti di forte ostilità nei confronti di Lima, circostanza questa che già di per sé porta ad escludere che la decisione di uccidere tale uomo politico possa essere stata il frutto di una autonoma decisione di Salvatore Riina", concludendo che, fermo restando la necessità di individuare le responsabilità individuali dei componenti della "commissione provinciale", la regola che assegnava a quest'ultima la decisione di simili delitti "era, all'epoca del delitto Lima, ancora pienamente attuale". La medesima sentenza, nel contempo, ha confermato anche la causale dell'omicidio in esame nel risentimento nutrito dai mafiosi nei confronti di quell'uomo politico accusato di inerzia riguardo alle aspettative dei mafiosi medesimi. Nel presente processo, quindi, ancora in sintesi, sono stati, innanzitutto, ulteriormente confermati i rapporti tra esponenti di "cosa nostra", tra i quali specificamente Salvatore Riina per il tramite dei cugini Antonino e Ignazio Salvo, e 1'on. Salvo Lima (v. dich. Giovanni Brusca: " ... il contatto con l'onorevole Lima era più quasi esclusiva di Totò Riina ... ...... Sì, attraverso i cugini Salvo ... .... ... il rapporto con i Salvo era privilegiato esclusivamente con Totò Riina .... ... .... i Salvo erano cugini, uomini d'onore. appartenevano alla famiglia di Salemi ed erano autorizzati a poter contattare ... cioè, poter avere rapporti direttamente con Riina senza l'autorizzazione del loro capo famiglia o capo mandamento") e, più in generale, il ruolo di quest'ultimo di "referente" dell'associazione mafiosa per i rapporti di questa con gli ambienti politici. In proposito, oltre alle dichiarazioni dell'imputato Brusca Giovanni, possono ricordarsi le dichiarazioni di Giuffrè Antonino, il quale, pur riferendo di non avere mai personalmente conosciuto l'On. Lima, ha, però, confermato, appunto, che quest'ultimo costituiva il principale referente provinciale dell'organizzazione mafiosa (" .. era il referente ufficiale di Cosa Nostra a livello provinciale. Le posso tranquillamente dire che nel nostro mandamento (PAROLA INCOMPRENSIBILE) era ... Si votava per gli uomini del Riina, per la corrente di Riina ... di Lima. chiedo scusa .... ... ... Quello che mi risulta, a partire da Stefano Bontade. Michele Greco, Salvatore Riina e così via di seguito. Tutti diciamo gli esponenti più importanti di Cosa Nostra. in modo particolare a livello della provincia di Palermo erano in contatto con l'Onorevole Lima .... ... ... .Il referente, per quello che ricordo. diciamo che il principale era lui, faceva parte della corrente di Andreotti, vi erano anche altri personaggi importanti quali i cugini Salvo, Ignazio e Nino Salvo, Vito Ciancimino, questi sono quelli più importanti che mi ricordo. Cioè poi altri personaggi importanti potevano essere Mannino, per ipotesi, sull'agrigentino questi sono i personaggi più importanti che mi ricordo in questo momento"). Contatti addirittura personali, poi, sono stati riferiti sia da Siino Angelo che da Di Carlo Francesco. Il primo, in particolare, nel corso del suo lungo esame, ha, tra l'altro, appunto riferito che nella sua attività concernente la gestione degli appalti per conto di "cosa nostra" egli aveva come referente politico l'Ono Lima ("Debbo dire che anche politicamente sono stato accreditato perché il mio referente politico, che allora era l'Onorevole Salvo Lima, mi disse: tu guarda che da questo momento in poi gestisci gli appalti per conto mio e per conto di altri .. ") e che, per tale ragione, i rapporti si erano via via intensificati e mantenuti sino al suo arresto nei 1991 ("Allora, debbo dire che ho avuto, avevo una (PAROLA INCOMPRENSIBILE) per ragioni politiche la frequentazione con l'Onorevole Lima. Debbo dire che queste frequentazioni politiche che avevano, erano conseguenti al fatto che io ero Consigliere Comunale di San Giuseppe lato per quindici anni all'incirca, con. .. Della Democrazia Cristiana, per questo avevo modo di avere conosciuto sia il Lima e di avere dei rapporti con lo stesso. Debbo dire che immediatamente dopo il mio inizio di collaborazione con la questione degli appalti, debbo dire che questo rapporto si intensificò e io, malgrado il relativo ruolo non di vertice che avevo, sia in Cosa Nostra, sia in politica, praticamente continui ad avere un rapporto più diretto con lo stesso. Rapporto che si è protratto fino al mio primo arresto. Stiamo parlando del luglio 1991... ... . .. avevamo un rapporto che naturalmente anche per la differenza di età lui mi dava dell'Angelo del tu e io lo citavo Onorevole, ci dicevo Onorevole, e questo era il tipo di rapporto. Lui mi diceva spesso e mi sollecitava: evitiamo sta camurria di Onorevole e io ci dicevo ... Insomma, finivo sempre con il chiamarlo Onorevole. Debbo dire che la frequentazione nostra avveniva la mattina presto, nella sua villa di Mandello, era una villa che lui aveva comprato da un mio amico che era perito nella famosa cosa di ... L'aereo che era caduto su Montagna Longa e poi debbo dire che lui mi riceveva nei luoghi più impensati, anche la sua segreteria sita nel grattacielo che c'era in Via Emerico Amari e poi alle volte, quando veniva da Roma, sia tardi che presto, comunque mi doveva, mi diceva che questo rapporto doveva restare riservato perché praticamente si ni sbentano, questo era il suo modo di parlare, che era un modo di parlare molto palermitano, si ni sbentano semu consumati, per cui evidentemente cerca di stare più attento possibile anche nei tuoi interessi, nel tuo interesse. Cioè, mi metteva in guardia che con il fatto che si scopriva questa cosa, saremmo finiti non nei guai, ma nei guai più terribili, in effetti cosa che è successa"), tanto che proprio l'On. Lima gli aveva consegnato una copia del rapporto "mafia e appalti" (" .. io sapevo nei minimi particolari quale era il contenuto del rapporto mafia e appalti e questo rapporto mi fu dato, principalmente dato, proprio materialmente consegnato dall'Onorevole Lima, Lima Salvatore, che praticamente mi disse che gli avevano dato questo rapporto e che praticamente mi disse di stare attento .. ") dopo avergliene parlato per la prima volta circa sei o sette mesi prima del suo arresto (" .. praticamente diciamo un sei mesi - sette mesi prima ho avuto conoscenza di questo rapporto e se non mi sbaglio uno dei primi che me lo mostrò, e non so se fu il primo, è stato l'Onorevole Lima, che prima mi avvisò verbalmente e poi mi disse stai attento ca viri ca sti sventaru. La sventata era il fatto che avevano potuto sapere di quella che era la mia attività nel settore degli appalti, che però io capii che c'era del dolo quando ho capito che c'era notizia di questa mia attività nel settore degli appalti, ma non c'era effettiva notizia di quel che era il settore degli appalti in Sicilia, che era veramente una cosa enorme ... "). Di Carlo Francesco, invece, ha raccontato di avere conosciuto Salvo Lima sin dagli anni sessanta (".. L'Onorevoie Lima ... Ci sono stati, tante volte a Palermo, tante volte a Roma, molte volte c'è stato Nino Salvo di presenza e … Frequentazioni, non ero la persona che andava a chiedere posti di lavoro o chiedere ... Così, va bene. Forse per questo mi frequentavo di più, perché non ho chiesto mai, solo ... Anzi, lui mi ha chiesto una volta un piacere, perché non so se era suo figlio o era figlio del fratello, no, il figlio del fratello era, che ha voluto aprire un laboratorio, era medico, giovanissimo, ad Altofonte, e allora la prima cosa che ha fatto, fammelo sapere, ci siamo incontrati, ti raccomando stu ragazzo. E ha aperto, ma poi è stato un anno e se ne è andato... '" ... L'Onorevoie Lima l'ho conosciuto quando era già a Palermo, l'ultimo periodo, che era Sindaco, credo che era l'ultimo anno, poi è diventato parlamentare. L'ho conosciuto non mi ricordo in quale occasione, però l'ho conosciuto. Non so se è stato Nino Salvo o Ignazio Salvo a presentarmelo ... '" ... Anni 60") e che, da allora, lo aveva molte volte incontrato presso il suo ufficio ricevendo sempre un trattamento di riguardo (" .. da Lima c'era sempre una sala d'aspetto che aspettavano tutti, quello che non aspettava ero io, basta che ci facevo sapere, subito mi faceva entrare. C'era un professore che ci faceva da segretario che mi conosceva, non mi ricordo come si chiamasse, e entravo .. ").

Tra i tanti incontri, Di Carlo, inoltre, ha ricordato di avere partecipato nel 1980 ad una riunione nell'ufficio dell 'On. Lima a Roma (" .. è stato nell'80, a fine 80, che c'è stata una riunione e io ero nell'ufficio di Lima a Roma intendo .. ") cui erano presenti, tra gli altri, il Gen. Santovito, l'Avv. Guarrasi e Nino Salvo. Giuffrè Antonino, quindi, ha riferito l'insoddisfazione che montava sempre più nell'ambito di "cosa nostra" per il più recente operato dell 'On. Lima, tanto che già alcuni mesi prima della riunione della Commissione del dicembre 1991, nella quale, poi, Riina avrebbe ufficialmente comunicato la decisione di uccidere, tra gli altri, anche Salvo Lima, egli era stato informato da Bernardo Provenzano di quell'intendimento (v. dich. Giuffrè: "Diciamo che i primi discorsi, come è venuto fuori ieri, sono stati in un periodo anche antecedente al dicembre del 91, del discorso in seno alla Commissione. Diciamo che con Bernardo Provenzano, come è stato io magari non mi ricordavo, è venuto fuori nel discorso di ieri già con il Provenzano e antecedente a questa data mi aveva detto che prima o poi doveva essere eliminato il Lima. Ora, cioè, non mi vado a ricordare se sia il 90, se sia il 91, quando è stato questo non lo so. Dice: prima o poi va a sbattere e ci rompemu i corna. Chiedo scusa per il termine che è un pochino brutale, che dico. 11 tutto poi diciamo si è enunciato sempre in quella riunione di cui abbiamo parlato, dal dicembre del 91, sulla resa dei conti, dove l'Onorevole Lima, l'Onorevole Andò e l'Onorevole Mannino e l'Onorevole Vizzini, questi sono i nomi che io mi vado a ricordare, e in più Falcone, il dottore Falcone e il dottore Borsellino, in quella data di cui ho detto, nel dicembre del 91... ... . .. Antecedentemente alla riunione del 91, non ho un ricordo preciso di un discorso antecedentemente al 91. Probabilmente che vi sono stati anche altri discorsi in precedenza che andavano ad interessare sempre altri soggetti... ... ... sto parlando di discorsi nell'ambito della commissione o anche di riunioni ristretto in seno a Cosa Nostra, e in modo particolare quando parlo di questo, parlo sempre della presenza di Salvatore Riina. Se non vado errato, anche in altre circostanze, in altre circostanze, ora non mi vado a ricordare se sia un discorso a livello di commissione completa o se riunioni ristrette o meno, si è parlato sempre, o per meglio dire ha parlato il Salvatore Riina di questo malcontento, di questo malessere e dell'eliminazione di questi soggetti, tra cui Lima, il dottore Falcone e il dottore Borsellino. Se la memoria non mi inganna, c'è stata qualche altra occasione in cui con il Riina si è parlato di questo ... ... ... Diciamo che le posso tranquillamente dire che Lima ormai nel periodo di cui io ne posso parlare, dall'87, 88, 89, 90, cioè in modo cioè ne ho detto anche in particolare sul finire degli anni 80, per meglio dire, motivi che si era defilato, le ho detto anche i motivi che se ne è andato, si era portato alle europee, aveva abbandonato. Cioè, già diciamo che c'erano dei discorsi non solo per quanto riguarda il Provenzano, ma discorsi all'interno di Cosa Nostra, che già era considerato come un traditore per avere abbandonato quelli che erano gli interessi di Cosa Nostra. E già, cioè, questo discorso su Lima mi viene fatto, come ho detto, però non sono in grado di andare a quantificare se sia stato sei mesi, otto mesi o nove mesi prima del discorso ... Se ne parlava all'interno di Cosa Nostra e me ne aveva parlato anche il Provenzano sui discorsi di Lima e che prima o poi doveva essere ... Andava a sbattere perché veniva ad essere ucciso. Ma era un discorso che ormai diciamo all'interno di Cosa Nostra era ... Era questione di tempo ... "). La decisione di uccidere I 'On. Lima, infine, matura alla vigilia della sentenza della Corte di Cassazione nel c.d. maxi processo, quando è ormai chiaro, con la sostituzione del Presidente Carnevale, che l'esito sarebbe stato negativo per i mafiosi (v. dich. Brusca: " ..... si poteva salvare se l'onorevole Lima avrebbe portato un risultato positivo per Cosa Nostra .... "). Tale causale è stata, altresì, confermata anche In questo processo da due esponenti mafiosi particolarmente vicini ai "corleonesi". Ci si intende riferire a Di Matteo Mario Santo, il quale, pur precisando di non sapere nulla del fatto materiale, non ha avuto il minimo dubbio nel ricollegare tanto l'uccisione dell'On. Lima, quanto quella successiva di Ignazio Salvo, al mancato interessamento degli stessi affinché nel giudizio di cassazione le condanne dei mafiosi fossero annullate (" ... perché non si interessavano del Maxi Processo, c'è stato pure questo, non c'era interessamento sul Maxi Processo … ... . ... Si dovevano interessare sul Maxi Processo per non fare condannare diciamo le persone, su questo era. .. Invece non hanno fatto niente .. "); e a Gioacchino La Barbera, il quale ugualmente ha richiamato la medesima causale ("Le motivazioni erano appunto la sentenza che c'era stata in Cassazione nel 91, dove avevano confermato il teorema Buscetta, confermate le condanne e da allora si è partiti con questa strategia ... .. .... Come esito, c'era sempre ottimismo, almeno quello che si diceva per non mettere paura alle persone che erano già state condannate o quelle che erano in attesa di giudizio, c'era ottimismo nell'aria, però in realtà, perché forse qualcuno aveva promesso che andava meglio, ma poi le cose sono andate male e allora si è incominciato con questo tipo di strategia ... "). Ancora nel presente processo, una indiretta conferma della riconducibilità dell'omicidio Lima al volere della "commissione" per le ragioni prima esposte si trae dalle dichiarazioni di Tranchina Fabio, dalle quali è possibile, infatti, ricavare il coinvolgimento conoscitivo - e, quindi, decisionale stante l'importante ruolo ricoperto nell'ambito della "commissione" provinciale – di Giuseppe Graviano (v. dich. Tranchina: "Per quanto riguarda l'omicidio Lima, come ho anche dichiarato durante gli interrogatori, quando ci fu l'omicidio Lima Giuseppe Graviano mi disse espressamente di non andare nella zona di Mondello .... ... ... Prima, prima .... ... .. ma sarà stato qualche giorno prima, una settimana prima, mi disse: "Non andare nella zona di Mondello in questo periodo " ... ... ... non mi ricordo se me lo disse tre, quattro, cinque giorni prima, nel momento in cui ci fu l'omicidio tutti i capimmo che il motivo era questo di qua, che non dovevamo recarci nella zona di Mondello").

Un delitto eccellente raccontato dai killer. La Repubblica il 10 agosto 2019. Sono state raccolte, infine, le dichiarazioni di uno degli esecutori materiali dell'omicidio Lima, quelle di Onorato Francesco che è bene riportare qui di seguito a conferma del pieno coinvolgimento di un'ampia rappresentanza delle "famiglie" mafiose palermitane appartenenti anche a diversi "mandamenti" di modo da elidere qualsiasi dubbio sulla riconducibilità del mandato omicidiario al solo organismo, la "commissione provinciale", nel quale poteva concretizzarsi e formalizzarsi quella decisione unitaria. Onorato Francesco, infatti, ha, tra l'altro, raccontato all'udienza del 7 novembre 2013 nella quale è stato esaminato in qualità di testimone assistito ex art. 197 bis C.p.p., riguardo ai fatti che qui più direttamente rilevano ai fini della disamina dell'omicidio Lima nel contesto dei reati oggetto del presente processo: [...]

- che, tra i tanti delitti commessi, avrebbe dovuto partecipare anche al tentativo di omicidio del Commissario Germanà su incarico di Salvatore Biondino, ma che poi non vi aveva preso parte perché impegnato nella ricerca di Salvatore Contorno [...];

- che, in quel periodo, oltre al Commissario Germanà "cosa nostra" progettava l'uccisione di molte altre persone, o perché davano "fastidio" all'organizzazione ovvero perché, dopo la sentenza del maxi processo, le avevano voltato le spalle [...];

- che, in particolare, vi era una lista di persone che avrebbero dovuto essere uccise, tra in quali l'On. Vizzini, l'On. Mannino e l'On. Lima, l'On. Andreotti, i cugini Salvo, l'On. Martelli ed altri come riferitogli da Salvatore Biondino che faceva da emissario degli ordini di Salvatore Riina e della "commissione" ("Allora, c'era tutta una lista che si dovevano fare ammazzare. A parte, se avesse avuto possibilità, Totò Riina li avesse ammazzati a tutti, diceva sempre così Salvatore Biondino e Salvatore Riina, che se avessero avuto possibilità, li avesse ammazzati a tutti i politici per quello che era successo, per la sentenza andata male del Maxi Processo. Però c'era una lista prioritaria di uccidere il Commissario Germanà, l'Onorevole Vizzini, Calogero Vizzini, era nella lista, di cui io ho fatto pure le dichiarazioni quando ho collaborato, che si pedinava, ma era un po' difficile perché c'era l'elicottero che la mattina lo veniva a prendere .... ... ... Mannino, Calogero Mannino doveva essere ucciso, che prima se ne parlava bene. Di questo ne ho parlato pure quando ho collaborato, il Ministro Calogero Vizzini. Salvo Lima era il primo della lista ....... ... la fonte è Salvatore Biondino, di cui è ambasciatore della Commissione ... ...... Il ruolo di Salvatore Biondino, nel 92 è capo mandamento e anche membro della Commissione, faceva parte della Commissione, e coordinatore di Commissione, perché lui coordinava pure la Commissione, lui mandava pure gli appuntamenti anche per coordinare la Commissione ... ... ... Queste sono cose che Salvatore Biondino mi ha detto di fare e ho fatto. Dopo il 92, Salvatore Biondino riveste la carica sia come coordinatore. ma sia anche come capo mandamento e sia come regista. come regista di tutto quello che deve succedere in Cosa Nostra. Salvatore c'ha una lista di tutti quelli che devono essere ammazzati e diceva pure che se avesse possibilità li avesse ammazzati a tutti i politici dopo la sentenza di Cassazione. lo mi ricordo che si doveva fare l'omicidio Vizzini. Mi ricordo che si doveva fare... Ma direttamente. io parlo direttamente con Salvatore Biondino ... .... ... Prima Totò Riina. detto da Salvatore Biondino. Totò Riina voleva ammazzato subito a Salvo Lima con il figlio se c'era possibilità e Andreotti con il figlio. questi erano i primi che dovevano morire e infatti è stato il primo Salvo Lima .... ....... Per quanto riguarda Mannino. si deve uccidere. Intanto quello che ... Non è che si possono uccidere tutti in un giorno. perché poi ci vuole pure ... Ma man mano c'era questa lista di uccidere queste persone che... Si dovevano uccidere i Salvo. i cugini Salvo. si dovevano uccidere Andreotti. si doveva uccidere Martelli. Martelli. perché l'avevano pure con Martelli in quanto Martelli era stato. insieme con Craxi, insieme con Craxi e si parlava pure di Gardini. ai tempi che c'era Gardini. ai tempi che c'era Ferruzzi. tutte persone che si interessavano per Cosa Nostra stiamo parlando. Craxi … Martelli l'abbiamo fatto diventare noi Ministro di Grazia e Giustizia. Perché Buscemi Antonino della famiglia di Passo di Rigano. aveva nelle mani queste persone. come Ferruzzi. Craxi. Martelli. Lui aveva detto a noi. che abbiamo pure finanziato con duecento milioni di lire. noi come famiglia di Partanna Mondello abbiamo uscito duecento milioni di lire per finanziare il Martelli e portarlo nell'88.. anni 88... a farlo diventare Ministro di Grazia e Giustizia. Dove che ci diceva che poi si è avverata la realtà perché quello che ha detto si è mantenuto che piano piano faceva uscire i mafiosi tutti con gli arresti domiciliari o arresti ospedalieri. che il carcere non se ne faceva nessuno. Questa è una cosa che io ho vissuto personalmente. che ho finanziato dalla cassa di Partanna Mondello. abbiamo dato i voti. Ed era pure nella lista di ucciderlo ... ... ...Perché poi non lo so, ma io so solo che all'indomani del Maxi Processo ci sono... lo gli ho detto che Riina diceva sempre, e Salvatore Biondino, che se c'era possibilità li voleva ammazzare a tutti, a tutti i politici. Ma sa perché Riina accusa sempre lo Stato? Perché Riina in ogni intervista, ogni volta che si fa intervistare nella televisione, dice sempre lo Stato, lo Stato, lo Stato? Perché sa lui benissimo come sono andate le cose. Non è perché accusa lo Stato ... Perché accusa lo Stato perché lui sta pagando il conto e lo Stato non sta pagando niente. Scusi se ... Per questo motivo Riina accusa sempre lo Stato. Non è che l'accusa perché è una cosa che si (PAROLA INCOMPRENSIBILE). Ha ragione di accusare lo Stato. lo dico ogni volta che vedo Riina che accusa lo Stato, accusa tuffi, Violante, accusa questo, accusa quello, accusa lo Stato, lo Stato che manovra, che fa, che dice, ha ragione ...... . ... Sono a conoscenza che io ho fatto venti anni di Cosa Nostra e in venti anni di Cosa Nostra è sempre stato risaputo, sentito e ho vissuto tante di quelle cose che ... Non è che c'è ... Quando si parla di trattativa con lo Stato, io dico la trattativa, ma che trattativa, se c'è stata sempre una convivenza. lo ho sempre visto la convivenza tra i politici e Cosa Nostra. Dove è sta trattativa, se c'è stata sempre la convivenza?");

- che il risentimento verso i politici era tale che si intendeva uccidere anche i figli di Lima e Andreotti e lo stesso Onorato era stato rimproverato perché non aveva ucciso anche coloro che accompagnavano Lima [...];

- che l'incarico di uccidere Lima gli era stato dato qualche settimana prima, dopo che il medesimo Lima non si era presentato ad un appuntamento datogli per discutere dell'esito del maxi processo ("lo dopo la sentenza del maxi processo c'è stato subito che avevano dato ... Mi diceva Salvatore Biondino che avevano dato l'appuntamento a Salvo Lima e che lui aveva fatto buca, non si era presentato. Ma non solo Salvo Lima, anche queste persone che io ho parlato … Di politici, di politici, di tanti politici che sono stati fissati degli appuntamenti e che non si sono neanche presentati .... .. , .... L'appuntamento, l'appuntamento per parlare. Salvo Lima era stato, ricordo che era stato fissato un appuntamento, mi diceva Salvatore Biondino, e che non si è presentato. E allora questo era diventato pericoloso, questa cosa che lui non si era presentato, ecco perché c'era la fretta di uccidere Salvo Lima. Perché quando una persona, se ci dai un appuntamento e non si presenta, si ci va subito a sparare, anche in Cosa Nostra tra uomini d'onore era così, perché certamente se non si presenta vuoi dire che ha capito qualcosa ....... .... Per quanto riguardava questa sconfitta che si era avuta per il maxi processo. Poi invece si decide subito di prendere e ammazzarlo .... ... ... Sto parlando io febbraio ... ... ... A me mi ha detto che l'appuntamento era stato dato a Lima con altri politici, però mi ha detto di Lima ... ... ... Alla Perla del Golfo, alla Perla del Golfo qualche mese prima, e insieme all'Avvocato Ponte, c'era l'Avvocato Ponte che era il proprietario e socio di Salvo Lima, dove che questo Avvocato Ponte aveva dei buoni rapporti con Salvatore Biondino, con Salvatore Riina, anche con un certo D'Anna, che faceva parte del mandamento di Terrasini, uomo d'onore della famiglia di Terrasini, aveva un appuntamento in questo residence. Parlo del mese di febbraio. Non sono venuti all'appuntamento dove è che lui era rassicurato dall'amicizia di questo proprietario Ponte, si chiamava"); […].

Sono state acquisite anche le dichiarazioni di un altro degli esecutori materiali dell'omicidio Lima, Giovan Battista Ferrante. In particolare, esaminato all'udienza del 7 novembre 2013 nella qualità di testimone assistito ai sensi dell'articolo 197 bis c.p.p., quanto all'omicidio dell'On. Salvo Lima, il predetto collaborante ha riferito che era stato Salvatore Biondino a comunicargli, almeno dieci o quindici giorni prima dell'omicidio stesso, la decisione di uccidere l'On. Lima, che, poiché egli non lo conosceva, lo stesso Biondino o Salvatore Biondo gli avevano descritto come una persona che "ha i capelli di colore bianco, sembra una lampadina accesa, ha i capelli come quelli di Mariano Tullio Troia, quindi bianco candido". Secondo Ferrante, tale omicidio si inseriva in un più generale programma di omicidi di soggetti nei cui confronti l'associazione mafiosa "cosa nostra" intendeva ''pulirsi i piedi", affermazione questa utilizzata proprio da Biondino Salvatore prima dell'omicidio Lima in occasione di una delle tante riunioni, probabilmente anche alla presenza di Salvatore Biondo "il corto", con riferimento al programma di "cosa nostra" di uccidere quei politici che avevano fatto promesse all'associazione mafiosa e non le avevano mantenute[...]. In questo programma rientrava appunto l'omicidio dell'onorevole Lima che poiché doveva avvenire nel territorio del mandamento di San Lorenzo doveva essere organizzato da Salvatore Biondino ed eseguito anche dal Ferrante (e da altri del "mandamento" predetto), avvertito di ciò, come già detto, dieci o quindici giorni prima, poiché c'era da eseguire alcuni pedinamenti del politico ("P.M:- Le faccio una domanda: lei quando è che fil coinvolto per la prima volta, (FUORI MICROFONO) il suo coinvolgimento in questo episodio? DICH. FERRANTE: - Ma guardi, non ricordo con esattezza se è stato almeno dieci - quindici giorni prima, perché c'è stato un periodo che appunto si doveva pedinare l'Onorevole Salvo Lima e io a dire il vero non lo conoscevo personalmente"). Indi, Ferrante ha sinteticamente esposto le modalità dell'omicidio dell'On. Lima, per le quali si rinvia alle sentenze già prima ricordate. In ogni caso, incaricati materialmente dell'omicidio erano stati, oltre a Ferrante Giovan Battista, Salvatore Biondino e Salvatore Biondo, anche Simone Scalici, Onorato Francesco e D'Angelo Giovanni. Era stato Salvatore Biondino, poi, ad indicare l'abitazione e la vettura del politico, una Mercedes amaranto che in realtà si appurò veniva utilizzata dal figlio, circostanza questa che aveva fatto perdere un po' di tempo.

Il giorno dell'omicidio Giovanni D'Angelo aveva guidato la motocicletta con Francesco Onorato a bordo, entrambi muniti di casco, il Ferrante aveva osservato da Monte Pellegrino con un binocolo l'arrivo della vettura con l'autista che prelevava l'onorevole ed aveva avvisato D'Angelo, mentre Biondo, Biondino e Scalici avevano, poi, con le autovetture prelevato D'Angelo e Onorato dopo l'esecuzione (" .. all'inizio, ripeto, si parlava di farlo con un'auto, adesso non ricordo i dettagli. Successivamente poi si è optato per una moto, perché Giovanni D'Angelo sapeva guidare abbastanza bene la moto e Francesco Onorato stava dietro. lo ho avvisato il Giovanni D'Angelo e Salvatore Biondino e Simone Scalici e Salvatore Biondo dovevano prendere diciamo, sia Salvatore... Sia, scusi, l'Onorato che il Giovanni D'Angelo e successivamente praticamente ... Cioè dopo l'omicidio avvenuto, dovevano credo caricare uno dei due ... Il Simone Scalici forse l'Onorato o Giovanni D'Angelo, adesso non ricordo con precisione . ... P. M.: - Lei dove era posizionato? DICH. FERRANTE: ... non ricordo con esattezza ... Diciamo visivamente non ricordo i luoghi con esattezza. Se non mi sbaglio, sopra Monte Pellegrino, ... perché dovevo vedere credo l'auto che uscisse diciamo da casa del Lima, quindi credo che mi sono posizionato, diciamo, sopra ... Al Monte Pellegrino . ... per vedere praticamente l'auto quando arrivava o quando usciva, perché credo che poi veniva un autista a prenderlo. ... Credo che avevo un binocolo che poi ho lasciato forse direttamente lì . ... Nella moto c'era Giovanni D'Angelo che guidava e Francesco Onorato che stava dietro . ... credo che avevano entrambi i caschi. "). Ferrante ha aggiunto che allorché Biondino Salvatore ebbe a comunicare la decisione di eliminare l'On. Lima, aveva anche raccomandato di non parlarne con nessuno poiché, data la caratura politica del politico, la reazione delle Istituzioni sarebbe stata certamente forte ("La raccomandazione credo che sia stata quella chiaramente di non parlare con nessuno, di non dire troppo in giro, anzi di cercare di tenere il più possibile riservato questo perché con l'uccisione di Lima sicuramente sarebbe successo qualcosa di eclatante, perché Lima era un euro parlamentare, quindi non era con tizio qualsiasi. ... Perché sarebbe successo qualcosa di sicuramente eclatante, polizia e Carabinieri si sarebbero sicuramente mossi, ricordo qualcosa del genere.") Sollecitato poi il ricordo del collaboratore con apposita contestazione, Ferrante ha confermato di avere avanzato a Biondino Salvatore, cosa mai fatta in precedenza, alla presenza di Biondo Salvatore, le proprie perplessità sulla decisione di uccidere l'onorevole Lima, perplessità rispetto alle quali il Biondino rappresentò la necessità procedere alla esecuzione di quanto deciso al fine di fare capire a chi li aveva presi in giro di adeguarsi ("P. M.,' - Senta, dopo l'omicidio, lei ebbe... Dopo anche alcuni giorni l'omicidio, ebbe poi ad incontrare Biondino Salvatore per commentare questo episodio? DICH. FERRANTE " - Guardi, Biondino Salvatore, con Biondino Salvatore ci si incontrava diciamo spesso, quasi giornalmente, non ricordo di avere avuto diciamo, successivamente di averne parlato o in quale occasione o perché, non ricordo adesso. P. M.: - Non ricorda. E allora procedo ad una contestazione dal medesimo verbale, pagina /08 per le difese. A domanda del Pubblico Ministero: dopo il /2 di marzo del 92 incontra più nessuno dei suoi correi? È il signor Ferrante a rispondere: va bene, i miei correi, come le ho detto con Salvatore Biondino e Salvatore Biondo ci vedevamo molto spesso. Lo stesso giorno credo di no, ma diciamo qualche giorno dopo ci siamo rivisti e contrariamente diciamo alle mie abitudini, ho chiesto se era stata una mossa intelligente quella di fare l'omicidio dell'Onorevole Lima. Ricorda questa circostanza? DICH. FERRANTE : - Adesso no, però quello che ho detto sì, ricordo ... Non ricordo i dettagli, ecco, la verità è quella, non ricordo i dettagli, però chiaramente quello che ho riferito parecchi anni fa (FUORI MICROFONO) è molto più preciso rispetto a quello che ricordo adesso. P. M.: - Senta, non ricorda quindi questa sollecitazione che ebbe a fare? Questa interlocuzione con il Biondino sull'opportunità di uccidere l'onorevole Lima? Che peraltro qua nel verbale dice contro le sue abitudini. DICH. FERRANTE: - Non ricordo questi dettagli. . .. P. M .: - E allora procedo ad una contestazione, alla luce di questo. Nello stesso verbale, pagina /09: non sarebbero stati con le mani in mano, a quel punto Salvatore Biondino mi disse che praticamente era una cosa che si doveva, che si doveva fare. Gli chiedo il perché, dice perché praticamente così la smettono, dice così gli facciamo capire noi il discorso come deve andare, perché ci hanno preso in giro, adesso così la smettono. DICH. FERRANTE: - No, no, no, ricordo praticamente questa frase, però non ricordando appunto se poteva essere fatta una frase che era stata detta successivamente all'omicidio, o precedentemente, diciamo, all'omicidio, quando appunto si parlava che ognuno doveva pulirsi i piedi e quindi ... Cioè, potevo immaginare che era stata fatta prima o dopo, ma adesso in sintesi quello che mi è stato contestato, non ricordo ... Lo ricordo, sì, sì, è stato detto"). Per mera completezza, sia pure in presenza delle già ricordate perplessità conseguenti al suo percorso collaborativo, vanno, infine, citate anche le dichiarazioni rese da Maurizio Avola, il quale, riferendo il punto di vista delle cosche catanesi di cui egli faceva parte, ha, a sua volta, confermato che Salvo Lima era stata uno delle prime vittime della nuova strategia voluta dai "corleonesi" ("Ricordo che hanno cominciato ad uccidere ... Mi sembra che era Salvo Lima uno dei prima a cadere sotto sta strategia . ... Era diciamo un uomo di Andreotti. . .. Era quello stesso periodo che si dovevano toccare anche i socialisti, stiamo parlando di 92"), tanto che D'Agata, apprendendo di tale omicidio, aveva commentato, appunto, che i corleonesi avevano dato inizio a quella strategia ("i corleonesi ci misiru mani ... .... i corleonesi hanno messo mano al/a strategia"). Dalle suddette risultanze, dunque, per ciò che rileva in questa sede essendo stato stralciata la relativa contestazione di reato formulata a carico del solo Bernardo Provenzano e residuando soltanto l'aspetto dell'antecedente fattuale rispetto alle vicende più propriamente riconducibili alle imputazioni formulate, può trarsi, in fatto, la conclusione probatoria che l'omicidio dell'On. Lima è stato voluto da Salvatore Riina, con decisione ratificata dalla "commissione provinciale di cosa nostra", nell'ambito della strategia con la quale, da un lato, si intendeva "punire" una serie di soggetti ritenuti "vicini" all'associazione mafiosa o che comunque, a vario titolo, avevano beneficiato del suo operato e che, però, non erano riusciti ad ottenere il risultato dell'«aggiustamento» del maxi processo sul quale lo stesso Salvatore Riina si era fortemente impegnato nei confronti dei sodali, e, dall'altro, nel contempo, ci si voleva vendicare di alcuni magistrati che storicamente avevano assunto il ruolo di "nemici" proprio in quanto artefici di quel maxi processo che per la prima volta aveva prodotto il riconoscimento definitivo di "cosa nostra" e delle sue regole e le molteplici condanne all'ergastolo dei suoi capi.

La grande paura e l'inizio della Trattativa. La Repubblica l'11 agosto 2019. L'omicidio dell'On. Salvo Lima eseguito il 12 marzo 1992 ha certamente destato grandi preoccupazioni sia nell'ambito delle Istituzioni sia in alcuni soggetti, principalmente colleghi di partito dell'On. Lima (v. dich. della figlia di quest'ultimo, Susanna Lima all'udienza del 24 ottobre 2013: " ... erano tutti preoccupati, anche perché era un evento che non si aspettava nessuno, non era atteso, almeno così io avevo percepito ... ..... preoccupazioni che non sapevano che cosa stava succedendo, perché non si aspettavano... Si era in piena campagna elettorale, non si aspettavano nulla del genere .. "), che concretamente percepirono, a quel punto, il pericolo di potere essere a loro volta vittime di "punizioni" o vendette mafiose. Degli allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell'Interno Scotti nei giorni successivi all'omicidio Lima si dirà più avanti. Qui ci si intende concentrare, invece, sui timori che il predetto omicidio ebbe a suscitare in uno dei più importanti esponenti della politica siciliana dell'epoca, l'On. Calogero Mannino, appartenente al medesimo partito dell'On. Lima, la Democrazia Cristiana, ed allora, peraltro, Ministro in carica nel Governo presieduto dall'On. Andreotti. Nell'ipotesi accusatoria oggetto di verifica in questa sede, infatti, è l'On. Mannino che, manifestando il timore di essere ucciso così come era avvenuto per l'On. Lima, sollecita alcuni Ufficiali dell'Arma dei Carabinieri ad adottare iniziative che potessero salvargli la vita, ponendo, quindi, le basi per quella che oggi mediaticamente viene definita "trattativa Stato-mafia" (v. capo di imputazione con quale si contesta, appunto, al Mannino di avere contattato "a cominciare dai primi mesi del 1992, esponenti degli apparati info-investigativi al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a "Cosa Nostra" ed aprire la sopra menzionata "trattativa" con i vertici dell'organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di "Cosa Nostra" per far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista, già avviata con l'omicidio dell'on. Salvo Lima, e che aveva inizialmente previsto l'eliminazione, tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra cui egli stesso Mannino").

Prima di esaminare le risultanze acquisite nel presente processo, appaiono, però, opportune alcune precisazioni.

L 'On. Calogero Mannino era originariamente coimputato per il concorso nel reato di minaccia a Corpo politico nel medesimo procedimento che ha dato luogo al presente processo. Il predetto imputato, però, a differenza degli altri imputati, in sede di udienza preliminare, ha richiesto il giudizio abbreviato e, pertanto, il relativo procedimento è stato separato e si è concluso, in primo grado, con la sentenza di assoluzione pronunziata dal Giudice per l'Udienza Preliminare in data 4 novembre 2015 (non ancora irrevocabile, essendo in corso il processo di appello promosso dal P.M.).

Esula, dunque, dal presente processo l'esame del ruolo che l'On. Mannino avrebbe avuto, in relazione alla fattispecie di reato contestata agli altri imputati del reato di cui al capo A) della rubrica, non soltanto quale "promotore" della c.d. "trattativa Stato-mafia" (v. condotta sopra già ricordata), ma, altresì, in un momento successivo anche per avere esercitato "in relazione alle richieste di "Cosa Nostra", indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all'art. 41 bis ord. Pen.", così "agevolando lo sviluppo della "trattativa" Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando il proposito criminoso di "Cosa Nostra" di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista" (v. capo imputazione nella parte concernente Calogero Mannino). In questa sede la condotta dell'On. Mannino sarà, dunque, esaminata solo ed esclusivamente quale ulteriore eventuale antecedente fattuale della c.d. "trattativa Stato-mafia", che, d'altra parte, come è stato già sopra ricordato (ma è bene sempre ribadirlo), non configura in sé il reato oggetto di esame nel presente processo. Invero, la condotta che rileva ai fini della responsabilità penale da verificare in questo processo in relazione alla contestazione della fattispecie criminosa prevista dall'art. 338 c.p. non è minimamente quella di colui che eventualmente abbia per propri fini (investigativi o personali) cercato contatti diretti o indiretti con la mafia e neppure quella di colui che, in ipotesi, tali contatti abbia coltivato per il fine di ottenere la cessazione, senza condizioni, di quella nuova strategia mafiosa che già l'omicidio dell'On. Lima lasciava intravedere e prevedere. La condotta penale qui da accertare, infatti, è solo ed esclusivamente quella consistente nelle minacce rivolte eventualmente dai mafiosi nei confronti del Governo della Repubblica per ottenere determinati benefici e, ancora eventualmente, quindi, nell'intervento di terzi che prima abbiano stimolato l'iniziativa dei vertici mafiosi rafforzandone il proposito criminoso e, successivamente, si siano fatti carico anche di "recapitare" le minacce (o, quanto meno, di agevolare tale recapito al destinatario) così consentendo ai mafiosi il raggiungimento del loro scopo. Messo da parte il giudizio etico che non compete a questa Corte, resta, pertanto, certamente al di fuori del perimetro penale come sopra in sintesi delineato l'iniziale intervento sollecitatorio di possibili contatti con i vertici mafiosi finalizzati alla propria esclusione, quale vittima, dal programma criminoso omicidiario già adottato (prima parte della condotta del Mannino descritta nel capo di imputazione). Se così è - e, comunque, ciò è quello che ritiene questa Corte -, non può esservi allora alcuna interferenza con il separato giudizio ancora pendente, per il medesimo reato, a carico di Calogero Mannino, se non con riferimento ad una fase successiva della vicenda, quella delle "pressioni", di cui ha riferito il teste Cristella, che Mannino avrebbe fatto sul Dott. Di Maggio in relazione alla questione del 41 bis. Ma di ciò si parlerà più avanti esaminando la predetta testimonianza e le altre risultanze probatorie concernenti le vicende del 1993.

Ciò premesso, tornando temporalmente alla prima metà dell 'anno 1992, possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l'uccisione di Salvo Lima, di subire anch'egli la punizione o la vendetta di "cosa nostra" per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima (l'<<aggiustamento>> del maxi processo) o quanto meno per avere voltato le spalle a "cosa nostra" nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti, che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell'associazione mafiosa (l'On. Mannino, infatti, per tale ragione, pur a fronte di comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti, è stato assolto dal reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa: v. sentenze prodotte in atti dal P.M. all'udienza del 22 settembre 2017), apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona "convivenza"; quanto il conseguente intervento del medesimo Calogero Mannino nei confronti di alcuni Ufficiali dell'Arma coi quali era in stretti rapporti affinché verificassero (ed eventualmente ovviassero a) quel pericolo che gli appariva estremamente immanente ed imminente.

La crocifissione di Mannino iniziò da Funari: l’orrore dei processi in tv. Francesco Damato il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. La trattativa stato mafia e i 25 anni di stato incivile. Assolto lui dopo 25 anni ora toccherà probabilmente a tutti gli altri visto che il teorema è caduto. Il pur notevole e assorbente aspetto giudiziario mi sembra addirittura inferiore, per un paradosso imposto dai nostri tristissimi tempi, all’aspetto politico e morale dell’assoluzione che si è guadagnata anche in appello, col cosiddetto rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino per la cosiddetta “trattativa” fra lo Stato e la mafia. Che è costata invece pesanti condanne in primo grado, col cosiddetto rito ordinario, ad un lungo e assai eterogeneo elenco di imputati, fra i quali si confondono servitori e sabotatori dello Stato, di ogni ordine e grado. E che – mi sembra- sarà francamente difficile confermare in appello, almeno per tutti, proprio alla luce della seconda assoluzione di Mannino. Dalle cui preoccupazioni per le minacce di morte lanciategli, non certo per gratitudine, dalla mafia sarebbero cominciate e si sarebbero poi sviluppate, secondo gli inquirenti palermitani, le trattative per bloccare o quanto meno rallentare la stagione delle stragi. Che era stata avviata dai mafio-terroristi – perché altro non saprei definirli- con l’assassinio per strada dell’allora luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima, la strage di Capaci, costata la vita al magistrato Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, la strage di via D’Amelio, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e all’intera scorta, e proseguita con altre imprese di sangue e paura un po’ in tutta Italia. Fu una stagione, quella, che peraltro s’incrociò con l’altra, giudiziaria e politica, per la demolizione della cosiddetta prima Repubblica e finì per influenzare nella primavera del 1992, a Camere appena elette con le elezioni del 5 aprile, la successione a Francesco Cossiga al Quirinale e, di conseguenza, i successivi sviluppi della situazione politica: compreso il rifiuto del nuovo capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, di conferire l’incarico di presidente del Consiglio al candidato concordato fra democristiani e socialisti, Bettino Craxi, previa consultazione alquanto anomala, diciamo così, dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli, morto nei giorni scorsi fra il rimpianto e la beatificazione quasi generale dei cultori, nostalgici e simili dell’” epopea” di Mani pulite. In quella stagione politica, per certi versi non meno feroce di quella stragista della mafia, protagonisti e attori della cosiddetta prima Repubblica potevano essere scambiati, come di notte in una strada senza lampioni, per corruttori o mafiosi, secondo le circostanze e le loro origini. Accadde anche a Mannino, a favore o in onore del quale potrei a questo punto limitarmi anche a condividere e ripetere ciò che ha appena scritto sulla Stampa, nel suo imperdibile Buongiorno, il bravissimo Mattia Feltri. Che, a conti fatti, tra avvisi di garanzia, assoluzioni, ricorsi e quant’altro, ha contato 25 anni e 5 mesi di “sequestro” vissuti da Mannino ad opera di uno “Stato incivile”. Mi corre l’obbligo, tuttavia, di ricordare che la storia pseudo- criminale del povero Mannino cominciò nei primi mesi del 1992 nel salotto televisivo, chiamiamolo così, di Gianfranco Funari, chiamato “Mezzogiorno Italia”, su una delle reti televisive di Silvio Berlusconi. Casualmente ospite di quella trasmissione come direttore del Giorno, reagii con forza al tentativo di Funari di processare in diretta Mannino, naturalmente assente, sulla base di un articolo dell’Unità che gli contestava di essere stato tanti anni prima testimone di nozze della sposa, figlia di un segretario di sezione siciliana della Dc, con un tale che dopo qualche tempo sarebbe risultato mafioso. Inorridii letteralmente all’idea di quel processo e, definito “picciotto” da un altro giornalista invitato e smanioso invece di parteciparvi come aspirante pubblico ministero, abbandonai per protesta la trasmissione in diretta. Finii sui blog di Rai 3 per un bel po’ di tempo come un esagitato. Il giornale ufficiale della Dc Il Popolo, diretto allora dal mio amico indimenticabile Sandro Fontana, ne fece un caso. Di fronte al quale, mentre Funari, dopo avere tentato inutilmente di farmi tornare nel suo studio, si vantava ogni giorno di ricevere telefonate di apprezzamento e incoraggiamento del suo editore in persona, ricevetti da Gianni Letta una cortese offerta di intervista a Berlusconi sui programmi dell’allora Fininvest in cui potergli consentire, su espressa domanda, di prendere le distanze da quel conduttore. Naturalmente, almeno per chi mi conosce, rifiutati la proposta e risposi chiedendo a Letta di fare intervenire sul problema di Funari direttamente Berlusconi con un comunicato. Che non seguì. Seguì invece la letterale persecuzione politica, morale e infine giudiziaria di Mannino. Al quale pertanto potete immaginare con quale piacere telefonerò il 20 agosto per il compimento dei suoi 80 anni: un traguardo peraltro che io ho tagliato prima di lui.

NON SIETE STATO, VOI. Mattia Feltri per “la Stampa” il 24 luglio 2019. Un uomo ha cinquantaquattro anni la mattina in cui riceve un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Ne ha cinquantacinque quando, nella stessa indagine, finisce in prigione per nove mesi e ai domiciliari per tredici. Ne ha cinquantasette quando viene scarcerato. Ne ha sessantadue quando viene pronunciata l'assoluzione in primo grado. Ne ha sessantatré quando la procura fa ricorso. Ne ha quasi sessantaquattro quando viene condannato in appello. Ne ha sessantasei quando la Cassazione ordina la ripetizione dell' appello definendo la sentenza di condanna un perfetto esempio del modo in cui una sentenza non andrebbe mai concepita né scritta. Ne ha sessantanove quando l'ulteriore appello lo assolve. Ne ha settanta quando la procura oppone un nuovo ricorso. Ne ha quasi settantuno quando la Cassazione lo assolve in via definitiva. Ne ha settantadue quando viene indagato nell' ambito della (presunta) trattativa fra Stato e mafia con l' accusa di attentato a corpo politico dello Stato. Ne ha settantatré quando viene rinviato a giudizio. Ne ha settantasei quando, con rito abbreviato (e si sottolinea abbreviato), viene assolto in primo grado. Ne ha settantasette quando la procura fa ricorso in appello. Ne ha settantanove quando viene assolto anche in secondo grado, due giorni fa. L'uomo, che fra un mese compirà ottant' anni, si chiama Calogero Mannino, è stato cinque volte ministro democristiano e da venticinque anni e cinque mesi è sotto il sequestro di uno Stato incivile.

FORCA ASSASSINA. Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2019. Egregi forcaioli, poco gentili paladini del giustizialismo, feticisti delle manette facili, ma voi conoscete il numero di vittime delle vostre ossessioni come Calogero Mannino, riconosciuto innocente dopo ventisette anni di gogna e ingiustizia? Immagino di no, ma si tratta di decine, forse di centinaia di persone innocenti che avete massacrato proditoriamente. Governatori di Regioni e Province, sindaci, assessori, parlamentari, politici della Prima, Seconda e Terza Repubblica con tutto il codazzo di clan, cricche, loggette, creato appositamente per tracciare grandi disegni criminosi sui media senza mai arrivare a uno straccio di prova, tutti gettati nelle fauci della pubblica riprovazione quando montava l' ondata accusatoria, poi abbandonati a se stessi quando è stata riconosciuta loro l' estraneità ai fatti. Sapete quanti assolti, quanti prosciolti, quanti intercettati poi nemmeno rinviati a giudizio hanno costellato la vita giudiziaria di uno Stato che ha smesso da tempo di essere uno Stato di diritto? Avete anche devastato il linguaggio: avete lasciato intendere che indagato voglia dire imputato, e che imputato significhi condannato, e che la prescrizione sia un privilegio, e non un esito quasi sempre dovuto alla lentezza pachidermica della magistratura. Avete fatto a pezzi il sacrosanto principio costituzionale della presunzione di innocenza, caposaldo di uno Stato di diritto. Poi certo, esistono i tanti casi di innocenti non famosi perseguitati dall' ingiustizia: ma almeno su quelli non avete esercitato il vostro sadismo mediatico. Perché questo siete: un po' sadici. Che degli anni di galera da innocente di Mannino non vi importa nulla, ancora ad inseguire i fantasmi dei vostri teoremi politici celebrati nei tribunali, che sarebbero ridicoli se non fossero tragici. E bisognerebbe fare un elenco aggiornato degli innocenti che avete distrutto. Ma ci vorrebbe Amnesty International.

Cosa dicono i pentiti su Calogero Mannino. La Repubblica il 12 agosto 2019. In proposito, sono stati raccolte le seguenti prove dichiarative:

BRUSCA GIOVANNI. Dalle dichiarazioni di Brusca Giovanni si trae la conferma del risentimento di Salvatore Riina nei confronti di Mannino per non essersi questi interessato per «aggiustare» il maxi processo ("Ma per quello che so io credo che ci fossero altre lamentele. ma principalmente quello che so io che non si era interessato per l'esito del Maxi... del "Maxi ..... ... ... so che c'era questa lamentela nei confronti dell'onorevole Mannino, che non si adoperava come voleva Salvatore Riina .... .... . ... Però attenzione c 'erano anche altre... c 'erano anche le lamentele degli agrigentini, quindi io non conosco tutta la storia del ma ... una principale io questo lo so perché l 'ho vissuto in prima persona") e che era stato deciso, quindi, di uccidere anche Mannino ("In questa riunione a casa di Guddo Salvatore, in funzione di quanto era stato discusso si parla di mettere in atto già i fatti esecutivi e quindi si fa il nome del dottor Falcone, già Lima era stato ucciso, Andò, Mannino... "), tanto che egli aveva personalmente ricevuto l'incarico di eseguire quel delitto, incarico poi revocato improvvisamente alla vigilia della strage di via D'Amelio (" .. . dopo la strage di Capaci mi aveva dato il mandato per uccidere l'onorevole Mannino. come ho detto poco fa. A un dato punto, tramite Biondino, mi revoca il mandato ed io provvedo per fare altre cose, però non mi dice ... ... .... il mandato me lo dà. credo, nel secondo ... primo o secondo incontro dopo Capaci.... ... .. . .Il mandato, siamo sempre là, intorno ai quindici, dieci giorni, otto giorni, venti giorni prima della strage di via D'Amelio. Biondino, attraverso Nino Gioè che neanche io lo vedo, mi dice di fermare per quanto riguarda l'attentato ai danni ... ... ..... E non saprò mai per quale motivo mi revoca questo mandato ... .... .... Allora, io non ho visto, Riina non mi ha mandato a me e a me mi ha detto. Nino Gioè mi ha detto che si era incontrato con Biondino che a sua volta dice: "Fermati". Perché dico Biondino? Perché Biondino sapeva che io avevo dato l'incarico a Gioè e a La Barbera di cominciare a studiare le abitudini del... che qualcosa già l'avevano trovata, però ancora ci voleva tempo per poterlo... .... . .... Principalmente le abitudini e poi stavo cominciando a prepararmi per quelle che erano le attrezzature, il telecomando che non ci voleva niente a procurarmelo, tanto l'esplosivo era disponibile, me l'aveva mandato ... o mandato o me lo stava mandando Biondino Salvatore, che lui aveva un sacco di disponibilità ... ... . .... Stavamo studiando le volte che lui andava nelle segreterie a Palermo, non mi ricordo o se è in via Zandonai o vicino alla Camera di Commercio di Palermo, dove c'era o una o altra segreteria, comunque sapevamo che frequentava questi posti, almeno già avevamo queste due notizie, Gioè, non mi ricordo, attraverso un suo amico, comunque già eravamo riusciti ad individuare questi posti, però subito dopo ci ha revocato il mandato .... .... .... io non ho visto Biondini direttamente, però attraverso lui mi mandò il no, non il motivo perché ... quale motivo, non l 'ho saputo più e neanche mi ha detto: "Fai questo, fai quell'altro ", punto. Anche perché era Riina che gestiva tutti le altre azioni criminali, che ero io?.. .... . .. Cioè, chiudiamo l'argomento e dire "Non si deve fare Mannino ". Ma io "ci sono altri obiettivi da colpire" mi riferisco alla riunione fatta dopo Lima, dove stabiliscono una serie di obiettivi da colpire, quindi mi dice di fermarmi questo, però non so se ci sono altri. Tre giorni prima di incontrarci e della strage di via D'Amelio, in occasione dell'omicidio di Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo, io da Castellammare, dove abbiamo commesso il fatto, mi reco a Palermo perché dovevo distruggere la BMW di Antonella Bonomo e mi reco da Biondino Salvatore a dirgli: "Mi puoi dare una mano d'aiuto per potere distruggere questa macchina?" e lui mi dice di no. Dopodiché gli dico: "Fagli

sapere a Totò Riina che ho commesso l'omicidio di Vincenzo Milazzo ", perché lui si ci vedeva tutti i giorni, era il primo punto di riferimento. Dice: "Va bene" e mi risponde, dice: "Siamo sotto lavoro"........ ... E lì dentro c'era, a discutere con lui c'era Giuseppe Graviano e Carlo Greco. Dopodiché mi ci metto a disposizione "Hai bisogno di aiuto?" dice: "No, grazie" e me ne vado. Dopo tre giorni sono a Castellammare, che sono insieme a Gioacchino La Barbera, altri miei parenti e quant'altro, dalla televisione apprendo dell'attentato ed io alla presenza di Gioacchino La Barbera e Gioè dico: "Mi', presto ficiru", cioè, nel senso "da quando me l'hanno detto erano tre giorni", in base a quello che avevamo passato noi per Capaci che abbiamo aspettato tre settimane per potere colpire, perché lui mi ha detto: "Stiamo facendo questo, stiamo facendo quell'altro ". Quindi, dico: "Presto hanno fatto ", secondo questa mia ricostruzione mentale, punto").

GIUFFRE' ANTONINO. Giuffrè Antonino ha confermato, quindi, che nella lista dei soggetti che Riina intendeva uccidere e di cui si parlò in sede di "commissione provinciale" v'era, appunto, anche l'On. Mannino ("lo ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra del dicembre del 91, se la memoria non mi inganna, dove appositamente c'è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e tra cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei Magistrati, quali Falcone e Borsellino. Questo è stato fatto in una famosa riunione del 91, del dicembre del 91. Tanto è vero che poi nel 92 ci sarà l'uccisione di Lima e del dottore Borsellino, del dottore Falcone, eccetera, eccetera. Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano ... Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell'ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell'87, quando c'è stato il cambiamento di rotta, venivano ... Erano stati considerati inaffidabili questi politici ... ... .... Il tutto poi diciamo si è enunciato sempre in quella riunione di cui abbiamo parlato, dal dicembre del 91, sulla resa dei conti, dove l'Onorevole Lima, l'Onorevole Andò e l'Onorevole Mannino e l'Onorevole Vizzini, questi sono i nomi che io mi vado a ricordare, e in più Falcone, il dottore Falcone e il dottore Borsellino, in quella data di cui ho detto, nel dicembre del 91 ... "). E' appena il caso di sottolineare che, ai fini della credibilità delle propalazioni sul punto rese da Brusca e Giuffrè e della c.d. convergenza del molteplice, come già sopra osservato, appare di scarso rilievo il fatto che i ricordi dei predetti siano discordi quanto alla esatta collocazione temporale e di luogo della riunione della "commissione provinciale" e ciò tenuto conto della molteplicità delle riunioni cui entrambi i predetti esponenti mafiosi hanno partecipato, dei luoghi spesso diversi e comunicati all'ultimo momento nei quali si svolgevano le riunioni della "commissione" per ragioni di sicurezza dei suoi partecipanti e del lungo tempo trascorso da detta riunione al momento in cui Brusca e Giuffré hanno iniziato a rendere le proprie dichiarazioni (circa cinque anni il primo ed oltre dieci anni il secondo). D'altra parte, in proposito va, altresì osservato, da un lato, che le predette discordanze allontanano, innanzi tutto, ogni ragionevole dubbio di reciproche influenze e di progressivo allineamento dei dettagli originariamente divergenti di ciascuna dichiarazione; e, dall'altro, che non sarebbe giuridicamente corretto un esame delle dichiarazioni condotto in base ad un mero raffronto in astratto, teso esclusivamente a individuare i punti di divergenza al fine di desumerne l'inattendibilità, essendo, piuttosto, necessario che le dichiarazioni medesime siano esaminate congiuntamente in relazione al complessivo contenuto di fatto convergente che esprimono e valutate criticamente con riferimento alle eventuali divergenze che presentano, soprattutto quando, come nel caso in esame, non sussiste alcuna interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato divergenti (l'esatta collocazione temporale e di luogo della "riunione" oltre che, in parte, l'elencazione dei partecipanti) e le rimanenti parti, intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate (il contenuto sostanziale delle decisioni adottate, da non confondere con le frasi nell'occasione pronunziate da Riina che, o perché profferite in un contesto di plurime partecipazioni o perché profferite separatamente in colloqui individuali, possono essere ricordate dall'uno anziché dall'altro dei propalanti).

ONORATO FRANCESCO. Dalle dichiarazioni di Francesco Onorato si trae ulteriore conferma che anche l'On. Mannino, dopo l'On. Lima, avrebbe dovuto essere ucciso secondo l'indicazione di Salvatore Riina a causa dell'esito del maxi processo ("Allora, c'era tutta una lista che si dovevano fare ammazzare. A parte, se avesse avuto possibilità, Totò Riina li avesse ammazzati a tutti, diceva sempre così Salvatore Biondino e Salvatore Riina, che se avessero avuto possibilità, li avesse ammazzati a tutti i politici per quello che era successo, per la sentenza andata male del Maxi Processo. Però c'era una lista prioritaria di uccidere il Commissario Germanà, l'Onorevole Vizzini, Calogero Vizzini, era nella lista, di cui io ho fatto pure le dichiarazioni quando ho collaborato, che si pedinava, ma era un po' difficile perché c'era l'elicottero che la mattina lo veniva a prendere .... ... ... Mannino, Calogero Mannino doveva essere ucciso, che prima se ne parlava bene. Di questo ne ho parlato pure quando ho collaborato, il Ministro Calogero Vizzini. Salvo Lima era il primo della lista .... ... ... la fonte è Salvatore Biondino, di cui è ambasciatore della Commissione ... ...... Il ruolo di Salvatore Biondino, nel 92 è capo mandamento e anche membro della Commissione, faceva parte della Commissione, e coordinatore di Commissione, perché lui coordinava pure la Commissione, lui mandava pure gli appuntamenti anche per coordinare la Commissione ... ... ... Queste sono cose che Salvatore Biondino mi ha detto di fare e ho fatto. Dopo il 92, Salvatore Biondino riveste la carica sia come coordinatore, ma sia anche come capo mandamento e sia come regista, come regista di tutto quello che deve succedere in Cosa Nostra. Salvatore c'ha una lista di tutti quelli che devono essere ammazzati e diceva pure che se avesse possibilità li avesse ammazzati a tutti i politici dopo la sentenza di Cassazione. lo mi ricordo che si doveva fare l'omicidio Vizzini, mi ricordo che si doveva fare... Ma direttamente, io parlo direttamente con Salvatore Biondino ... .... ... Prima Totò Riina, detto da Salvatore Biondino, Totò Riina voleva ammazzato subito a Salvo Lima con il figlio se c'era possibilità e Andreotti con il figlio, questi erano i primi che dovevano morire e infatti è stato il primo Salvo Lima .... ....... Per quanto riguarda Mannino, si deve uccidere. Intanto quello che … Non è che si possono uccidere tutti in un giorno, perché poi ci vuole pure ... Ma man mano c'era questa lista di uccidere queste persone che ... "). L'autorevolezza della fonte dell'Onorato, quel Salvatore Biondino che venne poi arrestato il 15 gennaio 1993 proprio in compagnia di Salvatore Riina, conferma ulteriormente, ove ve ne fosse bisogno, le propalazioni di Brusca e Giuffrè riguardo al piano criminoso deliberato dallo stesso Riina e ratificato dalla "commissione provinciale" di "cosa nostra".

I testimoni e le angosce di “Lillo”. La Repubblica il 13 agosto 2019.

GUAZZELLI RICCARDO. Il teste Riccardo Guazzelli, figlio del Maresciallo ucciso nell'aprile del 1992, invece, ha riferito delle preoccupazioni manifestate dall'On. Mannino in occasione di incontri col padre addirittura prima che l'On. Lima fosse ucciso, allorché, infatti, ebbe a riferire al Guazzelli di temere che la mafia potesse uccidere o l'On Lima ovvero lo stesso On. Mannino

P.M DEL BENE: - .. Ricorda, sempre per quell'incontro, se suo padre le disse anche le preoccupazioni esternate da Mannino in ordine a delle espressioni particolari, forti, che Mannino ebbe a pronunciare in quell'incontro?;

DICH GUAZZELLI: - Allora, io ricordo che, insomma, poi alla fine di questo incontro ci fu una battuta che fil detta dal Mannino, 'o ammazzano me o ammazzano Lima, una cosa del genere"), preoccupazione poi ancora ribadita dopo l'omicidio dell'On. Lima quando l'On. Mannino disse espressamente a Guazzelli di temere che sarebbe stato lui la prossima vittima ("io mi ricordo nitidamente uno che è successo diciamo dopo l'omicidio Lima, quando insomma forse, essendosi verificato diciamo quello che era stato oggetto diciamo della affermazione del Mannino, si erano incontrati e quindi diciamo posso collocare a marzo del 92, ecco ... .... .... Non lo so se fu mio padre o se fu cercato dal Mannino, non mi ricordo signor Giudice.... . ... Giustamente questo incontro era consequenziale al primo incontro in cui c'era stata quella affermazione ed essendosi diciamo concretizzato quello che aveva paventato il Mannino in quell'incontro, giustamente lui era fortemente turbato e preoccupato per quello che era successo; .... ....

P.M DEL BENE: - Dico, come nel primo incontro ci fu la frase uccidono o me o Lima, in questo secondo incontro ricorda se suo padre le riportò qualche espressione particolare di Mannino?;

DICH. GUAZZELLl: - No, c'era la preoccupazione che potesse essere il prossimo lui, insomma, il Mannino.;

P.M. DEL BENE: Io procedo ad una contestazione, giusto per il ricordo, perché nella sostanza credo ... Verbale del 18 maggio del 2012, udienza dibattimentale per il processo a carico del Generale Mori più l, dinnanzi alla Quarta Sezione del Tribunale, pagina 38 della trascrizione, allorquando lei ebbe a dire: Mannino ebbe ad esclamare una frase che di recente ho anche riletto sui giornali, nel senso hanno ammazzato Lima, potrebbero ammazzare pure me.;

DICH. GUAZZELLl: - Sì, sì, sì.

TAVORMINA GIUSEPPE. Definitiva conferma delle forti preoccupazioni dell'On. Mannino conseguenti all'omicidio Lima e dei conseguenti contatti intrapresi dal predetto con Ufficiali dell' Arma dei Carabinieri si trae, ancora, dalla testimonianza del Gen. Giuseppe Tavormina, il quale, in particolare, esaminato nel dibattimento all'udienza del 9 gennaio 2015, dopo avere ricordato di avere studiato a Ribera e Sciacca [...], interrogato sui fatti oggetto del processo, ha, in sintesi, riferito quanto al tema qui in esame (sui colloqui con il Ministro Martelli si dirà successivamente): - di avere conosciuto l'On Calogero Mannino nei primi anni 80 a Torino [...] e di averlo, poi, ancora rivisto negli anni successivi allorché prestava servizio a Roma nelle occasioni in cui il Mannino gli chiedeva di incontrarlo ed egli, trattandosi della richiesta di un Ministro, riteneva doveroso acconsentire agli incontri appena possibile.

P.M DI MATTEO: - Senta, tra questo episodio che quindi lei colloca tra 1'83 e 1'84, e il momento in cui lei assunte poi la Direzione della Dia.. .. .... in questi anni lei ebbe occasione di rivedere, di incontrare nuovamente, di colloquiare, di intrattenersi a colloquio con l'Onorevole Calogero Mannino?;

DICH. TAVORMINA: - Ritengo proprio di sì guardi, una volta arrivato a Roma, rientrato a Roma con un certo grado, con un incarico anche di un certo riguardo, l'Onorevole Mannino, se non ricordo male, era già Ministro, quindi era affermato sul piano istituzionale, [...]); - di conoscere il Gen. Subranni [...]; - di sapere che vi era un rapporto di conoscenza tra l'On. Mannino ed il Gen. Subranni poiché una volta questi ebbe a parlargli di minacce riguardanti il primo.

P.M DI MATTEO: - Lei era a conoscenza o venne comunque a conoscenza di eventuali rapporti, degli incontri personali tra il Generale Subranni e l'Onorevole Mannino?;

DICH. TAVORMINA: - Sì, in una circostanza credo di sì, perché se la memoria mi aiuta c'era stata una occasione in cui c'era arrivata notizia di una minaccia di attentato nei confronti dell'Onorevole Mannino e siccome in quella circostanza, che doveva essere di fine settimana, lui era venuto in Sicilia e doveva andare ad Agrigento, se non vado errato ... Noi allora a Palermo non avevamo nessuna struttura ancora... ... .. .. ero Direttore della Dia nell'ultima sede che allora io ho avuto, ora la Dia è in un contesto diverso. In quella circostanza, dal momento che c'era questa notizia diciamo che poteva essere anche preoccupante a quell'epoca, credo che ebbi occasione di parlare a lui di questo fatto affinché eventualmente o lo rintracciassero o attivasse Palermo, dove lui aveva la sede del Ros già in funzione, per avvertirlo che c'era arrivata questa comunicazione e che ci poteva essere questa minaccia, va bene, nei suoi confronti. Questo è un particolare che credo di ricordare piuttosto bene, anche se dato il tempo e data l'età anche ... "); - di non ricordare incontri avuti insieme al Gen. Subranni con il Mannino presso la segreteria di quest'ultimo in Roma nella quale egli, comunque, aveva avuto modo di recarsi in più occasioni ("Con Subranni no, non mi ricordo, assolutamente. Che io sia andato a trovare Mannino in Via Borgognona questo me lo ricordo perfettamente. Non so se ero ancora Comandante della Divisione di Roma o se ero già transitato nella Dia, il periodo comunque doveva essere quello, tra poco tempo prima e subito dopo, siamo là insomma"), ma che forse si era recato col Subranni presso una altro ufficio del Mannino diverso da quello di via Borgognona [...]; - di non essere a conoscenza che il Gen. Subranni, in altro processo, ha dichiarato di avere avuto più incontri con Mannino alla presenza del Gen. Tavormina presso l'ufficio di via Borgognona [...]; - di non ricordare le ragioni degli incontri con Mannino, ma che certamente ebbe a parlare con Subranni in occasione delle minacce ricevute dal Mannino medesimo [...] e di apprendere per la prima volta anche che Subranni ha riferito di avergli parlato delle accuse che il collaboratore di Giustizia Spatola aveva rivolto nei confronti di Mannino [...]; - che probabilmente era stato egli a chiedere a Subranni di recarsi insieme a incontrare Mannino

P. M DI MATTEO: - Senta fu lei a chiedere a Subranni di andare a trovare il Ministro Mannino?;

DICH. TAVORMINA: - Probabilmente sì, probabilmente sì dal momento che forse mi aveva rappresentato una qualche sua preoccupazione su Palermo, non avendo io riferimenti a cui poterlo indirizzare, probabilmente avrò potuto chiedere senza altro a Subranni di mettersi in contatto con lui per potere eventualmente dare un riscontro a quelle che erano le richieste che avrebbe avanzato"); - che Mannino appariva alquanto preoccupato

[...]P.M DI MATTEO: - Quindi la prima volta è Mannino ad esprimerle queste preoccupazioni?;

DICH. TAVORMINA: - Certamente, una prima volta oppure... Sì, ma sicuramente la prima volta, perché se già c'era stato l'episodio successivo, chiaramente c'era un pregresso per il quale io ero a conoscenza che poteva avere delle preoccupazioni di questo genere"); - che quando Mannino gli manifestò le sue preoccupazioni vi erano stati la sentenza del maxi-processo e l'omicidio Lima ("Certamente c'erano state queste evenienze, sicuramente ... .. .. .Intanto il Maxi Processo, l'omicidio Lima e il Maxi Processo, l'esito del Maxi Processo") e, quindi, ciò avvenne nei primi mesi del 1992 essendo egli da poco Direttore della DIA [...]; - di non ricordare se Mannino fece riferimento a concreti atti intimidatori e minacce ricevute [...], pur confermando quando dichiarato in proposito precedentemente.

P.M DI MATTEO: - lo le leggo, le contesto quello che lei ha riferito... Lei è stato sentito anche nell'ambito del processo Mannino davanti al Tribunale di Palermo all'udienza del 19 luglio del 2000. Sul punto fu più specifico rispetto ad ora e rispondendo alle domande del difensore di Mannino ... Allora, io c'ho ... Però questa è una stampa informatica, pagina 14, ma anche la sua credo che sia informatica. Allora, l'Avvocato le chiedeva: lei ebbe modo di parlare in quegli anni con l'Onorevole Calogero Mannino di queste minacce che lui aveva subito, di quegli episodi di cui lei ha fatto riferimento? Certo. Difensore: e cosa le disse l'Onorevole Mannino in quell'occasione? Ma più che cosa mi disse, che non posso certamente ricordare a distanza di tanto tempo, il frasario usato nella circostanza, rappresentò delle grosse preoccupazioni. A questo proposito, sentendosi appunto vittima di minacce che venivano indirizzate nei suoi confronti per l'attività politica che svolgeva a livelli diciamo di evidenza in quel periodo. Quindi lui attribuiva il fatto di vivere in Sicilia e di esercitare queste sue funzioni politiche e governative a livelli così elevati, attribuiva a tutto questo, va bene, una serie di iniziative a carattere intimidatorio che venivano portate nei suoi confronti e la cosa lo preoccupava, lo ricordo che manifestava queste preoccupazioni quando si parlava di circostanze di questo genere. Quindi lei in una epoca più vicina rispetto allo svolgimento dei fatti, ricordava il riferimento di Mannino anche a delle iniziative a carattere intimidatorio nei suoi confronti. Adesso le ho diciamo riletto la sua dichiarazione, lei è in grado di confermarla o di ricordare?;

D1CH. TAVORMINA: - Chiaramente sì, perché se allora, la mia memoria certamente era diversa rispetto all'attuale, ho fatto questa affermazione, chiaramente la facevo fondatamente su ricordi ben precisi o quanto meno ricordi meno, come dire, buoni rispetto agli attuali insomma, cioè molto più buoni di quelli attuali''); - che tali atti intimi datori e minacce non erano oggetto di indagini della DIA (''Credo di no, credo di no"), ma che forse se ne stava occupando il ROS ("Posso pensare di sì, che qualcosa potessi avere arguito sull'argomento, ma i miei rapporti con il Ros non erano né continuativi né tali da potermi interessare attraverso di loro di situazioni di questo genere"), confermando, però, poi, in proposito, quanto già precedentemente dichiarato ([...] Lei ha risposto così: sì, indubbiamente sì, soprattutto quando arrivarono quelle minacce a cui facevo riferimento prima, che costrinsero sostanzialmente il Ros a pigliare delle iniziative a tutela della persona che nella circostanza ci risultava essere stata minacciata in maniera intimidatoria e quindi come in quella occasione certamente ho avuto modo di parlare con il Generale Subranni, che all'epoca dirigeva il Ros, di queste circostanze; [...]); - di non avere verificato se Mannino avesse formalmente denunciato le minacce e di non sapere se tale verifica fu fatta dal ROS [...]; - di non avere conosciuto personalmente il M.llo Guazzelli, ma di avergli parlato per telefono soltanto una volta [...], confermando, però, poi, a seguito di contestazione del P.M., le precedenti dichiarazioni con le quali aveva riferito di un incontro personale alcuni giorni prima che il Guazzelli fosse ucciso [...]; - di non avere alcuna memoria dell'anonimo denominato "Corvo 2" ("Questa notizia del Corvo 2 era completamente uscita dalla mia memoria. Quando io ho letto sulla citazione questo Corvo 2 ho avuto bisogno di, attraverso il computer, di sapere di che cosa si trattasse perché non mi ricordavo più l'episodio del Corvo 2. Ricordavo perfettamente il Corvo l, ma non ricordavo assolutamente in che cosa consistesse questo episodio. Certamente a quell'epoca ne sarò venuto a conoscenza sicuramente, ma che cosa fu fatto, cioè l'impressione che io ho riportato ora per allora era che la notizia era così paradossale che a mio giudizio non venne presa in considerazione o quasi, tanto è vero che, ripeto, per potere di nuovo richiamare alla mia attenzione questo episodio del Corvo 2 ho dovuto rifarmi a delle notizie di carattere giornalistico dell'epoca"), pur avendone già riferito in occasione di precedenti dichiarazioni [...]; - che la nomina di De Gennaro quale Vice Direttore della DIA non gli fu preannunciata (" .. la nomina di De Gennaro come vice non era almeno conosciuta da me. non era ipotizzata per quanto mi riguardava e non dico che fu una sorpresa, ma seppi all'ultimo che c'era stata anche la nomina di un mio vice che era appunto il dottor Gianni De Gennaro.;

P. M DI MATTEO: - Ho capito, quindi qua Scotti ha detto sono stato io diciamo ad imporre ... Comunque non era a lei conosciuta, non lo propose lei il nominativo di De Gennaro?;

DICH. TAVORMINA: - Assolutamente; - che quale Direttore della DIA si rapportava soprattutto col Prefetto Parisi [...]; - pur ricordando e confermando l'episodio, di non essere in grado di collocare con maggiore esattezza il periodo in cui Mannino ebbe a riferirgli delle minacce [...]; - che egli ed il Gen. Subranni valutarono che le minacce a Mannino potessero avere un fondamento ("Avv. Milio : - .... In merito a questa minaccia, ricorda quale era diciamo la valutazione che faceva lei e il Generale Subranni, la vostra ... Il vostro convincimento?;

DICH. TAVORMINA: - Che potesse avere un fondamento e in questo caso cercare di evitare che effettivamente venisse portato a compimento mi sembrava che fosse una cosa assolutamente da fare"), confermando quanto dichiarato in precedenza riguardo agli ipotizzati collegamenti con l'attività politica del predetto [...]; - di avere continuato ad incontrare il Gen. Subranni anche dopo la strage di Capaci, ma di non ricordare se gli stessi avessero ad oggetto anche la formulazione di ipotesi investigative [...]; - di avere avuto notizia allora anche del rischio di un possibile attentato anche ai danni del Ministro Andò che egli conosceva personalmente [...]; - che quando Mannino ebbe a parlargli delle minacce rivestiva la carica di Ministro [...]; - di non ricordare se ebbe a parlare delle minacce a Mannino anche con i suoi collaboratori alla DIA [...]. Come si vede, la testimonianza appena richiamata conferma, oltre che i rapporti dell'On. Mannino con lo stesso Gen. Tavormina (" .. anche se non ricordo specificamente date o circostanze a riguardo, certamente avrò avuto modo di incontrarlo, di salutarlo, cioè di avere quel rapporto, se così possiamo dire, di carattere personale che si rifaceva a una pregressa conoscenza .... ") e con il Gen. Subranni e le visite dagli stessi fatte negli uffici privati dello stesso Mannino (" ...... andai io con Subranni a trovare Mannino"), anche la forte preoccupazione (" .. era preoccupato, era preoccupato perché evidentemente gli erano arrivate delle notizie, gli erano arrivati dei segnali in virtù dei quali riteneva che potesse esserci un rischio personale quando soprattutto lasciava Roma per rientrare a Palermo") manifestata dal Mannino dopo la (e in relazione alla) uccisione dell'On. Lima (" .... . sono i primi del 92, io assunsi allora l'incarico di Direttore della Dia, stavo impiantando questo strumento, questo organismo e posso pensare che il tutto fosse cominciato un po' con queste evenienze, cioè l'omicidio di Lima, essendo rappresentante politico, naturalmente assumeva una certa qualificazione agli occhi dei politici e agli occhi nostri logicamente, di allora facenti parte della Dia già e gli altri ancora dell'Arma. E nello stesso tempo ci fu questo Maxi Processo che consideravamo alla base di questo omicidio, una valutazione che fu fatta così, se non ricordo male, in quel periodo del motivo che era alla base dell'eliminazione di Lima veniva considerato proprio il risultato che era stato raggiunto con il Maxi Processo ... "). Riguardo a tale ultimo punto, quello del collegamento delle preoccupazioni manifestate da Mannino con l'omicidio Lima, al di là delle discrepanze temporali con le precedenti dichiarazioni rese dal Tavormina nel processo a carico di Mori e Obinu evidenziate dal difensore degli imputati Mori e Subranni, va, comunque, rilevato che nessuna incertezza il teste ha manifestato a seguito di diretta e precisa domanda [...], tanto più che il medesimo teste ha ritenuto di ricordare che, all'epoca, Mannino rivestisse ancora la carica di Ministro.

P.M DI MATTEO:  - ... Cioè conferma che questi incontri sono avvenuti, in particolare quelli con Subranni e quelli in cui si parlò delle minacce, nel momento in cui l'Onorevole Calogero Mannino rivestiva la qualità, l'incarico di Ministro della Repubblica?;

DICH. TAVORMINA: - Ma io ritengo di sì, guardi. D'altra parte, va ricordato che, già nei giorni immediatamente successivi all'omicidio Lima, vennero diramati allarmi nei quali si faceva espresso riferimento anche al Ministro Mannino (oltre che al Presidente del Consiglio Andreotti e al Ministro Vizzini) quali possibili successivi obiettivi dopo l'omicidio predetto (v. allarmi diramati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell'Interno già dal 12 marzo 1992 e, quanto al nome di Mannino, più specificamente quelli del 16 marzo 1992 di cui al documento n. 19L e 19M della produzione iniziale del P.M.) e, tenuto conto della carica allora rivestita dal Mannino (appunto, Ministro del Governo in carica), non può in alcun modo dubitarsi che il medesimo ne sia stato messo a conoscenza, così come, d'altra parte, riferito dal Ministro dell'Interno dell'epoca Vincenzo Scotti a specifica domanda ("Sono convinto di sì"). D'altra parte, va ricordato che l'esposizione del Mannino al pericolo di un attentato mafioso si trae anche da una nota del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri indirizzata al Comando Generale dell'Arma in data 19 giugno 1992 e sottoscritta dallo stesso Gen. Subranni e, quindi, proprio da uno degli Ufficiali dei Carabinieri cui il Mannino si era rivolto dopo l'omicidio Lima, nella quale si fa ancora espressamente il nome del Mannino quale possibile "futura vittima di cosa nostra" [...] e che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell'imputato Subranni in sede di discussione richiamando in modo illogico la testimonianza di Umberto Sinico (v. trascrizione dell'udienza del 2 marzo 2018) non può di certo ricondursi alle di poco precedenti confidenze di Girolamo D'Anna al M.llo Lombardo, dal momento che il teste Sinico, contrariamente a quanto, appunto, invece, affermato dalla difesa di Subranni, ha riferito che D'Anna ebbe a parlare soltanto di un possibile attentato ai danni del Dott. Borsellino e non anche dell'On. Mannino [...]. Ora, non è certo dubitabile che il Gen. Subranni, incontrando a più riprese 1'On. Mannino anche privatamente, non avesse già avuto modo di parlare col predetto del pericolo, che, secondo l'opinione delle più alte Autorità addette alla sicurezza del Paese, incombeva sullo stesso. Semmai, va evidenziato che appare certamente anomalo che l'On. Mannino, consapevole dell'elevato pericolo personale che correva, non si sia rivolto, innanzitutto, a funzionari della Polizia di Stato cui ufficialmente era affidata la sua tutela [...] ed, addirittura, abbia, ad un certo momento, dopo la strage di Capaci, rinunziato alla scorta (v. testimonianza di Vincenzo Scotti: [...]). In tale contesto di acquisizioni probatorie del tutto univoche sorprende che la difesa degli imputati Subranni e Mori abbia contestato addirittura la stessa sussistenza di una preoccupazione dell'On. Mannino per la propria vita nei mesi che seguirono l'uccisione dell'On. Lima (v. trascrizione dell'udienza di discussione del 2 marzo 2018) adducendo a sostegno anche che dalle agende del Dott. Contrada risulta che gli incontri di quest'ultimo col Ministro Mannino riguardavano la questione dell'anonimo denominato "Corvo2" che era pervenuto poco prima, tralasciando, però, che in almeno un'occasione, il 25 giugno 1992, "minacce e pericolo in cui si trova" (v. agenda citata) furono l'unico e specifico oggetto di un incontro avvenuto tra il Ministro Mannino e il Dott. Bruno Contrada in conseguenza della segnalazione di Subranni (v. ancora agenda citata: "segn. cc") certamente distinto anche da altro incontro che seguì nella serata della stessa giornata avente ad oggetto l'anonimo (v. agenda alla medesima pagina del 25 giugno 1992: "ore 20 dal Ministro Mannino (per anonimo)").

Gli ufficiali “amici”. La Repubblica il 14 agosto 2019. Come si è visto, tutte le fonti di prova esaminate, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboranti di Giustizia, dichiarazioni testimoniai i e risultanze documentali), convergono univocamente sulla logica conclusione che 1'On. Mannino, ben consapevole della vendetta che "cosa nostra" intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l'esito del maxi processo auspicato dai mafiosi (v. anche confidenze al giornalista Padellaro [...]), si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure già adottate per la sua sicurezza (non nutrendo alcuna fiducia sulla effettività delle stesse, [...] come confermato anche da quella rinunzia alla scorta di cui ha riferito il teste Scotti), bensì ad alcuni Ufficiali dell'Arma "amici" e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava, essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza. II Gen. Subranni, allora a capo del R.O.S., non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare 1'On. Mannino da eventuali attentati ed, infatti, non risulta che si sia adoperato, direttamente e quale Comandante del R.O.S. ovvero intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per l'On. Mannino medesimo. Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l'intendimento dell'On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al Gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che, d'altra parte, come detto, nel suo pensiero, non lo avrebbero comunque "salvato"), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info-investigativa, potesse, sì, acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di "cosa nostra", ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla Polizia di Stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato. Ora, non è dato sapere come sia stata recepita ed attuata da Subranni quella più o meno esplicita sollecitazione del Mannino, anche perché nel frattempo veniva lanciato da "cosa nostra" un altro segnale che più direttamente toccava il R.O.S. e, personalmente, lo stesso Subranni, l'omicidio del M.llo Guazzelli di cui di seguito si dirà meglio, ma è un dato di fatto incontestato che, dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno 1992, un ufficiale del R.O.S., l'odierno imputato De Donno, autorizzato - rectius, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori - contatta Vito Ciancimino ed inizia a porre le basi di quel discorso che bene può racchiudersi in quella frase che, poi, ad un certo punto [...], sarebbe stata rivolta dal Col. Mori a Vito Ciancimino: "Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? (v. sentenza Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998 e trascrizione dell 'udienza del 24 gennaio 1998). Si tratta, come si vede, di un approccio del tutto coerente con l'intendimento più o meno chiaramente esplicitato dal Mannino con la sua condotta fattuale, laddove, al di là delle intenzioni che potevano animare inizialmente il De Donno (ed i suoi superiori Mori e Subranni che, è bene ancora ricordarlo, come detto, avevano ideato e sollecitato quell'iniziativa del sottoposto), non può essere dubbio che l'approccio col Ciancimino nella sua qualità di possibile referente dei vertici mafiosi (perché questa, dichiaratamente, era la ragione di quel contatto all'indomani della strage di Capaci) costituiva un oggettivo invito all'apertura di un possibile dialogo con i vertici medesimi e, quindi, l'accantonamento della strategia mafiosa nell'ambito della quale si collocava anche la possibile uccisione dell'On. Mannino. Ora, come detto, non v'è ovviamente la prova (né si vede come potrebbe essere acquisita se non attraverso il racconto degli imputati, i quali, però, pur dilungandosi in dichiarazioni spontanee, non hanno acconsentito all'esame dibattimentale e, comunque, non avrebbero alcun interesse a confermare la circostanza) che Subranni, comprendendo il senso degli approcci da parte dell'On. Mannino, abbia incaricato i suoi subaltemi di avviare quel tentativo di contatto con i vertici dell'associazione mafiosa nell'interesse (anche) del suo diretto interlocutore, ma indubbiamente, anche se non possono escludersi – ed anzi, appaiono altamente probabili - altre concomitanti causali (oltre alla uccisione del M.llo Guazzelli, non va dimenticato che nel frattempo era sopravvenuta la strage di Capaci con la sua dirompente tragicità), la valutazione logica dei fatti come sopra accertati non può che condurre alla conclusione che anche le preoccupazioni dell'On. Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi definiti come "trattativa Stato-mafia" di cui si dirà ampiamente più avanti. D'altra parte, è ben possibile completare un quadro probatorio già formato con riguardo alla esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali, ricorrendo, oltre che alle prove dirette, anche a prove indirette o deduzioni di tipo logico. Ma, in ogni caso, si tratta di una conclusione che, ancorché utile per meglio inquadrare, sotto il profilo soggettivo e psicologico, l'origine di quella che, appunto, viene definita "trattativa Stato-mafia", non appare in alcun modo determinante, poiché, come già più volte ricordato, non è quell'iniziativa e l'apertura della "trattativa" (i cui esiti inizialmente non erano prevedibili, non potendosi escludere che, ad esempio, i vertici mafiosi si potessero accontentare di quel "riconoscimento" da parte delle Istituzioni e di un conseguente possibile nuovo patto di non belligeranza per porre termine alla già deliberata azione criminosa) che integra la fattispecie di reato che in questa sede deve essere verificata.

L'omicidio del maresciallo Guazzelli. La Repubblica il 15 agosto 2019. Il Maresciallo Giuliano Guazzelli è stato assassinato il 4 aprile 1992 e, dopo iniziali incertezze che avevano indirizzato le indagini ed un conseguente processo nei confronti di soggetti riconducibili alla c.d. "stidda", è stato definitivamente accertata, con sentenze passate in cosa giudicata, la piena riconducibilità di tale omicidio all'organizzazione mafiosa "cosa nostra" specificamente nella sua articolazione operante nel territorio di Agrigento ove è avvenuto l'agguato mortale. In questa sede è sufficiente prendere atto di tale risultanza già definitivamente accertata, senza necessità di ricostruire più dettagliatamente il fatto omicidiario. E' utile, invece, ricostruire la figura del M.llo Guazzelli, i suoi rapporti con i colleghi e l'attività che egli nel periodo immediatamente antecedente alla sua uccisione stava conducendo. A tal fine è stato, innanzitutto, esaminato nel dibattimento il figlio del M.llo Guazzelli, Riccardo, le cui dichiarazioni in parte sono state sopra già riportate a proposito dell'On. Mannino. E' opportuno, tuttavia, qui, per completezza, dare conto di tale importante deposizione.

Riccardo Guazzelli è stato esaminato in qualità di testimone all'udienza del 13 febbraio 2014 ed ha, innanzitutto, riferito, appunto, di essere figlio del M.1l0 Giuliano Guazzelli, ucciso in data 4 aprile 1992 [...], del quale, quindi, ha ricostruito la carriera e gli incarichi ricoperti nell'Arma dei Carabinieri [...], soffermandosi, poi, specificamente su alcuni dei servizi svolti, tra i quali, quello presso la Stazione o la Compagnia dei Carabinieri di Castelvetrano ove ebbe a collaborare, tra gli altri, con l'allora Ten. Subranni [...]. Il teste, quindi, a quel punto, ha manifestato di non ricordare più alcune circostanze di fatto già oggetto di dichiarazioni dallo stesso rese nell'ambito delle indagini per l'omicidio del padre ed in alcuni processi nel quali successivamente è stato chiamato a testimoniare e, tuttavia, a fronte delle contestazioni formulate dal P.M. anche per sollecitarne la memoria, il medesimo, pur ribadendo di non avere più ricordo di quei fatti, ha sempre confermato il contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese di cui gli è stata data lettura. La prima di tali circostanze di fatto confermate seppur soltanto dopo la contestazione del P.M. riguarda la collaborazione che il padre ebbe con il Subranni anche dopo il servizio a Castelvetrano allorché ebbe a trasferirsi a Palermo alle dipendenze del Col. Russo [...], in relazione alla quale il teste ha, a quel punto, aggiunto che negli stessi anni si consolidò una particolare intesa tra il padre e il M.llo Scibilia [...] di cui si parlerà nel prosieguo con riferimento ad un'altra vicenda, quella della mancata cattura di Benedetto Santapaola a Terme Vigliatore. Il teste, poi, ha riferito che dopo l'omicidio del Col. Russo il padre venne trasferito alla Stazione dei Carabinieri di Palma di Montechiaro [...] e che poco prima dell'uccisione nell'aprile 1992 il padre, prossimo ad andare in pensione avendo maturato una anzianità di quaranta anni di servizio, era stato contattato da personale dei servizi segreti [...]. Anche su tale punto, però, il teste non è stato in grado di ricordare i particolari della vicenda [...], che, tuttavia, anche in questo caso dopo la sollecitazione della sua memoria fattagli attraverso la contestazione delle dichiarazioni precedentemente rese, ha, infine, confermato anche nella parte in cui aveva già riferito che il padre fu contattato dal SISDE e, tra gli altri, dal Dott. Bruno Contrada [...] e di essere stato presente in occasione di uno di tali incontri tra il padre e funzionari dei servizi segreti [...] avvenuto tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992 [...]. Ancora, su analoga sollecitazione del P.M., il teste ha confermato che la collaborazione del padre con i servizi segreti avrebbe dovuto riguardare le province di Agrigento e Trapani […] e che analoga richiesta di collaborazione in quel periodo era stata fatta al padre anche dalla D.LA. nella persona del Gen. Tavormina [...]. Poi il teste si è soffermato sui rapporti, anche di amicizia, instauratisi tra il padre e Subranni ("Furono sia dei rapporti professionali, ma anche dei rapporti di amicizia, cioè nel senso che l'attività fatta sul campo cementò nel tempo una amicizia .... ... .... Che io ricordi fil un rapporto sempre, insomma, continuo, voglio dire... Cioè, vorrei capire che intende per dire quando... Cioè fu un rapporto sempre continuo .... .... ..... Allora, diciamo, i rapporti erano, come abbiamo detto, continui. Sicuramente non erano rapporti che si limitavano ad uno scambio di auguri, erano anche rapporti, diciamo, di tipo, scambio di informazioni investigative") e sull'incontro che gli stessi ebbero qualche giorno prima della uccisione del Guazzelli [...], confermando che già precedentemente il padre aveva iniziato a collaborare con il R.O.S., tra l'altro, nella c.d. Indagine "mafia e appalti" coinvolgente politici e Angelo Siino, che, infatti, una volta ebbe a recarsi a casa Guazzelli per incontrare il padre che, però, lo respinse [...], così come egli ebbe ad apprendere il giorno dei funerali del padre ascoltando un colloquio tra Subranni ed un intimo amico del padre medesimo, l'Ing. Saverio Vetrano [...]. Indi, il teste ha riferito riguardo alla attività politica dallo stesso svolta [...], precisando di avere conosciuto personalmente l'On. Mannino soltanto in occasione delle elezioni regionali del 1991 [...] e di ritenere, però, che il padre, invece, lo avesse conosciuto già precedentemente, avendo, tra l'altro, svolto indagini a riscontro delle dichiarazioni rese da un collaboratore di Giustizia sul Mannino medesimo [...]. Tra le altre indagini svolte dal padre riguardo all'On. Mannino, poi, il teste, seppure con ripetute contestazioni del P.M., ha ricordato anche quella relativa alla partecipazione del predetto alle nozze del figlio del mafioso Caruana [...]. In tale contesto, quindi, il teste ha riferito delle frequentazioni del padre con l'On. Mannino sia presso la segreteria di quest'ultimo in Sciacca [...], sia successivamente a Palermo [...]. Il teste, quindi, come già sopra fatto cenno nel Capitolo precedente, si è soffermato sulle preoccupazioni manifestate dal Mannino in occasione di tali incontri, allorché, in particolare, prima ebbe a riferire al Guazzelli di temere che la mafia potesse uccidere o l'On, Lima ovvero lo stesso On. Mannino ("P. M. DEL BENE: - .. Ricorda, sempre per quell'incontro, se suo padre le disse anche le preoccupazioni esternate da Mannino in ordine a delle espressioni particolari, forti, che Mannino ebbe a pronunciare in quell'incontro?;

DICH. GUAZZELLl: - Allora, io ricordo che, insomma, poi alla fine di questo incontro ci fu una battuta che fu detta dal Mannino: o ammazzano me o ammazzano Lima, una cosa del genere") e, poi, dopo l'omicidio dell'On. Lima, che a quel punto anch'egli potesse essere, appunto, ucciso ("io mi ricordo nitidamente uno che è successo diciamo dopo l'omicidio Lima, quando insomma forse, essendosi verificato diciamo quello che era stato oggetto diciamo della affermazione del Mannino, si erano incontrati e quindi diciamo posso collocare a marzo del 92, ecco ... .... .... Non lo so se fu mio padre o se fu cercato dal Mannino, non mi ricordo signor Giudice .... . ... Giustamente questo incontro era consequenziale al primo incontro in cui c'era stata quella affermazione ed essendosi diciamo concretizzato quello che aveva paventato il Mannino in quell'incontro, giustamente lui era fortemente turbato e preoccupato per quello

che era successo; .... ....

P. M DEL BENE: - Dico, come nel primo incontro ci fu la frase uccidono o me o Lima, in questo secondo incontro ricorda se suo padre le riportò qualche espressione particolare di Mannino?;

DICH. GUAZZELLl: - No, c'era la preoccupazione che potesse essere il prossimo lui, insomma, il Mannino.; P. M DEL BENE: - io procedo ad una contestazione, giusto per il ricordo, perché nella sostanza credo... Verbale del 18 maggio del 2012, udienza dibattimentale per il processo a carico del Generale Mori più 1, dinnanzi alla Quarta Sezione del Tribunale, pagina 38 della trascrizione, allorquando lei ebbe a dire: Mannino ebbe ad esclamare una frase che di recente ho anche riletto sui giornali, nel senso hanno ammazzato Lima, potrebbero ammazzare pure me.;

DICH. GUAZZELLl: - Sì, sì, sì").

Nel prosieguo della deposizione il teste ha affrontato il tema dei rapporti del padre con il M.llo Scibilia che da ultimo aveva prestato servizio al R.O.S. Di Messina [...] e che il teste aveva incontrato allorché era stato chiamato a testimoniare nel processo a carico del Gen. Mori [...]. Quanto ai rapporti tra il padre ed il Procuratore della Repubblica di Agrigento Vaiola, il teste ha riferito che, per quanto a sua conoscenza, il padre nutriva disistima nei confronti del Vaiola [...], il quale, peraltro, in una occasione lo aveva costretto a modificare una informativa di reato ("[…] Sì. sì. perfettamente ... . .. Sì. sì. ricordo perfettamente ... . ... .... ricordo che mio padre venne a casa ed era veramente fortemente amareggiato per questa vicenda. perché aveva fatto delle indagini particolari su Reina che era collegato a tutta una serie di situazioni che facevano. manifestavano in maniera chiara ed evidente che fosse collegato ad ambienti mafiosi. E lui insomma ci teneva molto a questa informativa e quando la depositò. andò per depositarla e ne parlò con il Procuratore, vide che insomma il Procuratore era nettamente contrario, contrario a ricevere ... E che anzi gli disse di modificarla, insomma, di addolcirla, ci rimase male. Ci rimase così male che, insomma, per diciamo far valere dal suo punto di vista quella che era la sua opinione, ne fece due, nel senso una l'addolcì secondo il dettame del Procuratore, ma quello che era il suo vero pensiero lo depositò presso gli archivi del Comando Provinciale di Agrigento dove penso sia stata ritrovata se non ricordo male"). Anche il tema dei rapporti tra il M.llo Guazzelli e il Gen. Subranni è stato ulteriormente approfondito su sollecitazione del P.M. ed, in particolare, il teste ha precisato che si trattava di rapporti anche familiari e di amicizia [...], così come, approfondendo anche l'episodio della visita fatta dal padre all'On. Mannino prima dell'omicidio Lima, il teste ha confermato che forse a quell'incontro il padre era stato accompagnato dall'Ing. Vetrano [...]. Il teste, ancora, ha riferito del servizio dallo stesso prestato nell'Arma dei Carabinieri dopo la morte del padre […] e di non avere parlato col Subranni, subito dopo la morte del padre, degli incontri di questi con l'On. Mannino, ma, soltanto dopo qualche tempo, ad altri ufficiali del R.O.S. che seguivano le indagini sull'omicidio [...].

Orbene, dalla predetta deposizione, per quanto caratterizzata da una scarsa volontà collaborativa, poiché il teste ha sostanzialmente sempre atteso le contestazioni da parte del P.M. delle dichiarazioni precedentemente rese per poi confermarle (anche quelle ben più recenti in cui aveva manifestato di ricordare i fatti remoti degli anni 1991-1992), si ricava, per quel che rileva ai fini della ricostruzione degli accadi menti prospettata dalla Accusa che sarà valutata nel prosieguo, che:

l) il M.llo Guazzelli, sino al giorno della sua uccisione, ha avuto intensi rapporti di collaborazione - oltre che di amicizia - con il Gen. Subranni anche al di là delle proprie formali attribuzioni funzionali;

2) il M.llo Guazzelli ha intrattenuto anche rapporti con l'Ono Mannino, incontrandolo più volte e, in particolare, da ultimo qualche mese prima dell'omicidio dell'On. Lima e subito dopo il medesimo omicidio (quindi, nel mese di marzo 1992), raccogliendo, in entrambi i casi, i timori espressamente manifestati dal Mannino per la propria vita;

3) il M.llo Guazzelli, qualche giorno prima di essere ucciso (il 4 aprile 1992), ha incontrato il Gen. Subranni (sul punto, contestato dalla difesa degli imputati Subranni e Mori all'udienza del 2 marzo 2018 sulla base della tesi che il fatto che Guazzelli sia stato prelevato all'aeroporto con l'autovettura e dall'autista di Subranni non proverebbe il successivo incontro, non sembra necessario aggiungere alcunché, avuto riguardo alla chiara testimonianza di Riccardo Guazzelli, persino sullo spostamento della partenza del padre proprio per consentire quell'incontro, del tutto trascurata dalla difesa medesima).

Altri elementi utili alla ricostruzione dei fatti si ricavano, altresì, dalle dichiarazioni del teste Gen. Giuseppe Tavonnina (in parte pure sopra già richiamate), il quale ha confermato, sia pure dopo una contestazione, di avere anch'egli incontrato il M.llo Guazzelli pochi giorni prima che questi venisse ucciso. Il teste, infatti, dopo avere in un primo tempo riferito di avere parlato una sola volta e per telefono col M.llo Guazzelli [...], ha successivamente confermato, come detto a seguito di contestazione del P.M., le precedenti dichiarazioni con le quali aveva riferito di un incontro personale alcuni giorni prima che il Guazzelli fosse ucciso [...]. E' da evidenziare, dunque, la singolare coincidenza che il M.llo Guazzelli, che ben conosceva il Mannino e dal quale, peraltro, aveva già raccolto le esternazioni sul pericolo che riteneva su di lui incombente sia prima che dopo l'omicidio Lima, abbia poi incontrato pochi giorni prima di morire entrambi i Generali dell'Arma, Tavormina e Subranni, cui lo stesso Mannino si era rivolto per le medesime preoccupazioni esternate al Guazzelli. Ed è stato lo stesso teste Tavormina, pur non avendone un ricordo, a non escludere che nell'incontro avuto con Guazzelli si sia parlato di Mannino [...]. Si tralasciano, invece, in questa sede le dichiarazioni rese da Angelo Siino riguardo ad asseriti rapporti del M.llo Guazzelli con esponenti mafiosi di Agrigento sia per la possibile equivocità di tali rapporti, sia, soprattutto, per l'assenza di riscontri, oltre che per l'irrilevanza ai fini che qui interessano, e, tuttavia, va rilevato che anche le dichiarazioni di Siino, comunque, confermano i rapporti tra Mannino e Guazzelli anche quale tramite verso il Gen. Subranni [...], nonché, altresì, i rapporti tra lo stesso Guazzelli e gli altri odierni imputati Mori e De Donno e gli incontri diretti tra Mannino e Subranni (v. ancora dich. Siino: "Guazzelli io sicuramente ne ho parlato, però non le posso essere più preciso in che momento ne parlai e per quale motivo ne ho parlato. Però debbo dire che qualche volta ne ho parlato e il Guazzelli mi disse che lui spesso si riuniva sia con Subranni e dopo, dopo un certo periodo, nel punto cruciale della mia via crucis, perché così la definisco, mi disse pure che aveva avuto rapporti con il Colonnello Mori e con il Capitano De Donno .... .. ... Li aveva avuti Mannino, era anzi ... È andato a chiedere la mia testa al De Donno e al Colonnello Mori perché mi diceva che ero un delinquente, che vessavo le imprese locali e lui no. E praticamente ero un personaggio poco raccomandabile. E forse in effetti lo ero, ma praticamente non ero da meno, da che pulpito veniva la predica; […]

P. M DI MATTEO : - Guazzelli si espresse proprio in che termini sul rapporto Subranni - Mannino?;

DICH. SIINO : - In questi termini: io praticamente porto spesso il Subranni da Mannino, perché ... Almeno quando lui me lo chiede. Perciò il Mannino glielo chiedeva: portami a Subranni. E lui lo faceva. Perché era legato da comparaggio con il Mannino, almeno così mi disse. lo non è che so se lui era compare o meno, era vero, però così lui mi diceva e io dovevo crederci, per cui praticamente va bene, per me andava bene. Sapevo anche perché usava il Guazzelli per incontrarsi con Subranni, e praticamente mi ricordavo del fatto che aveva detto Rosario Cascio, che c'era stata una indagine lampo sulle attività del Mannino, da cui Mannino era uscito bello ... Un uccello bianco;[...]).

2.7 CONCLUSIONI SULL'OMICIDIO DEL M.LLO GUAZZELLI. Anche in questo caso non vi sono sicuri elementi per affermare che il M.llo Guazzelli sia stato ucciso da "cosa nostra" nell'ambito della strategia delineata dai vertici di questa tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992 ovvero anche soltanto come segnale lanciato da "cosa nostra" all'On. Mannino ed ai Carabinieri cui il predetto si era già rivolto per tutelare la propria persona dall'incombente vendetta della medesima associazione mafiosa. Certamente non possono, invero, escludersi causali più direttamente collegate alle attività che il M.llo Guazzelli stava portando avanti nella provincia di Agrigento e, dunque, appare del tutto superfluo ricostruire tutte le vicende in qualche modo collegate ai procedimenti concernenti l'On. Mannino instaurati presso le Procure di Sciacca e Agrigento sui quali, invece, si è molto dilungata la difesa degli imputati Subranni e Mori (v. trascrizione all'udienza del 2 marzo 2018), insistendo anche per l'ulteriore acquisizioni di documenti che la Corte già nel corso dell'istruttoria dibattimentale ha ritenuto - e continua ora a ritenere - superflui. Ma non può essere dubbio che l'uccisione del M.llo Guazzelli, avvenuta nel contesto di tutti quei rapporti tra Mannino da un lato e Subranni, Tavormina e lo stesso Guazzelli dall'altro in relazione ai timori per la propria vita manifestati dal primo e, peraltro, temporalmente pressoché in coincidenza con gli incontri avuti da quest'ultimo sia col Gen. Tavormina che col Gen. Subranni, possa avere accresciuto nello stesso Gen. Subranni la sensibilità verso i temi della sicurezza di persone a lui in qualche modo e a vario titolo vicine e possa, quindi, averlo indotto ad assumere, sollecitare o avallare quell'iniziativa dei suoi subordinati Mori e De Donno finalizzata ad instaurare una interlocuzione con i vertici mafiosi. Una conferma, ancorché non necessaria, di tale conclusione, che, seppure di carattere logico-deduttivo, si fonda su dati di fatto accertati e su una valutazione complessiva degli stessi, si trae anche da una annotazione rinvenuta sulle agende del Col. Riccio a proposito di una confidenza che il collega Sinico ebbe a fargli. Delle dichiarazioni del Col. Riccio, della loro attendibilità e dei limiti di utilizzabilità delle stesse si parlerà ampiamente in altro Capitolo di questa sentenza, ma può già qui anticiparsi, in sintesi, sia che ovviamente per l'utilizzazione delle dette dichiarazioni nella parte relativa alle confidenze raccolte dal Sinico non sussistono ostacoli di sorta, sia che in questo caso le dichiarazioni intervengono a supporto di una risultanza documentale autonomamente acquisita ancorché proveniente dallo stesso Riccio. Ci riferisce ad una annotazione rinvenuta in una agenda sotto la data del 13 febbraio 1996 relativa alla confidenza fattagli da Sinico riguardo alla paura suscitata nel Gen. Subranni dall'omicidio Guazzelli in quanto "vicino" a Mannino. (v. dich. Riccio)

P. M DI MATTEO: - Senta, facciamo un attimo un passo indietro. Cortesemente, prenda l'agenda alla data del 13 febbraio del 1996 ......... 13 febbraio 96, Roma, lavoro in ufficio ... ..... Sinico confermato ..... Subranni. Confermato, Subranni aveva paura della morte di Guazzelli, maresciallo vicino Mannino;

DICH. RICCIO: - A Mannino ... ...... Sì, c'è una A piccolina ... ... . .. De Donno fu fatto rientrare di corsa dalla Sicilia. E poi faccio una mia considerazione, faccio trattino, Guazzelli, fu un avvertimento per (FUORI MICROFONO) Mannino e soci? .. ...... Sì, o "e soci" o "solo soci da Mannino" ... ... ... allora, il discorso nasce prima di questa annotazione e come in altre volte mi accadeva di fare, con Ilardo affronto diciamo la questione Guazzelli perché ne riporto l'articolo sui quotidiani di quel tempo, che parlavano appunto della morte di Guazzelli, che si diceva, se non ricordo male, ammazzato dalla Stidda. E sollecito Ilardo a parlare e Ilardo mi fa una faccia contrariata dicendo... E mi fa capire in maniera abbastanza, diciamo, abbastanza chiara che i fatti non erano in quel modo. Cioè, mi fa capire che l'omicidio non era nato perché avevano timore di Guazzelli come un sottufficiale che operasse fattivamente Cosa Nostra, ma che rappresentasse altri aspetti. E poi disse... Ovviamente rimandò ad altri momenti, diciamo, di approfondire questa, diciamo, questa vicenda. E successivamente a questo incontro, trovandomi al Ros perché facevo lì servizio e lavorando in ufficio, quella mattina chi incontrai con Sinico, eravamo nell'ufficio di Sinico, […] E Sinico che mi dice che quando avviene la morte di Guazzelli, il Generale Subranni si è spaventato moltissimo, mi è spaventato moltissimo, tanto è vero che hanno fatto rientrare di corsa dalla Sicilia De Donno perché avevano paura che anche a De Donno poteva succedergli qualcosa. E io me lo sono annotato proprio perché c'era stato il discorso giorni prima con Ilardo. E allora ho fatto le mie considerazioni, siccome lui mi aveva detto, come ho scritto poi nelle relazioni e anche che Mannino era strettamente controllato dalla famiglia di Agrigento, il discorso aveva, con questi fatti, per me una connotazione diversa, e che poi ovviamente in sede di collaborazione avrebbe dovuto spiegarmi... ... .. .. Confermato che Subranni aveva paura della morte di Guazzelli, che era un Maresciallo vicino a Mannino, questo me l'ha detto il Capitano Sinico ... ... ... Certo, del Ros. E in più mi dice che in quell'occasione, alla notizia della morte di Guazzelli, fecero rientrare di corsa De Donno dalla Sicilia perché avevano paura che anche a De Donno potesse succedere, fare la stessa fine di Guazzelli, punto... […]

P. M DI MATTEO : - Aspetti, aspetti, poi ci dirà l'esempio, ma sul punto specifico. Stesso verbale del 22 novembre 2012, allora, dunque: nella stessa conversazione Sinico mi riferì, come ho annotato, dello stretto rapporto tra il Guazzelli e l'Onorevole Mannino e mi confermò quanto già avevo sentito nell'ambiente del Ros in merito al fatto che il Mannino fosse molto vicino agli stessi Ros. Adr: quanto al rapporto Guazzelli - Mannino, certamente me ne riferì anche Ilardo. Fu invece personalmente il Colonnello Mori a parlarmi per primo dei rapporti di conoscenza diretta tra Vito Ciancimino e il Generale Subranni. Ciò avvenne nel momento in cui stava costituendosi il Ros e si discuteva di come affrontare le indagini sulle famiglie mafiose siciliane. In quel frangente Mori mi disse del pregresso rapporto Ciancimino - Subranni, senza specificarmi altro. Quindi qua lei è stato netto nel dire che fu Mori a parlarle del rapporto Ciancimino - Subranni;

DICH RICCIO: - Sì, molto probabilmente sì... ... ... Mi sembra anche lui direttamente mi parlò della sua conoscenza con Sinico, con Siino, perché a me in un accertamento che feci a Bagheria, mi viene fuori questo personaggio e lui mi disse sì, io l'ho conosciuto, anzi mi ha fatto anche da confidente ... .. ; ...... ...

P. M DI MATTEO : - E ricorda che tra gli altri lo stesso Mori le parlò di questo rapporto diretto Ciancimino - Subranni?;

DICH. RICCIO: - Sicuramente, se l'ho detto sì, allora avevo un ricordo ancora più preciso, comunque io con loro parlavo, non è che parlassi con altre persone, i miei interlocutori del Ros erano loro"). Per completezza, va, altresì, evidenziato che la difesa di Subranni e Mori ha fortemente contestato la contestualità di quelle annotazioni sotto la data del 13 febbraio 1996 (anche in sede di discussione, esibendo alla Corte, all'udienza del 2 marzo 2018, la copia della relativa pagina dell'agenda per evidenziare il carattere più minuto della scrittura rispetto a precedenti e successive annotazioni, nonché richiamando l'interpretazione contenuta in altra sentenza) e che, però, il Col. Riccio, sul punto, ha fornito spiegazioni di cui non può negarsi la plausibilità [...] tenuto conto che le annotazioni precedenti con grafia più ampia sono relative ad impegni programmati e, dunque, ragionevolmente possono farsi risalire anche al giorno precedente rispetto a quella relativa all'occasionale colloquio di quel giorno con Sinico che ben potrebbe essere stato, poi, inserito la sera così come riferito da Riccio, dopo che durante il giorno erano state già scritte altre più semplici annotazioni più di routine. [...] Certo, va anche detto che il teste Sinico, citato dalla difesa degli imputati Subranni, Mori e De Oonno, ha smentito di avere avuto quel colloquio oggetto dell'annotazione di Riccio […] ma tale generica negazione, a prescindere dai rapporti di fedeltà (che non è un termine offensivo, come ritenuto, invece, dalla difesa di Subranni e Mori in sede di discussione ali 'udienza del 2 marzo 2018, che, poi, ha anche ironizzato, ricorrendo al paragone del cane, se è vero che la fedeltà è addirittura richiamata nel motto dell'Arma dei Carabinieri sin dall’inizio del secolo scorso) e riconoscenza che legano il teste all'imputato Mori, tanto che quest'ultimo ebbe a chiamare il Sinico presso di sé al SISDE […] , appare poco credibile alla luce della precisione di quell'annotazione (non comprendendosi, peraltro, per quale ragione Riccio avrebbe dovuto falsificarla o anche soltanto attribuirla al Sinico piuttosto che direttamente a Subranni o Mori) e della coerenza della stessa con l'intero contesto delle risultanze concernenti il Mannino e l'omicidio del M.llo Guazzelli di cui si è detto. In conclusione, dunque, può ragionevolmente ritenersi che anche tale omicidio si pone come antecedente logico-fattuale dell'iniziativa che di lì a poco Subranni, unitamente a Mori, avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i vertici dell'associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.

Strage di Capaci, la “premessa” del patto. La Repubblica il 16 agosto 2019. Tra gli antefatti logico-fattuali della c.d. "trattativa Stato-mafia" di cui si dirà, assume, ovviamente, un ruolo del tutto centrale e forse determinante per la sua dirompente tragicità, anche la strage di Capaci nella quale persero la vita il Dott. Giovanni Falcone, la moglie Dott.ssa Francesca Morvillo e alcuni degli uomini della scorta del primo. In questa sede, tuttavia, non appare necessario ricostruire quel tragici accadimenti, potendosi rinviare alle risultanze delle sentenze irrevocabili intervenute su tale delitto ed acquisite agli atti (la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Caltanissetta del 26 settembre 1997; la sentenza di secondo grado della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 7 aprile 2000; la sentenza della Corte di Cassazione del 30 maggio 2002). Quel che semmai è opportuno evidenziare, per le valutazioni che si faranno nel prosieguo, è che dal complesso esame di tali sentenze emerge con chiarezza l'intento vendicativo e punitivo che ebbe in quel momento ad animare la feroce reazione di Salvatore Riina pur nell'esecuzione di una "condanna a morte" del Dott. Falcone risalente nel tempo, tanto da abbandonare improvvisamente la possibile più agevole esecuzione del delitto in Roma per perpetrare una strage senza precedenti e così manifestare coram populo la persistente potenza di "cosa nostra" e della propria persona (v. quanto successivamente si dirà riguardo alle risultanze delle intercettazioni eseguite nel 2013 nei confronti dello stesso Riina) nonostante il grave colpo inferto dallo Stato con la sentenza del maxiprocesso. Si vuole dire, in altre parole, che in quel momento era ben lungi da Salvatore Riina l'intento di formulare richieste trattativiste nei confronti di Istituzioni dello Stato (che, altrimenti, sarebbe stato più utile non portare lo scontro alle estreme conseguenze con una strage così eclatante, che, nella logica delle cose, avrebbe dovuto, semmai, inevitabilmente chiudere qualsiasi possibilità di dialogo e "scatenare", da parte dello Stato, una reazione senza quartiere diretta a sgominare definitivamente l'organizzazione mafiosa siciliana e quella sua leadership così sanguinaria), ma soltanto quella di dimostrare la forza e l'ineluttabilità della reazione di "cosa nostra" all'attacco sferrato dallo Stato con le condanne inflitte ali 'esito del maxiprocesso. In sostanza, dunque, non v'era ancora alla vista alcuna ipotesi di minaccia di ulteriori azioni finalizzata ad ottenere benefici (e, quindi, di ricatto), ma solo e soltanto l'esplosione della furia vendicatrice di Salvatore Riina nei confronti dei magistrati che venivano individuati quali artefici di quel successo dello Stato e di quei personaggi, gravitanti attorno all'associazione mafiosa beneficiando di appoggi elettorali e prebende economiche, che non erano stati in grado di opporsi a quell'esito infausto (per "cosa nostra").

La testimonianza del ministro Scotti. La Repubblica il 17 agosto 2019. Vincenzo Scotti, Ministro dell'Interno dal 16 ottobre 1990 sino al 29 giugno 1992, è stato esaminato, in qualità di teste, nelle udienze del 29 maggio e 13 giugno 2014 allorché, in sintesi, ha riferito: [...]

- di avere assunto, in particolare, la carica di Ministro dell'Interno il 16 ottobre 1990, mantenendo la in due diversi governi, entrambi sotto la presidenza Andreotti, nei quali, invece, la carica di Ministro della Giustizia era stata ricoperta prima da Giuliano Vassalli e poi da Claudio Martelli [...];

- che in tale periodo, in piena sintonia col Ministro della Giustizia, ebbe ad adottare numerosi provvedimenti per contrastare le organizzazioni mafiose pur incontrando alcune difficoltà in sede di conversione parlamentare ("Quasi tutti, tutti i provvedimenti che abbiamo assunto nell'arco del novembre 90, che fu il primo Decreto Legge a lui partecipai, fino al Decreto Legge dell'8 giugno 92, furono presi sempre in sintonia con il Ministro di Grazia e Giustizia. Il primo provvedimento fu il Decreto Legge preso con firma congiunta, mia e del Ministro della Giustizia. lo quando mi sono insediato, l'elaborazione era già avanzata, facemmo solo delle ... Feci solo, proposi solo delle aggiunte a quel testo, soprattutto in materia di regime carcerario, che poi sono un po' i precedenti del 41 bis dell'8 giugno 92. Noi ... Quel decreto incontrò notevoli difficoltà di conversione e fu reiterato per ben sei volte con una prassi costituzionale abbastanza discutibile da questo punto di vista. Questo primo decreto e la discussione in Parlamento aiutò a impostare una serie di provvedimenti che sono tutti tra loro collegati, fanno parte di una unica, possiamo dire, strategia, non solo strategia, ma anche di segno normativo e questi provvedimenti furono elaborati dal Ministero degli Interni e dal Ministero di Giustizia con, evidentemente, delle preminenze per alcune materie del Ministero degli Interni, preminenza del Ministero di Giustizia per altre questioni. Per esempio per la istituzione della DIA, il decreto fu Ministro degli Interni, Ministro della Giustizia, il decreto della DNA fu invece Ministero di Giustizia, Ministero degli Interni. Il disegno riguardava da una parte una prima osservazione che veniva dal Maxi Processo di Palermo di Falcone, e anche prima della venuta di Falcone a Roma ci fu una discussione con il Giudice Falcone anche in relazione alla collaborazione che ci venne dal Procuratore Giuliani che aveva collaborato con Falcone ai tempi della istruttoria del Maxi Processo. La prima questione era lasciar cadere le istituzioni emergenziali e delle legislazioni straordinarie, ma affrontare le questioni attinenti alla istituzione investigativa, alla istituzione giudiziaria, nascevano dalla considerazione di Falcone ... È noto, sia per quanto riguardava il problema della creazione di una autorità investigativa che mettesse insieme le diverse Forze di Polizia e avesse una visione complessiva del fenomeno mafioso, anche con riferimenti a livello internazionale e dei suoi collegamenti internazionali. Dall'altra parte il problema giudiziario della creazione di una Procura specifica e un coordinamento e una lunga discussione che avvenne sul problema dell'avocazione possibile da parte della Direzione Nazionale Anti Mafia. Questo fu un primo blocco di provvedimenti che fu molto travagliato perché le opinioni erano profondamente diverse e si congiungevano, diciamo così, visioni garantiste da una parte, costituzionali, e altre invece visioni più particolari di non volere strutture anti mafia specifiche .... ... . . .Il secondo blocco è quello che riguarda la collaborazione dei pentiti, la Legge e il regolamento. Il regolamento fu steso sostanzialmente da Falcone in una Commissione presso il Ministero degli Interni in quel momento, che aveva come Presidente il sottosegretario Ruffino del Ministero degli Interni .... ... ... L'altro blocco di misure furono quelle relative al riciclaggio del denaro e alla confisca dei beni, due punti fermi di quella strategia ........ ... L'ultimo blocco fu quello che venne adottato con un Governo dimissionario nel giugno, 1'8 giugno del 92. Il problema quale fu? C'era da una parte l'entrata in vigore del Codice di Procedura Penale che aveva creato notevoli problemi rispetto alla investigazione giudiziaria, all'intervento giudiziario per la mafia, c'erano problemi che riguardavano proprio lo svolgimento del processo, tutte norme che voi conoscete benissimo, quindi non ho bisogno di dire niente. E in quella occasione venne fuori il problema del raccordo tra mafia interna ed esterna dal carcere e venne fuori la formulazione del 41 bis;

- che già nel 1990 si era intervenuti con una modifica della legge Gozzini che escludeva i detenuti per mafia dai benefici carcerari [...];

- che in occasione della legge istitutiva della D.I.A. si manifestarono opinioni dissenzienti anche da parte di alcuni Corpi delle Forze dell'Ordine […];

- che il decreto sanciva, tra l'altro, l'obbligo di tutti i Corpi delle Forze dell'Ordine di informare la D.I.A. di quanto emerso nel corso delle rispettive investigazioni in tema di antimafia ("Questo era un presupposto la DIA per poter funzionare, per avere un quadro complessivo del funzionamento, diciamo così, della criminalità organizzata, si richiedeva che la DIA fosse messa in condizioni di avere conoscenza dei vari pezzi di investigazione esistenti sul territorio nazionale e quindi di notizie pervenute ai diversi Corpi, alle diverse responsabilità ...... ... La scelta dei vertici della DIA fu fatta anche con questo criterio di portare il Generale Tavormina dei Carabinieri e il Prefetto De Gennaro, rispettivamente Direttore e Vice, proprio per dare l'indicazione della necessità dell'unità e questa si basa sulla informazione, l'informazione è fondamentale");

- che nel marzo 1992, in occasione di una audizione parlamentare, ebbe effettivamente a lanciare un allarme di un tentativo destabilizzazione in corso da parte delle organizzazioni mafiose, così come, in quegli stessi giorni, d'altra parte, aveva fatto riservatamente il Capo della Polizia con alcuni dispacci riservati trasmessi alle prefetture ed inopinatamente pubblicati sulla stampa (" .. devo premettere una cosa per comprendere. Dalla fine dell'anno precedente, del 90, del 91, agli inizi del 92, c'è stata una intensificazione della reazione della mafia ai provvedimenti che venivano adottati dal Governo. […] il Capo della Polizia, in quella stessa occasione nella sua relazione, spiega questo collegamento e lui consegna al Parlamento, il 20 di marzo, una documentazione ampia di questi fatti. Noi sulla base di questi fatti, io riunii il Comitato dell'Ordine e della Sicurezza e i Servizi ed ebbi, e registrai in quelle occasioni le preoccupazioni. Qui non si tratta di prendere singolarmente i fatti, ma di mettere insieme dei fatti concreti, delle informazioni provenienti dalle Forze di Polizia e dai Servizi e attraverso una analisi di intelligence dare un quadro e indicare un significato e una direzione di quello che avveniva. Su questa base, con il capo della Polizia decidemmo di allertare Questori, Prefetti, nell'ambito delle rispettive responsabilità, e i Comitati locali, per una attenzione straordinaria. Eravamo nel pieno di una campagna elettorale ... .... .... dentro questo clima noi facemmo e lo facemmo con forma segreta. Due giorni dopo, due - tre giorni dopo, il Corriere della Sera pubblica la notizia. Noi una cosa che volevamo rimanesse segreta e riservata e che fosse una direttiva di comportamento dei Prefetti e dei Questori, diventa

improvvisamente un problema politico. Siamo con il Parlamento sciolto, immediatamente i Presidenti di Camera e Senato mi chiamano e mi dicono: ma che cosa c'è dietro tutto questo e perché?.. ... . ... E qui c'è l'intelligence che entra in gioco, se lei prende questi singoli pezzi di puzzle e li mette insieme, allora arriva ad avere un quadro di preoccupazione, non generica ma specifica. lo tre giorni prima del 20 marzo avevo parlato alla Commissione Anti Mafia ... I1 17 marzo, tre giorni prima del 20 marzo, avevo parlato alla Commissione Anti Mafia sul delitto Lima e avevo chiesto alla Commissione Anti Mafia e alle Forze Politiche presenti rappresentate nella Commissione Anti Mafia, di rispondere a un interrogativo: quale era la scelta che essi volevano. Cioè una scelta di scontro e di scontro a 360 gradi con la criminalità organizzata, io parlai specificamente di guerra, nel senso anche tecnico del termine, non di guerriglia, ma di strategia di guerra, o volevano avere un atteggiamento di connivenza che avrebbe certamente consentito un clima diverso, più ... meno violento, con meno quantità di violenza, ma avremmo avuto... Ci portavamo sulle spalle la responsabilità di una situazione che era di corrompimento della vita sociale, economica e politica ..... ... .... lo dissi che la mia scelta era quella e l'ho ripetuto ... ... ... Questa dello scontro frontale [...] Certamente io mi sentivo, fin quando sono stato lì, di rappresentare il Governo e di esprimere una linea in questa direzione non smentita.... ... ... io ho detto che quelle decisioni dell'allarme, eccetera, furono decisioni assunte da me e dal Capo della Polizia, assumendoci la responsabilità di quello che facevamo, pronti a risponderne, è evidente, e ne rispondemmo in Parlamento, questa è la situazione. E poi se il Governo mi smentiva, quello può tranquillamente farlo, siamo in Democrazia, questa era la posizione del Ministro degli Interni, ma fin quando non era smentita dal Governo era la posizione, io l'ho considerata la posizione del Governo e della maggioranza in Parlamento");

- che, tuttavia, in quegli stessi giorni si sovrappose la vicenda di una segnalazione specifica giunta dall' A.G. di Bologna che riferiva di un allarme lanciato da un soggetto, prima non specificato, ma che poi si venne a sapere trattarsi di un noto depistatore, Elio Ciolini ("[...] Una comunicazione che mi aveva trasmesso il Capo della Polizia su un documento acquisito da un Magistrato a Bologna, documento nel quale si diceva che c'era ... Si erano visti all'estero, che c'erano delle... Che ci sarebbero stati attentati, ci sarebbero state azioni, eccetera, eccetera. Siamo prima di Capaci, cioè prima di quella fase lì, cioè siamo in quei giorni. E con il Capo della Polizia guardiamo al documento e gli dico: va bè, qui ci sono del cose che possono essere vere e delle cose fatte per depistare, sta a voi capire un minuto che cosa c'è dentro e che cosa è ... Va presa sul serio, su cosa, come va invece scartata come depistaggio. Mentre la mattina, di giorno sono per andare al Parlamento, una agenzia di stampa viene fuori con il nome, si trattava di Ciolini, noto depistatore di processi passati [...]. Alla Commissione dei Servizi di cui sono andato dopo il 20 di marzo, due giorni dopo sono andato anche alla Commissione dei Servizi presieduta allora, in quel momento, dall'Onorevole Gitti, sono andato e abbiamo riferito con il Capo della Polizia, con qualche maggiore dettaglio, l'informativa che avevamo dato alla Camera e al senato .... ... .... anche il Comitato dei Servizi riteneva che c'erano degli elementi che spingevano a richiamare l'attenzione e a stringere non solo le istituzioni, ma anche l'opinione pubblica sul quadro in cui siamo. Quello che è risultato i mesi successivi, giudichiamoli come vogliamo, sono lì a dichiarare che qualcosa in fondo ... "), così che lo stesso Presidente del Consiglio ebbe a ridimensionare quell'allarme fondato su segnali diversi da quelli provenienti dal Ciolini [...], tanto che egli ritenne necessario a quel punto informare personalmente anche il presidente del Consiglio [...];

- di ritenere che tutti i possibili obiettivi della strategia mafiosa, quali il Presidente del Consiglio Andreotti e i Ministri Mannino e Vizzini, furono allertati ("Sono convinto di sì, ho trovato un ritaglio di stampa che è dalla rassegna stampa ufficiale del Ministero degli Interni in cui qui parla ... "Scotti respinge, il Ministro Mannino si tenga la scorta. No, il Ministro non potrà fare a meno della scorta, la richiesta di revoca dei Servizi di Protezione, avanzata dal Ministro Calogero Mannino, è stata ritenuta inaccettabile da parte del Ministero dell'Interno. Lo ha reso noto un comunicato dello stesso Ministero nel quale si informa inoltre che l'Onorevole Mannino è stato invitato ad accettare ulteriormente le misure di sicurezza disposte nei suoi riguardi. La notizia, la richiesta di rinuncia da parte del Ministro Mannino, dal servizio di scorta era stata comunicata venerdì dai rappresentanti di Sindacati di Polizia durante una conferenza stampa che si è svolta a Palermo per sottolineare i problemi inerenti alla carenza di mezzi e uomini nella lotta alla criminalità organizzata e in particolare ... " ...... ... Questa porta la data 1 giugno 1992 ... ... ... La Gazzetta del Mezzogiorno");

- che il Dott. Falcone, invece, ebbe ad esprimergli solidarietà, avendo condiviso l'opportunità di lanciare quell'allarme e la strategia del Ministro di contrasto duro alla mafia ("Sì, devo dire che il dottor Falcone ... Anche qui ci sono le tracce, non sono un ricordo mio di oggi, no? Ho ritrovato anche sulla stampa le tracce su questo, Falcone mi espresse tutta la solidarietà e tutta la partecipazione dicendo che era giusto, che avevo ragione, che avevamo ragione in quella circostanza .... ... ... Del lanciare ... .... .... la mia comunicazione alla Commissione Anti Mafia del 17 marzo, io prima di farla sui contenuti, mi consultai con Falcone e lui fil, diciamo così, condivise quella impostazione e mi disse: benissimo, lo faccia ... ...... Sì. lo gli lessi, gli feci leggere un minuto il testo che avevo preparato per la Commissione Anti Mafia perché doveroso mio avere un consenso su quello. Lui conosceva meglio di qualsiasi altro la situazione a Palermo e mi poteva consigliare se stavo dicendo delle cose del tutto fuori dalla realtà effettiva e quindi io... Fu mia preoccupazione, mio dovere, ritenni farlo");

- che la decisione di introdurre il regime del cosiddetto 41 bis nacque dopo la strage di Capaci (" .. Il 41 bis nasce dopo e nasce su una convergenza rapida con Martelli sulla necessità di dare non un segnale, come si suoi dire, ma di dare un provvedimento in grado di poter interrompere il rapporto della mafia che sta nei carceri e quella che sta fuori .... ... . .. Nasce subito dopo Capaci, dove ...[...]In concreto, perché le opinioni uno le può tenere, ma quando sono andato dal Presidente del Consiglio e gli ho chiesto: qui c'è un Governo dimissionario, il Capo dello Stato, siamo all'8 di giugno, sta facendo le consultazioni per la formazione del Governo, cosa facciamo? Rimettiamo al nuovo Governo queste carte e poi il nuovo Governo deciderà che cosa fare sulla base della linea che adotta, o decidiamo noi? lo insieme a Martelli ti proponiamo di decidere noi. Andreotti mi dice: ma tu lo ritieni veramente ... Lo ritengo urgente perché se lasciamo passare i giorni e dire non lo facciamo perché c'è la crisi di Governo, nei confronti della mafia noi mostriamo momenti di incertezza o di debolezza. Queste sono le cose ... Le risposte vanno fatto anche quando c'è difficoltà a farle, come l'essere in una crisi, in un Governo di ordinaria amministrazione. Andreotti mi pregò, allora dice: sarà opportuno che tu vada un minuto dal Capo dello Stato insieme a Martelli e gli spiegate un istante perché questo, perché è lui che deve firmare in questo momento, poi lui deve firmare il Decreto e trasmetterlo alle Camere .... ... ... ed ebbi la risposta che il Capo dello Stato avrebbe firmato il decreto, anche non avendo visto ancora i contenuti ... . .. ... sembrò che fosse essenziale fare il decreto, cioè dico che non dovessimo cedere perché sennò le cose dette in Parlamento potevano apparire dichiarazioni di indirizzo futuro .... ... ... La stesura del decreto legge fu frutto del lavoro congiunto dei due uffici legislativi, questa volta ci furono più riunioni con la partecipazione anche dei Ministri, data anche la delicatezza della materia ... ... ... Il 41 bis nacque in discussione su diversi strumenti da poter mettere in campo, alla fine si convenne che forse quello che poteva avere più rilievo era proprio l'introduzione di un regime carcerario capace di influenzare quello che ... Di cambiare quello che spesso si diceva essere una prassi di collegamento dell'esterno del carcere con l'interno del carcere");

- che anche il decreto legge dell'8 giugno 1992 suscitò reazioni negative sia da parte degli avvocati, sia da parte del mondo politico nell'ambito del quale soprattutto si discuteva dell'opportunità di affrontare subito il passaggio parlamentare, come egli, d'intesa con Martelli, richiedeva, anziché attendere la formazione del nuovo governo (''Noi siamo al 9 giugno, la formazione del Governo è in corso, il Capo dello Stato sta svolgendo le consultazioni, il Governo si formerà il 28 o 29 giugno .... ... ... Noi credo che nel giro di pochi giorni mandammo in Parlamento, il capo dello Stato firmò rapidamente, il decreto fil trasmesso alla Camera. (PAROLA INCOMPRENSIBILE) le reazioni soprattutto l'inizio fu le reazioni sulla prima parte, gli Avvocati, le Camere Penali, cioè dico così, presero, misero in discussione quella parte, oltre tutto sollevando il problema di avere stravolto in un certo senso la normativa del Codice di Procedura Penale Vassalli. A livello politico sì, noi chiedemmo di iniziare la discussione perché ci fu una discussione sulla ... Dice il decreto è stato approvato, il decreto è vigente, lasciamo che il Governo si insedi, che la maggioranza si formi in Parlamento, facciamo esaminare dalla nuova maggioranza che si forma, il nuovo Presidente, i nuovi Ministri di poter entrare nel merito. Io d'intesa con Martelli sostenemmo invece no, l'utilità è che si iniziasse in un certo senso la discussione, cioè che il Parlamento desse un segnale di attenzione alla proposta. Si aprì a discussione innanzitutto sulla costituzionalità, lo stesso Onorevole Salvi al Senato mostrò in Commissione, diciamo così, un giudizio di grande dubbio sulla costituzionalità di alcune norme. Non specificò, nelle dichiarazioni che ho letto, mai quali fossero in particolare le norme a cui lui si riferiva. La discussione sul 41 bis fu in questa fase iniziale tenuta molto sotto traccia, non ci furono molti a scoprirsi nel dare un giudizio sul 41 bis, cioè ... Anche perché non c'era stato ... Il41 bis arrivò alla Camera, al Senato, arrivò tra gli esperti, tra gli operatori del Diritto improvviso, non erano quelle questioni sa cui comunque c'era stata una certa discussione, no? .. ...... il 41 bis fu un po' un fulmine a ciel sereno, cioè dico, perché non era tra le previsioni ... ... ... Questo provvedimento arrivò così, quindi non ci fu, nella fase iniziale, una reazione scoperta. Ci fu poi... Le interpretazioni non stanno a me darle, ma ci fu una tendenza a non entrare nel merito, a lasciare che la cosa andasse al successivo Governo");

- che egli ebbe subito la percezione che, in sede parlamentare, sarebbero stati apportati profondi cambiamenti a quel decreto ("Il provvedimento sarebbe stato oggetto di interventi molto decisi di cambiamento, eravamo convinti che la discussione parlamentare, come si era annunciata, non sarebbe stata né facile, né avrebbe portato ad una approvazione del testo che era stato introdotto dal Governo, quindi avevamo la sensazione della difficoltà enorme del passaggio parlamentare, non c'erano dubbi su questo [...]);[...]

- che in quei mesi percepì ripetuti segnali di isolamento all'interno del Partito [...];

- che anche l'On. Andò, poi divenuto Ministro della Difesa nel nuovo Governo, aveva manifestato perplessità generali sul decreto legge dell'8 giugno 1992 (''Sul 41 bis no, sul decreto nel suo insieme sì, cioè anche lui aveva preoccupazioni di costituzionalità, lo ha scritto, lo ha detto, quindi non è una cosa diciamo così che ... Uno scambio di battute in un corridoio, cioè è stata una sua indicazione legittima, io ... Lui riteneva, come altri ritenevano che ci fossero dei profili di incostituzionalità");

- che egli ebbe in un certo senso a sfogarsi in una intervista al giornalista D'Avanzo pubblicata il 21 giugno 1992 sul quotidiano "La Repubblica" [...];

- di non avere mai avuto notizia dei contatti intrapresi dal R.O.S. con Vito Ciancimino [...];

- che nel nuovo governo varato il 29 giugno 1992 gli venne affidato, non più il Ministero dell'Interno, ma il Ministero degli Esteri […];

- che, pertanto, egli presentò immediatamente al Presidente del Consiglio una lettera di dimissioni, ma, tuttavia, poi accettò la richiesta di quest'ultimo di soprassedere per far fronte ad alcuni imminenti appuntamenti di politica internazionale [...];

- che alla fine di luglio 1992 il Presidente del Consiglio improvvisamente lo informò che il Presidente della Repubblica lo aveva invitato ad accogliere le sue dimissioni [...];

- che soltanto dopo la firma del decreto di accettazione delle dimissione aveva avuto occasione di avere uno scambio di opinioni col Presidente della Repubblica [...];

- che dopo la strage di Capaci egli aveva individuato nel Dott. Borsellino la persona più adatta per ricoprire il ruolo di Procuratore Nazionale Antimafia come ebbe a manifestare allo stesso Dott. Borsellino personalmente in occasione di un incontro alla presenza anche dell'On. Martelli ("lo ritenni che la persona più indicata per dare anche un segno di continuità, io mi preoccupai di continuità in una azione anti mafia, fosse quella della nomina di Borsellino e ci trovammo alla presentazione del libro di Arlacchi a Roma alla Libreria Mondadori, alla Casa Mondadori, quella che sta a Via Veneto, sopra, gli uffici diciamo, non la libreria, e c'era Arlacchi, Martelli, io, Borsellino e il Capo della Polizia. […] Dopo pochi giorni mi mandò una lettera riservata dicendo: lascio a lei la responsabilità di pubblicarla o meno. Dopo che le cose un po' erano andate avanti, io pubblicai la lettera di Borsellino. Quello che mi colpì nella lettera di Borsellino fu l'estrema umanità e umiltà della persona, il suo dirsi, rispetto a Falcone ... Tutte le ... Ma altra fine dice: io, il mio posto è a Palermo, ho delle cose da fare. Adesso la dizione non la ... ... ... Non era ancora formato il Governo, eravamo sulla seconda... Verso il 15 - 20 giugno del 92, 20 giugno così, cioè eravamo ... ... ... E questa era la parte finale della lettera, quello che .. . ... ... "Per quanto per me attiene, le supposte riflessioni cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata in una Procura della Repubblica che sicuramente è quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità organizzata". Questa era la conclusione della lettera, ma la lettera ... ");

- che il passaggio delle consegne con il Ministro Mancino avvenne in modo rapido e pubblico e senza alcuna occasione di colloquio privato [...];

- che, poi, la conversione in legge del decreto dell'8 giugno fu accelerata dalla strage di via D'Amelio [...];

- che alla base dell' allarme lanciato nel marzo 1992 vi erano stati anche alcuni episodi relativi a strane intrusioni in uffici e case riferibili al Ministro dell'Interno stesso [...];

- che, per quanto si era saputo, l'avvicendamento al Ministero della Giustizia tra l'On. Martelli ed il Prof. Conso, invece, era scaturito da vicende interne al Partito Socialista […].

In sede di contro esame da parte dei difensori degli imputati, quindi, Vincenzo Scotti, ancora in sintesi, ha aggiunto:

- di avere appreso soltanto dalla lettura della lista dei ministri della nomina dell'Ono Mancino quale ministro dell'Interno […];

- che nel settembre del 1992 organizzò una riunione presso la propria abitazione con il nuovo segretario della Democrazia Cristiana Martinazzoli, il Capo della Polizia Parisi ed il Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri Pisani per sensibilizzare il primo sulle questioni che già da tempo lo avevano indotto a lanciare segnali di allarme [...];

- di non avere avuto nel ruolo di Ministro dell'Interno alcun contrasto con il capogruppo al Senato Mancino [...] e di non avere mai espresso giudizi su coloro che guidavano i vari Corpi delle Forze dell'Ordine [...];

- che le prime notizie riguardo al rischio di attentati gli furono date dal Capo della Polizia tra i mesi di ottobre e novembre 1991 ("Sì, intorno a quella data quelle che sono state riferite a me. l tempi sono stati acquisiti dal Capo della Polizia, il Capo della Polizia disse a Camera e Senato nella Commissione che era da tempo che pervenivano segnali di questo tipo") e che la segnalazione che poi fece nel marzo 1992 non era usuale [...];

- di avere chiesto al Capo della Polizia di informare del pericolo anche coloro che erano stati indicati nominativamente quali destinatari delle minacce [...];

- di non avere informato, prima di diramare l'allarme, né il Ministro della Giustizia, né il Presidente del Consiglio [...];

- che anche nel dibattito politico di quel periodo si contrapponevano due diverse idee di contrasto alla criminalità mafiosa ("Erano sempre, io l'ho detto allora, lo ripeto adesso, sempre che in questo paese nella lotta alla mafia ci sono stati sempre due grandi filoni, uno tendente a ridurre la mafia entro confini controllati in uno scambio di istituzioni e dall'altra parte invece la tesi di una necessità di fare una azione tra virgolette di guerra nei confronti della mafia, queste sono dentro e si sono alternate spesso, ma queste sono le due faccende. [...]);

- che tra il Presidente della Repubblica Scalfaro e il Capo della Polizia Parisi vi erano rapporti che trascendevano i ruoli istituzionali [...];

- che l'allarme lanciato comprendeva anche segnali azioni concernenti la Falange Armata […] e che della Falange Armata ebbe a parlargli anche l'Ambasciatore Fulci [...];

- di non essere stato mai informato di incontri personali avvenuti tra l'on. Mannino, il Gen. Subranni e il Dott. Contrada [...];

- di non avere mai ricevuto al Ministero dell'Interno il Dott. Contrada ("lo non ho mai ricevuto il dottor Contrada, né lui aveva accesso al secondo piano, al Gabinetto e al Ministro. Poi il problema, il Viminale è anche un porto di mare, quindi non posso dirgli quali frequentazioni ... ").

Sul "patto" sfilano i big della politica. La Repubblica il 18 agosto 2019. Il teste Giuliano Amato è stato esaminato all'udienza dei 15 giugno 2016, allorché, in sintesi, ha riferito nelle parti più direttamente concernenti l'On. Scotti (per il resto della testimonianza, concernente anche aspetti dei contatti Mori-Ciancimino, si darà conto nel prosieguo): [...];

- di non avere ricordo del dibattito pubblico che si sviluppò dopo gli allarmi lanciati dal Ministro Scotti e dal Capo della Polizia Parisi nel marzo 1992 e che pure, insieme ad altri esponenti politici, lo riguardavano [...];

- che si pervenne alla sua nomina come Presidente del Consiglio su indicazione dell'On. Craxi nell'impossibilità di questi di assumere egli stesso l'incarico per il coinvolgimento in alcune vicende giudiziarie [...];

- che soltanto dopo l'affidamento dell'incarico seppe dal Segretario Generale Gifuni della visita fatta da Scotti e Martelli al Presidente della Repubblica al fine, per quanto si diceva, di proporsi per il nuovo governo [...], ma di non avere saputo e di non sapere che tale visita fu causa di dissidio tra Martelli e Craxi [...];

- che il 18 giugno 1992, ricevuto l'incarico, aveva iniziato le consultazioni con i partiti, acquisendo, come di consueto, le indicazioni sui ministri da nominare [...];

- che, tuttavia, in quella occasione egli ritenne di discutere alcune di quelle indicazioni sia con il segretario della D.C. Forlani, sia successivamente nell'apposita riunione avuta con il Presidente della Repubblica la mattina di domenica 28 giugno 1992 quando si decise di escludere alcuni dei proposti per il temuto coinvolgimento in vicende giudiziarie [...], mentre, nella stessa occasione, non furono modificate le indicazioni per Scotti e Mancino (''Non toccai, e questo già ce lo siamo ... gliel'ho detto, tra le designazioni della Democrazia Cristiana, quella di Mancino all'Interno e di Scotti agli Esteri'');

- che il Presidente Scalfaro accettò le proposte che egli gli aveva avanzato ("Beh, nell'esperienza che io ho fatto in questa occasione ci fu un maggior peso del Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica accettò quello che il Presidente del Consiglio gli proponeva. Nessuna delle proposte che io gli feci, venne contestata dal Presidente della Repubblica, devo dire la verità. [...]");

- che le indicazioni di Scotti agli Esteri e Mancino all'Interno non fu oggetto di discussione con il Capo dello Stato ("Questo non fu oggetto, no");

- che egli si pose il problema della continuità dell'azione di governo di contrasto alla mafia, ma che il nome di Mancino che gli era stato proposto per il Ministero dell'Interno era a tal fine rassicurante.

P.M Dott. DI MATTEO - Quello è un momento particolare, era trascorso meno di un mese dalla strage di Capaci. Lo le chiedo, in particolare per la individuazione del Ministro degli Interni e di quello della Giustizia, in quel momento lei, nella veste di Presidente del Consiglio incaricato, si pose il problema - intanto le chiedo se si pose il problema, non ... - di cercare di assicurare una continuità all'azione di contrasto alla mafia, che era stata portata avanti anche con una serie considerevoli di Decreti Legge o provvedimenti di vario tipo, in ultimo quello dell'8 giugno, dal precedente Governo?;

TESTE G. AMATO - E certo che me ne preoccupai, anche perché poi il lavoro che facemmo fu soprattutto di assicurare il passaggio parlamentare rapido e, anzi, il rafforzamento di quel decreto dell'8 giugno. Se lei si riferisce alle persone, mah, io ritenevo, tra le proposte che ebbi da Forlani, il nome di Mancino un nome che mi tranquillizzava; lo conoscevo, era una persona che di cose del genere si era, da capogruppo, occupato, era una persona solida e quindi non avevo problemi davanti alla scelta che la Democrazia Cristiana aveva fatto con lui, né mi parve che l'avesse, appunto, il Capo dello Stato, che non obiettò, e poi Mancino si mise a lavoro su questi temi'');

- che per quanto gli fu riferito, Scotti, in un primo momento, a causa della incompatibilità col ruolo di parlamentare decisa dalla direzione della D.C., aveva deciso di restare fuori dal governo e che, quindi, quando lo stesso aveva deciso di rientrare nel governo, il ruolo di Ministro dell'Interno era stato già destinato all'On. Mancino [...];

- che, d'altra parte, Scotti non gli aveva manifestato il desiderio di rimanere nel dicastero già occupato per proseguire nell'azione di contrasto alla mafia già intrapresa ("lo ricordo ... guardi, io ricordo un'unica cosa.' che una persona che io conoscevo bene, di cui mi consideravo e mi considero amico, se avesse avuto seriamente questo problema, mi sarei aspettato che mi avesse chiamato e mi avesse detto Giuliano: "Io voglio restare all'Interno, lo considero importante per la lotta contro la mafia, e qui rischia che mi mettono fuori". Questo non è accaduto, è l'unica cosa che ricordo, questa che non è accaduta") ed egli non aveva letto le interviste rilasciate in proposito in quei giorni dallo stesso Scotti, il quale, d'altra parte, nulla gli aveva detto neppure dopo la formazione del nuovo governo [...];

- di non ricordare alcuna sollecitazione affinché Martelli non venisse confermato al Ministero della Giustizia ("So che Claudio ha detto questo; io, quando lei o qualche suo collega me l'ha chiesto, ho detto che non lo ricordavo. L'ultima volta che questa cosa mi è stata chiesta in questa lunga vicenda, io ho aggiunto, mi pare di ricordare, di averlo ex post chiesto a Salvo Andò, che era il responsabile delle questioni giustizia del PSI, perché lui meglio di me poteva ricordare se c'era la volontà da parte del segretario del partito di allontanare Martelli dalla Giustizia. E lo stesso Andò mi ha detto che non ricorda nulla in questo senso, né ricorda di essere mai stato lui designato, eventualmente, per la giustizia, perché c'era Martelli, tanto è vero che lui divenne Ministro della Difesa in quel Governo. Questa è la risposta che ho dato e che le posso confermare");

- di non ricordare, pur non escludendolo, che Scotti già nella immediatezza della nomina come Ministro degli Esteri presentò le dimissioni e che egli lo abbia invitato a soprassedere per l'imminenza di alcuni impegni internazionali [...];

- che il Ministro Mancino era assolutamente favorevole al decreto dell'8 giugno 1992 per la cui tempestiva conversione in legge si prodigò ("Era assolutamente favorevole. anzi lo considerava essenziale che concludessimo nei tempi consentiti") anzi rafforzandolo [...];

- di avere saputo, forse da Forlani, che la designazione di Mancino al governo serviva anche a liberare il posto di capogruppo da destinare a Gava [...]. [...] Il teste Arnaldo Forlani è stato esaminato all'udienza del 5 febbraio 2015, allorché, in sintesi, ha riferito:

[...];

- che il partito invitava i propri esponenti che assumevano incarichi di governo ad assumere una linea di assoluta intransigenza verso il fenomeno mafioso ("Ma io ricordo che l'atteggiamento del mio Partito nei suoi organi dirigenti, e quindi per le direttive e gli orientamenti che dava anche agli uomini che assumevano responsabilità di Governo, era di un 'assoluta intransigenza, di una lotta sistematica al fenomeno criminale, in modo particolare alla mafia in Sicilia … ... ... Ia direttiva era di un 'assoluta coerenza, anche con il passato e quindi di un'assoluta intransigenza nel perseguire questi fenomeni'');

- che in occasione della formazione del nuovo governo la Democrazia Cristiana designò Mancino quale Ministro dell'Interno[...] e ciò a seguito di decisione dell'Ufficio Politico composto dal Presidente De Mita, dal Segretario Forlani e dai presidenti dei gruppi parlamentari Gerardo Bianco e Nicola Mancino [...], cui, tuttavia, si aggiungevano talvolta i responsabili di singoli settori e i due vice segretari Lega e Mattarella [...];

- che tale designazione, come anche le altre, fu fatta pochi giorni prima della formazione del nuovo governo col consenso di tutti e senza alcuna drammaticità [...];

- di non ricordare in proposito interventi del Presidente della Repubblica [...], rettificando, quindi, sul punto una precedente dichiarazione contestatagli [...];

- che anche Scotti, così come gli altri ministri uscenti, era nella lista dei ministri da proporre per il nuovo governo, ma che, poi, taluni di questi, tra cui lo stesso Scotti, si autoesclusero per la regola della incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare [...];

- che, tuttavia, successivamente, quando era stato già indicato Mancino quale Ministro dell'Interno, Scotti aveva cambiato idea e dato la sua disponibilità ed a quel punto, quindi, fu designato per il Ministero degli Esteri [...];

- che tutto avvenne nel volgere di ventiquattro ore e che fu Gerardo Bianco ad informare Scotti della nomina [...];

- che non vi fu alcun dissenso nella designazione di Mancino [...];

- che, poiché Scotti venne nominato Ministro nonostante la regola della incompatibilità col mandato parlamentare, certamente il medesimo ebbe, ad un certo momento, ad accettare la detta regola allorché fu contattato dall'Ufficio Politico, probabilmente dall'On. Bianco [...];

- che tutti i Ministri accettarono la medesima regola e, tranne Scotti, si dimisero [...];

- che non si pose un problema di continuità della linea politica del Ministero dell'Interno perché Mancino venne ritenuto assolutamente idoneo ad assumere quell'incarico (''Quello che posso dire è che l'indicazione relativa a Mancino derivava da un particolare giudizio dell'ufficio politico circa la idoneità piena del personaggi ad assumere questa responsabilità, quindi certamente la persona che veniva da noi indicata non andava al Ministero per rendere più labile e meno risoluta l'azione e la lotta nei confronti della criminalità organizzata .... ... per continuare in una linea di coerente lotta alla criminalità organizzata .... . , . ... questo appartiene alla logica dei Partiti, mica uno fa il Ministro in eterno, allora venne indicato Mancino. Mancino era uno dei personaggi più autorevoli, era quello che aveva avuto una lunga responsabilità parlamentare ed era concorde l'opinione che aveva doti di fermezza caratteriale e di risolutezza particolarmente idonee ad assumere quella responsabilità");

- che, d'altra parte, nulla in proposito gli fu rappresentato da Scotti, le cui obiezioni riguardavano soltanto la questione dell'incompatibilità [...], cui, però, nella immediatezza della formazione del governo, ebbe a rinunziare secondo quanto riferito in seno all'Ufficio Politico da tal uno dei suoi componenti [...];

- che le misure antimafia del decreto legge del giugno 1992 ed il successivo dibattito parlamentare per la conversione in legge non furono oggetto di discussione all'interno del Partito[...];

- di non ricordare specificamente l'allarme lanciato dal Ministro Scotti nel marzo 1992 ("Ma l'allarme era un dato non di eccezione, come la parola indurrebbe a credere, era un dato di continuità assoluta") e di avere, invece, un ricordo vago della lettera di solidarietà a Scotti pubblicata da alcuni parlamentari sul quotidiano del Partito [...];

- di ricordare anche la preoccupazione che vi era allora per alcuni politici siciliani, tra i quali Mannino ("Che gli uomini della DC con responsabilità pubbliche incorressero in minacce, in rischi, questo è un dato oggettivo, insomma, che appartiene alla storia del Paese, alle vicende, agli assassini intervenuti nei confronti di uomini politici, di Sindaci, di Presidente della Regione ... .. ... l'atteggiamento di lotta e di intransigente contrapposizione alla criminalità, alla mafia è una linea di coerenza della Democrazia Cristiana, sempre tenuta, e quindi non è che sia cambiata o abbia avuto degli adeguamenti diversi a seconda ... Quindi Mannino era segretario in quel periodo, segretario regionale della Democrazia Cristiana, è evidente che incorreva in dei rischi le notizie allarmanti che venivano ... ... .. rappresentate e in termini di opinione pubblica, di stampa, e dagli stessi rapporti e relazioni di Governo, certo, ne avevamo notizia come tutti e per quanto ci riguarda comportavano orientamenti e direttive di assoluta intransigenza").

In sede di contro esame, quindi, il teste ha ulteriormente aggiunto e precisato:

- che la designazione di Mancino avvenne in conseguenza anche del fatto che il Seno Gava aspirava e stava per essere eletto alla carica di capogruppo precedentemente ricoperta dallo stesso Mancino [...];

- di non avere saputo all'epoca che Scotti ebbe a presentare una lettera di dimissioni nella immediatezza della sua nomina quale Ministro degli Esteri […] e di non sapere, quindi, spiegare perché sia stata presentata tale lettera stante che precedentemente lo stesso Scotti aveva acconsentito alla nomina (''No, non so spiegarlo, è una contraddizione che non so spiegare ... ... ... Quello che so è che a un certo punto Scotti ha accettato di andare agli Esteri e anche di buon grado e che, quindi, accettando di fare il Ministro degli Esteri avrebbe rassegnato le dimissioni da Parlamentare"). [...] Il teste Claudio Martelli è stato esaminato nelle udienze del 9 e 15 giugno 2016 ed ha reso dichiarazioni anche su molti altri fatti rilevanti in questo processo diversi da quelli più strettamente attinenti alla vicenda della sostituzione, al Ministero dell'Interno, dell'On. Scotti. In questo capitolo, quindi, si riportano soltanto le dichiarazioni testimoniali del Martelli relative a tale ultima vicenda, in ordine alla quale, in particolare, il teste, in sintesi, ha riferito:

- che Scotti, quando gli fu proposto il Ministero degli Esteri, gli disse che era dispiaciuto, ma che non avrebbe potuto dire di no a quell'incarico prestigioso ("Quando gli si propone e lo si invita, si comunica che deve lasciare il Ministero degli Interni e si propone Ministro degli Esteri, lui mi dice che era dispiaciuto, ma come posso dire di no? Come posso dire di no ... "), anche se, forse, la sua aspirazione principale era quella di segretario della DC ("E lui in realtà, secondo me, non pensava più né a una cosa, né all'altra, pensava a fare il segretario del suo partito e questo lo si capisce con tutta evidenza nel momento in cui subentra la questione dell'incompatibilità tra incarico parlamentare e incarico di Governo. In quel momento Scotti si dimette anche da Ministro degli Esteri. E perché? Perché voleva fare il segretario del partito e quindi voleva essere parlamentare, non so se è chiaro");

- che quel colloquio era avvenuto qualche giorno prima della formazione del Governo [...];

- che Scotti gli disse che nel suo partito gli facevano pagare anche provvedimenti di scioglimento di alcuni consigli comunali adottati come Ministro dell'Interno.

P. M TERESI: - A proposito di questo, si accennò mai al consenso politico o al dissenso politico che ebbero gli scioglimenti dei Consigli Comunali?;

DICH. MARTELLI: - Accidenti, questa era la spiegazione che mi dava Scotti, mi dava Vincenzo ... ... ... Io ho rotto le scatole a troppi nel mio partito con lo scioglimento dei Consigli Comunali .... ... ... Questa me la fanno pagare, mi fanno pagare questa") e che si intendeva tornare alla precedente situazione di convivenza con la mafia.

P. M TERESI: - .... ricorda se in queste interlocuzioni si parlò di un ritorno al passato, di una restaurazione del clima che riguardava i rapporti con le mafie, con la mafia?;

DICH. MARTELLI: - Sì, sì, se ne parlò eccome, credo che l'espressione che usavamo era ... lo dicevo più spesso normalizzazione, lui diceva tornare alla convivenza o la coabitazione tra Stato e mafia");

- di non sapere come si pervenne alla nomina di Mancino quale Ministro dell'Interno al di là di quanto dichiarato dallo stesso secondo cui tale nomina era stata voluta innanzitutto dal Presidente Scalfaro [...];

- che Scotti attribuiva prevalentemente ai suoi provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali la ragione della sua sostituzione quale Ministro dell'Interno [...];

- che Scotti ambiva a divenire segretario della D.C. e per tale ragione non intendeva dimettersi da parlamentare ("...questo lo ricordo benissimo, perché cioè pongono una questione assurda e... lui aveva l'ambizione di diventare segretario della DC e quindi non aveva nessuna intenzione di dimettersi da parlamentare ... ... ... o quantomeno di candidarsi a quel ruolo, ben inteso, non di... "). [...]

Le dichiarazioni rese al P.M., in data 15 dicembre 2010, da Oscar Luigi Scalfaro sono state acquisite al fascicolo dei dibattimento quale atto divenuto irripetibile a seguito del sopravvenuto decesso del detto teste, il quale, quanto alla vicenda oggetto dei presente capitolo (per le restanti dichiarazioni concernenti altri fatti si dirà in seguito), ha riferito di non conoscere i motivi della nomina dell'On. Scotti a Ministro degli Esteri ("Non conosco i motivi che indussero l 'On. Amato, nel giugno 1992 Presidente del Consiglio incaricato, a nominare l 'On. Scotti ministro degli esteri, piuttosto che a confermarlo nel ruolo di ministro dell'interno. Ricordo solamente che l 'On. Scotti, in virtù di una direttiva del partito della Democrazia Cristiana che impediva la contemporanea assunzione di incarichi di governo ed esercizio dell'attività parlamentare, rassegnò inopinatamente le dimissioni dalla carica di ministro e non da quella di parlamentare. Ciò mi parve strano e decisi, nonostante l'iniziale parere opposto dal Presidente del Consiglio, di accogliere le dimissioni dell'On. Scotti dalla compagine governativa"). […] Ancora riguardo all'avvicendamento del Ministro dell'Interno Scotti con Nicola Mancino, deve darsi conto anche della dichiarazioni rese da quest'ultimo in occasione della sua audizione in data 8 novembre 2010 dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, poiché, da tali dichiarazioni la Pubblica Accusa ha ritenuto di trarre elementi, oltre che a sostegno della contestazione di falsa testimonianza di cui al capo C) della rubrica riportata in epigrafe, anche a sostegno della tesi sulle reali ragioni di quell'avvicendamento (v. trascrizione della requisitoria del P.M. alle udienze dell' Il e 12 gennaio 2018). Ebbene, dal Resoconto stenografico n. 58 dell'audizione di Nicola Mancino in data 8 novembre 2010 dinanzi alla Commissione Parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, risulta che il predetto, in quella occasione, quanto alla sua nomina a Ministro dell'Interno nel nuovo Governo presieduto da Giuliano Amato, ebbe, tra l'altro, a dichiarare: "Chi mi volle Ministro dell'Interno fu in primis il Presidente Scalfaro, che si formò un giudizio positivo nei miei riguardi, soprattutto nei cinque anni in cui era stato Ministro dell'Interno ... ... .... mi sostennero poi il Presidente del Consiglio incaricato, onorevole Amato, e anche l'onorevole Forlani... …. .... sono stato sollecitato ad andare al Ministero dell'Interno. All'epoca ero capogruppo della DC al Senato e mi sono recato dal Presidente della Repubblica, insieme al capogruppo della DC alla Camera dei Deputati e al segretario della Democrazia Cristiana, perché il Capo dello Stato faceva consultazioni su chi dovesse essere investito della responsabilità di capo del Governo ... ... ... ero sul punto di andare via, quando il capo dello Stato mi disse: io ti conosco bene, per quanto ai fatto in Commissione Affari Costituzionali, e ritengo tu debba - forse è più esatto dite tu possa - essere il Ministro dell'Interno. L'onorevole Scalfaro ne parlò con il Presidente Amato. Sono stato invitato dalla direzione del mio partito ad accogliere questa sollecitazione e fui nominato Ministro dell'Interno non perché dovessi attenuare l'offensiva, ma, mi si scusi la presunzione, per accrescere il contrasto nei confronti della mafia ... ... . .. Gava era già stato Ministro dell'Interno, aveva dovuto abbandonare per un incidente di percorso dal punto di vista della sua salute e si era perciò dimesso dalla carica .... ... ... mi sento offeso quando si parla di un Antonio Gava che doveva fare il capogruppo della DC, come poi avvenne ....... ... Mai avrei accettato di fare il ministro perché un altro dovesse sostituirmi come capogruppo ... .. , ... Posso dire di avere partecipato ad una riunione dell'organismo esecutivo del mio partito e che nel corso della stessa si era parlato di un'ipotesi Mancino, qualora il dicastero dell'interno fosse toccato ad un rappresentante della Democrazia Cristiana. Comunque, me ne andai con il convincimento di dovere rifiutare perché Forlani, nell'ultimo periodo della sua segreteria, fu piuttosto intransigente sulle incompatibilità, peraltro non previste dalla Carta costituzionale, tra Ministro e parlamentare .......... Quindi non è stato solo il Capo dello Stato ad avanzare l'ipotesi della mia candidatura. Immagino che ne abbia parlato con Amato e con Forlani. lo so solo che nel momento in cui doveva recarsi dal Presidente della Repubblica, l'onorevole Amato mi disse: « ti sei deciso a fare il Ministro dell'Interno?» . Risposi che avevo deciso ma nutrivo ancora perplessità".

I ricordi sbiaditi di Ciriaco De Mita. La Repubblica il 19 agosto 2019. All'udienza del 25 settembre 2014 è stato esaminato, in qualità di testimone, Ciriaco De Mita, il quale, in sintesi, ha, innanzitutto, riferito riguardo sia agli incarichi ricoperti nel Partito della Democrazia Cristiana sia agli incarichi di governo [...], specificando di avere militato, in particolare, nella "corrente" del predetto partito politico indicata come "sinistra di base" unitamente, tra gli altri, all'On. Gargani ed al Sen. Mancino, nonché dopo un convergenza con altre "correnti", all'On. Mannino [...]. Il teste, poi, ha riferito più specificamente sui suoi rapporti con l'On. Gargani [...], con il Sen. Mancino [...], con l'On. Scotti ("Ma il rapporto con Scotti credo che cominci negli anni sessanta. No, pressappoco, però è stato sempre un rapporto di conoscenza più che di solidarietà .... ... ... facevo fatica a recuperare nella memoria a quale corrente appartenesse.. ... ... Lui le ha attraversate un po' tutte, rendendo difficile anche la collocazione, aveva una volatilità frequente, però il rapporto personale, almeno finché poi c'è stata la Democrazia Cristiana, c'era") e con l'On. Lima ("Rapporti personali no, lo conoscevo, l'ho incontrato quando qua il Partito è entrato in difficoltà, all'inizio della mia esperienza, quando fu cambiata la classe dirigente, fu eletto Orlando Sindaco. lo mi sono occupato della D.C. in maniera rilevante, come per le regioni di confine. Nelle elezioni regionali dell'85 io svolgevo funzione politica, non giudiziaria, però valutando alcuni fenomeni che non erano da me condivisi introdussi la regola che i Consiglieri Regionali che avessero avuto tre legislature non erano ricandidabili ... ... ... La organizzazione del Partito era, come dire, molto discussa, si verificavano casi di non delimitazione di confine tra le attività politiche e attività censurabili dal punto di vista del costume, della moralità. […] Le sto spiegando che introducendo quel criterio io non ho fatto riferimento ai rappresentanti di corrente. Evidentemente poi nelle nuove candidature certo che ci saranno state anche indicazioni di persone politicamente collegate a Lima, ma io avevo necessità di cambiare classe dirigente e non, come dire, di distinguere le persone. E lui era parlamentare europeo, quindi non rientrava nelle mie competenze, almeno finché io sono stato segretario della D. c.. "). Indi, il teste ha riferito di un incontro avuto con il Dott. Falcone pochi giorni dopo l'omicidio dell'On. Lima, allorché il predetto lo aveva messo sull'avviso paventando che, dopo tale omicidio, la mafia avrebbe alzato ancor più il livello dello scontro con lo Stato (" .. . quando Lima è stato ucciso io sono stato chiamato, attraverso un Magistrato amico, da Falcone perché voleva parlarmi ... ..... Dopo alcuni giorni, non. .. Eravamo alla vigilia della campagna elettorale, per la verità pensavo che fosse funzionale a qualche altra ragione, non all'informazione. E dissi che ero fuori Roma. Siccome ha insistito, mi sembrò scortese non trovare una ragione e gli dissi che io passavo per Roma, credo il 15 di marzo, quindi pochi giorni dopo l'uccisione, e concordammo di vederci. Lui gentilmente venne a prelevarmi all'Hilton, dove io ero, entra in macchina con me e dall'Hilton all'Eur mi dà la sua spiegazione sull'uccisione di Lima e mi dice: preparatevi perché la mafia dopo la sentenza della Cassazione che confermava la procedura inaugurata da lui, deve organizzarsi e per organizzarsi eleverà il livello di scontro con lo Stato .... ... ... E io gli obiettai, cioè gli obiettai, pensai sì, ma Lima non era un uomo simbolo come Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, e lui mi rispose: Lima non è mafioso ... ... ... Poi gli chiedo: ma lei queste cose perché le dice a me? Non sono Presidente del Consiglio, non sono un Ministro di Grazia e Giustizia. E lui mi disse: le dico a lei perché è una persona che stimo. Poi gli chiedo: ma me lo dice perché ha qualche sospetto sulla mia incolumità? lo mi ero molto occupato della Sicilia … ... ... E dice: dovete prepararvi all'elevazione dello scontro tra mafia e Stato. E io gli dico: ma perché queste cose non le scrive? Disse: perché in questo momento non passano ... "), precisando di avere, poi, parlato di tale colloquio con alcuni colleghi di partito quali Orlando, Mattarella e Mancino[...] e con il direttore del quotidiano La Repubblica Scalfari [...], ma non con il Ministro dell'Interno Scotti, né col Ministro della Giustizia Martelli ("Onestamente no perché, come dire, il colloquio è diventato angoscioso quando hanno ammazzato Falcone. Quando me l'ha raccontata in me ha suscitato molta curiosità e debbo dire che trovavo la sua diagnosi degna di attenzione, ma eravamo in campagna elettorale e poi quando Falcone è stato ucciso bisognava fare il nuovo Governo.[...]"). Il teste, quindi, ha negato di avere mai saputo dell'allarme per l'ordine democratico lanciato dal Ministro dell'Interno Scotti e dal Capo della Polizia e della conseguente audizione parlamentare dei predetti nel marzo 1992 […]. Poi il teste ha ricostruito la vicenda della elezione del Capo dello Stato nel maggio 1992 […]. Ancora il teste ha raccontato che anche dopo la strage di Capaci non ebbe in alcun modo ad interessarsi delle conseguenze di quell'efferato delitto e delle misure che il Governo ebbero ad adottare, essendosi in quel periodo concentrato esclusivamente sulla formazione del nuovo Governo.

P. M DI MATTEO : - Senta, poc'anzi lei ha, con una espressione molto forte, ha detto che la sensazione che già le aveva provocato il contenuto dell'incontro con Giovanni Falcone diventò poi angosciosa dopo l'uccisione di Giovanni Falcone. Io le chiedo: proprio alla luce della strage di Capaci, che già per le sue modalità rappresentava un innalzamento, un primo adempimento purtroppo, una prima verifica della giustezza dell'analisi di Giovanni Falcone, si avvio anche all'interno del partito una discussione per approfondire questa escalation criminale, l'allarme di una ulteriore prosecuzione della strategia anche con il Ministro degli Interni Scotti?;

DICH DE MITA : - lo ho presente e teniamo presenti entrambi, cioè il percorso che c'era, Falcone è stato ucciso un giorno prima dell'elezione del Capo dello Stato. Eletto il Capo dello Stato sono iniziate le consultazioni per la formazione del Governo, che furono accompagnate dalle vicende che conosciamo tutti e si dà l'incarico all'Onorevole Amato. Quindi la discussione all'interno della D.C è stata fatta sulla formazione del Governo .. "), riferendo, quindi, come si pervenne alla indicazione del Sen. Mancino quale nuovo Ministro dell'Interno [...], né riguardo all'appello sottoscritto da un gruppo di parlamentari a favore della conferma del Ministro dell'Interno Scotti pubblicato sul quotidiano il Popolo e ripreso da altri quotidiani nazionali [...]. D'altra parte, il teste ha riferito che, per l'impressione che ebbe, il Ministro Scotti era soprattutto interessato a mantenere l'immunità parlamentare ("Se io poi debbo, come dire, dire la mia opinione, a Scotti interessava la conservazione dell'immunità, non la scelta ... "), aggiungendo di non sapere se la nomina di Mancino al Ministero dell'Interno sia stata voluta dal Presidente Scalfaro [...], poi, però, in parte correggendo tale dichiarazione a seguito di contestazione del P.M. (''[...]

P. M. DI MATTEO : - Scalfaro voleva Mancino Ministro o Mancino Ministro dell'Interno?;

DICH DE MITA : - Ministro dell'Interno, non Ministro).

Il teste ha ancora espressamente ribadito che la sostituzione di Scotti venne ampiamente discussa in presenza di quest'ultimo senza che venissero rappresentate esigenze di continuità con l'opera intrapresa dal Ministro dell'Interno [...]. In proposito il teste ha anche riferito sulla regola della incompatibilità tra ministro e parlamentare, a suo dire da sempre esistente in quel partito anche se fino ad allora raramente applicata [...], ribadendo, che nel decidere l'avvicendamento di Scotti, non si tenne minimamente conto dell'azione di governo sino ad allora da questi svolta e dei provvedimenti straordinari che il medesimo aveva ritenuto di adottare per contrastare la gravità della minaccia mafiosa che aveva raggiunto il suo apice con la strage di Capaci, ma soltanto delle contemperamenti imposti dai rapporti all'interno del Partito [...]. Comunque, il teste non è stato in grado di collocare correttamente nel tempo la strage di via D'Amelio.

P. M DI MATTEO : - Senta. lei quindi ... Lei poi ricorda quando intervenne la strage di Via D'Amelio?;

DICH. DE MITA : - La data precisa no ... . ..... È avvenuta d'estate. credo il mese d'estate. l'anno dopo di Falcone"), aggiungendo di non essersi interessato neppure dopo questa delle questioni concernenti la trasformazione in legge del decreto sul 41 bis.

P. M DI MA TTEO : - Avvenne 57 giorni dopo. forse un po' di distrazione, diciamo, c'era. non avvenne l'anno dopo, 57 giorni dopo. Le voglio chiedere se dopo che avvenne la strage di Via D'Amelio il 19 luglio del 92 si pose un problema politico per la conversione in Legge del 41 bis. Non ne ha ricordo? Non ha ricordo.;

DICH. DE MITA : - lo non mi occupavo di questi problemi''). In sede di controesame, quindi, sempre in sintesi, De Mita ha aggiunto:

- di non avere parlato con Mannino del colloquio avuto con il Dott. Falcone [...];

- che il Dott. Falcone in quel colloquio aveva iniziato la sua riflessione muovendo dalla sentenza del maxi-processo ("L'inizio della sua riflessione era dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha avallato le procedure, la mafia ha avuto un colpo duro da quel processo e allora ha bisogno di riorganizzarsi e per riorganizzarsi eleverà lo scontro a livello dello Stato, non più sul territorio");

- di non avere avvertito alcun mutamento di linea politica del Governo conseguente alla nomina di Mancino quale Ministro dell'Interno [...];

- che nella nomina di Scotti a Ministro degli Esteri era implicito che avrebbe dovuto dimettersi da parlamentare [...];

- di non avere mal avuto cognizione di trattative tra rappresentanti delle Istituzioni e mafiosi ("Ma che io sia stato a conoscenza, abbia avuto sospetti o abbia rilevato comportamenti che avallassero una cosa del genere no");

- che Scotti non espresse riserve per il ruolo di Ministro degli Esteri, ma chiese espressamente di restare al Ministero dell'Interno [...].

3.1.4.1 PRIME CONSIDERAZIONI SULLA TESTIMONIANZA DI CIRIACO DE MITA. Appare necessario anticipare qualche breve considerazione riguardo alla testimonianza appena riportata. Non competono a questo Collegio valutazioni di carattere etico sui testimoni e, pertanto, ci si astiene dal fame. Tuttavia, appare veramente arduo esaminare le dichiarazioni rese dal teste De Mita disgiungendole dalla valutazione, inevitabilmente negativa per quanto si dirà, della condotta tenuta dal predetto nel 1992 come dallo descritta e riferita. E' appena il caso di ricordare che in quel periodo si sono verificati eventi di assoluta gravità (alcuni, sotto tale profilo, senza precedenti nella storia repubblicana) che hanno inciso anche - e forse incidono ancora – nell'ordinario e ordinato evolversi della vita democratica del Paese. Nel marzo del 1992 v'è stato l'omicidio dell'On. Lima (esponente della Democrazia Cristiana la cui importanza trascendeva i confini locali per il peso che rivestiva nella corrente di quel Partito facente capo al Presidente del Consiglio allora in carica) da tutti recepito, oltre che in termini punitivi nel confronti del detto parlamentare, anche come risposta dell'organizzazione mafiosa "cosa nostra" allo Stato per la conclusione del c.d. "maxi-processo"; nel successivo maggio 1992 v'è stata la strage di Capaci, della cui gravità non sembra necessario aggiungere alcunché, seguita, a breve distanza di tempo nonostante il timore generalmente manifestato, dalla strage di via D'Amelio. Ebbene, in tale contesto, già nell'immediatezza dell'assunzione dell'esame testimoniale, ha destato particolare sconcerto che uno dei più importanti esponenti politici dell'epoca, già Presidente del Consiglio dei Ministri ed, in quel frangente, Presidente del Partito della Democrazia Cristiana che ancora costituiva il principale architrave della vita democratica del Paese e del Governo in carica, secondo quanto riferito in questa sede, abbia relegato i suddetti avvenimenti in secondo piano rispetto al suo principale interesse indirizzato a risolvere le problematiche della formazione di un nuovo governo che tenesse conto del peso delle "correnti" interne al Partito e delle aspirazioni di alcuni altrettanto importanti esponenti politici. E' apparso veramente singolare che il teste, ancora secondo quanto dallo stesso riferito, pur dopo l'omicidio Lima e gli avvertimenti personalmente rivolti gli dal Dott. Falcone, si sia del tutto disinteressato delle denunce del Ministro dell'Interno (appartenente al medesimo Partito) e del Capo della Polizia e delle diffuse polemiche che ne conseguirono con ampio risalto sia in sede parlamentare, sia sulla stampa nazionale; e, ugualmente, sconcerta forse ancora di più che, pur dopo la strage di Capaci, il teste, come emerge dalle sue dichiarazioni, si sia nella stessa misura disinteressato delle conseguenze di un così grave evento (si ripete, senza precedenti anche per le modalità organizzative indicative di un rilevante spiegamento di forze e di una micidiale potenza criminale) e della necessità di adottare urgentemente provvedimenti di contrasto della strategia mafiosa che dessero il segno della capacità dello Stato di reagire e di respingere un siffatto attacco. Ma il teste ha riferito (v. paragrafo precedente), appunto, di non essersi minimamente interessato di tutto ciò e di avere, pertanto, del tutto ignorato le iniziative del Governo allora in carica (compreso l'urgente emanazione del decreto legge dell'8 giugno 1992, nonostante le molte polemiche che lo

seguirono anche in questo caso con ampio risalto sulla stampa), essendo del tutto concentrato sulla attività interna del Partito e sulle trattative in corso all'interno di questo e con le formazioni politiche alleate, per la formazione del nuovo Governo (ovviamente nella sola ottica del soddisfacimento delle pretese dei maggiorenti della Democrazia Cristiana e non certo di quella del superiore interesse del Paese che quel Governo avrebbe dovuto guidare nella temperi e di quel momento storico). E sorprende ancora massimamente che il medesimo teste abbia riferito di non avere in alcun modo percepito quelle manovre che miravano a delegittimare il Ministro Scotti e che ebbero risalto persino nell'organo di stampa ufficiale della Democrazia Cristiana (Il Popolo), asseritamente neppure letto da colui che pure ricopriva la carica di Presidente del Partito editore di quel giornale. In sostanza, dalla testimonianza qui in esame la figura dell'On. De Mita emerge come quella di un di un soggetto totalmente estraniato da tutto ciò che accadeva in quei mesi del 1992 (tanto che, pur essendo apparso in questa sede lucidissimo e capace di elaborate argomentazioni nonostante l'età non più giovane, espressamente richiesto nel corso del suo esame, ha collocato la strage di Via D'Amelio addirittura ad un anno di distanza dalla strage di Capaci) che in quel momento aveva come sua unica preoccupazione la soddisfazione ed il mantenimento degli equilibri interni del Partito, ancorché, a tutti gli osservatori esterni, tali manifestati interessi che animarono allora il De Mita appaiano oggettivamente risibili al cospetto di quegli avvenimenti prima ricordati. Ma qui, come detto, si rischia di trascendere nel giudizio morale della persona e della sua condotta ed è necessario, allora, fermarsi e limitarsi, quindi, a prendere atto, in termini oggettivi, dei fatti riferiti dal teste, inquadrandoli e valutandoli nel contesto delle altre risultanze processuali. Orbene, allora, il nocciolo della testimonianza del De Mita è costituito dalle affermazioni secondo le quali né il Ministro Scotti, né altri ebbero a rappresentargli l'opportunità di confermare quel Ministro per dare un segno di continuità alla linea politica di rigore nel contrasto alla criminalità mafiosa e lo stesso Scotti, prima della formazione del nuovo Governo, fu informato, accettandolo, del trasferimento dal Ministero dell'Interno a quello degli Esteri. Tali sono i fatti riferiti che saranno, quindi, valutati nel prosieguo ai fini della ricostruzione della vicenda oggetto del presente capitolo, senza, tuttavia, tralasciare, tanto più alla luce delle considerazioni appena esposte, le risultanze sul tentativo di influenzare la testimonianza del De Mita di cui si dirà più avanti nel paragrafo 3.3.

Lillo Mannino al bar: “Ci fottono tutti”. La Repubblica il 20 agosto 2019. Infine, deve darsi conto delle risultanze probatorie acquisite in ordine ad un più recente incontro (nel dicembre 2011) tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani e del contenuto del relativo colloquio riferito dalla teste Sandra Amurri, che, ancora secondo la Pubblica Accusa, costituirebbe un riscontro alla falsità delle giustificazioni fornite da molti testi allorché sono stati esaminati sulle ragioni dell'avvicendamento del Ministro dell'Interno Scotti (v. ancora trascrizione della requisitoria del P.M. all'udienza dell'11 gennaio 2018). […] Sandra Amurri, giornalista de "II Fatto Quotidiano", esaminata all'udienza del 9 gennaio 2014, […] ha, innanzi tutto, dettagliatamente raccontato quanto accaduto il giorno 21 dicembre 2011 allorché ebbe ad ascoltare occasionai mente una conversazione svoltasi nei pressi del bar Giolitti di Roma tra 1'On. Mannino ed un altro personaggio successivamente riconosciuto nell'On. Gargani ("Allora, il 21 dicembre io avevo ... Era uscito un po' fuori questo scandalo della compra volta dei Senatori, no? Se ricordate erano un po' quegli gli anni, e quindi io avevo appuntamento con l'Onorevole Aldo Di Biagio per, insomma, così, per farmi un po' raccontare se era stato contattato, da chi, come, cosa gli avevano offerto. Ed era una giornata molto fredda a Roma, freddissima direi. Sono arrivata ... Avevamo appuntamento al Bar Giolitti, […]. Quando stavo bevendo questo cappuccino, ho alzato lo sguardo e ho visto arrivare da Piazza del Parlamento, diciamo, verso il Pantheon, direzione quella lì, l'Onorevole Mannino e un altro signore che io non ho riconosciuto. Ovviamente l'Onorevole Mannino, insomma, è un personaggio di grande... Come dire, chi non può conoscerlo? Né tanto meno io insomma, occupandomi di queste cose. I due sono entrati dentro al bar, sono entrati dentro al bar e sono usciti immediatamente perché, ripeto, il bar era molto affollato e si sono messi in piedi fisicamente. Allora, io ero seduta così, con le spalle metà al bar, diciamo, al muro del bar, e con lo sguardo rivolto verso Piazza del Parlamento. E l'Onorevole Mannino mi dava le spalle, ma a questa distanza, cioè, immagini qui, e di fronte ... pochi centimetri proprio, e non mi hanno vista, cioè diciamo... O meglio, probabilmente hanno visto questa persona così, insomma, tutta incappucciata, con la sciarpa, il cappello, e hanno iniziato a parlare e inizialmente, non conoscendo l'altra persona, non aveva attirato la mia attenzione la loro conversazione. La mia attenzione invece è stata, come dire, attratta dal fatto, quando ho iniziato ad ascoltare le prime cose che si dicevano. O meglio, che l'Onorevole Mannino diceva all'altro signore, fino a quel momento per me un estraneo. E l'Onorevole Mannino, con tono molto concitato e preoccupato, diceva: no, tu glielo devi dire, tu adesso che vai giù glielo devi dire a De Mita, glielo devi dire, hai capito? Lui è stato chiamato, è stato chiamato e lui deve dire, deve confermare la nostra versione, perché questa volta ci fottono. E io non riuscivo a capire, cioè, De Mita, cioè proprio non riuscivo, come dire, a collocare. E Gargani diceva: sì, sì, non ti preoccupare. Con la testa bassa diceva: sì, sì, sì, sì, non ti preoccupare. Gargani, ovviamente, che ho scoperto dopo. ... E l'Onorevole Mannino continuava a ripetere, proprio come un ritornello, perché questa volta hanno capito tutto a Palermo e questa volta ci fottono. lo, come ho ascoltato Palermo, bè, lì ho iniziato e ho pensato: Oddio, ma adesso potrei registrarlo. Ma no, se mi muovo, lì ho pensato, poi si accorgono di me e quindi non debbo muovermi, e sono rimasta lì ferma e scrivevo, così, alcuni appunti, perché avevo timore ... E ad un certo punto l'Onorevole Mannino dice: perché - scusate il termine, ma lo debbo riferire testualmente - quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Perché tu lo sai, no? Il padre, il padre di noi, insomma, sapeva tutto. A quel punto, cioè, io continuavo a non capire chi fosse l'altro e poi perché Mannino fosse così interessato. Non sapendo io che fosse indagato, no? Per, appunto, per il processo sulla Trattativa e non conoscendo l'altro, dico: ma perché tutto questo interesse, De Mita, da dove esce fuori? E come dire, mi si accavallavano tutti questi pensieri e cercavo di ascoltare con attenzione e il mio timore era quello di non riuscire a fotografare l'altra persona per riuscire a mettere insieme. . .. E a quel punto Mannino dice: comunque tu ... Sì, lo so che hai capito, ma io te lo ripeto, tu devi dire a De Mita che deve assolutamente dire le stesse cose nostre, assolutamente, assolutamente. E lui continuava a fare: sì, sì, ho capito. A quel punto, a quel che solo allora dice qualcosa all'orecchio alla persona, all'onorevole Gargani, e l'altro fa una espressione, insomma, meravigliata, sorpresa, non so come dire, e i due si fanno gli auguri di buon Natale e si salutano. [...]"). La teste, poi, ha aggiunto che l'appuntamento con l'On. Di Biagio era stato fissato tramite utenza cellulare e che [...] il colloquio tra il Mannino e l'altro interlocutore era durato all'incirca venti minuti, pur con qualche incertezza nel quantificare tale durata in ragione del coinvolgimento emotivo e del turbamento causatole dall'occasionale ascolto di tale conversazione, turbamento, peraltro, immediatamente avvertito, al momento del suo arrivo al bar Giolitti, anche dall'On. Di Biagio [...]. […] La teste Amurri, ancora, ha aggiunto di non avere precedentemente mal conosciuto di persona l'On. Mannino, col quale, infatti, in passato, aveva avuto soltanto alcune conversazioni telefoniche per concordare una intervista in relazione al tentato omicidio dell'Ispettore Calogero Germanà, intervista che, però, poi non era stata più fatta, [...] ed ha ribadito che, a suo parere, ad un certo punto, il Mannino si era accorto della sua presenza ed aveva sussurrato, quindi, qualche parola all'orecchio del suo interlocutore, salutandolo ed allontanandosi subito dopo […]. La teste, quindi, era corsa dietro l'interlocutore del Mannino, scattando alcune fotografie (mostrate dal P.M. alla teste medesima e da queste riconosciute) in prossimità dell'Hotel Nazionale con l'intento di identificarlo [...], ancor prima di farle esaminare alla sede del giornale, inviandole al Dott. Ingroia, che conosceva da lungo tempo, ignorando, però, che il telefono di questi non fosse abilitato a riceverle [...]. Tornata, nel frattempo, al bar Giolitti per pagare il cappuccino, la giornalista era stata raggiunta dall'On. Di Biagio, che, come detto prima, si era accorto del suo stato d'animo, al quale aveva raccontato succintamente quanto accaduto senza riferire il contenuto della conversazione e senza mostrare le fotografie [...], che, poi, invece, recatasi alla sede del giornale, aveva mostrato prima inutilmente al Direttore [...] e poi al collega Travaglio che, quindi, aveva riconosciuto l'On. Gargani [...]. La Amurri, poi, ha raccontato che, a quel punto, il collega Travaglio aveva ipotizzato che il Mannino potesse essersi riferito al processo della c.d."trattativa", ma che, poiché non si aveva notizia né che il Mannino fosse indagato, né della citazione dell 'Ono De Mita, fosse necessario, prima di pubblicarla, approfondire la notizia per mettere il giornale al riparo da una eventuale querela, cosa che, però, la Amurri aveva rinviato essendo in procinto di partire per Taranto per visitare la madre che versava in precarie condizioni di salute [...]. A causa di ciò, la Amurri, secondo quanto ancora riferito da questa, non si era più occupata della questione sino a quando, nel gennaio 2012, una agenzia di stampa aveva dato notizia dello status di indagato dell'On. Mannino nel processo c.d. "Trattativa" ed, a quel punto, la teste medesima, aveva contattato il Travaglio, che si trovava a Torino, ed aveva cominciato a lavorare sulla notizia [...]. La teste ha riferito, quindi, di avere successivamente contattato telefonicamente il Dott. Di Matteo raccontandogli l'accadimento e questi, in attesa di una formale verbalizzazione, le aveva chiesto di inviargli appena possibile una mail con il racconto per iscritto [...], cosa che ella aveva fatto pur informando il medesimo Dott. Di Matteo che avrebbe comunque pubblicato la notizia [...]. Poco dopo, la Amurri era stata contattata da un ufficiale della DIA che le aveva rappresentato l'opportunità di procedere a Taranto ad una verbalizzazione con il Dott. Ingroia che si sarebbe trovato lì per la presentazione di un libro [...], dal momento che, per le condizioni di salute della madre, ella sino a quel momento non si era più allontanata da Taranto [...]. La teste, inoltre, ha riferito di avere parlato del colloquio ascoltato il 21 dicembre 2011 anche con il Commissario Rino Germanà, che conosceva dal tempo del tentativo di omicidio da questi subito nel 1992, sia con il Dott. Grasso, allora Procuratore Nazionale Antimafia, il quale le aveva consigliato di verbalizzare tutto quanto [...].

3.3.3 LA TESTIMONIANZA DI GIUSEPPE GARGANI. Del teste Giuseppe Gargani sono state già riportate sopra (v. paragrafo 3.1.5) le dichiarazioni testimoniali rese in ordine a quanto di sua conoscenza sull'avvicendamento del Ministro dell'Interno Scotti con Nicola Mancino. Ma la seconda parte del predetto esame testimoniale condotto dal P.M. Ha riguardato, invece, l'episodio dell'incontro del Gargani con l'On. Mannino in cui si discusse della convocazione dell'On.De Mita da parte della Procura di Palermo per essere sentito nel corso delle indagini che hanno dato luogo al presente processo e di cui, pertanto, deve darsi qui conto. In proposito, il teste ha, innanzitutto, riferito che fu Mannino […] ad informarlo della convocazione di De Mita, dicendogli di essere contento perché De Mita conosceva tutta la storia della Democrazia Cristiana [...], che quell'incontro avvenne nei pressi del bar Giolitti di Roma [...] e di non ricordare se Mannino gli chiese di parlarne a De Mita, pur confermando, poi, sul punto, quanto dichiarato al P.M. nel corso delle indagini preliminari ("[...]

P. M DI MATTEO : - Senta, lei quando è stato sentito ha detto cosa diversa su questo punto .... ... ... Pagina 4 intanto, Pubblico Ministero che aveva già diciamo contestato altre risultanze: a noi risulta che Mannino in quella circostanza, tra l'altro manifestando una forte preoccupazione, le ha detto: stavolta i Magistrati di Palermo hanno capito tutto, devi dire a De Mita che dobbiamo dare tutti la stessa versione perché stavolta ci fottono, ci incastrano. Gargani: assolutamente no, né allora e né altrove, si raccomandava, si raccomandava che De Mita ricordasse tutto, perché De Mita era in condizione di chiarire. L'ha incaricata di contattare l'Onorevole De Mita? Che è la stessa domanda che le ho fatto poc'anzi io, a cui lei mi ha detto assolutamente no. E lei ha risposto: sì, dice, parlagliene, ricordagli, questo sì, di contattarlo. Poi nel senso che De Mita, quando io poi lo contattai, eccetera, eccetera;

DICH. GARGANI : - lo non ho difficoltà a dire, Presidente, però che se ho dichiarato quello può darsi che Mannino mi abbia detto avverti... ... . ... No, avverti, forse mi disse come io ho detto lì, avverti De Mita, ma lo saprà già perché probabilmente ha detto così. De Mita infatti lo sapeva .... ... ... Ma quello sacrosanto che io ricordo è che lui disse non di parlare con De Mita per qualcosa, siccome De Mita ricorda tutto, digli che ricordasse tutto fino infondo. Ecco lui, come dire, faceva una invocazione a me ... ... ... Siccome si fidava di tutti i ricordi di De Mita, probabilmente anche senza avere (PAROLA INCOMPRENSIBILE) rispetto agli altri, perché De Mita ha vissuto intensamente la storia della Democrazia Cristiana, conosceva le cose che ha fatto Mannino, come dire, era contento che De Mita ... Ecco, se posso dire quale era l'espressione anche visiva, ricordo che era contento perché De Mita chiarirà tutto, quindi i ricordi di De Mita siano chiarissimi per poter fare una deposizione al Pubblico Ministero adeguata. […] Le so bene le cose di Mannino, del processo precedente, quindi non è che mi sfuggiva, però quali fossero le cose in particolare la sua opposizione all'interno della Democrazia Cristiana era la lotta alla mafia, quello che aveva fatto ... ... ... Disse che Ciancimino continuava a dire menzogne e si meravigliava come la Magistratura in qualche modo ... ... .... Ciancimino figlio, certo ... ...... è stato sempre un menzognero e continua ad essere menzognero e si meravigliava che la Magistratura in qualche modo ... ... .... non c'è stato l'oggetto in quella riunione, in quella discussione che è durata tre o quattro minuti, perché poi ci siamo fatti gli auguri per Natale, [...] Me lo ricordo perché poi nei ricordi che il dottore Di Matteo mi ha suscitato nel colloquio, in quanto stavamo sotto un cornicione, è durato tre o quattro minuti e lui diceva delle cose, io pensavo le solite cose di cui si parla da quindici anni, che riguardavano le questioni di Ciancimino. Ciancimino continua... E io siccome avevo fretta e non avevo, non ho approfondito, non ho chiesto perché e non so neppure De Mita che cosa doveva dire fino in fondo"). Gargani ha raccontato di essersi, poi, effettivamente incontrato con De Mita, il quale gli aveva, però, soltanto confermato di essere stato convocato dalla A.G. [...].

Il teste ha anche confermato che Mannino ebbe ad usare un'espressione che manifestava preoccupazione per l'azione della magistratura P. M DI MATTEO : - Senta. una cosa. le ho già chiesto del colloquio con l'Onorevole Mannino. L'Onorevole Mannino ha utilizzato in qualche modo il termine ci vogliono fregare. ci vogliono fottere? Qualcosa del genere?;

DICH. GARGANI: - Sì. credo fottere no. ma insomma non l'ha detto solo in quell'occasione ma l'ha ripetuto, io questo credo di averglielo detto anche allora.;

P. M DI MATTEO: - In quella occasione lo utilizzò questo termine?;

DICH. GARGANI: - Sì. sì. in quell'occasione. non che ci fregano. che c'è la volontà di ... Perché credono niente di meno. credono a Ciancimino. questo era il senso del pensiero di Mannino;

P. M DI MATTEO: - Utilizzò l'espressione. in quella circostanza, ci vogliono fottere, ci stanno fottendo, qualcosa del genere?;

DICH. GARGANI : - Le sto dicendo credo no, la parola no, ci vogliono fregare forse, insomma, non è una cosa che usa frequentemente.; […]

DICH. GARGANI : - O fregare o fottere, adesso io non ... .... .... Sì, sì, una delle due, credo più la prima, quella meno, meno efficace"), aggiungendo di non sapere perché Mannino non aveva contattato direttamente De Mita [...] e di non ricordare, comunque, se poi egli riferì al Mannino l'esito del colloquio con De Mita [...]. Su specifica domanda del P.M., Gargani ha negato di avere parlato con De Mita dopo avere ricevuto la citazione per essere esaminato in questo processo [...]. Successivamente, sollecitato delle difese degli imputati, Gargani ha ribadito che l'On. Mannino non gli disse mai che Ciancimino aveva detto la verità su di loro [...] e che il Dott. Falcone in più occasioni gli aveva detto che l'On. Mannino lo aveva aiutato per far celebrare il c.d. Maxiprocesso (" ..Falcone mi ha ripetuto più di una volta che se doveva ringraziare un politico che l'ha aiutato a fare il Maxi Processo, che tutti sanno era contestato, era una novità anche sul piano organizzativo, oltre che sul piano sistematico, e che Mannino lo aveva fortemente aiutato, questo me l'ha detto almeno due o tre volte"). […] Le difese degli imputati hanno fortemente contestato l'attendibilità della testimonianza di Sandra Amurri ed appare necessario, pertanto, svolgere, in proposito, alcune considerazioni. Orbene, la Corte, contrariamente all'assunto delle dette difese di taluni degli imputati, ritiene che non siano ravvisabili elementi che possano inficiare l'attendibilità della suddetta deposizione della teste Sandra Amurri, tanto più che, anzi, come si vedrà, sono stati acquisiti in proposito riscontri di assoluto rilievo. […] Le dichiarazioni della teste Amurri, d'altra parte, trovano già un primo riscontro, da un lato, nel fatto che effettivamente soltanto appena tre giorni prima (il 18 dicembre 2011) era stata notificata all'On. De Mita la citazione per essere sentito il successivo 12 gennaio 2012, e, dall'altro, nella deposizione dell'On. Di Biagio (v. sopra paragrafo 3.3.2), il quale, all'udienza del 9 gennaio 2014, ha confermato, infatti, lo stato di estrema agitazione in cui ebbe trovare la Amurri e che quest'ultima ebbe subito a raccontargli, pur senza entrare in dettagli, di quell'incontro cui poco prima aveva assistito e che l'aveva sconvolta. Tale ultimo riscontro, per la "neutralità" e il disinteresse del teste Di Biagio, appare particolarmente rilevante e non sembra possa essere inficiato soltanto per le secondarie discordanze sul prosieguo dell'incontro [...], restando, comunque, il fatto che non si comprenderebbe, altrimenti, perché, in assenza del colloquio oggi riferito dalla Amurri, quest'ultima avrebbe dovuto manifestare quella agitazione così chiaramente percepita dal Di Biagio. In tale contesto, inoltre, la deposizione della Amurri non sembra possa essere inficiata neppure dal ritardo con la quale la stessa ebbe a riferire il fatto al Pubblico Ministero di Palermo. A prescindere dalle vicende personali riferite dalla teste che la costrinsero a trattenersi in Taranto nei mesi successivi, infatti, una volta accertato che la Amurri non disponeva al 21 dicembre 2011 di elementi sufficienti per ricondurre con certezza il dialogo ascoltato ad una vicenda giudiziaria specifica (e, quindi, all'indagine sulla "trattativa Stato-mafia"), si inserisce in modo assolutamente coerente con lo sviluppo dei fatti il contatto intrapreso dalla Amurri medesima con il P.M. Di Matteo soltanto alla fine del mese di febbraio ed, in particolare, con la e-mail inviata, dopo un primo accordo telefonico, in data 24 febbraio 2012 (v. documento acquisito all'udienza del 9 gennaio 2012). […] Ma, a fugare ogni dubbio sull'attendibilità della testimonianza dell'Amurri sono poi sopravvenute le dichiarazioni del teste Gargani, il quale, seppure abbia negato che Mannino ebbe a pronunziare il giudizio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino riportato dalla Amurri [...], però, ha dovuto sostanzialmente confermare, per il resto, tanto l'incontro con il Mannino nelle circostanze di tempo e di luogo indicate dall' Amurri, quanto, soprattutto, l'oggetto della conversazione concernente la citazione di Ciriaco De Mita e la richiesta del Mannino di contattare quest'ultimo, cosa che Gargani ha altresì ammesso di avere effettivamente fatto [...], nonché sostanzialmente il motivo della preoccupazione del Mannino (diverso da quello sostenuto dalla difesa di Subranni e Mori in sede di discussione all'udienza del 9 marzo 2018) relativo alle dichiarazioni di Scotti sulla sua sostituzione con Mancino [...] e persino le parole usate dal Mannino medesimo per definire l'azione dei Pubblici Ministeri di Palermo […] ed il riferimento a Ciancimino [...]. Non solo, ma il Gargani ha anche ammesso di essersi, poi, effettivamente incontrato con De Mita e di avere parlato con lui della convocazione dei magistrati di Palermo [...], seppur asserendo, però, di non ricordare se successivamente a tale incontro aveva ancora parlato con Mannino. […] La "non conferma" da parte del teste Gargani di quell'unico tratto della conversazione col Mannino concernente il giudizio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (peraltro del tutto irrilevante in questa sede) va ricondotta, dunque, proprio al contesto in cui è maturato l'intendimento del medesimo Mannino di influenzare in qualche modo le dichiarazioni che a breve Ciriaco De Mita avrebbe dovuto rendere e che, poi, con tratti di evidente inverosimiglianza (v. paragrafo 3.1.4.1), ha effettivamente reso.

Un ministro al posto dell'altro. La Repubblica il 21 agosto 2019. L'On. Vincenzo Scotti fu nominato Ministro dell'Interno il 16 ottobre 1990, nel Governo presieduto da Giulio Andreotti, a seguito delle dimissioni dell'On. Gava ed ha mantenuto tale carica sino al 29 giugno 1992, allorché, insediatosi il nuovo Governo presieduto da Giuliano Amato di seguito alle elezioni della primavera precedente, gli venne affidato il Ministero degli Esteri. La Pubblica Accusa ha sostenuto che tale avvicendamento sia stato determinato dalla intransigenza mostrata da Scotti nei confronti soprattutto delle organizzazioni criminali di tipo mafioso ed al fine di favorire l'abbandono da parte della principale di esse, quella imperante (ma non solo) in Sicilia. denominata "cosa nostra", della strategia di attacco allo Stato e di vendetta contro uomini delle Istituzioni che ne avevano tradito le aspettative (quali l'On. Lima, ucciso nel marzo 1992, ed altri politici di cui si temeva già che potessero essere uccisi), ovvero che l'avevano particolarmente avversata (come il Dott. Falcone). Anzi, ancora secondo tale ipotesi accusatoria, tale avvicendamento nel ruolo di Ministro dell'Interno sarebbe stato l'esito finale dell'iniziale sollecitazione dell'On. Mannino ad intraprendere ogni iniziativa utile ad interrompere la strategia mafiosa di cui egli riteneva di poter essere uno dei prossimi e più imminenti obiettivi (ed in effetti, come si è già visto sopra, possono ritenersi ampiamente provati sia l'individuazione del Mannino come esponente politico che, dopo e come Lima, avrebbe dovuto essere ucciso, sia la consapevolezza acquisita dal Mannino medesimo di tale intendimento criminoso, sia il frenetico attivarsi di quest'ultimo per evitare quell'infausta conseguenza). A sostegno di tale ipotesi sono stati prodotti ed acquisiti numerosi documenti e sono stati esaminati i testimoni di cui si è dato conto sopra. Il fulcro della ricostruzione operata dalla Pubblica Accusa, muovendo dalle mosse dell'On. Mannino di cui si è detto e dall'appartenenza di quest'ultimo, in quel frangente storico, al medesimo raggruppamento politico interno alla Democrazia Cristiana cui aderiva anche l'On. Mancino designato in luogo di Scotti come nuovo Ministro dell'Interno, poggia su due diversi dati fattuali che, in termini oggettivi, sono stati effettivamente riscontrati all'esito della complessa istruttoria dibattimentale pure operata su tale specifica vicenda: da un lato le iniziative legislative di contrasto alla criminalità mafiosa e le chiare e (per l'epoca) inusuali prese di posizione del Ministro Scotti sia nel denunziare la deriva destabilizzatrice delle Istituzioni verso la quale si dirigeva inesorabilmente la strategia della mafia, sia nell'affermare l'irrinunciabile necessità di contrastarla, come in effetti aveva iniziato a fare, con interventi legislativi ed operativi sempre più rigorosi, rifiutando qualsiasi prospettiva di accomodamenti o ammorbidimenti che potessero indurre la mafia a ritenere che quella strategia potesse produrre risultati per sé utili (è significativo, in proposito, il giudizio espresso da uno dei più importanti capi mafia dell'epoca, Giuseppe Graviano, in una delle conversazioni intercettate di cui è stata acquisita la trascrizione peritale ali 'udienza del 19 ottobre 2017 di cui si dirà meglio più avanti, e, specificamente, nella conversazione del 22 novembre 2016, nel corso della quale il Graviano, appunto, dice: "il Ministro Scotti, ddru crasto 'i Scotti, Martelli ... che poi li hanno tolti e hanno messo al posto di Scotti misiru a Mancini, chiddru Scotti un crastu ... .... ...... Scotti un crasto è!"); dall'altro, l'apparentemente inopinata sostituzione del Ministro Scotti, che, in quanto formalmente ed ufficialmente motivata soltanto con il rifiuto del predetto di accettare l'incompatibilità con la carica di parlamentare decisa (o, quanto meno, applicata) dai vertici del suo Partito per la prima volta soltanto alla vigilia della formazione del nuovo governo, dava oggettivamente adito a diverse interpretazioni (tra le quali anche quella di una volontà di modificare la linea politica sino ad allora portata avanti da quel Ministro nel contrasto contro le mafie) nel momento in cui il medesimo rifiuto di quella incompatibilità non era stato ritenuto d'ostacolo per la nomina dello stesso Scotti a Ministro degli Esteri. Va detto, però, che all'esito della corposa istruttoria compiuta, si è fatta sufficiente chiarezza soltanto sul primo punto e non (almeno fino in fondo) anche, come si vedrà, sul secondo. Sul primo punto, invero, fanno chiarezza, innanzitutto, al di là della testimonianza dello stesso Scotti (v. sopra), le iniziative legislative sostenute da quest'ultimo dal suo insediamento sino alla promulgazione del decreto legge dell'8 giugno 1992 ed i documenti acquisiti, sia quelli riferibili al Ministero dell'Interno, sia, ancor più, quelli relativi ad alcuni interventi del predetto in sede parlamentare, in occasione dei quali l'On. Scotti non ha mostrato remore nell'attribuire una "valenza destabilizzante" ad alcune intimidazioni provenienti da associazioni mafiose anche in rapporti con formazioni eversive di estrema destra (" .. non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive, stipulino con la criminalità organizzata, accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del paese ... ") ed alla strategia ad esse sottese (" .. io ritengo, l'ho detto anche alla Commissione Antimafia, quindi non ne parlo oggi, che io ritengo il quegli omicidi e ritengo la criminalità organizzata in questo momento in Italia e per come si comporta un pericolo grave alla destabilizzazione delle istituzioni. Lo dico con fermezza e con chiarezza... . … ..... E non è una novità il giudizio che io ho fermo sul carattere eversivo della criminalità organizzata e del suo comportamento terroristico della condizione nella quale noi ci troviamo .. ") culminata in quel momento con l'omicidio dell'On. Lima nel marzo del 1992 (" ...i1 fatto esiste si è sparato a un uomo politico, comunque, di grande peso nella sua regione e nell'interno del suo partito. Questo non può non essere un fatto di destabilizzazione molto forte, rispetto al quale, io debba attivare, tutti gli strumenti e tutte le iniziative"), nonché nel sollecitare un inevitabile cambio di rotta per prevenire ulteriori attacchi criminali che prevedibilmente, da lì a poco, come poi in effetti è accaduto, avrebbero rischiato di incrinare le stesse fondamenta della democrazia (" .. un altro aspetto nuovo che sembra assumere la criminalità organizzata è quello di cospargere il terreno della lotta politica di cadaveri eccellenti avvalendosi delle tecniche che, a suo tempo, furono proprie del brigatismo eversivo ... ...... se la democrazia italiana vuole salvarsi da un condizionamento crescente della criminalità, allora dobbiamo essere tutti pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato anche da fatti estremamente preoccupanti … ... Oggi siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni, bensì a piegarne gli apparati ai propri fini ... ... .. La pericolosità è diventata quindi maggiore nel momento in cui la criminalità organizzata, vista l'impossibilità di avvalersi dei metodi tradizionali, ricorre alle tecniche terroristiche come avviene sempre più spesso"). E non v'è dubbio che ad un certo momento, più evidentemente dal marzo 1992, il Ministro Scotti sia apparso isolato in quella sua visione della situazione politico-criminale di particolare preoccupazione per l'escalation di fatti e segnali via via sempre più gravi provenienti dal mondo della criminalità organizzata e diretti al mondo della politica e delle Istituzioni: in particolare, tale isolamento è emerso, come detto, in modo eclatante all'indomani della fuga di notizie sull'allarme lanciato riservatamente dal Ministro dell'Interno e dal Capo della Polizia il 16 marzo 1992 con telefax indirizzato ai Prefetti, Commissari di Governo e Questori (v. doc. n. 19.e della produzione del P.M.: " . .Da qualche tempo est in atto vasta campagna intossicatoria ed disinformativa che, avvalendosi di messaggi intimidatori (telefonate anonime, lettere apocrife) ed fondata su azioni violente, tende minare credibilità pubbliche istituzioni ed ingenerare stati diffusa apprensione ed mobilitazione protesta.... .... . ... Eventi omicidiari riferiti inducono at ulteriore mobilitazione et più attenta vigilanza, specie ove si consideri che, nel contesto dei luttuosi episodi, sono state rivolte minacce di morte contro signore presidente del consiglio, ministro Carlo Vizzini et ministro Calogero Mannino ... .... ... Da quanto sopra riferito affiorano fondati indizi in ordine at pretesa interrompere linea statuale fermezza per recupero pieno della legalità et correlata esistenza progetto complessivo di destabilizzazione del sistema democratico nel nostro paese, presumibilmente at opera di centrali eversive compromesse anche at livello esterno traffici illeciti .. ") e della conseguente audizione in data 20 marzo 1992 degli stessi Ministro dell'Interno Scotti e Capo della Polizia Parisi, per riferire sulla "situazione dell'ordine pubblico", dinanzi alle Commissioni Affari Costituzionali ed Interni del Senato e della Camera dei Deputati (riunione congiunta), allorché, prendendo spunto dall'inaffidabilità di una sola delle fonti presa in considerazione in quella segnalazione (la propalazione di Elio Ciolini) e trascurando, invece, tutti gli altri motivi di concreto ed attuale allarme tratti da eventi delittuosi già verificatisi in quei mesi dal dicembre 1991 in poi (sino all'uccisione dell'On. Lima) ridotti a fatti di criminalità locale, quell'allarme e la ricostruzione del contesto in cui esso si inseriva vennero criticati da ampi settori delle forze politiche e soprattutto dallo stesso Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il quale, a fronte di una richiesta di commento da parte della stampa, ebbe a sintetizzare il suo pensiero affermando testualmente "E' una patacca" (questo, almeno, fu il titolo dell'articolo pubblicato dal Corriere della Sera mai smentito dall'On. Andreotti, né oggetto di precisazioni da parte dello stesso Presidente del Consiglio quanto meno al fine di circoscrivere quel giudizio al solo Ciolini facendo salvo il più ampio contesto descritto e denunciato dal Ministro dell'Interno e dal Capo della Polizia, tanto che il primo venne, poi, apertamente tacciato di eccessiva superficialità: V. dich. dello stesso Scotti già sopra riportate, laddove, tra l'altro, ha riferito sul punto, che" ... certamente la cosa fu presentata dai giornali come un eccesso di superficialità, usiamo l'espressione in uso traducendole in un linguaggio un po' meno brutale di quello che utilizzò la stampa. lo ricordo sempre con grande amarezza, ebbi una vignetta di Forattini sul Corriere della Sera in cui c'era scritto: "reo confesso", io e il capo della Polizia tenuto per mano. La cosa è di ridurre una questione che poteva essere analizzata, valutata, cioè... Ma non ad una questione di depistaggio o di eccesso di superficialità in questa direzione, i problemi erano quelli.. "). Ora, non può essere dubbio che le reazioni all'allarme lanciato dal Ministro dell'Interno ebbero ad indebolire la posizione dell'On. Scotti facendolo apparire, almeno per quella che poteva essere la percezione dell'opinione pubblica, isolato persino all'interno del Governo, dal quale mai gli pervenne alcun attestato di solidarietà e di aperto e pubblico riconoscimento dell'opera di contrasto alla criminalità organizzata e della giustezza di quell'allarme e ciò neppure quando nei mesi successivi si verificarono altri gravissimi delitti riconducibili a quella strategia di destabilizzazione delle Istituzioni (dall'omicidio del Maresciallo Guazzelli, allora del tutto sottovalutato e, come altri precedenti analoghi fatti delittuosi, ricondotto a problematiche locali se non addirittura a questioni estranee alla criminalità mafiosa, sino alla strage di Capaci) e lo stesso Ministro Mannino ebbe a manifestare a più soggetti di rilievo nell'ambito del proprio Partito (oltre che a rappresentanti delle Forze dell'Ordine) la concreta preoccupazione di essere oggetto di progetti omicidiari già elaborati da "cosa nostra" nell'ambito di quella medesima strategia che aveva visto cadere l'On. Lima (ciò senza considerare che, peraltro, a prescindere dalla esattezza della indicazione dei Ministri Vizzini e Mannino come possibili future vittime di cui allora in parte poteva non aversi certo riscontro, comunque la stessa propalazione del Ciolini, al di là della riconosciuta inaffidabilità dello stesso, avrebbe meritato qualche ulteriore riflessione ed approfondimento quanto meno dopo la strage di Capaci e le pesanti ripercussioni che la stessa ebbe ad avere anche sulla vita politica del Paese, influenzando, sia pure indirettamente, persino l'elezione del nuovo Capo dello Stato). A ciò si aggiungano, poi, anche le reazioni al decreto legge dell'8 giugno 1992, che, sebbene in molti casi ammantate ed animate da sincere convinzioni in tema di garanzie costituzionali della persona, non potevano non apparire, oggettivamente, all'opinione pubblica (e nell'ambito di questa, anche ai mafiosi), non certo addentro a sottigliezze e disquisizioni giuridiche, all'indomani del più grave attacco della criminalità mafiosa mai sferrato allo Stato ed alla democrazia con la strage di Capaci, come un rifiuto o abbandono della volontà politica di contrastare con assoluto rigore il fenomeno mafioso, rinunciando a misure che sarebbero apparse assolutamente punitive per i mafiosi in carcere e per i loro familiari, pur di ritornare a quel "quieto vivere" che per molti anni aveva consentito, si, alla mafia di prosperare economicamente gestendo i propri affari, ma anche, nel contempo, di evitare però attacchi così gravi alle Istituzioni e la temuta vendetta anche nei confronti di esponenti politici in passato apparsi più condiscendenti verso tale contemperamento di contrapposti interessi. Si aggiunga, poi, ancora, che con quel Ministro dell'Interno non vi era alcuno spazio per possibili contatti riservati con esponenti mafiosi diversi da coloro che avevano intrapreso la via della collaborazione ufficiale con lo Stato, non essendovi dubbio, alla stregua delle iniziative e delle dichiarazioni allora fatte dall'On. Scotti di cui si è detto sopra, che quest'ultimo già allora fosse fermamente convinto della impercorribilità di tale strada, così come dallo stesso, poi, espressamente dichiarato in occasione di una sua più recente audizione dinanzi la Commissione Parlamentare Antimafia del 28 ottobre 2010 [...]. A fronte del rigore manifestato dal Ministro Scotti e del rifiuto da parte di questi di qualsiasi iniziativa che potesse apparire con un "patteggiamento" con le associazioni mafiose perché, appunto, "radicalmente incompatibile con la scelta di guerra" (v. sopra) e nel contesto di un complessivo dibattito politico che lo mostrava, almeno per quei che appariva all'esterno, isolato sia nell'ambito del Governo (con l'eccezione del Ministro Martelli certamente influenzato dal ruolo svolto presso il Ministero della Giustizia dal Dott. Falcone e, poi, dall'uccisione di un suo così valente Collaboratore), sia, soprattutto, nell'ambito dei Partito della Democrazia Cristiana, v'è stata la imprevista sostituzione dell'On. Scotti nel suo ruolo di Ministro dell'Interno, ai più, se non a tutti, apparsa del tutto inopinata per le ragioni che ufficialmente l 'hanno accompagnata. Sulla stampa (e, quindi, all'opinione pubblica), invero, tale sostituzione è stata presentata come conseguenza del rifiuto da parte dell'On. Scotti di accettare la regola della incompatibilità tra il ruolo di ministro e quello di parlamentare per la prima volta introdotta (o, come già accennato sopra, quanto meno applicata: v., infatti, dichiarazioni del teste De Mita secondo cui, in realtà, tale regola era sempre esistita ancorché mai applicata ed anzi, come è emerso dalle deposizioni di tanti importanti esponenti dell'epoca di quei Partito, addirittura ignorata nella sua stessa esistenza) dalla Direzione della Democrazia Cristiana in occasione della formazione del nuovo Governo nei giugno del 1992. E tale rifiuto di sottomettersi a tale regola fu certamente manifestato dall'On. Scotti nei giorni immediatamente precedenti la formazione del detto Governo, sia con dichiarazioni pubbliche, sia nei colloqui con coloro che, per il Partito della Democrazia Cristiana (in primis, ma non soltanto, il Presidente ed il Segretario), si stavano concretamente occupando di definire la delegazione dei Ministri. Sennonché, l'On. Scotti, poi, non fu conseguentemente estromesso da quel Governo, ma, come dallo stesso riferito, senza che egli avesse mai manifestato alcuna disponibilità (ma sul punto, si vedrà più avanti quanto dichiarato dall'On. Forlani e da altri testi) tanto da apprenderlo ascoltando la dichiarazione pubblica del Presidente del Consiglio incaricato all'uscita dell'incontro col Capo dello Stato (v. testimonianza Scotti sopra riportata), fu designato quale Ministro degli Esteri. Ora, poiché anche per quest'ultimo ruolo valeva la regola dell'incompatibilità sancita dalla Direzione del Partito, è apparso subito evidente agli occhi di tutti gli osservatori politici, dell'opinione pubblica e, persino, dello stesso Scotti (v. ancora testimonianza già citata), che vi erano altre non dichiarate ragioni che avevano indotto la Democrazia Cristiana a volere la sostituzione di Scotti presso il Ministero dell'Interno con altro esponente del medesimo Partito appartenente ad altra "corrente" (l'Ono Mancino). Ebbene, è stato giocoforza in tale contraddittorio contesto ricollegare quella sostituzione alla situazione di almeno apparente isolamento del Ministro dell'Interno Scotti, maturato già da diversi mesi (quanto meno dal marzo 1992 quando vi era stata la sua audizione parlamentare a proposito degli allarmi allora diramati), di cui si è detto sopra. Sennonché, l'istruttoria dibattimentale espletata in proposito, non ha consentito di pervenire ad una certa e così netta conclusione di causa e effetto. Invero, sono emersi, da un lato, alcuni contraddittori comportamenti dell'On. Scotti di seguito alla sua designazione come Ministro degli Esteri e prima che, infine, fossero formalizzate le sue dimissioni. Se è vero, infatti, che l'On. Scotti, come dallo stesso dichiarato, ebbe a presentare immediatamente al Presidente del Consiglio Amato la lettera di dimissioni, accettando, poi, su invito di questi a soprassedervi per far fronte ad alcuni imminenti impegni di politica internazionale [...], è però, altresì, vero che, in realtà, poi l'On. Scotti aveva formalizzato anche una richiesta di dimissioni dalla carica di parlamentare pervenuta [...] alla Camera dei Deputati l'11 luglio 1992, successivamente, però, revocata contestualmente alla comunicazione di avere rassegnato, invece, le dimissioni da Ministro degli Esteri [...]. Dall'altro lato, invece, sono emersi dalle deposizioni di altri esponenti della Democrazia Cristiana protagonisti di quelle vicende elementi che effettivamente, se non sono sufficienti a provare in termini di certezza (per la contraddittorietà dei ricordi dei testi anche su circostanze fondamentali), non consentono, comunque, di escludere che alla decisione di sostituire 1'On. Scotti quale Ministro dell'Interno abbiano quanto meno concorso questioni piuttosto collegate alle dinamiche interne alla Democrazia Cristiana ed ai rapporti di forza tra le sue "correnti" ed i relativi esponenti. [...] Peraltro, le incertezze sopra ricordate non sono state chiarite, ma anzi forse  ancor più acuite, dalla deposizione del teste Forlani, all'epoca segretario del Partito della Democrazia Cristiana e, dunque, principale artefice delle designazioni per la nuova compagine ministeriale [...] La testimonianza del teste Forlani sopra riportata, infatti, pur nella spiegazione del percorso tutto interno al partito della Democrazia Cristiana che condusse a designare Mancino quale Ministro dell'Interno nel nuovo governo, non aiuta a superare la contraddittorietà delle risultanze sopra ricordata, perché, l'accettazione, addirittura di buon grado [...], che, secondo, appunto, il teste Forlani, Scotti avrebbe in ultimo manifestato riguardo alla nomina a Ministro degli Esteri, appare del tutto in contrasto, non soltanto con la testimonianza dello stesso Scotti, il quale, invece, ha negato di avere mai dato la disponibilità alla nomina e di avere saputo della sua designazione prima dell'annuncio formale della composizione del nuovo Governo fatto dal Presidente del Consiglio Amato, ma anche con il dato fattuale della lettera di dimissioni da Ministro, già nella immediatezza della nomina presentata da Scotti, seguita dall'invito del Presidente del Consiglio Amato di soprassedervi sino alla conclusione di alcuni imminenti impegni internazionali. Analoga contraddittorietà si riscontra anche riguardo alla corrispondente deposizione del teste Pomicino, secondo il quale, addirittura, Scotti "scelse" di andare al Ministero degli Esteri [...]. Anche in questo caso, poiché la "scelta" di Scotti, se vi è effettivamente stata, è maturata nelle ore immediatamente precedenti al varo del nuovo Governo (tutti i testi informati di tali vicende, infatti, hanno riferito i frenetici contatti protratti si sino a tutta la notte tra il 28 e il 29 giugno 1992), resterebbe senza una adeguata spiegazione la lettera di dimissioni scritta da Scotti lo stesso 29 giugno 1992 [...], fatto che, invece, appare coerente con la "sorpresa" di essere stato nominato Ministro degli Esteri raccontata dallo stesso Scotti. Ugualmente non appare di aiuto, nel senso richiamato, neppure la testimonianza dell'allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato, secondo cui, infatti, l'indicazione dei Ministri Scotti e Mancino, rispettivamente per i dicasteri degli Esteri e dell'Interno, è maturata esclusivamente nell'ambito del partito della Democrazia Cristiana cui "spettavano" quelle designazioni [...]. Certo, non può non suscitare perplessità, che il teste Giuliano Amato abbia detto di non ricordare nulla delle polemiche, pubbliche e con ampio risalto sulla stampa (basti ricordare l'intervista del giornalista Giuseppe D'Avanzo a Scotti pubblicata sul quotidiano "la Repubblica" il 21 giugno 1992), che accompagnarono un'ipotizzata sostituzione dei Ministri Scotti e Martelli, impegnati in una manifesta azione di contrasto alla mafia e particolarmente esposti su tale fronte ancor più dopo la strage di Capaci, in vista della formazione del nuovo Governo, né che tali temi non siano stati oggetto di alcuna valutazione, lasciando prevalere le esigenze di equilibrio interne di un partito della coalizione, ma è, però, anche vero che, veniva proposto in sostituzione di Scotti un politico stimato e di riconosciuta capacità [...], per il quale, al di là del segnale che determinati ambienti avrebbero potuto, eventualmente anche ingiustificatamente ma oggettivamente, percepire, non v'era alcuna ragione di dubitare che avrebbe proseguito l'azione di contrasto al fenomeno mafioso con altrettanta fermezza del suo predecessore [...]. A ciò si aggiunga, poi, che non è neppure da escludere che possa essersi, in effetti, verificato quanto ipotizzato dallo stesso Giuliano Amato sia pure sulla base di generiche "voci" che circolavano all'epoca e cioè che, di fronte ad un iniziale rifiuto di Scotti di rinunciare al ruolo di parlamentare, il partito della Democrazia Cristiana avesse designato al Ministero dell'Interno Nicola Mancino e soltanto successivamente avesse deciso di mantenere comunque Scotti nel Governo [...], rinviando ad un momento successivo la questione dell'incompatibilità (che, d'altra parte, riguardava anche altri Ministri), cosi che fu giocoforza, stante l'impegno già assunto con Mancino, dirottare Scotti ad altro Ministero, peraltro, di maggior "peso", nella speranza che ciò lo inducesse a rinunziare alla sua opposizione. [...] Si vuole dire in altre parole che non vi sono elementi, sulla base di quelle dichiarazioni del Mancino alla Commissione Parlamentare Antimafia, per collocare gli accadimenti riferiti nella esatta sequenza temporale e ciò, quindi, in particolare, anche rispetto al prospettato avvicendamento del Ministro Scotti al Dicastero dell'Interno, in ipotesi, già eventualmente deciso per quelle ragioni connesse agli aggiustamenti degli equilibri interni alle correnti del partito della Democrazia Cristiana. […] Resta da esaminare, allora, l'episodio dell'incontro tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani di cui ai paragrafi 3.2 e 3.3, che rafforza indubbiamente l'intuizione accusatoria del P.M., ma che, per quanto si dirà, non può ritenersi definitivamente decisivo per individuare, in termini di certezza ed univocità, la ragione della sostituzione del Ministro Scotti. Orbene, deve, innanzi tutto, rilevarsi che, alla stregua delle risultanze probatorie acquisite, non può residuare alcun dubbio sul fatto che la preoccupazione del Mannino per la deposizione di De Mita riguardasse la questione dell'avvicendamento del Ministro Scotti con Mancino, dal momento che è stato lo stesso Gargani [...] a confermarlo [...]. Tale conclusione, d'altra parte, è avvalorata anche dal fatto che In quell'occasione il medesimo Mannino ebbe a fare riferimento "al figlio di Ciancimino che ha detto la verità" e, quindi, a Massimo Ciancimino, il quale, in effetti, aveva, tra l'altro, dichiarato di avere saputo in anticipo dal padre che Scotti, con il quale Vito Ciancimino non riteneva possibile alcun dialogo, sarebbe stato sostituito da Mancino quale Ministro dell'Interno (v. dich. Massimo Ciancimino sopra riportate nella Parte Seconda della sentenza, Capitolo 2). In proposito, occorre, però, precisare e ribadire che le richiamate dichiarazioni di Massimo Ciancimino, per il mancato superamento del necessario vaglio preliminare, non possono minimamente utilizzarsi e, in concreto, non si utilizzano in questa sede nel loro intrinseco contenuto, ma solo nella loro oggettiva esistenza utile per comprendere il senso dell'iniziativa del Mannino, tanto più che anche in questo caso Massimo Ciancimino potrebbe avere sfruttato, per sorreggere le sue ardite sovrastrutture di fantasia (v. Parte Seconda della sentenza), o, più probabilmente, le conoscenze acquisite successivamente sulla vicenda in questione, ovvero anche, al più, in ipotesi, una eventuale conoscenza sulla imminente nomina di Mancino già all'epoca trasmessagli dal padre Vito Ciancimino (al quale, d'altra parte, non mancavano di certo i referenti all'interno della Democrazia Cristiana). Tuttavia, alla stregua delle risultanze sinora esposte, non v'è dubbio che il riferimento fatto in quella occasione da Mannino, peraltro, avallato dallo stesso Gargani con la sola eccezione del giudizio di veridicità delle relative dichiarazioni,[...], conferma ulteriormente quale fosse la ragione del timore del Mannino, quello di essere in qualche modo collegato alla sostituzione del Ministro Scotti. Da ciò, dunque, deve necessariamente ricavarsi che Mannino temeva in qualche modo quanto avrebbe potuto dichiarare il teste De Mita riguardo all'avvicendamento tra Scotti e Mancino. Ora, un simile timore, tanto più che in quel momento non era stata ancora mossa alcuna contestazione al Mannino, può trovare giustificazione, sotto il profilo logico, solo ed esclusivamente in un coinvolgimento personale di quest'ultimo nella detta vicenda e, quindi, nella preoccupazione che tale coinvolgimento fosse scoperto con la imminente testimonianza di De Mita. Allora, se così è, è giocoforza ritenere che Mannino fosse a suo tempo in qualche modo intervenuto nei confronti di De Mita per perorare la scelta di un nuovo Ministro dell'Interno meno intransigente nel contrasto alle organizzazioni mafiose rispetto a Scotti e ciò, d'altra parte, del tutto coerentemente con le risultanze già esposte nel precedente Capitolo 2 riguardo al timore del Mannino medesimo, dopo l'omicidio di Salvo Lima, di essere a sua volta ucciso e alla conseguente sua convinzione che soltanto un attenuazione del rigore nei confronti del fenomeno mafioso che aveva caratterizzato l'azione dei Ministri Martelli e Scotti (grazie anche alla decisiva spinta di Giovanni Falcone) gli avrebbe consentito di avere salva la vita. […] In altre parole, la Corte ritiene che neppure l'episodio dell'incontro tra Mannino e Gargani, seppur ricostruito nei termini prima esposti, consenta di superare definitivamente e senza possibilità di dubbio la contraddittorietà delle complessive risultanze e, quindi, di attribuire la sostituzione di Scotti in via esclusiva al desiderio di Mannino e/o di altri di un ammorbidimento della linea governativa della fermezza per favorire i contatti già intrapresi dai Carabinieri con i vertici mafiosi. Ma, pur dovendosi necessariamente raggiungere la conclusione che, anche a causa delle testimonianze spesso lacunose e contraddittorie di molti testi, come già detto sopra, non è stato possibile acquisire sufficienti elementi a sostegno della tesi dell'Accusa secondo cui il Ministro dell'Interno Scotti venne deliberatamente sostituito per volere di coloro che all'interno della Democrazia Cristiana (Mannino, ma anche il Presidente della Repubblica Scalfaro, [...]) auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso sino ad allora dal predetto Ministro propugnata al fine di evitare ulteriori aggressioni da parte delle organizzazioni mafiose allo Stato e (forse ancor più) l'uccisione di taluni di essi (come era già avvenuto per l'On. Lima e si temeva per altri, tra i quali, innanzitutto, lo stesso On. Mannino), va, in ogni caso, evidenziato che quel rileva nel presente processo è [...] che, l'assenza di una comprensibile e pubblica esplicitazione delle reali ragioni di quella sostituzione [...], autorizzava tutti coloro che vivevano e osservavano dall'esterno quegli accadimenti a ritenere, indipendentemente da colui che da quel momento avesse assunto l'incarico, che si volesse a quel punto cambiare la linea politica del Ministero dell'Interno e, quindi anche, per un verso, l'organizzazione mafiosa "cosa nostra" a ritenere che un qualche effetto per essa favorevole era stato prodotto dalla strategia culminata sino ad allora nella strage di Capaci e che vi era la possibilità di "trattare" per ottenere qualche beneficio in cambio della cessazione della strategia stragistica, e, per altro verso [...], taluni esponenti delle Forze dell'Ordine a ritenere che si potesse a quel punto portare avanti una linea investigativa (non apprezzata - e che, quindi, non sarebbe stata mai avallata - da Scotti) di ricerca di contatti con i vertici dell'organizzazione mafiosa per raggiungere il medesimo obiettivo della cessazione delle uccisioni di esponenti politici e delle Istituzioni eventualmente mediante la cattura di quegli esponenti mafiosi che ne apparivano essere gli istigatori (Riina ed i suoi più fidati sodali). Certo, come evidenziato anche dal Pubblico Ministero in sede di esame di alcuni dei testi di cui si è dato conto in questo Capitolo, se è vera la ricostruzione operata in questa sede da tal uni esponenti della Democrazia Cristiana esaminati in qualità di testimoni, è certamente grave che il principale Partito protagonista della politica dell'epoca, all'indomani della strage di Capaci, la cui efferatezza non aveva precedenti nella storia repubblicana, abbia inserito la "casella" del Ministero dell'Interno nell'ordinaria "spartizione" di poltrone che caratterizzava la formazione dei Governi, senza minimamente preoccuparsi [...]. Si vuole dire, in sostanza, che anche addivenendo ad una ricostruzione della vicenda che escluda la più grave ipotesi accusatoria della deliberata e consapevole sostituzione del Ministro Scotti per attenuare la frontale contrapposizione dello Stato all'organizzazione mafiosa con il fine, se non di far salva la vita a tal uni esponenti politici che temevano di soccombere per mano mafiosa, quanto meno di far cessare quell'aggressione di tipo terroristico che impediva il normale svolgersi della vita del Paese e rischiava conseguentemente di indebolire il Partito che storicamente ne assumeva la responsabilità, comunque, non viene meno, in termini di rilievo quanto meno oggettivo, l'effetto sopra ricordato sia sul fronte della percezione dei mafiosi, sia su quello della percezione di tal uni apparati investigativi, che, convergentemente, come è emerso incontestabilmente all'esito dell'istruzione dibattimentale, a quel punto hanno iniziato a cercarsi reciprocamente per addivenire ad un soddisfacente accordo che potesse produrre benefici risultati per le contrapposte esigenze. Quali siano stati gli effetti prodotti da tali contatti sarà oggetto di successiva analisi in altro apposito Capitolo.

L'“accelerazione” per la seconda strage. La Repubblica il 22 agosto 2019. Come si è già visto sopra a proposito dell'origine della strategia mafiosa scaturita dal volere, soprattutto, di Salvatore Riina tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992, non v'è alcun dubbio che, sin dall'inizio, nel programma "a grandi linee" delineato e ratificato dai vertici di "cosa nostra" vi fosse anche l'omicidio del Dott. Borsellino in quanto simbolo, insieme al Dott. Falcone, della nuova stagione, iniziata nei primi anni ottanta, di incessante contrasto al fenomeno mafioso e di rifiuto di qualsiasi indulgenza anche verso quei settori della società e del mondo politico e imprenditoriale che ne avevano consentito, in qualche modo, lo sviluppo, sino a permeare pericolosamente molte, se non tutte, le attività pubbliche e private spesso anche oltre gli stretti ambiti territoriali siciliani. Tuttavia, l'omicidio del Dott. Borsellino, a soli cinquantasette giorni di distanza dalla strage di Capaci, nel momento di maggiore indignazione della società civile verso il fenomeno mafioso e di conseguente reazione dello Stato anche sul fronte legislativo estrinsecatasi con il D.L. dell'8 giugno 1992 n. 306 che introduceva, sì, tra l'altro, il regime del 41 bis, ma che era stato seguito dal plateale dissenso di ampi settori del Parlamento e di giuristi che prospettavano un inammissibile superamento dei limiti delle garanzie che, comunque, uno stato di diritto democratico deve assicurare, è apparso, sia dai primi momenti, ai più, come del tutto controproducente per gli interessi dell'organizzazione mafiosa, se non altro, perché, come di fatto poi è avvenuto, anche da parte di coloro che agivano in perfetta buona fede e per profonde convinzioni ideali, non sarebbe stato possibile opporre alcuna resistenza a coloro che propugnavano la necessità di un definitivo "giro di vite" nella più dura repressione del fenomeno mafioso. Ed infatti, unanimemente, tutti i testi "politici" esaminati in questo dibattimento, non hanno mostrato alcun dubbio nel ritenere e riferire che la strage di via D'Amelio e le conseguenti reazioni della società civile, furono determinanti per stroncare i dissensi da tanti manifestati (in buona o in cattiva fede) e per giungere alla conversione in legge, senza che ne fosse snaturato l'intento fortemente repressivo del fenomeno mafioso, del decreto legge prima ricordato, col quale si ponevano le basi per l'applicazione ai mafiosi, per la prima volta, di un regime detentivo particolarmente duro e tale da impedire loro quei collegamenti con i sodali liberi che, sino ad allora, erano stati uno dei punti di forza del perpetuarsi del potere mafioso nonostante gli arresti delle sue leve di comando ed i duri colpi inferti con il maxi processo (senza dimenticare, poi, altre misure non meno importanti ai fini del contrasto alle mafie pure contenute in quel decreto legge). Ed in effetti, può ritenersi certamente provato, all'esito dell'istruttoria dibattimentale compiuta, che il generico e generale progetto di uccidere il Dott. Borsellino (nell'ambito di quel programma che riguardava molti altri soggetti e che, però, per le più svariate ragioni, non per tutti è stato, poi, attuato) ha subito una improvvisa accelerazione ed esecuzione, ancora una volta per volere di

Salvatore Riina, proprio nei giorni immediatamente precedenti quello in cui, poi, avvenne la strage di via D'Amelio. Un primo significativo elemento di prova si trae dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca. Quest'ultimo, invero, pur affermando espressamente di non essere a conoscenza di una eventuale accelerazione del progetto omicidiario in danno del Dott. Borsellino (''No, io non ho mai saputo di accelerazioni su questo fatto"), ha, tuttavia, riferito che, dopo la strage di Capaci, lo stesso Riina gli aveva dato incarico di organizzare l'uccisione dell'On. Mannino e che, tuttavia, pochi giorni prima della strage di via D'Amelio, quell'incarico gli era stato revocato senza dargli alcuna spiegazione, anche se egli, però, poi, aveva ricollegato quell'improvvisa revoca proprio alla sopravvenuta esecuzione di quella strage (" ... dopo la strage di Capaci mi aveva dato il mandato per uccidere l'onorevole Mannino, come ho detto poco fa. A un dato punto, tramite Biondino, mi revoca il mandato ed io provvedo per fare altre cose, però non mi dice ... ... .... il mandato me lo dà, credo, nel secondo... primo o secondo incontro dopo Capaci.... ... .. . .i1 mandato, siamo sempre là, intorno ai quindici, dieci giorni, otto giorni, venti giorni prima della strage di via D'Amelio. Biondino, attraverso Nino Gioè che neanche io lo vedo, mi dice di fermare per quanto riguarda l'attentato ai danni... ... .. ... E non saprò mai per quale motivo mi revoca questo mandato ... [...]). Un primo riscontro alle propalazioni sul punto rese da Brusca si rinviene, già nelle dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale avvenuto nelle udienze del 17, 23, 24 e 29 giugno 1999 nell'ambito del processo per la strage di via D'Amelio (v. trascrizioni acquisite agli atti). Il Cancemi, infatti, ha riferito di una riunione, avvenuta dopo la strage di Capaci, nella quale il Riina, assumendosene la responsabilità, aveva manifestato l'improvvisa urgenza di uccidere anche il Dott. Borsellino ("Poi mi ricordo che un 'altra riunione c'è stata credo giugno ... comunque dopo la strage del dottore Falcone, sicuramente dopo, ci ... pure nella casa di Guddo c'è stata un 'altra … un'altra riunione dove il Riina si era appartato così, sempre nello stesso appartamento, nello stesso ... dove eravamo noi con Ganci Raffaele, che si sono detti delle cose e io c 'ho sentito dire: "La responsabilità è mia". Il riferimento era pure quello là. Poi, quando io ... ce ne siamo andati, mi ricordo che me ne sono andato con Ganci Raffaele e mi disse, dice: "Questo ci vuole rovinare a tutti", questo riferen. .. parlando per Riina ... .... ..... io in quella riunione mi ricordo che i presenti eravamo io, Biondino, Biondino Salvatore, Ganci Raffaele ... Ganci Raffaele, il Riina e credo anche La Barbera Michelangelo. […] Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci. Ganci mi disse: "Questo ci... ci vuole rovinare a tutti". quindi la cosa era ... il riferimento era per il dottor Borsellino .. ... .... mi ricordo, sforzando i miei ricordi, perché, ripeto, magari prima qualche cosa uno non la ricorda e la ricorda più avanti, mi ricordo, si, che si è fatto anche in quella data il nome del dottor Borsellino ... ... .. .Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa ... di una cosa veloce, aveva ... io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva ... la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. Questa è l'impressione che io ho avuto ... .... .... io ho capito che c'era qualcosa che Riina aveva... che questa cosa la doveva portare subito a compimento, [...]come se lui aveva un impegno preso che doveva fare questa strage del dottor Borsellino .. "). Per completezza, però, va detto che tali dichiarazioni di Cancemi seguono precedenti dichiarazioni con le quali il predetto aveva affermato di non sapere nulla della uccisione del Dott. Borsellino e che, conseguentemente, gli sono state puntualmente contestate dai difensori degli imputati di quel processo [...]. Il Cancemi, a propria giustificazione, ha allora addotto la difficoltà e complessità del percorso che lo aveva infine indotto ad aprirsi ad una piena collaborazione con la Giustizia (" ... scusatemi l'espressione, mi dovete capire. La mia collaborazione, Signor Presidente, non è stata una passeggiata, la mia collaborazione è stata una cosa incredibile; non è stato come quelli che sono arrivati dopo che hanno trovato tutto in un piatto d'argento. La mia collaborazione è stato quello che io dovevo andare ammettere delle cose così gravi, così terribili davanti a Voi, che per me era come se io l'avessi rifatto di nuovo, come se io li stavo commettendo davanti a Voi. A me mi succedeva questo qua, quindi, io ho avuto di bisogno del tempo di superare tutte queste cose, non è stato perché io volevo sfuggire alla Giustizia, perché se io volevo sfuggire alla Giustizia, Signor Presidente, io mi pigliavo i soldi che avevo e me ne andavo con la mia famiglia, lo me ne andavo in un altro angolo del mondo. invece no, non l'ho fatto questo, Signor Presidente, io ho voluto dare una mano alla Giustizia per distruggere questo male; però ho avuto di bisogno del tempo, perché i travagli ... lo so io quello che ho avuto nella mia persona. [...]"). Ora, per la valutazione della attendibilità generica di Salvatore Cancemi si rimanda a quanto osservato nella Parte Prima di paragrafo 4.5. questa sentenza, Capitolo 4, ma, a prescindere dalle criticità della collaborazione del Cancemi ivi evidenziate, così come delle criticità della collaborazione di Brusca (v. Parte Prima di questa sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4), qui deve dirsi che le predette risultanze probatorie ricavate dai racconti di Brusca e Cancemi, hanno trovato un inaspettato straordinario riscontro nelle parole dello stesso Salvatore Riina, allorché questi, come si vedrà meglio più avanti in un apposito Capitolo che approfondirà tale risultanza, è stato intercettato all'interno del carcere ove era detenuto. Invero, rinviando al preannunciato approfondimento, può qui, però, già ricordarsi che effettivamente da quelle intercettazioni si ricava che, mentre l'esecuzione della strage di Capaci è stata pianificata, studiata ed organizzata con largo anticipo, la strage di via D'Amelio è stata eseguita a seguito di una improvvisa accelerazione maturata soltanto nei giorni immediatamente precedenti [...]. Lo stesso Riina, dunque, ha confermato che l'attentato di via D'Amelio è stato "...studiato alla giornata..." e deciso (ovviamente nella sua concreta attuazione, perché la "condanna a morte" del Dott. Borsellino era risalente nel tempo [...]) solo qualche giorno prima [...]. Non solo, ma dalla medesima intercettazione si ricava, altresì, la - anche in questo caso straordinaria - conferma delle dichiarazioni del Brusca nella parte in cui questi ha riferito che dopo la strage di Capaci non era prevista nell'immediato l'uccisione del Dott. Borsellino. […] Dalle parole di Riina sopra ricordate si ha la conferma che effettivamente sino a pochi giorni prima della strage di via D'Amelio (fatto che conferma anche la dichiarazione di Brusca nella parte in cui questi ha riferito che conseguentemente gli fu revocato l'incarico di uccidere l'On. Mannino solo tre giorni prima della detta strage) non era stata decisa l'attuazione del progetto omicidiario nei confronti del Dott. Borsellino, tanto che il Riina racconta, da un lato, di avere, quindi, prospettato ad un certo punto ad un suo ignoto interlocutore la necessità di operare immediatamente (".. Arriva chidu. .. ma subitu ... subitu'') e, dall'altro, la sorpresa manifestata da quel medesimo suo interlocutore per quella improvvisa decisione di uccidere in quel momento anche il "secondo" e cioè il Dott. Borsellino dopo che il "primo", il Dott. Falcone, era stato ucciso poco tempo prima ("Eh.. . Ma rici... macara u secunnu?"), ribadendo, poi, in una successiva intercettazione di avere autorizzato ("Fai ... fa (inc).") l'esecuzione della strage di via D'Amelio appena due giorni prima del giorno in cui questa avvenne ( .... "dopudumani ... " dici ...). Alla stregua anche di tali straordinari riscontri deve totalmente disattendersi il tentativo della difesa degli imputati Subranni e Mori di contestare le dichiarazioni rese da Brusca Giovanni con riferimento alla preparazione di un attentato ai danni dell'On. Mannino prima della strage di via D'Amelio (v. trascrizione della discussione ali 'udienza del 2 marzo 2018). Secondo la difesa, infatti, le dette dichiarazioni sarebbero smentite, sotto il profilo temporale, soprattutto dalle dichiarazioni di Gioacchino La Barbera, oltre che da quelle di Siino. Orbene, rileva la Corte che, in realtà, non v'è alcuna incompatibilità tra le dichiarazioni di Brusca relative all'attentato ai danni dell'On. Mannino che egli, su incarico di Riina, aveva iniziato a studiare prima di sospenderlo su richiesta dello stesso Riina pochi giorni prima della strage di via D'Amelio e le dichiarazioni di La Barbera che, invece, riferiscono, come si vedrà, della ulteriore preparazione del medesimo attentato di cui egli ebbe ad occuparsi nei mesi successivi. Si tratta, infatti, di due episodi diversi che si collocano in due diverse fasi temporali, la prima quella già ampiamente descritta sopra, la seconda quella che, come si vedrà più avanti, ebbe ad aprirsi nell'autunno del 1992 in continuità con gli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino (oltre che con la vicenda Bellini di cui pure si tratterà più avanti) e nella quale si progettò la ripresa degli attentati, non soltanto nei confronti dell'On. Mannino, ma anche del Dott. Pietro Grasso e di altri. […] L'accertata diversità dei due episodi cui si sono rispettivamente riferiti Brusca e La Barbera e della loro compatibilità e coerenza temporale anche in relazione agli sviluppi di tutti gli accadimenti di cui si darà conto a partire dal successivo Capitolo, rende superfluo esaminare in proposito le propalazioni di Siino, citate dalla difesa degli imputati Subranni e Mori a sostegno delle dichiarazioni di La Barbera e per smentire quelle di Brusca, in quanto si riferiscono evidentemente, per il profilo temporale che se ne ricava, semmai confermandolo, al secondo episodio relativo alla ripresa del progetto di attentato in danno dell'On. Mannino, dopo che, nel precedente mese di luglio, il medesimo progetto, in quel caso affidato a Brusca, era stato sospeso. Alla stregua delle suddette risultanze che comprovano l'improvvisa accelerazione della decisione di uccidere il Dott. Borsellino in quel momento non ancora in fase di attuazione, deve necessariamente concludersi, per ineludibile deduzione logica, che effettivamente nei giorni precedenti la strage di via D'Amelio ebbe a verificarsi un qualche accadimento che ha indotto il Riina a soprassedere all'omicidio dell'On. Mannino ed a concentrarsi, invece, con immediatezza, nella uccisione del Dott. Borsellino, nonostante questa non fosse, in quel momento, all'ordine del giorno per i prevedibili effetti controproducenti di cui si è detto (certamente ben più dirompenti di quelli che sarebbero derivati, invece, dalla programmata uccisione dell'On. Mannino, dato di fatto, che, in via obiettiva, può ricavarsi col parallelo confronto tra le reazioni all'omicidio dell'On. Lima e quelle all'uccisione del Dott. Falcone). Ed allora, è opportuno esaminare anche due aspetti della complessa attività istruttoria dibattimentale compiuta che appaiono in qualche modo connessi con il tema affrontato in questo capitolo, aggiungendo, infine, anche alcune considerazioni su un ulteriore tema particolarmente caro alle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno ancorché a questa Corte ne sia sfuggita appieno la rilevanza.

Quella confidenza sul generale Subranni. La Repubblica  il 24 agosto 2019. Prima di passare al tema dei contatti dei Carabinieri (e, specificamente, degli imputati Subranni, Mori e De Donno) con Vito Ciancimino, però, è opportuno qualche cenno ad un'altra vicenda che, come detto, è, in qualche modo, collegata agli accadi menti che si verificarono nel giorni immediatamente precedenti la strage di Via D'Amelio e che pure è stata oggetto di attività istruttoria nel presente processo. Infatti, Agnese Piraino Leto, coniuge del Dott. Paolo Borsellino, ancorché per la prima volta soltanto nel 2009, ha riferito una confidenza che il marito ebbe a farle pochi giorni prima di morire riguardo a quanto dallo stesso appreso sul Gen. Subranni. In particolare, la Sig.ra Piraino Leto, sentita il 18 gennaio 2009 [...], dopo avere raccontato che il marito aveva numerose amicizie nell'Arma dei Carabinieri per la quale nutriva una vera e propria ammirazione ("Mio marito vantava numerose amicizie tra Ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, con i quali aveva anche frequenti rapporti di tipo professionale, nutrendo egli una vera e propria ammirazione verso l'Arma dei Carabinieri''), si è soffermata sui rapporti con il Gen. Subranni, che il marito medesimo aveva avuto modo di conoscere quando il predetto era Comandante della Regione Sicilia ed aveva, comunque, frequentato sporadicamente solo per ragioni professionali [...]. Ebbene, la Sig.ra Piraino Leto, nel riferire di ignorare se il marito si fosse riferito al Gen. Subranni allorché, come raccontato dai Dott.ri Alessandra Camassa e Massimo Russo, piangendo, aveva detto loro di essere stato tradito da un amico ("Prendo atto che le SS. LL. mi rappresentano che la dott.ssa Alessandra Camassa ed il dotto Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo il quale, piangendo, disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e, pertanto, non posso affermare che si trattasse del Generale Subranni''), tuttavia, ha aggiunto spontaneamente, a quel punto, il racconto di un episodio che all'epoca l'aveva colpita moltissimo e del quale fino ad allora non aveva mai parlato nel timore di recare pregiudizio all'immagine dell'Arma dei Carabinieri ("Tuttavia ricordo un episodio che all'epoca mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all'immagine dell'Arma dei Carabinieri, alla quale mi legano rapporti di stima ed ammirazione"). Tale accadimento si era verificato il giorno 15 luglio 1992, data individuata con certezza dalla Sig.ra Piraino Leto sulla scorta della copia fotostatica dell'agenda grigia del marito dalla quale risultava che il giorno 16 luglio 1992 (giorno che ricordava essere successivo all'episodio riferito) il marito si era recato a Roma per motivi di lavoro ("Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992: ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell'agenda grigia che le SS. LL. mi mostrano, il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza"). Ebbene, in quell'occasione, intorno alle ore 19,00, mentre entrambi i coniugi si trovavano nel balcone di casa, il marito, manifestando uno stato di particolare agitazione tanto da sentirsi male ed avere conati di vomito, le aveva detto che aveva "visto la mafia in diretta" perché gli avevano riferito che "il Generale Subranni era punciutu", termine col quale, notoriamente, si indicano i soggetti formalmente affiliati alla mafia [...]. Indi, la teste ha precisato di non avere chiesto al marito qual era la fonte di quella confidenza da lui ricevuta, anche se le era venuto in mente che, proprio in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri (''Non chiesi, tuttavia, a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che, in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri''). La teste, poi, ha aggiunto che il giorno 18 luglio 1992 era sabato e che col marito erano andati a fare una passeggiata sul lungomare di Carini senza scorta, quando, ad un certo momento, il marito medesimo, sconfortato, le aveva detto che non sarebbe stata la mafia, della quale non aveva paura, ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere, senza, tuttavia, nonostante le sue insistenze, farle alcun nome e ciò per non renderla depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la sua incolumità, costituendo, dunque, un'eccezione a detta regola la confidenza che qualche giorno prima le aveva fatto riguardo al Gen. Subranni ("Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo. Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni, ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità; infatti la confidenza su Subranni costituisce un'eccezione a questa regola"). L'episodio è stato, quindi, confermato dalla teste anche il successivo 27 gennaio 2010[...]. Nella stessa occasione (ma su ciò si tornerà anche più avanti) la teste ha anche aggiunto che il marito, dopo la strage di Capaci, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi ("... mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c'era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po' di tempo... dopo la strage di via ... di Capaci, dice che c'era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi «infedeli» dello Stato, e non mi dice altro... ") . Orbene, ritiene la Corte che, anche in forza delle complessive risultanze probatorie acquisite, non via sia alcuna ragione di dubitare della assoluta veridicità dell'episodio raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, veridicità che, tuttavia, come si dirà, può estendersi, sì, anche al ricevimento di quella notizia da parte del Dott. Borsellino, ma non anche, ovviamente, al contenuto intrinseco della stessa, ancorché la reazione non usuale di una persona e di un magistrato qual era il Dott. Borsellino, certamente uso a ben valutare le più disparate informazioni raccolte nelle sue molteplici indagini in materia di mafia (peraltro, proprio in quegli stessi giorni, aveva raccolto anche informazioni di particolare gravità persino su colleghi con i quali lavorava da anni, oltre che su Bruno Contrada), induca a ritenere che quella sua conoscenza rassegnata alla moglie in quell'occasione e con quelle modalità fosse fondata su elementi da lui ritenuti particolarmente solidi. Occorre, invero, rilevare in proposito, innanzitutto, che già qualche anno prima, tra la fine del 2004 e l'inizio del 2005, la Sig.ra Piraino Leto aveva raccontato il medesimo episodio, sostanzialmente negli stessi termini, al Dott. Cavaliero, magistrato legato da intenso rapporto di frequentazione ed amicizia con la famiglia Borsellino, così come dallo stesso confermato in sede di esame testimoniale anche nel presente processo. […] II teste ha aggiunto che la moglie del Dott. Borsellino non gli disse quanto tempo prima di morire il marito le aveva fatto quella confidenza, ma certamente ciò era avvenuto dopo la strage di Capaci [...], confermando, però, poi, le sue precedenti dichiarazioni con le quali aveva riferito che il Dott. Borsellino aveva parlato alla moglie del Gen. Subranni qualche giorno prima di morire [...]. Il teste, quindi, ha ribadito la sua meraviglia per quella confidenza e che, tuttavia, non chiese null'altro alla Sig.ra Piraino Leto ("[...] Non chiesi nulla alla signora Agnese perché la signora Agnese era già sufficientemente diciamo infastidita nel dirmelo perché lei era profondamente amareggiata per quella che era stata la reazione violenta che il marito aveva avuto di aver vomitato immediatamente dopo di averle detto questa notizia, e quindi lei era amareggiata per quella che era la condizione emotiva del marito. Devo essere sincero, non ci fu assolutamente da parte mia nessuna domanda ulteriore alla signora Agnese relativamente a quello che mi aveva detto ... "), neppure se ne avesse riferito all'A.G. [...] e ciò conoscendo le preoccupazioni che ancora in quel periodo la Sig.ra Borsellino nutriva per i figli [...]. Quanto al Gen. Subranni, poi, il teste ha precisato che gli era stato presentato proprio dal Dott. Borsellino e che gli stessi intrattenevano buoni rapporti […]. In sede di controesame delle difese degli imputati, quindi, il teste ha aggiunto di avere un vago ricordo che forse effettivamente l'elicottero per accompagnare il Dott. Borsellino a Salerno per il battesimo del figlio dello stesso teste fosse stato messo a disposizione dal Gen. Subranni e che forse anche quest'ultimo era a bordo [...], che il Dott. Borsellino non gli fece mai alcuna confidenza né sul Gen. Mori, né sul Gen. Subranni [...] e che la Sig.ra Borsellino non aggiunse alcun particolare a proposito di quanto dettogli dal marito riguardo al Gen. Subranni se non che il marito in quella occasione si sentì male (''No, aggiunse solamente il dettaglio che Paolo, quando le riferì a lei questa frase, vomitò e si sentì male"), escludendo, peraltro, che, per quello che era il suo stato d'animo in quell'ultimo periodo, il Dott. Borsellino avrebbe potuto fare anche a lui una confidenza quale quella riferita dalla moglie riguardo al Gen. Subranni [...], tanto più che dopo l'incontro del 12 luglio, egli non aveva più parlato col Dott. Borsellino [...].

La testimonianza di Agnese Piraino Leto, per l'autorevolezza tanto di quest'ultima in quanto moglie di Paolo Borsellino, tanto del teste - il Dott. Cavaliero, magistrato - che l'aveva riscontrata nei termini sopra riportati, è stata oggetto di forte contestazione da parte della difesa di Antonio Subranni e anche da parte di quest'ultimo personalmente, il quale, infatti, in proposito, all'udienza del 22 settembre 2017, ha voluto rendere le seguenti spontanee dichiarazioni: " ... Altra tematica è quella relativa alle dichiarazioni in atti della signora Agnese Borsellino, secondo la quale il marito le avrebbe detto, in data 15 luglio 92, che il sottoscritto era punciutu, dichiarazioni riferite in tale sede anche dal Dottor Cavaliero, per averle apprese dalla signora Borsellino. Prescindo dal fatto che la Procura di Caltanissetta ha scrupolosamente verificato la fondatezza di tale affermazione, anche attraverso l'escussione dei collaboratori che il Dottor Borsellino, all'epoca, interrogava. E non trovando alcun riscontro, ha chiesto e ottenuto l'archiviazione del procedimento iscritto a mio carico. [...] Una considerazione s'impone alla luce della testimonianza del Dottor Cardella ed attiene ai rapporti tra i Carabinieri del ROS e la famiglia del Dottor Borsellino. Essi continuarono anche dopo la tragica fine del Magistrato nei termini riferiti dal Teste escusso. Mi domando, a prescindere dalla certezza sulla partecipazione del sottoscritto ali 'incontro, di cui ha parlato il Dottor Cardella, se veramente il sottoscritto fosse stato o anche solo sospettato di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il Comando dal quale dipende il ROS per incontrare Ufficiali del ROS, con il fondato rischio di incontrare il sottoscritto? Inoltre, è emerso, in sede processuale, che il 16 febbraio 93 la signora Borsellino si recò al ROS e, nella stessa sera, vi fu anche una cena. Io non ho un ricordo specifico ma mi chiedo: se il sottoscritto fosse stato - o anche solo sospettato - di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il ROS con il rischio di un incontro anche casuale, ma comunque non gradito, con il sottoscritto, allora Comandante? Per ora mi limito a queste dichiarazioni sul tema, riservandomi, eventualmente, alcune puntualizzazioni qualora ciò si rendesse necessario, ad esito di altre deposizioni testimoniali dalle quali emergerà, lo dico sin d'ora, atteso che i Testi cui mi riferisco sono stati escussi nel processo a carico dei miei collaboratori, Generale Mori e Colonnello Obinu, che le preoccupazioni del Dottor Borsellino non erano per il sottoscritto ma per i suoi colleghi e per le infedeltà dei suoi colleghi, ben rappresentate dalla frase: "un amico mi ha tradito".

Tuttavia, la Corte ritiene che, alla stregua delle risultanze prima esposte, può concludersi che nessuno degli elementi opposti dalla difesa dell'imputato Subranni, e da questi anche personalmente, per porre in dubbio la dichiarazione della Sig.ra Piraino Leto, appare idoneo ad inficiarne l'attendibilità. In particolare:

non lo è, in sé, il fatto che l'episodio sia stato riferito soltanto molti anni dopo, poiché può essere compresa la remora della Sig.ra Borsellino nel riferire quella scarna confidenza, che, senza alcuna specificazione, accusava un alto esponente dell' Arma dei Carabinieri nei cui confronti, sia il marito che tutta la famiglia Borsellino nutrivano sentimenti di rispetto, stima e riconoscenza. D'altra parte, non si evidenzia alcuna plausibile ragione per la quale la Sig.ra Piraino Leto avrebbe dovuto, ad un certo punto, deliberatamente elaborare un racconto falso, né si comprenderebbe perché, ove anche ciò, in ipotesi, avesse fatto per scopi non noti, abbia poi atteso altri anni (dal 2004 quando già ebbe a raccontare l'episodio al Dott. Cavaliero sino al 2009) per riferire il fatto alla A.G.;

non lo è la circostanza che la Sig.ra Piraino Leto abbia continuato a partecipare a manifestazioni organizzate dall'Arma dei Carabinieri poiché la notizia riguardante il solo Gen. Subranni non poteva, ovviamente, coinvolgere l'intera Istituzione verso la quale, come detto, tutta la famiglia Borsellino aveva sempre nutrito la massima fiducia e non v'è, peraltro, alcuna prova certa che a taluna di queste manifestazioni abbia incontrato ed eventualmente salutato anche il Gen. Subranni (v. attestazione trasmessa dal Comando Generale dell' Arma dei Carabinieri in data 29 maggio 2012, a firma del Capo del II Reparto, prodotta dalla difesa dell'imputato Subranni relativa a visite della signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, negli anni 1993 e 1994, secondo la quale " .. agli atti di questo Comando Generale risultano due incontri avvenuti, rispettivamente in data 13 maggio 1993 e 28 gennaio 1994 tra il Comandante Generale protempore, Gen. C.A. Luigi Federici, e la Sig.ra Agnese Piraino Leto, ved. Borsellino", nonché le stesse spontanee dichiarazioni di Subranni nelle quali si fa riferimento soltanto a possibili occasioni di incontri, in concreto, però, non verificatesi);

non lo è il fatto che ancora l'11 luglio 1992 il Dott. Borsellino fosse in compagnia del Gen. Subranni allorché ebbe a recarsi a Salerno e che nulla il medesimo Dott. Borsellino abbia detto al collega Cavaliero, atteso che la Sig.ra Borsellino ha collocato l'episodio nella settimana antecedente la strage di via D'Amelio e, più precisamente, nel pomeriggio del giorno 15 luglio 1992, così che è possibile, da un lato, escludere che quella notizia riguardante il Gen. Subranni possa essere stata la causa dello scoramento manifestato dal Dott. Borsellino ai colleghi Camassa e Russo in periodo antecedente (nel giugno 1992) tanto più che in questo caso non si giustificherebbe dopo un tempo così lungo una reazione emotiva talmente intensa da provocare persino conati di vomito, e, dall'altro, trarre conferma che effettivamente il Dott. Borsellino ebbe ad apprendere quella sconvolgente notizia soltanto dopo essersi trovato in compagnia del Gen. Subranni in occasione del viaggio a Salerno, ovvero, come ipotizzato dal P.M. nel corso della sua requisitoria (v. trascrizione udienza dell'11 gennaio 2018), anche se ciò appare alla Corte meno probabile, ebbe a trarre la conclusione poi rassegnata alla moglie da qualche condotta del Subranni nei giorni in cui si erano incontrati (il 10 e l'11 luglio, secondo quanto riferito da quest'ultimo imputato), tanto da determinargli lo stato di particolare agitazione, di cui pure ha riferito il teste Cavaliero, manifestato in occasione della ricerca spasmodica dell'agenda personale, che, ad un certo momento, il Dott. Borsellino aveva temuto di avere smarrito (v. testimonianza Cavaliero: " ... Paolo ebbe la percezione che non teneva l'agenda appresso. Ricordo che mi fece quasi smontare la macchina, nonostante questa agenda non fosse uno spillo. Lui era ... ... ... Era visibilmente agitato. era visibilmente agitato ... ");

non lo sono, infine, per le medesime ragioni, né la cena cui il Dott. Borsellino ebbe a partecipare a Terrasini nel giugno 1992 con la presenza di molti Carabinieri, essendo la stessa antecedente alla notizia riguardante Subranni appresa dal predetto soltanto nei giorni precedenti la strage di via D'Amelio (come detto il 15 luglio 1992 o, al più, nei giorni compresi tra l'11 e il 15 luglio 1992), né la circostanza che, dopo la strage, i familiari del Dott. Borsellino chiesero che alla perquisizione della loro abitazione fossero presenti anche Ufficiali dei Carabinieri (il Cap. Adinolfi e forse anche il Cap. Ierfone secondo quanto riferito dal teste Sinico), stante la persistente stima, comunque, nutrita dai familiari medesimi, come detto, nei confronti dell'Arma (e non inficiabile per gli eventuali comportamenti deviati di un solo suo esponente ancorché di grado elevato non legato da particolari vincoli di amicizia o frequentazione), tanto più che non va dimenticato che allora la persona più fidata e vicina al Dott. Borsellino ed ai suoi familiari era proprio un graduato dell'Arma (il M.llo Carmelo Canale), né, infine, l'incontro presso il R.O.S. con il Col. Mori e la successiva cena cui la stessa Sig.ra Piraino Leto ebbe a partecipare il 16 febbraio 1993 con il medesimo Col. Mori e con Padre Bucaro (v. annotazioni riportate nelle agende del Col. Mori nella pagina relativa alla predetta data prodotta dalle difese all'udienza dell'8 ottobre 2015), non risultando, in tali occasioni, la presenza del Gen. Subranni [...].

Peraltro, non appare di certo irrilevante sottolineare che l'attendibilità della testimonianza della Sig.ra Piraino Leto non è stata sostanzialmente posta in dubbio neppure da Mori e De Donno, odierni coimputati del Subranni, allorché l'ebbero a commentare subito dopo la diffusione pubblica della notizia. E' stata acquisita agli atti, infatti, anche un 'intercettazione di una telefonata intercorsa tra i predetti Mori e De Donno 1'8 marzo 2012 nel corso della quale il secondo riferisce al primo la testimonianza della Sig.ra Piraino Leto di cui si era avuta, appunto pubblica notizia ("DE DONNO: che poi, qualche giorno prima di morire, le avrebbe detto che ... dice: "Ho visto ", dice, "la morte in faccia ", dice, "sono sconvolto, perché mi hanno detto che Subranni è punciutu.... .. … ... in questa ricostruzione, però chiaramente ehm ... indaga Subranni per 416 bis Caltanissetta, perché eh. .. con questa ricostruzione, probabilmente il ... diciamo così, il traditore di tutta questa storia... sarebbe il Generale Subranni, Comandante del ROS, di qui si spiega il perché lui... diciamo così, era così avvilito, proprio in virtù dei rapporti che lui aveva con Subranni''), definisce la medesima Sig.ra Piraino Leto "corretta" perché non li aveva chiamati in causa ("La signora... per carità, io non ho letto il verbale, però sembrerebbe teoricamente così corretta, nel senso che la signora, volendo, poteva raccontare quello che voleva ... ... .... cioè poteva ... Visto che c'è tutto questo ... questa cosa poi la racconta adesso la signora... .... .... poteva pure... poteva pure inventarsi ... che ne so, che il marito le aveva parlato di lei, di me e ... ..... .... della trattativa, e invece su questo è molto corretta, cioè non dice niente, dice: "Non mi ha mai parlato di trattativa, non mi ha mai parlato di questi Carabinieri, non mi ha mai detto niente" ... ") e osserva che la detta teste non avrebbe avuto alcuna ragione di accusare ingiustamente Subranni (" .... racconta solo 'sto fatto su Subranni, il ché ... se si voglia ammettere... cioè, perché pigliarsela con Subranni? Probabilmente... non lo so dico, eh, però ipotizzo. può darsi pure che sia vera 'sta storia che gli ha fàtto 'sta confidenza Borsellino. Però il punto è: chi cazzo glielo ha detto a Borsellino, ammesso che sia vera 'sta storia ... ........ ammesso che sia vero pure che lui abbia fatto questa confidenza alla signora, eh, però adesso non si sa chi gliel'ha detta 'sta ... e chi gli ha raccontato 'sta stronzata a ... a Borsellino? Sicuramente, se gliel 'hanno raccontata, casomai quello era sconvolto, cioè, figuriamoci … comanda il ROS, lo conosceva da una marea, cioè gli viene 'sto dubbio... lo posso pure capire che stava agitato in quel periodo storico, però ... "), ricevendo ripetutamente assenso da Mori, sia pure quasi sempre con monosillabi per l'evidente prudenza (che caratterizza tutta la conversazione: v. trascrizione in atti) di chi sa - o quanto meno non esclude - di potere essere intercettato.

Anzi, De Donno è ancora più esplicito in una conversazione immediatamente successiva con tale "RAF", pure intercettata ed acquisita agli atti, nel corso della quale ribadisce di ritenere verosimile che la Sig.ra Piraino Leto avesse detto la verità non avendo alcuna ragione di mentire [...]. Ciò detto, come già anticipato sopra, se non v'è ragione di dubitare di quanto raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, però, occorre puntualizzare che, alla stregua della detta testimonianza, può ritenersi provato soltanto: che il Dott. Borsellino nei giorni immediatamente successivi al suo viaggio a Salerno (e, quindi, nel periodo tra il 12 e il 15 luglio) o, al più (anche se, a parere della Corte, ciò è meno probabile), negli stessi giorni del detto viaggio nei quali aveva incontrato Subranni (il 10 e l'11 luglio 1992), ebbe ad apprendere da fonte non precisata - o, quanto meno, ebbe a trarre la personale convinzione - che il Gen. Subranni fosse affiliato alla mafia;

che il Dott. Borsellino, ritenendo evidentemente, fondata quell'informazione o convinzione, ne rimase talmente sconvolto da sentirsi male fisicamente e, inusualmente, da condividere quella informazione con la moglie.

Tuttavia, non essendo stato possibile, invece, individuare la fonte di quella notizia (ed anzi, essendo escluso che possa essersi trattato di Gaspare Mutolo che il Dott. Borsellino stava interrogando in quei giorni), né tanto meno ricostruire le ragioni per le quali il Dott. Borsellino giunse alla predetta conclusione (il collegamento di essa con la "trattativa" cui ha fatto cenno il P.M. nel corso della sua requisitoria non va oltre la mera - ancorché non implausibile - ipotesi), non è possibile, invece, valutare la fondatezza o meno della notizia o conclusione medesime e, quindi, trarre da esse conferma alle accuse mosse nel presente processo a carico del Gen. Subranni, né, tanto meno, seppur in astratto coerenti se riferite in qualche modo ai contatti intrapresi dai Carabinieri con i vertici mafiosi di cui si dirà nel Capitolo che segue, metterle direttamente in relazione con quell'accelerazione dell'esecuzione dell'omicidio del Dott. Borsellino di cui tratta il presente Capitolo.

I contatti fra don Vito e i carabinieri del Ros. La Repubblica il 25 agosto 2019. Costituisce fatto accertato ed incontestato anche da parte degli imputati che, all'indomani della strage di Capaci, i Carabinieri del R.O.S., nella specie nelle persone degli odierni imputati Subranni, Mori e De Donno, abbiano deciso di "agganciare" Vito Ciancimino. Ai fini della ricostruzione dei conseguenti contatti tra i predetti Carabinieri, la Corte, non intendendo in alcun modo utilizzare il racconto di Massimo Ciancimino per le ragioni sopra esposte nella Parte Seconda della presente sentenza, si avvarrà esclusivamente di quanto risulta dalle dichiarazioni, orali o scritte, dei protagonisti dei contatti medesimi comunque acquisite nel presente processo ed esaminerà le stesse alla luce anche delle altre acquisizioni dibattimentali, iniziando dalle risultanze del primo processo che ha affrontato i temi qui in esame, quello tenutosi a Firenze per le stragi del 1993, peraltro, a sua volta, in gran parte fondate sulle testimonianze rese in quella sede dagli odierni imputati Mori e De Donno. […]  Nella sentenza n. 3/98 pronunziata dalla Corte di Assise di Firenze il 6 giugno 1998 (doc. 50 della produzione del P.M. all'udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge: "Mario Mori. Il gen. Mori ha riferito che nel 1992 era a capo del reparto Criminalità Organizzata del ROS. Fu nominato vice-comandante del ROS ai primi di agosto del 1992. Dopo la strage di Capaci colse lo sconcerto dell'opinione pubblica, degli organismi istituzionali e degli stessi investigatori per la realtà di un fenomeno, quello mafioso, che molti cominciavano a considerare "indebellabile ", perché insito nella cultura di una determinata zona del territorio nazionale. Ritenne perciò suo dovere morale e professionale fare qualcosa. La prima iniziativa che prese fu quella di costituire un gruppo speciale di operatori destinato alla ricerca del capo di "cosa nostra" (Riina). Un 'altra iniziativa di ricercare ''fonti, spunti, notizie" che potessero portare proficuamente gli investigatori all'interno della struttura mafiosa. Parlò di quest'idea col capitano Giuseppe De Donno, suo dipendente, al quale rappresentò la necessità di ricercare una fonte di alto livello con cui interloquire. Il De Donno gli parlò della familiarità che aveva col figlio di Vito Ciancimino, a nome Massimo, nata nel corso del dibattimento di I grado svoltosi contro il padre. Infatti, ha precisato, Vito Ciancimino era stato prima arrestato e poi portato a giudizio al termine di un 'indagine che riguardava la manutenzione strade ed edifici scolastici della città di Palermo, condotta dal Nucleo Operativo del Gruppo di Palermo, cui era addetto il sunnominato capitano De Donno. Ciancimino fu giudicato e condannato a otto anni di reclusione per associazione a delinquere semplice, abuso d'ufficio, falso e altro. Il De Donno suggerì di sji-uttare la familiarità che aveva con Massimo Ciancimino per tentare un avvicinamento al padre, che era, all'epoca, libero e residente a Roma. Egli lo autorizzò a ricercare "il contatto ". In effetti, ha proseguito, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D'Amelio, ci fu un primo incontro tra De Donno e Massimo Ciancimino, all'esito del quale De Donno si incontrò con Vito Ciancimino. A quest'incontro ne seguirono altri successivi (due-tre in tutto), alcuni dei quali si svolsero anche a cavallo della strage di via D'Amelio. Lo scopo di questi incontri era quello di avere da Ciancimino qualche spunto di tipo investigativo che portasse alla cattura di latitanti o, comunque, alla migliore comprensione del fenomeno mafioso ("De Donno andò a contattare Ciancimino per vedere di capire e di avere qualche notizia, qualche informazione, qualche spunto, di tipo investigativo ''). Il dialogo tra i due si allargò e investì la stessa "Tangentopoli" e le inchieste che li avevano visti protagonisti (De Donno come investigatore; Ciancimino come persona sottoposta ad indagini). In uno di questi incontri Ciancimino fece a De Donno una strana proposta, che il teste così riferisce: "lo vi potrei essere utile perché inserito nel mondo di Tangentopoli, sarei una mina vagante che vi potrebbe completamente illustrare tutto il mondo e tutto quello che avviene ". Questo fatto convinse De Donno che il Ciancimino fosse disponibile al dialogo. Per questo fece in modo che si incontrassero lui (Mori) e Ciancimino. Egli entrò in campo, ha spiegato, perché, quando si manifestò, concretamente, la possibilità di avere un rapporto con Ciancimino, comprese che questi "non era la solita fonte informativa da quattro soldi", ma un personaggio che non avrebbe accettato di trattare con altri che non fossero dei capi. Per questo si rese visibile anche lui, oltre che per fornire sostegno psicologico e morale al De Donno. Invero, incontrò per la prima volta Vito Ciancimino nel pomeriggio del 5-8-92 a Roma, in via di Villa Massimo, dove il Ciancimino abitava (nota n. 1642: Il gen. Mori si è rivelato sicuro sulle date perché, ha detto, conserva l'agenda del 1992, dove sono segnati appunti che l'hanno aiutato nella memoria. Copia delle pagine dell'agenda del 5 agosto, ma anche delle giornate successive (di cui si dirà) sono state prodotte all'udienza del 24-1-98 (vedi faldone n. 32 delle prod. dib.). Parlarono, in generale, di molte cose, soprattutto della vita palermitana (Ciancimino era palermitano ed egli aveva comandato il Gruppo Carabinieri di Palermo per quattro anni). Ciancimino gli chiese anche notizie sui suoi diretti superiori. Egli fece il nome del gen. Subranni. Ciancimino mostrò di ricordarsi di lui (il gen. Subranni aveva diretto il Nucleo Investigativo di Palermo) e manifestò ammirazione per la sua sagacia investigativa. Quando fece rientro in ufficio accennò al gen. Subranni di quest'incontro e lo commentarono insieme. Ebbe il secondo incontro con Ciancimino il 29-8-92, sempre a casa di quest 'ultimo. A quell'epoca, ha precisato, sapeva che Vito Ciancimino aveva una posizione "non brillantissima" dal punto di vista giudiziario, giacché gli era stato ritirato il passaporto e prima o poi sarebbe dovuto rientrare in carcere (evidentemente, per scontare una condanna definitiva). Per questo sperava che il Ciancimino facesse delle aperture (''Noi speravamo che questo lo inducesse a qualche apertura e che ci desse qualche input ''). Perciò, riprendendo il filo del discorso avviato da De Donno (quello sugli appalti), disse a Ciancimino: "Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?'' La buttai lì convinto che lui dicesse: ''cosa vuole da me colonnello?'' Invece dice: ''ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo''. E allora restammo ... dissi: ''allora provi''. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente". Nel corso di quest'incontro, o di quello precedente, fecero qualche accenno ai guai giudiziari di Ciancimino. Si rividero 1'1-10-92, ancora a casa di Ciancimino. In questo terzo incontro Ciancimino disse di aver preso contatto con i capi di "cosa nostra", "tramite intermediario" (di cui non gli fece il nome). Ma ecco come l'incontro viene narrato dal teste: "Allora, dice: 'io ho preso contatto, tramite intermediario, con questi signori qua, ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate?' Noi non rappresentavamo nulla, se non gli ufficiali di Polizia Giudiziaria che eravamo, che cercavano di arrivare alla cattura di qualche latitante, come minimo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso, oppure gli potevo dire: 'beh, signor Ciancimino, lei si penta, collabori, che vedrà che l'aiutiamo'. Allora gli dissi: 'lei non si preoccupi, lei vada avanti'. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa". Ciancimino gli fece anche capire che le persone da lui contattate non si fidavano. Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: "Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io' - Ciancimino – 'e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio? ". Egli sapeva che a Ciancimino era stato ritirato il passaporto e che, pertanto, la proposta di continuare la trattativa all'estero era un escamotage del Ciancimino per mettersi al sicuro. Aveva messo in conto, ma solo come ipotesi remota, fin dall'inizio del suo rapporto con Ciancimino, che questi gli chiedesse cosa aveva da offrire. Non si aspettava, però, uno "show down" così precoce, pensando che il Ciancimino avrebbe tirato la cosa per le lunghe. Era convinto che Ciancimino avrebbe fatto qualche apertura "a livello più basso ", ma non che offrisse una disponibilità totale a fare da intermediario, come invece avvenne. Per questo venne colto alla sprovvista dalla disponibilità di Ciancimino e dalla richiesta di mettere le carte sul tavolo. Perciò gli rispose: "Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie". Prosegue: "A questo punto Ciancimino si imbestialì veramente. Mi ricordo era seduto, sbattè le mani sulle ginocchia, balzò in piedi e disse: 'lei mi vuole morto, anzi, vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno ". Quindi, molto seccamente, lo accompagnò alla porta. Si lasciarono con la prospettiva di chiudere la trattativa "senza ulteriori conseguenze". Ebbe la sensazione, all'esito di questo incontro, che Ciancimino avesse realmente stabilito un contatto con i capi di "cosa nostra". Suppose anche che il Ciancimino, pressato dalla sua posizione giudiziaria, si sarebbe fatto risentire. Infatti, ha aggiunto, ai primi di novembre di quello stesso anno, Massimo Ciancimino richiamò il cap. De Donno e gli chiese di incontrare nuovamente il padre. De Donno, con la sua autorizzazione, si incontrò, in effetti, con Vito Ciancimino (non ricorda quando). Questi gli chiese nuovamente cosa volessero in concreto e De Donno gli rispose che volevano catturare Salvatore Riina. Ciancimino si mostrò, questa volta, disposto ad aiutarli. Chiese perciò a De Donno di fargli avere le mappe di due-tre servizi (luce, acqua, gas) relative ad alcune precise zone della città di Palermo: viale della Regione Siciliana, "verso Monreale". De Donno se le procurò presso il Comune di Palermo e gliele portò il 18-12-92. Il Ciancimino non si mostrò però soddisfatto e diede alcune altre indicazioni su ciò che gli occorreva. Il giorno dopo (19-12-92), però, Ciancimino venne arrestato. Pensava che il rapporto con lui fosse concluso, quando, qualche giorno prima dell 'arresto di Riina (quindi, agli inizi di gennaio del 1993), fu contattato dall'avv. Giorgio Ghiron, legale di Ciancimino, il quale gli disse che il suo cliente voleva parlargli. Egli contattò allora il Procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Caselli, al quale raccontò tutta la vicenda precorsa. Il dr. Caselli autorizzò un colloquio investigativo col Ciancimino. Questo nuovo incontro si svolse nel carcere di Rebibbia il 22-1-93 e ad esso partecipò, come al solito, il cap. De Donno. Il Ciancimino si mostrò aperto alla formale collaborazione con lo Stato. 1n effetti, ha aggiunto, a partire da febbraio del 1993 il Ciancimino fu escusso dalla Procura di Palermo, alla quale spiegò che l'intermediario tra lui e i vertici di "cosa nostra" era stato il dr. Cinà, medico personale di Riina. - Il teste ha precisato di aver reso le prime dichiarazioni su questa vicenda alla Procura di Firenze il giorno 1-8-97. Inoltre, di aver annotato le date dei vari incontri col Ciancimino sulla sua agenda personale (nota n. 1643: La copia di alcune pagine dell'agenda è stata acquisita dalla Corte, su richiesta del PM). All'epoca degli incontri di Roma, in via Villa Massimo, Ciancimino era libero. Agli incontri  partecipò sempre il cap. De Donno. Ha detto di aver informato il gen. Subranni, suo diretto superiore, del rapporto con Ciancimino, per avere un consiglio da lui, ma non perché fosse obbligato a farlo, in quanto gli ufficiali di polizia giudiziaria possono trattare autonomamente le fonti informative. Gli rese noto l'esito della discussione del 18-10-92. Ha insistito sul fatto che la presa di contatti con Ciancimino mirava ad avere il Ciancimino come fiduciario del ROS. Ad averlo, cioè, come un confidente che, avendo una posizione giudiziaria in sospeso, sarebbe potuto divenire un collaboratore. Quindi, richiesto di spiegare in che modo e ad iniziativa di chi Ciancimino venne ad assumere il ruolo di "interfaccia ", ha dichiarato: "Ma guardi, il problema ...Ciancimino non è il solito personaggio da quattro soldi. Cioè, bisognava gestirlo sviluppando con lui un dialogo che tenesse conto anche delle sue esigenze. Perché non gli potevamo dire brutalmente: senti, Ciancimino, la tua posizione giuridica e giudiziaria è quella che è, statti attento, se vuoi evitare la galera ti possiamo aiutare. Però tu dacci ... Perché mi avrebbe accompagnato alla porta immediatamente. Perché i tempi erano diversi. Oggigiorno, forse, questo discorso brutalmente si potrebbe anche fare; nel '92 non si poteva assolutamente fare. E allora era una schermaglia continua tra me e lui, tra lui e De Donno, in tre, cercando di cogliere ... E' stato un bel duello, possiamo definirlo così, per cercare di capire i punti in cui noi ci potevamo spingere, dove lui accettava. Dove lui ci voleva anche portare. Perché tutto sommato, ci ha l'intelligenza per gestire qualche... Quindi, inizialmente il problema era solo, dice: va be', ci darà qualche notizia se ci va bene; sennò ci accompagna alla porta e finisce lì. Poi, il fatto che lui si presenta come addirittura disponibile ad inserirsi in un gioco sotto copertura, quasi nell'ambito dell'attività contro l'imprenditoria mafìosa. Il fatto che dovevamo, in qualche modo, allungare il brodo ... lo che gli potevo dire? Brutalmente ... solo quello gli potevo dire. Gli ho detto: 'ma lei li conosce questa gente?' Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone. E quindi è stato quasi portato al discorso, questo ti … E' stato un andare insieme verso quel... Perché a noi ci conveniva, guadagnavamo tempo ". Ha detto di aver avuto in mente anche di far pedinare Ciancimino, se la trattativa fosse proseguita, per capire quali persone contattava e se le contattava. In sede di controesame ha precisato che Ciancimino gli parlò espressamente dei "corleonesi" come suoi referenti [...]. Non furono mai fatte da Ciancimino proposte concrete per la trattativa. Non sentì mai parlare di "papello ". Ciancimino non diede alcun contributo all'arresto di Riina. Secondo la sua personale opinione, se la trattativa fosse proseguita li avrebbe messi in condizione di fare un'indagine seria su Riina. Le mappe richieste da Ciancimino sono state consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo. In esse era compresa anche la zona che fu teatro dell'arresto di Riina. Erano comprensive anche della zona in cui abitava Riina. Circa le intenzioni con cui essi iniziarono la discussione con Ciancimino ha precisato, in sede di controesame: "lo pensavo, e ritengo di averlo espresso questo concetto, che Ciancimino avrebbe tirato alla lunga questa trattativa per vedere in effetti noi che cosa gli potevamo offrire come persona, non come soggetto inserito in una organizzazione. Cioè, ai suoi fini l'avrebbe tirata lunga, perché non ritenevo che fosse in condizione, o che volesse prendere contatto con Cosa nostra. Per cui io ritenevo che invece lui cercasse di sbocconcellarci il pane della sua sapienza, di fatti e di cose che potevano interessarci, su altri settori. Cioè imprenditoria mafiosa, appalti, polemiche relative ... vicende giudiziarie relative al Comune di Palermo: ecco, questo era il settore dove io pensavo che lui andasse a finire. E quindi rimasi sorpreso invece dall'indirizzo che lui ebbe a dare al nostro..." … De Donno Giuseppe. Questo teste ha dichiarato di essere stato in servizio al Nucleo Operativo del Gruppo dei Carabinieri di Palermo tra il 1988 e il 1989, come ufficiale (capitano). In tale qualità effettuò una serie di indagini sulla gestione degli appalti del Comune di Palermo, all'esito delle quali furono emesse ordinanze di custodia cautelare dal GiP di Palermo a carico di Vito Ciancimino e altri personaggi. Ciancimino fu arrestato nella primavera del 1990 e condannato poi a sette o otto anni di reclusione. Ha dichiarato di essere poi passato al ROS alla fine degli anni '90 e di essersi interessato nuovamente di Ciancimino nel 1992. Questa volta, non per sottoporlo ad indagini, ma per questi altri motivi: "Il senso in pratica era questo: era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di ottenerne una collaborazione formale con l'autorità giudiziaria ". L'idea di contattare Ciancimino fu sua, perché conosceva molto bene uno dei figli di Vito Ciancimino, a nome Massimo, che aveva incontrato varie volte mentre si sviluppava l'attività investigativa sul padre e nel corso di spostamenti aerei da Palermo a Roma. Aveva anche motivo di ritenere di non essere male-accetto a Ciancimino e alla sua famiglia, giacché si era sempre comportato con estrema correttezza nel corso dei "contatti" che aveva avuto con lui per motivi professionali. Fece presente questa sua intenzione all'allora col. Mori, comandante del reparto in cui operava, poco dopo la strage di Capaci, ed ebbe l'autorizzazione a tentare un approccio. Si rivolse a Massimo Ciancimino, che incontrò, appunto, durante uno spostamento aereo da Palermo a Roma e avanzò la sua richiesta di essere ricevuto dal padre. Incontrò, in effetti, Vito Ciancimino nella di lui abitazione romana, due tre volte, tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. Prese il discorso alla larga, facendo intendere che ricercava elementi di valutazione rispetto a ciò che stava accadendo, in quel periodo, in Sicilia [...]. Parlarono anche di "tutto lo sviluppo che c'era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto Manipulite". L'obiettivo era, comunque, a quel momento, di instaurare un rapporto di fiducia e di comprensione con Ciancimino. Ha aggiunto che, dopo la strage di via D'Amelio, fece un tentativo, riuscito, di "forzare la mano ": indurre Ciancimino a incontrarsi col colonnello Mori. Spiega così questo "innalzamento del livello ": "Questo, per una serie di motivi particolari. Primo fra tutti, la presenza del comandante rappresentava un livello nettamente superiore al mio, quindi rappresentava una sorta di riconoscimento del livello del nostro interlocutore. E ritenevo che il Ciancimino potesse sbloccarsi di più. Tra l'altro, mantenendo ferma l'idea che la nostra impostazione era comunque quella di attenerne una collaborazione, l'accettazione da parte del Ciancimino di un dialogo anche con il colonnello Mori era un passo in avanti verso questo obiettivo graduale che si doveva raggiungere ". Questo "innalzamento ", ha precisato, non era stato preventivato fin dall'inizio, ma rappresentò l'approdo del discorso fino a quel momento sviluppato. L'obiettivo finale era, comunque, quello di portare il Ciancimino alla collaborazione con l'Autorità Giudiziaria. Ecco in che modo pensarono di raggiungere questo risultato: "Allora convenimmo che la strada migliore era quella di avvicinare sempre di più il Ciancimino alle nostre esigenze, cioè di portarlo per mano dalla nostra parte. E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa di Cosa nostra. Al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. Accettò questa ipotesi con delle condizioni. Innanzitutto, la condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell'organizzazione siciliana, palermitana, a patto di rivelare i nominativi miei e del comandante al suo interlocutore ". Essi acconsentirono a che venissero rivelati i loro nomi agli interlocutori, ma non fecero certo capire al Ciancimino che erano rappresentanti solo di sé stessi. Gli lasciarono credere che "avevano la capacità di fare questa iniziativa". [...] Il discorso del cap. De Donno è continuato, quindi, sulla falsariga di quello già fatto dal gen. Mori. Ha riferito che ci furono quattro incontri tra Mori e Ciancimino tra agosto e ottobre del 1992, avvenuti tutti a casa di Ciancimino e tutti con la sua partecipazione. […] Al quarto incontro Ciancimino disse di aver stabilito un contatto con i "vertici siciliani" e chiese loro cosa volevano. Si adirò quando si sentì dire che volevano la cattura di Riina e Provenzano in cambio di un equo trattamento per i loro familiari. Decise autonomamente che non avrebbe fatto alcun cenno al suo interlocutore della loro richiesta, perché, altrimenti, avrebbe anche corso il rischio di rimetterci la vita. Si lasciarono col tacito accordo di congelare ogni cosa, per il momento (''Quindi avrebbe dato sì un messaggio negativo, ma non un messaggio ultimativo. Cioè, comunque restava aperta la porta ad un 'eventuale ripresa di dialogo"). L'esito di questo discorso fu, comunque, quello di isolare Ciancimino dal suo retroterra mafioso, giacché, accettando il dialogo con i Carabinieri, si era venuto a trovare "con un piede di qua e un piede di là", se non altro perché aveva reso evidente che "i Carabinieri avevano scelto lui per questo contatto". Questo fatto costringeva ormai il Ciancimino a "gestirsi in maniera estremamente accorta ", perché in Sicilia anche un minimo sospetto "può determinare conseguenze particolari ". Praticamente, la scelta della collaborazione era ormai obbligata per Ciancimino. Ha dichiarato che, prima di dargli il via libero per i contatti con Ciancimino, il col. Mori parlò col comandante del ROS, il generale Subranni. Ha continuato dicendo di aver incontrato nuovamente Ciancimino afine ottobre (o inizi di novembre del 1992), allorché Ciancimino gli fece sapere, attraverso il figlio, che voleva vederlo. Quando si incontrarono chiese chiaramente a Ciancimino di collaborare fattivamente per la cattura di Riina Ciancimino accettò di fornire informalmente elementi utili a questo scopo, nella speranza di allontanare la prospettiva del carcere, che per lui si presentava quasi imminente. Chiese, infatti, alcune mappe particolareggiate di Palermo e alcuni documenti dell'azienda municipalizzata dell'acqua, attraverso cui pensava di poter individuare l'abitazione di Riina. Gli consegnò questi documenti il 19-12-92, ma nello stesso giorno Ciancimino fu arrestato per scontare una condanna definitiva. Successivamente, accettò di incontrare i magistrati di Palermo. In sede di controesame ha precisato che Ciancimino, nei primi incontri avuti con lui, si disse disposto a fare da "agente sotto copertura" con "la funzione di diventare il responsabile, il gestore della ristrutturazione del sistema tangentizio tra imprese e partiti ", che egli riteneva connaturato al sistema politico ed imprenditoriale italiano e necessario al suo funzionamento. Si dichiarò sempre in grado di raggiungere i vertici "corleonesi" di "cosa nostra" ("Ciancimino non si è mai dichiarato uomo d'onore, comunque era in grado di arrivare ai vertici dell'organizzazione corleonese, sì''). Rispondendo al Procuratore di Palermo il Ciancimino rivelò poi che la persona da lui contattata per giungere a Riina era il dr. Cinà, medico di Riina".

Come si è detto e si legge nella citata sentenza della Corte di Assise di Firenze, le predette risultanze si fondano soprattutto sulle testimonianze in quel processo rese dagli odierni imputati Mori e De Donno. Tale testimonianze sono state, quindi, introdotte anche nel medesimo processo per iniziativa degli stessi predetti imputati, […]. E' bene fissare, allora, per le valutazioni che poi saranno fatte sulle risultanze complessive, ciò che, in punto di fatto, si può ricavare dalla predetta sentenza e, ancor più dettagliatamente, dalle deposizioni testimoniai i allora rese dagli odierni imputati Mori e De Donno sulle quali prevalentemente si fondano le conclusioni di quella sentenza:

l) il Col. Mori fu mosso, dopo la strage di Capaci, dal dovere professionale di fare qualcosa per ricercare notizie all'interno della struttura mafiosa (Dich. Mori: "A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c'è la strage di Capaci ..... ... ... Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità, di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato ... ");

2) De Donno suggerì di contattare Vito Ciancimino tramite il figlio Massimo, col quale aveva familiarità (Dich. Mori: "In questo ambito, in questo contesto di iniziativa mi si presentò il capitano De Donno, che da me dipendeva, il capitano Giuseppe De Donno. E mi propose un'iniziativa ...... .... mi propose di tentare un avvicinamento, tramite il figlio Massimo, con Vito Ciancimino, che in quel momento era libero ed era residente a Roma"; Dich. De Donno: "L'idea di contattare il Ciancimino era stata mia .... . … .... Sì,faccio questa ipotesi al mio comandante. Che era, allora, il colonnello Mori. E così, proponendogli questa prova, nel senso insomma di tentare, nell'immediatezza della strage di tentare un - tra virgolette, così – "un avvicinamento" del Ciancimino");

3) Morì autorizzò De Donno a procedere In tal senso (Dich. Mori: "Lo autorizzai a procedere a questo tentativo"; Dich. De Donno: "Col comandante concordiamo che questo tentativo possa esser fatto");

4) De Donno agganciò Massimo Ciancimino e incontrò Vito Ciancimino per la prima volta tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio (Dich. Mori: "questo primo contatto - che poi sono più di uno - tra De Donno e Massimo Ciancimino, avviene tra Capaci e via D'Amelio. Quindi diciamo nel giugno del '92. Vito Ciancimino, sollecitato dal figlio, accetta") e successivamente altre volte, secondo Mori, "a cavallo" della strage di via D'Amelio (Dich. Mori: "E ci sono una serie di colloqui che quindi partono ... adesso, De Donno poi può essere più preciso, non so quand'è il primo, comunque partono nel giugno e si sviluppano tra il giugno e il luglio, a cavallo anche del secondo fatto grave, cioè via D'Amelio"), mentre, secondo De Donno, prima della detta strage (Dich. De Donna: "E abbiamo provato il contatto che. tra la strage di via Capaci e la strage di via d'Amelio. avviene. Perché Ciancimino accetta di incontrarmi nella sua abitazione di Roma ... ... .. .lo vado dal Ciancimino e incontro il Ciancimino sempre nella sua abitazione di Roma, da solo, due, tre volte. Nell'intervallo tra le due stragi: la strage del dottor Falcone e del dottore Borsellino...");

5) lo scopo di tali incontri fu, per Mori, quello di acquisire spunti investigativi sia per la individuazione di latitanti, sia più in generale per le indagini in corso ed interrompere la strategia stragista della mafia (Dich. Mori: "Noi volevamo solo arrestare della gente che delinqueva .... ... .... La trattativa nostra con Ciancimino era solo per vedere di sapere qualche cosa di più di Cosa Nostra e arrestare questa gente. E basta; A VVOCATO Li Gotti: E poi era di interrompere la strategia stragista:

TESTE Mori: Certo. Certo. certo, così come confermato anche da De Donno secondo il quale, oltre a tentare di spingere Ciancimino a collaborare con la Giustizia, essi avevano anche l'intendimento di per far cessare le stragi.

Dich. De Donno: " .. era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di attenerne una collaborazione formale con l'autorità giudiziaria ... ......... un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato");

6) il discorso, in questi stessi incontri, si allargò al fenomeno di "tangentopoli" (Dich. De Donno: " .. tutto lo sviluppo che c'era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto "Manipulite'"') e Vito Ciancimino si offrì di fornire le sue conoscenze;

7) per tale ragione, secondo Mori, De Donno aveva organizzato il primo incontro con lo stesso Mori avvenuto il 5 agosto 1992 [...], mentre secondo De Donno, egli aveva deciso di "innalzare il livello" dei contatti dopo la strage di via D'Amelio per indurre definitivamente Ciancimino a collaborare [...];

8) in questa occasione Mori fece a Vito Ciancimino il nome del Gen. Subranni (comunque già informato sin dall'inizio dell'intendimento di contattare Ciancimino: v. testimonianza De Donno[...]), che il Ciancimino già conosceva ("...gli accennai che il mio superiore diretto era il generale Subranni. Al che lui si ricordò: 'ma chi è, il maggiore che era al Nucleo Investigativo di Palermo?' 'Sì, il maggiore che ... ' e commentammo questo .. "), informando, poi, di ciò Subranni [...];

9) il secondo incontro avvenne il 29 agosto 1992 ("II secondo incontro avviene il 29 di agosto, quindi nello stesso mese, a fine mese") ed in tale occasione, secondo Mori, questi sapendo dei problemi giudiziari di Ciancimino, gli chiese se, superando il "muro contro muro" tra lo Stato e la mafia, fosse possibile parlare con i vertici mafiosi [...], mentre, secondo De Donno, fu anche espressamente detto a Ciancimino che il dialogo era finalizzato alla immediata cessazione della strategia stragi sta dei mafiosi (Dich. De Donno: "E gli proponemmo di farsi tramite. per nostro conto. di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa di Cosa nostra. AI

fine di trovare un punto di incontro. un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest 'attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò");

10) secondo Mori, Vito Ciancimino accettò, dichiarandosi in grado di poteri o fare, e Mori, quindi, lo sollecitò a farlo, mentre, secondo De Donno, Ciancimino condizionò il suo intervento alla possibilità di fare ai mafiosi i nomi dei Carabinieri con cui era in contatto, richiesta cui Mori e De Donno acconsentirono, facendo credere al Ciancimino che essi avevano il potere di rappresentare lo Stato inteso come Istituzione [...];

11) secondo Mori, nel successivo incontro dell'l ottobre 1992 Ciancimino disse di avere preso contatto con i vertici mafiosi tramite un intermediario e che, però, i predetti vertici volevano sapere per conto di chi agivano quei Carabinieri [...]; tale discorso, come detto al punto precedente, è collocato, invece, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

12) ancora secondo Mori, questi allora, "bluffando", fece consapevolmente credere a Ciancimino che la sua iniziativa era nota a chi avrebbe potuto interloquire fattivamente con i mafiosi, invitando, quindi, Ciancimino ad andare avanti (" ..... Allora gli dissi: 'lei non si preoccupi, lei vada avanti'..."); anche tale discorso logicamente collegato al precedente, ugualmente, è collocato, invece, come già detto sopra, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

13) Mori e Vito Ciancimino, dunque, lasciandosi, concordarono di "sviluppare la trattativa" ("...E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa..."); il termine "trattativa", sul quale si tornerà più avanti anche a proposito delle dichiarazioni spontanee rese all'udienza dell'8 settembre 2016 da Mario Mori, è stato espressamente usato da quest'ultimo; anche De Donno ha usato il medesimo termine riferendo di avere detto a Ciancimino che i Carabinieri in quella, appunto, "trattativa", rappresentavano lo Stato;

14) Mori e Ciancimino si rividero il successivo 18 ottobre 1992 ed in quella occasione il secondo disse che i mafiosi "accettavano la trattativa".

Dich. Mori: "18 ottobre, quarto incontro. Ciancimino, con mia somma sorpresa, perché fino a quel momento, anche con tutte le affermazioni: "io ho preso contatto", non ci credevo. Ciancimino mi disse: "guardi, quelli accettano la trattativa .. ";

Dich. De Donno: "Al quarto incontro. Ciancimino invece si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Cioè, ci disse: "sono d'accordo. Va bene, accettano") a condizione che Ciancimino fosse l'intermediario e che la trattativa proseguisse all'estero [...] con conseguente richiesta del Ciancimino di ottenere il passaporto [...] e riferì, nel contempo, che i mafiosi chiedevano di sapere cosa lo Stato offrisse loro.

Dich. Mori: "Voi che offrite in cambio?"; Dich. De Donno: "Vogliono sapere che cosa volete"'); secondo De Donno, però, essi avrebbero dissuaso il Ciancimino dal richiedere il passaporto per le conseguenze per lui pregiudizievoli che ne sarebbero derivate;

15) Mori, preso alla sprovvista da quella richiesta, disse a Ciancimino di invitare i mafiosi a costituirsi con in cambio la promessa di trattare bene le loro famiglie [...];

16) Ciancimino disse a Mori che mai avrebbe potuto riferire una simile offerta ai mafiosi che altrimenti lo avrebbero ucciso e, pertanto, i predetti si lasciarono con la prospettiva di chiudere la "trattativa" [...];

17) tuttavia, nei primi di novembre 1992 Vito Ciancimino aveva chiesto di incontrare di nuovo i Carabinieri [...] e, incontrato De Donno, gli chiese cosa effettivamente loro volessero da lui [...];

18) De Donno rispose che volevano catturare Riina e Vito Ciancimino accettò di aiutare i Carabinieri, chiedendo, a tal fine, di fargli avere le mappe delle utenze di alcune precise zone di Palermo [...];

19) secondo Mori, De Donno portò le mappe a Ciancimino il 18 dicembre 1992 e quest'ultimo, però, chiese di disporre di altre indicazioni che, tuttavia, non fu più possibile fargli avere perché il giorno successivo Ciancimino fu arrestato [...], mentre, secondo De Donno, egli consegnò le mappe a Ciancimino lo stesso 19 dicembre 1992 poco prima che quest'ultimo fosse arrestato [...];

20) soltanto quando Ciancimino nel marzo 1993 ne aveva parlato con i magistrati, Mori e De Donno avevano saputo che l'intermediario tra Vito Ciancimino e i vertici mafiosi era stato il Dott. Cinà [...];

21) Mori aveva sempre informato il suo superiore Gen. Subranni dello sviluppo degli incontri con Vito Ciancimino [...];

22) Mori era ben consapevole che Vito Ciancimino effettivamente conosceva i mafiosi "corleonesi" ("Dich. Mori: "Gli ho detto: 'ma lei li conosce questa gente?' Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone"), cioè Riina e Provenzano, cosa di cui aveva avuto conferma quando Ciancimino si era adirato per la richiesta di far consegnare i predetti ([...];

23) Mori aveva intenzione di far pedinare Vito Ciancimino, se la "trattativa" fosse proseguita, per scoprire con chi si incontrasse il predetto [...];

24) Ciancimino non formulò mai proposte concrete per la "trattativa" e, pertanto, non si parlò mai del "papello" [...].

LA SENTENZA DI SECONDO GRADO DELLA CORTE DI ASSISE DI APPELLO FIRENZE

Nella sentenza n. 4/200 l pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 13 febbraio 2001 (doc. 50 della produzione del P.M. all'udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge: "La trattativa Mori - Ciancimino. La questione riveste, ad avviso di questa Corte, molta importanza nella economia del presente processo e merita quindi farvi un cenno, ancorché breve, sia perché dei rapporti fra l'allora Colonnello dei Carabinieri Mori, comandante del R.O.S. dei Carabinieri, con tale Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per reati di mafia ha parlato il primo giudice, sia perché è stata chiesta, ancora, la l'innovazione del dibattimento per nuovo esame del predetto ufficiale, che sembra oggi sia generale dell'Arma, e del capitano De Donno, suo dipendente, da parte del difensore di Calabrò e Riina. […] La predetta sentenza di appello, dunque, nulla aggiunge ai dati di fatto già enucleati dalla sentenza di primo grado, se non nell' inciso in cui rileva che "i contatti tra i due ufficiali" (quindi, sia Mori che De Donno) con Vito Ciancimino erano iniziati nel giugno 1992.

La versione degli alti ufficiali. La Repubblica il 26 agosto 2019. Sono state, altresì, acquisite le testimonianze rese dagli odierni imputati Mori e De Donno allorché vennero esaminati nel processo per la strage di via D'Amelio denominato "Borsellino ter" all'udienza del 27 marzo 1999. […] E' opportuno, invece, riportare qui di seguito una sintesi della deposizione resa da Mario Mori: “[...]

P.M dott. DI MATTEO: - ... Le volevo chiedere se corrisponde a verità il fatto che lei nella seconda metà del '92 ha avuto contatti con l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino ed eventualmente ci dirà ... intanto ci dica se sì o no;

TESTE MORI: - Sì, ho avuto contatti.... ... ...Sì. Faccio riferimento, giusto per puntualizzare e temporalizzare i vari momenti... ... ... Allora, per temporalizzare cominciamo a dire che ... a puntualizzare alcune date. Il 24 o 25 di maggio c'è l'attentato a Capaci; muore Giovanni Falcone, la signora e la scorta. Fu un momento di... di crisi generale delle Istituzioni per la società italiana, che plasticamente, anche se ingiustamente, si può rappresentare con il volto del dottor Caponnetto, che dice: "É finita". Cioè, lo Stato era in ginocchio in quel momento. E noi investigatori, i magistrati, la Polizia Giudiziaria, eravamo in un momento di... quasi di buio totale. [...] E definii due tipi di ... di attività: una quello della ricerca specifica del capo di "Cosa Nostra" attraverso un gruppo scelto e individuato da noi nel ros ... tra il nostro personale che su ... anche su indicazioni dell'allora maresciallo Lombardo, che poi si suicidò anni dopo, cominciò a sviluppare l'indagine esclusiva volta alla ricerca di Salvatore Riina. Attivai poi tutto il personale che si interessava di criminalità organizzata di tipo mafioso perché si ... si trovassero delle fonti informative che potessero darci un quadro di conoscenze su cui sviluppare un'attività più incisiva. In questo secondo aspetto, in questo secondo ambito, si fece avanti con una proposta l'allora capitano De Danno. De Donno aveva svolto, […] una serie di indagini su Vito Ciancimino, in particolare sugli appalti per la manutenzione strade e per la manutenzione degli edifici scolastici [...] De Donno mi fece questa proposta, dice: ''[...]Perché non proviamo ad andare sotto a Ciancimino? Perché l'uomo, dato il suo livello, senz'altro può conoscere fatti, cose, personaggi che in qualche modo ci potrebbero ampliare le nostre conoscenze". Pur dubbioso dell'esito dissi: "Va bé, proviamo". E quindi ci fu un contatto, peraltro molto facile, perché c'erano queste udienze in corso e quindi era naturale il... il contatto tra il capitano De Donno e Ciancimino. […] P.M dott.ssa PALMA: - ... nei precedenti incontri o prima della cattura di Riina, ovviamente, il Ciancimino fornì mai qualche elemento, qualche informazione utile per voi e che vi portò alla cattura di Riina?; TESTE MORI: - La cattura di Riina é avvenuta per tutt'altra vicenda investigativa ... …. ... La vicenda nasce nell'estate del '92. Io decido di costituire questo Reparto, un gruppo scelto di un quindici - sedici persone comandati da un ufficiale, che scende a Palermo durante il mese di settembre e comincia un'attività su di un input preciso, che ci viene fornito ... Preciso ... si fa per dire preciso, comunque era qualche cosa già. Che ci viene fornito dal maresciallo Lombardo, il quale dice che... di avere acquisito notizie secondo cui il punto di riferimento, chi insomma voleva parlare con Totò Riina doveva passare attraverso Raffaele Ganci, che era il capo della famiglia della Noce. Su questo elemento noi decidiamo... io mi fidavo di Lombardo, perché Lombardo era un grande conoscitore di cose di mafia. Cioè, mi fidai della notizia, della bontà della notizia, per cui noi puntammo la nostra attività, ed è documentale, perché poi è stata... è processualizzata ed è tutta l'attività di pedinamento, osservazione e riscontro soprattutto video delle attività sulla famiglia Ganci, ed in particolare prima su Raffaele, il padre, e poi i suoi due figli, Domenico e l'altro non mi ricordo come si chiama. Nel corso delle indagini, delle... e dei servizi sul terreno il gruppo operativo seguì in una circostanza Domenico, mi sembra, Domenico Ganci, comunque uno dei due figli, fino a via Bernini, là, dove poi a suo tempo è stato visto uscire e poi quindi arrestato Riina. E acquisii questo dato di fatto: lui si... entrò dentro il comprensorio e loro si fermarono. Ad un certo punto, verso il 10 di maggio, io ho un appuntamento ... 10 di gennaio '93, ho un appuntamento a Torino con Giancarlo Caselli, il quale mi aveva chiesto di andare su perché in previsione, dopo pochi giorni, di assumere la carica di Procuratore di Palermo voleva avere un quadro della situazione dal punto di vista investigativo e operativo. Arrivato sul posto mi fu segnalato di portarmi, appena arrivato all'aeroporto, al Comando della Brigata Carabinieri perché lì mi aspettava il dottor Caselli. Lì c'era il dottor Caselli e il generale Delfino e mi sottoposero un verbale di... di confessione fatto da Baldassare Di Maggio a proposito dei suoi rapporti con Salvatore Riina. Mi dissero altresì che sulla base delle indicazioni che avevano dato ... che aveva dato Di Maggio circa i luoghi dove si poteva trovare, dove aveva accompagnato, dove aveva visto Riina, stavano per partire l'indomani delle perquisizioni. Chiesi e feci notare l'incongruità dell'operazione che si stava per svolgere perché dico: "Questi sono fatti che perlomeno si riferiscono a due anni fa. Se nel frattempo qualche cosa è cambiata e noi facciamo delle ... delle perquisizioni a tappeto su tutti gli obiettivi, chiaramente se ci scappa Riina non lo prendiamo più, perché questo sa che qualcheduno sta parlando e ha indicato anche con cognizione di causa del posti precisi". Chiesi e ottenni dal dottor Caselli di fare alcuni riscontri attraverso il mio Gruppo Operativo che già operava giù in Sicilia. Si mise in contatto il comandante di questo Reparto con il dottor Aliquò, che in quel momento reggeva la Procura, e si stabilivano i servizi di osservazione intorno ai punti indicati dal Baldassare Di Maggio. Ad un certo punto, dopo due o tre giorni, il dottore Aliquò, visto che non si concludeva nulla, decise di intervenire. L'ufficiale del mio Reparto chiese altre 24 ore di tempo al dottore Aliquò, che le concesse, per sottoporre al ... il luogo, la visione del luogo al Di Maggio dove aveva visto Domenico Ganci entrare in una determinata strada. Portarono sul posto Baldassare Di Maggio; anche questo é verbalizzato da Baldassare Di Maggio in tutti ... in tanti procedimenti. Non riconobbe, dice: "Io non sono mai stato qua, in via Bernini, non la conosco". Nella serata furono sottoposti a Baldassare Di Maggio delle riprese televisive ... furono sottoposte delle riprese televisive sviluppate in quella giornata dai nostri uomini sull'obiettivo di via Bernini e nella nottata Baldassare Di Maggio riconobbe da una macchina … uscì da via Bernini una macchina con a bordo la ... Bagarella, la moglie di Totò Riina e mi sembra di ricordare che riconobbe anche il figlio che si aggirava in bicicletta nella zona, Giovanni. Sulla scorta di questo l'ufficiale mi telefonò, (io) a Palermo, e decidemmo l'intervento per la mattina successiva. Cosa che avvenne, perché verso le ot ... ci portammo di nuovo questa volta Baldassare Di Maggio dentro una macchina davanti all'obiettivo e lui ci indicò all'uscita la macchina che era entrata pochi minuti prima con la persona che lui conosceva, ma non sapeva in quel momento indicare con un nome, e riuscì questa macchina con questa persona alla guida e a fianco Salvatore Riina. Lo seguirono fino alla Rotonda, lì, non mi ricordo come si chiama, comunque un chilometro e mezzo o due, e poi lo arrestarono; ...... ....

P.M dott.ssa PALMA: - ..... lei ha mai sentito parlare di papello? Se ne ha sentito parlare quando, e può dirci se questo termine papello la conduce in qualche modo alla vicenda di cui ha parlato, se esistono dei collegamenti; ......... TESTE MORI: - Quando ci fu il contatto Mori - De Donno con Ciancimino, e questa parola é assolutamente ... anche perché non ci furono date delle... delle condizioni, qualche cosa. Le precondizioni erano quelle che ho dette prima alla ... al dottor Di Matteo e basta. Non si parlò di richieste o di altro. [...]

Orbene, da tale testimonianza emerge, con tutta evidenza, il tentativo di Mario Mori di "sfumare" alcune affermazioni fatte in occasione della precedente testimonianza resa a Firenze poco più di un anno prima. Tale tentativo può riscontrarsi, ad esempio:

1) riguardo ai primigeni contatti con Vito Ciancimino nel mese di giugno 1992 e, comunque, antecedenti alla strage di via D'Amelio ("lo penso che il contatto ... l'avance, diciamo, tra De Donno e Massimo Ciancimino. cioè la proposta di De Donno a Massimo Ciancimino é prima del 25; la risposta è sicuramente dopo il 25 di ... di giugno, dopo l'incontro.... ... ...Sì, perché altrimenti ne avrei parlato con il dottor Borsellino; cosa che invece assolutamente non si è verificata;

P.M dott. DI MATTEO: - E poi materialmente quando si realizza il primo contatto diretto, il primo incontro tra il capitano De Donno ed il Ciancimino?

TESTE MORI: - Guardi, questo non glielo so dire. bisognerebbe chiederlo proprio a De Donno. Certamente nel corso del mese di luglio lui si incontra con Ciancimino .... ........ Il 25 di giugno, quando incontro Borsellino, non abbiamo ancora la risposta da parte di Vito Ciancimino; ... .... ....

P.M dott.ssa PALMA: - Allora questa ... la mia domanda era in questo senso.' dal 25 giugno al 19 luglio ci furono degli ulteriori contatti? Cioé, si portò a termine questa volontà di incontro fra il Ciancimino e prima il capitano De Donno e poi con lei? Cioé, prima della strage di via D'Amelio già si ebbe ... ? Forse ... ;

TESTE MORI: - Non glielo so collocare nel tempo il momento preciso in cui Ciancimino dice. "Va bene, voglio... venga pure il capitano". Se ciò é avvenuto prima del 19 o dopo. lo penso che solo De Donna lo può dire con... con esattezza .. ") a fronte della più netta indicazione precedentemente fornita il 24 gennaio 1998 [...] peraltro senza alcun cenno all'attesa di risposte da parte di Vito Ciancimino non ancora pervenute sino al 25 giugno 1992 (circostanza di cui, d'altra parte, neppure De Donno aveva fatto alcun cenno [...]);

2) riguardo, più in generale, a quella che egli, in prima battuta, non aveva avuto alcuna remora a definire come "trattativa" ed alle sue finalità quanto meno concorrenti di ottenere la cessazione delle stragi [...];

3) riguardo alla risposta ai mafiosi su chi essi Carabinieri rappresentassero in quel frangente, anche in questo caso qui molto generica ("..."Lei non si preoccupi, andiamo avanti che poi si vedrà"....") a fronte della inequivoca e ben più specifica affermazione della precedente testimonianza resa pure a Firenze da De Donno [...];

4) riguardo all'idea originaria di cercare un contatto in "cosa nostra" che qui viene attribuita da Mori al solo De Donno senza più riferimenti – almeno espliciti – alla sua preventiva autorizzazione ed alla stessa ideazione dell'iniziativa [...], mentre il 24 gennaio 1998 aveva chiaramente attribuito a sé quell'ideazione ("A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c'è la strage di Capaci ..... ... ...Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità, di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato... ") e riferito, quindi, di avere espressamente autorizzato De Donno a contattare Ciancimino ("Lo autorizzai a procedere a questo tentativo"). Deve, poi, evidenziarsi che anche in occasione della detta deposizione del 27 marzo 1999 Mori ha posticipato la conoscenza dei contatti con Ciancimino da parte di Subranni al momento successivo al primo incontro dello stesso Mori con Ciancimino in data 5 agosto 1992 [...], senza alcun cenno di smentita, però, della contraria e precisa affermazione di De Donno sulla conoscenza da parte di Subranni già dei precedenti incontri dello stesso De Donno con Ciancimino.

"PUBBLICO MINISTERO: ... Il colonnello Mori, prima di dare il via libera a lei, per questo avvio di contatti, o anche successivamente, ha rappresentato questa iniziativa presso comandi superiori dell'Arma?;

TESTE De Donno: Sì, ne parlò col comandante del ROS dell'epoca,il generale Subranni''). [...]

Nel processo a carico di Mori e Obinu per il reato di favoreggiamento Giuseppe De Donno è stato esaminato, in qualità di indagato in procedimento connesso, all'udienza dell'8 marzo 2011 e, nell'occasione, per le parti che qui rilevano, ha dichiarato: "I rapporti con Ciancimino nascono nel giugno 1992, dopo la morte del Dottor Falcone, nel senso che prima di quella data, io non avevo avuto rapporti, diciamo così, extra investigativi, se non per esigenze di interrogatorio, normale attività con Ciancimino. Avevo avuto qualche incontro nelle aule di Tribunale, nel corso del! 'attività con il figlio Massimo, che era la persona che in quel periodo era un po' più vicina al padre, cioè lo assisteva in questa attività. Dopo la morte del Dottor Falcone, il Ros decise, il generale Mori decise una serie di iniziative investigative e a me fu affidato il compito di individuare potenziali attività informative che potevano fornirci spunto e elemento per capire quello che stava accadendo in quel periodo. [...] Il Colonnello Mori mi autorizzò e nel corso, alla prima occasione utile che io non cercai, alla prima volta che incontrai Massimo Ciancimino in aereo, gli chiesi se poteva chiedere al padre la disponibilità a incontrarmi per parlare di quello che stava succedendo. […] Quando lui accetta poi di incontrarmi, si sviluppano, io incontro Ciancimino nell'intervallo tra le due stragi, cioè quella del Dottor Falcone e del Dottor Borsellino, credo tre volte, sempre nella sua abitazione a Roma e sono incontri sostanzialmente interlocutori. Chiaramente il nostro obiettivo principale era quello di avere delle indicazioni, delle valutazioni che ci consentissero di capire e in questo vorrei essere chiaro, è il perché io, poi il mio comandante accetta e scelgo Ciancimino. […] Nel frattempo interviene la strage del Dottor Borsellino. A quel punto veramente, io credo in maniera estremamente onesta, Vito Calogero Ciancimino non comprende i due avvenimenti in rapida successione, però per me la strage di Borsellino fu l'elemento determinante per un salto di qualità nel lavoro. Cioè, essendo lui estremamente turbato, estremamente ossessionato da queste due stragi in rapida successione, io ritenni che era il momento di introdurre un elemento nuovo di diversificazione. Cioè gli dissi, poiché lui non capiva, dico guardi, lei ci deve aiutare, noi dobbiamo capire che sta succedendo, dobbiamo individuare queste persone, perché qui c'è una strage ogni mese, dico lei deve parlare col mio comandante, perché introdurre il comandante? Perché Ciancimino era un capo e doveva parlare con un capo, cioè io tutt'oggi, ma ci arriveremo, spero dopo, rivendico in maniera assolutamente chiara e netta il merito dell'attività che noi abbiamo svolto con Vito Calogero Ciancimino e spiego il perché. Introducendo il Colonnello Mori, Ciancimino accettava una interlocuzione di livello che non era più il capitano De Donno, era il Colonnello Mori, cioè era il rappresentante del Ros Carabinieri, quindi accettava implicitamente un rapporto con lo Stato che lo poneva ormai al di là di certe scelte, cioè non poteva più tornare indietro e questo per noi era un vantaggio incommensurabile perché comunque noi, da un personaggio come Vito Calogero Ciancimino ne avremmo ottenuto, quantomeno a livello informativo, delle indicazioni insostituibili e lui accetta di incontrare il Colonnello Mori. Accetta e il primo incontro avviene i primi di agosto, il 5 agosto. […] Quando torna al terzo incontro e ci racconta l'esito dell 'incontro con il suo contatto, di cui non ci dice, non ci dà le generalità, lui ci dice: ma io, quel mio referente, mi ha detto dice ma questi chi sono? Che è già sintomatica, cioè in un contesto storico particolare, si presentano delle persone che giù Cosa Nostra, cioè il suo referente dice: ma questi chi sono? E lui dice sono ... e l'altra parte risponde, dice: questi o sono pazzi o hanno le spalle veramente coperte. Allora, dice, se sono veramente quello che dicono, risolvono i suoi problemi e poi discutono con noi. Quando Ciancimino ci riferisce questa cosa, l'impressione fu che ci stesse prendendo in giro, nel senso che era fin troppo scontata la richiesta di risolvere i problemi giuridici di Ciancimino, Ciancimino aveva questa idea fissa, tornava sempre sul problema della sua libertà, dei suoi processi, della misura di prevenzione. […] La risposta fu estremamente chiara, gli dicemmo che non solo non potevamo fare nulla per i suoi processi, ma glielo motivammo pure ..... nel suo mondo ormai, diciamo così, tra virgolette, era ormai sostanzialmente bruciato, ci disse, dice loro, dice va bene accettare di parlare, dice che cosa proponete? Al che il Colonnello gli disse, in maniera molto tranquilla, seria e incontestabile, si consegnino tutti i latitanti e noi gli garantiamo un giusto processo e un trattamento equo per le famiglie. Ricordo che Ciancimino saltò, si colpì le gambe e saltò sulla sedia diventando bianco. Io personalmente, ma credo anche il Generale Mori, in quel momento capimmo che lui veramente aveva parlato con Cosa Nostra, perché lui ci disse, dice voi mi volete morto e dice volete morire pure voi. Lì avemmo la sensazione che lui non ci aveva preso in giro, cioè veramente aveva preso contatti con l'altra parte e veramente aveva trasmesso la nostra richiesta. A quel punto chiaramente però si rese anche conto che noi non avevamo, perché non avevamo niente da offrire e niente da trattare, al che pensandoci, lui individuò la soluzione, ma trattandoci con forza, cioè lui nel rapporto, già lui era un tipo nervoso, digrignava i denti quando parlava, era un personaggio a modo suo. E ci disse, cioè, tra virgolette quasi, ci fece un cazziatone, perché disse voi, dice "qui si muore, dice qui ci ammazzano. Allora facciamo una cosa, dice io gli dico che voi non volete più discutere di niente, non volete nulla e che quindi questo discorso si interrompe, in maniera tale che comunque io ho fatto un 'attività che però non possono pensare né che li ho presi in giro né che era falsa. Chiudiamo la questione qui e poi si vede e non se ne parla più […].

PUBBLICO MINISTERO. - Senta, noi abbiamo rinvenuto, presso gli archivi del Ros, un appunto, è agli atti del processo, 30 maggio 1992, su carta intestata appunto raggruppamento operativo speciale Carabinieri e reparto criminalità organizzata, non è firmato ma è datato 30 maggio 1992, quindi siamo proprio all'indomani della strage di Capaci. Lei ha detto che i contatti con Vito Ciancimino cominciamo nel giugno del 1992.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - Dopo la strage, dopo la strage di Falcone, adesso la data esatta non la so. Dopo la strage di Falcone sì.

PUBBLICO MINISTERO: - Quindi è possibile addirittura che il primo incontro con Massimo Ciancimino sia del maggio 1992?

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - È possibilissimo, sì.

PUBBLICO MINISTERO: - Vieni giorno tot che ti porto io a casa.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - No, non mi portava, mi diceva la data e io ci andavo da solo.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - Lo sapeva anche dopo, quando veniva il Colonnello, ci portava sempre il caffè.

PUBBLICO MINISTERO: - No aspetti, su un punto specifico, non mi interessa nemmeno la definizione di trattativa, non è un interesse diciamo da un punto di vista, tra virgolette, giornalistico o di compendio di una vicenda. lo voglio un fatto preciso: lei ha detto, sotto giuramento in Corte d'Assise, gli proponemmo di farsi tramite per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione dell'attività stragista nei confronti dello Stato.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - Confermo.

PUBBLICO MINISTERO : - Che vogliamo discutere, troviamo un punto di incontro per cessare le stragi.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - Confermo.

PUBBLICO MINISTERO : - Senta, sempre nella stessa udienza, lei ha dichiarato: "gli facemmo intendere che noi, nella trattativa, eravamo lì in veste di rappresentanti dello Stato ".

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: - È quello che ho detto prima, certo. Non certo potevamo andare a titolo personale.

Da notare che nella ricostruzione inizialmente spontaneamente resa il De Donno appare chiaramente influenzato dall'imputazione mossa in quel processo al suo superiore Mori e così scompare del tutto la "trattativa", che riaffiora, infine, soltanto quando, sollecitato dal P.M., lo stesso De Donno non può che confermare le ben più incisive ed inequivoche dichiarazioni rese quale testimone nel processo di Firenze.

Le dichiarazioni spontanee del generale. La Repubblica il 27 agosto 2019. Infine, deve darsi conto delle dichiarazioni spontaneamente rese sul punto nel presente dibattimento dall'imputato Mario Mori, pur premettendo, sin d'ora, che lo stesso in qualche passaggio ha rinviato alle più dettagliate conoscenze del coimputato De Donno ("Sull'argomento potrà interloquire anche il dottor De Donno, che fu colui che li iniziò, ovviamente da me autorizzato"), il quale, tuttavia, così come Mori, non ha accettato di sottoporsi all'esame delle parti e nulla ha riferito spontaneamente riguardo al tema dei contatti con Ciancimino qui in esame rinviando a sua volta alle dichiarazioni di Mario Mori [...]. Ciò premesso, in ordine ai contatti con Vito Ciancimino ed all'esito delle dichiarazioni precedentemente rese da Massimo Ciancimino in questo dibattimento, l'imputato Mario Mori ha reso spontanee dichiarazioni all'udienza dell'8 settembre 2016. Si omettono qui, però tutte le considerazioni del Mori riguardo alla inattendibilità di Massimo Ciancimino poiché le dichiarazioni di quest'ultimo non sono, come detto, in alcun modo utilizzate da questa Corte ai fini della valutazione delle risultanze probatorie. Rileva, qui, piuttosto, la ricostruzione dei contatti con Vito Ciancimino. Dunque, in particolare, in quella occasione, riguardo a tali contatti, Mario Mori ha spontaneamente dichiarato: "Mi riferisco alla deposizione resa dal signor Massimo Ciancimino e a quelle ad esse direttamente collegate .... .... .... Nel corso del mese di giugno 92, il Capitano De Donno, sfruttando incontri casuali verificati nel corso dei suoi viaggi da e per Palermo, incontrò e prese contatto con Massimo Ciancimino, da lui conosciuto nel corso di perquisizioni a casa del padre, stabilendo con lui una corretta interlocuzione. L'Ufficiale titolare delle investigazioni sfociate nell'inchiesta mafia e appalti, ben conosceva il ruolo di protagonista che aveva rivestito e che ancora rivestiva all'epoca Vito Ciancimino nel condizionamento degli appalti pubblici e più in generale la sua situazione di cerniera tra il mondo politico e imprenditoriale e l'ambito mafioso. Nell'ottica di acquisire elementi utili alla prosecuzione delle indagini per giungere a una individuazione dei responsabili degli omicidi di quell'anno, in particolare per quanto attiene la strage di Capaci, e sulla base delle interlocuzioni avute con Massimo Ciancimino, siamo dopo l'attentato di Capaci e prima di quello di Via D'Amelio, De Donno ritenne che, opportunamente contattato, Vito Ciancimino avrebbe potuto accettare il dialogo e al limite accondiscendere a qualche forma di collaborazione se non altro per dimostrare la sua sempre proclamata estraneità a Cosa Nostra. […] Nella vicenda però ritenevo di avere un vantaggio importante dato dal fatto che Ciancimino era in attesa di decisioni connesse ai propri procedimenti giudiziari aperti, che se a lui sfavorevoli, come era ipotizzabile, lo avrebbero riportato in carcere definitivamente. Il primo incontro con me avvenne nel pomeriggio del 5 agosto 1992, nell'abitazione romana di Ciancimino, in zona di Piazza di Spagna - Villa Medici. Si veda l'agenda del 1992 mia, già in questi atti. [...] Il terzo incontro avvenne il 1 ottobre 1992. Ciancimino ci disse che aveva preso contatto con l'altra parte, senza specificare l'identità dei suoi interlocutori, riferendoci che aveva riscontrato perplessità perché avendo fatto i nostri nomi gli era stato chiesto chi rappresentassimo. Convinto che il mio interlocutore tergiversasse, gli risposi di non preoccuparsi e di andare avanti così. Questa risposta che non lo poteva soddisfare in condizioni normali, in quel momento lo accontentò perché anche lui aveva esigenze impellenti da fronteggiare, che gli sconsigliavano di assumere posizioni rigide. Così prese per buona una risposta che esaustiva certamente non era e decise di procedere oltre. Nel corso dell'incontro Ciancimino ci consegnò due copie della bozza di un suo libro intitolato Le Mafie, scritto su persone e fatti politici - amministrativi da lui conosciuti come protagonista e testimone delle vicende siciliane degli anni appena trascorsi. Nel testo egli sosteneva la tesi di una sostanziale convergenza di intenti tra mafiosi e politici. Il Ciancimino mi disse che era sua intenzione farlo pubblicare e che ne aveva già distribuito delle copie per sensibilizzare al suo caso persone in grado di aiutarlo una volta conosciuta la verità. Egli aggiunse che quelli del libro erano anche gli argomenti che voleva trattare quando fosse riuscito ad essere ricevuto nella Commissione Parlamentare Antimafia e al riguardo chiese anche un mio interessamento. Egli, convinto che dietro le morti di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre alla matrice mafiosa, vi fosse un disegno più ampio, voleva esporre questa sua ipotesi davanti ad un consesso politico e nel senso mi preannunciò una sua lettura al Presidente della Commissione nella quale avrebbe rinnovato la sua richiesta di essere sentito, già formulata sin dagli anni ottanta. Il libro Le Mafie, citato anche dal Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori, fu trasmesso dal Ros il 2 febbraio del 1993 ai Magistrati della Procura della Repubblica di Palermo. [...]Nel corso del mese di novembre 1992, il Capitano De Donno, attraverso Massimo Ciancimino, seppe che Vito Ciancimino lo voleva incontrare di nuovo da solo. Ritornando dall'appuntamento, l'Ufficiale mi riferì che il Ciancimino, dichiaratosi pienamente collaborativo, gli aveva chiesto cosa effettivamente volessimo e che lui gli aveva risposto che a noi interessava catturare i capi di Cosa Nostra, cioè Riina e Provenzano. Ciancimino ne aveva preso atto, precisando subito che le indicazioni più immediatamente sfruttabili su Riina Salvatore, chiedendo a riguardo le mappe della zona di Palermo che, da Viale della Regione Siciliana, va verso Monreale, con lo schema dei relativi allacci dell'azienda municipalizzata degli acquedotti. [...] Poche ore dopo l'incontro avvenuto il 18 dicembre del 1992, Ciancimino venne arrestato in esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare emesso sul presupposto del pericolo di fuga dalla Corte d'Appello di Palermo. Vito Ciancimino quindi non contribuì in alcun modo alla cattura di Totò Riina ....[...] Il termine trattativa è stato usato da me e dal dottor De Donno nelle nostre dichiarazioni davanti alla Corte d'Assise di Firenze e Caltanissetta quando avremmo potuto adoperare altrimenti vocaboli affini quale contatto, relazione, rapporto, scambio di idee, abboccamento, discussione e altri simili. Questa espressione invece è diventata la parola d'ordine per un certo tipo di approccio del tutto forviante e scorretto ad una specifica indagine su Cosa Nostra. E su questo termine evocativo si cimentano tutt'ora i cultori di un tanto al chilo della materia per elaborare ipotesi a vanvera al solo scopo di tenere in piedi, artificiosamente, una ben definita impostazione ideologica. Per me Ciancimino era solo ed esclusivamente una potenziale fonte informativa da trattare in base al disposto dell'articolo 203 del Codice di Procedura Penale, che consente all'ufficiale di P.G. questi tipi di contatti .... [...]".

Anche in questo caso, risalta evidente il comprensibile tentativo di Mori di calibrare la ricostruzione degli accadimenti di modo da non lasciare alcuno spazio alla tesi accusatoria in verifica nel presente processo, e ciò affidandosi a dichiarazioni spontanee che, impedendo gli approfondimenti che sarebbero inevitabilmente conseguiti in caso di accettazione dell'esame delle parti, gli hanno consentito di omettere o ridimensionare alcuni passaggi della ricostruzione degli accadimenti medesimi originariamente riferita nella sua prima deposizione del 24 gennaio 1998 a Firenze. Così in tale ultima ricostruzione v'è spazio soltanto per l'intendimento del Mori di utilizzare Vito Ciancimino esclusivamente come proprio confidente per acquisire notizie utili sull'organizzazione mafiosa. Non v'è più alcun cenno, quindi, all'idea originaria che l'aveva determinato a cercare quel contatto e cioè quella di fare qualcosa per far cessare le stragi quanto meno concomitante con quella di individuare i responsabili della strage di Capaci [...], d'altra parte, in modo ben più diretto e chiaro riferita inizialmente anche da De Donno ("... un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato"). Ciò spiega perché nella sua ultima ricostruzione Mario Mori "dimentica" il passo forse più importante e certamente più significativo della sua interlocuzione con Vito Ciancimino (" ... 'Ma signor Ciancimino. ma cos 'è questa storia qua? Ormai c'è muro contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?' La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo ... dissi: 'allora provi' ..."), allorché egli ebbe ad invitare quest'ultimo a prendere contatto con i vertici di "cosa nostra" per porre termine alla contrapposizione frontale, che aveva da ultimo caratterizzato le rispettive posizioni, plasticamente rappresentata da quella nuova strategia manifestatasi, dopo la sentenza definitiva del maxi processo, con l'uccisione di Salvo Lima, seguita da quella del M.llo Guazzelli e culminata con la strage di Capaci, che, peraltro, lasciava presagire ulteriori nefaste azioni già paventate sia da organi istituzionali (v. allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell'Interno di cui prima si è detto sopra), sia da possibili future vittime, tra le quali il Ministro Mannino che si era già prontamente rivolto per tale ragione anche al Gen. Subranni (ed, in proposito, a dimostrazione che il rischio di quelle ulteriori azioni veniva ritenuto concreto anche dall'Arma dei Carabinieri, si veda, altresì, la nota del 20 giugno 1992 del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri indirizzata al Direttore del SISMI ed avente ad oggetto "Minacce nei confronti di inquirenti e personalità" acquisita all'udienza del 24 ottobre 2014). Ed è appena il caso di ricordare ancora come sulla finalità di instaurare un dialogo con i mafiosi per ottenere l'immediata cessazione della strategia stragista, da ultimo tralasciata da Mori nelle dichiarazioni spontanee sopra riportate, ancora più chiaro è stato, nella sua prima deposizione, Giuseppe De Donno con riferimento alla proposta che egli e Mori fecero a Vito Ciancimino: "E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa di Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò". Ma, d'altra parte, pur rimandando una più approfondita valutazione delle risultanze ad un Capitolo successivo, può sin d' ora, però, anticiparsi come appaia del tutto logico che Mori, a riprova del suo intendimento di calibrare la ricostruzione degli accadimenti per non lasciare alcuno spazio alla tesi accusatoria, abbia del tutto omesso il riferimento a quel passo della sua interlocuzione con Vito Ciancimino in quanto palesemente in contrasto e contraddizione con la sua affermazione riguardo al più limitato intendimento di utilizzare quest'ultimo quale mero confidente per raccogliere notizie utili alle indagini. Quella frase dimostra incontestabilmente, infatti, che non si intendeva affatto raccogliere soltanto le confidenze di Ciancimino utilizzandolo come mero "informatore", definizione utilizzata, appunto, da Mori nelle sue spontanee dichiarazioni unitamente al riferimento all'art. 203 c.p.p. fatto per giustificare l'omissione della informativa ali' A.G. ("Per me Ciancimino era solo ed esclusivamente una potenziale fonte informativa da trattare in base al disposto dell'articolo 203 del Codice di Procedura Penale, che consente all'ufficiale di P.G. questi tipi di contatti''), ma, piuttosto, si intendeva utilizzare questi per instaurare un dialogo con "cosa nostra" e, quindi, per una attività che certamente trascende quella del mero informatore per trasmodare più in quella, semmai, di un agente provocatore, non certo consentita alla P.G. in assenza di preventiva comunicazione all'autorità giudiziaria competente per le indagini (v., con riferimento alle azioni sotto copertura, anche art. 9 comma 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146) ed anzi, come pure si vedrà meglio più avanti, addirittura trascendendo anche quella dell'infiltrato, la cui condotta non può certo inserirsi con rilevanza causale in un'azione criminale, ma, assumendo soltanto carattere di marginalità rispetto a questa, deve prevalentemente concretizzarsi nell'osservazione, nel controllo e nel contenimento delle azioni illecite altrui, laddove, invece, nel caso in esame, con quella richiesta di dialogo avanzata dal Mori, veniva sollecitata a "cosa nostra", determinandola in modo essenziale per il conseguente effetto di incitamento e istigazione, la formulazione di richieste di carattere minaccioso nei confronti dello Stato al cui accoglimento soltanto la stessa organizzazione mafiosa "cosa nostra" avrebbe modificato la sua già intrapresa strategia stragi sta. Ed in tale contesto si spiega, altresì, la "retromarcia" operata nelle sue ultime dichiarazioni spontanee dal Mori riguardo a quella che originariamente, senza remore e tentennamenti, aveva egli stesso definito "trattativa"[...]. Oggi il Mori, nella sua più recente ricostruzione degli accadi menti, omette accuratamente di utilizzare tale termine e tenta di ridimensionare – rectius, rimediare alle sue precedenti dichiarazioni proponendo diverse definizioni [...], che, contrariamente a quanto dallo stesso sostenuto, non sono affatto "affini'' (v. dich. spontanee sopra riportate), né tanto meno sinonimi di "trattativa" . Questa, come pure, d'altra parte, in modo sintetico e più semplice, detto da Mori comporta "una negoziazione che presuppone un dare e un avere", o, per meglio dire, l'esplicitazione di rispettive richieste finalizzata al raggiungi mento di un accordo. […] E se così è, allora, è evidente che l'iniziativa del Mori comportò proprio l'apertura di una "trattativa" con "cosa nostra", nella misura in cui il predetto sollecitò Vito Ciancimino a richiedere a vertici dell'organizzazione mafiosa cosa volessero per fare cessare la contrapposizione con lo Stato "muro contro muro" (parole testuali del Mori) e, quindi, le stragi. La sollecitazione del Mori (ovviamente, si intende quella indirizzata ai vertici di "cosa nostra", non essendo contestato che Ciancimino accettò di fare da tramite con questi [...]), infatti, se accolta (e di ciò si dirà nel prossimo Capitolo), avrebbe inevitabilmente comportato l'accettazione della "trattativa" proposta e, conseguentemente, la formulazione di richieste da parte di "cosa nostra" al cui accoglimento subordinare la cessazione delle stragi, aspetto che successivamente si approfondirà con riferimento, non già alla stessa questione della "trattativa" che, come detto può rilevare soltanto come antecedente fattuale causale, ma alla imputazione di minaccia (al Governo della Repubblica) che è stata contestata in questa sede agli imputati dalla Pubblica Accusa. E, forse, di ciò si è reso conto lo stesso Mario Mori, che, infatti, incidentalmente e senza apparentemente darvi alcun importanza, ha, poi, attribuito ad altri (non meglio precisati ed indicati, ma, in modo sibillino, definiti come più "qualificati" e "disponibili") l'eventuale "trattativa" con "cosa nostra" ("Da quanto sopra si deduce che se una trattativa vi è stata, questa non è da attribuire a Mori e De Donno. ma a qualche altro che agli occhi di Cosa Nostra appariva senza altro più qualificato e disponibile...").

Gli scritti corsari di Vito Ciancimino. La Repubblica il 28 agosto 2019. Agli atti del processo sono stati, poi, acquisiti numerosi documenti attribuiti a Vito Ciancimino che contengono riferimenti ai contatti di quest'ultimo con Mori e De Donno. Molti di tali documenti sono stati consegnati direttamente da Massimo Ciancimino nel corso dei molteplici interrogatori resi al P.M. nella fase delle indagini preliminari, ma tra questi la Corte, come prima anticipato, non intende fare alcun uso non soltanto, ovviamente, di quelli di cui è stata accertata l'alterazione, ma neppure di quelli di cui non è certa l'attribuibilità a Vito Ciancimino o ad altri ancorché non sia stato possibile accertare la loro falsità. L'esempio principale di tali ultimi documenti è costituito dal c.d. "papello" per il quale, pur non essendo stata riscontrata alcuna traccia di manomissione, manipolazione o altra anomalia, non è stato possibile individuare l'autore (v. deposizione dei consulenti del P.M. di cui si è già dato conto nella Parte Seconda di questa sentenza) e che, tuttavia, nel contesto dei molti documenti di cui è stata accertata con sicurezza la falsità o, quanto meno, la - anche soltanto parziale - alterazione per opera di Massimo Ciancimino non appare possibile alcuna utilizzazione in applicazione di una doverosa regola di prudenza, potendosi ritenere elevatissimo il rischio di un apposito "confezionamento" da parte dello stesso Massimo Ciancimino per supportare le sovrastrutture da lui create sui fatti di cui ha avuto occasione di avere cognizione o (poche volte) direttamente per essersi trovato in compagnia del padre, ovvero (quasi sempre) per avere letto e sfruttato per le sue fantasiose ricostruzioni alcuni scritti del padre. Analoga conclusione vale anche, ad ulteriore esempio, essendo documenti oggetto di particolare attenzione delle parti durante l'istruttoria dibattimentale, per i dattiloscritti indirizzati al Governatore della Banca d'Italia (dal 1993 al 2005) Fazio. […] Pochi sono allora i documenti consegnati da Massimo Ciancimino e contenenti riferimenti ai contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino che siano utilizzabili perché certamente opera di quest'ultimo. […] Tra gli altri documenti diversi da quelli consegnati da Massimo Ciancimino, sono, invece, certamente utili tutti quelli che sono stati sequestrati a Vito Ciancimino in data 3 giugno 1996 a seguito della perquisizione effettuata all'interno della sua cella presso il carcere di Rebibbia in Roma [...]. La grafia ovvero il luogo del rinvenimento consentono, infatti, la riconducibilità di tali scritti a Vito Ciancimino. Ebbene, tra tali documenti devono ricordarsi:

- due fogli manoscritti[...];

- n. 17 fogli in parte dattiloscritti e in parte manoscritti col titolo "PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE", nei quali, per le parti che qui interessano, tra l'altro si legge: dattiloscritto "Un fatto importantissimo, che da solo sta a dimostrare la mia posizione personale nei confronti del fenomeno mafioso, è quello che io ho aderito all'invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno) di collaborare con loro. Questa collaborazione, che si stava dimostrando foriera di buoni risultati è stata interrotta dall'arresto del 19/12/1992. L'arresto è stato giustificato col pericolo di fuga perché avevo chiesto il passaporto alla Questura di Roma, mentre come risulta dai verbali di interrogatorio del Dott. Caselli, Procuratore Distrettuale di Palermo il passaporto era stato chiesto alla Questura col pieno accordo dei Carabinieri, che hanno sottoscritto il verbale del Procuratore Distrettuale Caselli (repetita juvant);

dattiloscritto "Ognuno di questi episodi (mi riferisco come diciottesimo all'incontro del 21/01/1994 tra il Procuratore Distrettuale Caselli, il Col. Mori e me. Di questo incontro (21/01/ 1994) non si è redatto il vero verbale ma un altro (inutile) consensualmente per evitare che potesse influire sulla incolumità della mia famiglia, se reso pubblico. da solo dimostra la univoca determinazione di avere collaborato e di volere continuare, in maniera più incisiva e decisiva come ho detto al Dott. Caselli proprio il 21/01/1994. Alcuni di questi episodi sono di tale portata da conferire ogni beneficio di legge, presente passata e futura", seguito, nella stessa pagina, da un appunto manoscritto di non agevole lettura (forse "Mappe mai inviate Appalti idem coop");

manoscritto "L'episodio importantissimo che (da solo) sta a dimostrare la posizione personale di Vito Ciancimino sta nel fatto di avere aderito ali 'invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno) di collaborare con loro, contro il fenomeno mafioso. Questa collaborazione (iniziatasi la fine di agosto del 1992) si stava dimostrando foriera di buoni risultati quando è stata bruscamente interrotta dall'arresto di Ciancimino avvenuto il 19-12-92. L'arresto è stato giustificato col pericolo di fuga perché aveva chiesto il passaporto alla Questura di Roma. Mentre dai verbali di interrogatorio del Dott. Caselli acquisiti nella sua qualità di Procuratore Distrettuale di Palermo risulta che il passaporto alla Questura era stato chiesto in pieno accordo coi Carabinieri che hanno sottoscritto lo stesso verbale della Procura";

manoscritto "Spunto in questi articoli apparentemente slegati, nella mente di Ciancimino emerse il ricordo che la zona nella quale si sarebbe potuto trovare quei rifugi era proprio quella di Monreale. l tre articoli “fusero” nella mente di Ciancimino che il convincimento che la ricerca dei due rifugi poteva essere attuale, anche dopo l'arresto di Riina. Chiese di vedere A SOLO il Dott. Caselli ed il Col. Mori, ambedue edotti di quella ricerca iniziata prima dell'arresto: Mori per averla vissuta, Caselli per averla verbalizzata. Sono venuti caselli e Mori, soli, a Rebibbia il 21-1-94. Raccontai i fatti, le mie valutazioni, si mostrarono oltremodo interessati e rimanemmo d'intesa che entro qualche giorno avremmo potuto, adeguatamente aiutati, riprendere quel lavoro di ricerca che ritenevano molto attuale. Non ho visto né sentito più nessuno. Solo il 2 giugno presenti stavolta il Dott. Caselli ed il Dott. lngroia si riprese l'argomento mostrando i due lo stesso interesse di prima";

manoscritto "PLANIMETRIE Nel periodo in cui Ciancimino collaborò coi carabinieri prima dell'arresto, concordemente valutarono che sulla scorta di alcune indicazioni vaghe che poteva fornire il Ciancimino, se fossero state corroborate da planimetrie di Palermo e provincia e da utenze ENEL ed AMAP, con buona probabilità, si poteva arrivare ad individuare due rifugi attribuibili ai corleonesi nell'ambito di un determinato territorio a monte di Palermo. All'uopo i carabinieri fornirono planimetrie di Palermo e utenze Amap. Ma sia le une che le altre si mostrarono insufficienti perché non coprivano il territorio indicato da Ciancimino. Si decise di adeguarli conseguentemente; anzi si fissò addirittura il giorno, 22-12-92. Senonché 3 giorni prima il 19-12-92, come noto, Ciancimino venne raggiunto da mandato di cattura e quel lavoro passò nel dimenticatoio. Successivamente tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994 una serie di articoli giornalistici rievocarono in Ciancimino il ricordo di quel lavoro rimasto sospeso e che non era stato sollecitato, pur essendo noto, attraverso i verbali ... ";

manoscritto "Mappe topografiche per individuare (possibilmente) 2 abitazioni nell'hinterland di Palermo. Questa richiesta ritenuta interessante per mia espressa volontà .. è stata fatta solo al Dott. Caselli e al Col. Mori il 21-1- 1994 ed avevano origine (e continuazione) nel l'apporto iniziale dei carabinieri avvenuto dal 25/8-92 ... (continuazione del periodo non leggibile nella copia del documento prodotta agli atti);

- foglio manoscritto avente il seguente contenuto "indipendentemente dalle valutazioni «PONDERALl» di Caselli[...];

- foglio manoscritto avente il seguente contenuto "Se Cangemi facesse parte della Cupola doveva sapere della trattativa condotta da con la Cupola (come membro autorevole della Cupola) d 'accordo coi Carabinieri. I Volta condizione possibile II Volta condizione da considerare che non si è considerata (cfr. VERBALE)";

- foglio manoscritto nella cui parte iniziale si legge "Mafioso secondo Marchese 18-11-1992. Se avessi fatto parte di una associazione mafiosa non avrei potuto ipotizzare quella collaborazione fatta coi carabinieri (nome uomo politico PAROLA INCOMPRENSIBILE) perché sarei stato costretto a dire il nome, come ho detto durante la trattativa sia al Col. Mori che al Cap. De Danno" e che poi continua con altri appunti non rilevanti;

- foglio manoscritto avente il seguente contenuto "Lei nel verbale ha scritto che la collaborazione coi carabinieri è stata priva di effetto pratico. Ma la colpa dei mancati effetti di chi è?: a) le carte richieste per tentare di individuare le possibili dimore del boss, mi sono state portate incomplete e dovevano essere integrate. AI capitano avevo fatto notare le lacune ed eravamo rimasti d'accordo che mi avrebbe fornito le carte integrative, ma ha ritardato ed intanto è intervenuto l'arresto b) Per quanto riguarda il piano "cosiddetto politico ", io di intesa coi carabinieri, sono partito per Palermo il 17-12-92 per quel contatto concordato e sono ritornato il 19 ed il 19 stesso ho avuto, alle 17,30, un incontro col capitano e lo informai che non avevo avuto il contatto e che la risposta la avrei avuto il Martedì successivo. Rimanemmo d'accordo col capitano di rivederci Martedì sia perché lui mi fornisse le carte mancanti, sia per dargli la risposta. Era il 19-12-92 il capitano se ne è andato ed io mezz'ora dopo venivo arrestato. Fatta questa premessa si può imputare a me". […]

CONCLUSIONI SULLE DICHIARAZIONI E GLI SCRITTI DI VITO CIANCIMINO. Orbene, come si vede, le dichiarazioni e gli scritti di Vito Ciancimino appaiono di scarso aiuto ai fini della ricostruzione più dettagliata possibile degli accadimenti, poiché il predetto, conformemente peraltro al suo noto stile ed al suo carattere riferiti da più testi anche in questo processo, ne ha raccontato sempre in modo alquanto sommario e con evidenti (volute?) imprecisioni e contraddizioni, sia sotto il profilo temporale che contenutistico, che, non infrequentemente, rendono criptici alcuni riferimenti almeno apparentemente finalizzati, anziché a spiegare e fare conoscere, a lanciare, piuttosto, per proprio tornaconto personale, messaggi comprensibili soltanto ad alcuni degli interlocutori da lui prefigurati. Emblematiche appaiono, in proposito, anche alcune delle dichiarazioni rese da Vito Ciancimino. Invero, sotto il profilo temporale, ad esempio, basti evidenziare che egli colloca la prima visita a casa sua del Cap. De Donno dopo la strage di via D'Amelio (v. le dichiarazioni, più vicine temporalmente ai fatti, del 17 marzo 1993: "Ma dopo i tre delitti (quello di Lima, che mi aveva sconvolto; quello di Falcone che mi aveva inorridito; quello di Borsellino che mi aveva lasciato sgomento) cambiai idea e ricevetti nella mia casa di Roma il predetto capitano") e, nelle dichiarazioni più recenti, addirittura alla fine di agosto 1992, in particolare il giorno 25 o 26 [...] e poi, quindi, il secondo incontro con lo stesso De Donno, questa volta però insieme a Mori, l' l settembre 1992 [...]. Peraltro, la ricostruzione temporale di Vito Ciancimino risulta smentita persino dal suo difensore di allora, l'Avv. Giorgio Ghiron [...], il quale personalmente vide il Cap. De Donno uscire dalla abitazione romana del Ciancimino tra la fine di maggio e i primi del mese giugno 1992 […], ma, comunque, certamente entro il mese di giugno 1992, fatto di cui si è detto certo perché, successivamente, prima di allontanarsi da Roma per le vacanze, come di consueto, intorno al 20 luglio 1992, aveva incontrato Vito Ciancimino [...], e gli aveva chiesto chiarimenti su quella precedente visita del Cap. De Donno, ricavando, inoltre, in quell'occasione, dalla risposta datagli, l'impressione che Vito Ciancimino avesse già incontrato anche il Col. Mori [...]. E, seppure si tratta di un elemento di prova utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno [...], v'è da rilevare che dalla testimonianza resa dal figlio Giovanni Ciancimino in data 20 febbraio 2011 dinanzi al Tribunale di Palermo Sezione Quarta Penale, si ricava che Vito Ciancimino ebbe a parlare col detto figlio di incontri con importanti personaggi altolocati che lo avevano incaricato di contattare l'“altra sponda”, con ciò riferendosi ai mafiosi, dopo circa venti o venticinque giorni dalla strage di Capaci e, comunque, sicuramente prima della strage di via D'Amelio. […] Ora, riguardo a tale testimonianza, va detto, oltre che per Giovanni Ciancimino non valgono le criticità che hanno già condotto sopra a disattendere totalmente le dichiarazioni del fratello Massimo (anche perché Giovanni Ciancimino, così come tutti gli altri familiari, si è sempre dissociato dalle iniziative del fratello Massimo e non ha mai fatto nulla per supportarne le propalazioni, tanto che anche nel presente processo, potendo farlo a differenza che nel processo Mori-Obinu, si è avvalso della facoltà di non rispondere), che non può essere dubbio che, ancorché a Giovanni Ciancimino non ne siano stati fatti i nomi, gli "importanti personaggi altolocati" fossero i Carabinieri che si erano presentati a Vito Ciancimino anche facendogli credere di operare per conto delle Istituzioni politiche, così come si ricava sia dalle ragioni degli incontri riferite al figlio da Vito Ciancimino perfettamente coincidenti con la ricostruzione emersa aliunde, sia dalle parallele dichiarazioni dell'altro figlio di Vito Ciancimino, Roberto, che, sentito, invece, nel corso di questo dibattimento, pur non potendo collocare nel tempo quegli incontri perché egli ne ebbe conoscenza soltanto successivamente alla strage di via D'Amelio, ha, però, riferito che il padre gli fece in proposito i nomi del Col. Mori e del Cap. De Donno [...]. Sotto il profilo contenutistico, basti, invece, evidenziare che Vito Ciancimino ha ripetutamente sottolineato la risposta negativa - e persino sdegnosa - del suo interlocutore (il Dott. Cinà) che aveva sempre rifiutato di aprire alcun dialogo con i Carabinieri invitando il Ciancimino medesimo, semmai, a utilizzare quel contatto con i Carabinieri per risolvere i suoi problemi giudiziari personali; e, tuttavia, poi, in un passo delle sue dichiarazioni, forse inconsapevolmente (o forse no, tenuto conto della diabolicità e deI sarcasmo del personaggio che emerge persino dalle dichiarazioni dei suoi stessi familiari), ha fatto cenno, nelle dichiarazioni più vicine ai fatti del 17 marzo 1993, alla volontà ad un certo momento manifestata dai vertici mafiosi attraverso il Dott. Cinà di accettare la trattativa con i Carabinieri attraverso il Ciancimino, cui, quindi, conferirono espressa delega in tal senso (v. dich. citate: " .... Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare"), ribadendo, peraltro, poi successivamente, nelle dichiarazioni più recenti degli anni successivi, ancora di avere ricevuto, sì, quella "delega", ma aggiungendo anche che tale "delega" prima concerneva il Cap. De Donno e poi era stata estesa più in generale ai Carabinieri ("Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare oltre al Capitano poi pure carabinieri ... ), così confermando indirettamente che i vertici mafiosi erano stati informati sin dai primi contatti con il solo De Donno e li avevano autorizzati se è vero che avevano a tal fine già "delegato" Vito Ciancimino, per poi, successivamente, estendere quella delega ai Carabinieri (più in generale) evidentemente quando era subentrato anche il Col. Mori. Una chiara conferma di tale conclusione, peraltro, si ricava dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè di cui si dirà più avanti nel Capitolo 9. D'altra parte, la negazione di una "trattativa" concretizzatasi per suo tramite tra i Carabinieri e i vertici mafiosi che appare trasparire in più passi degli scritti di Vito Ciancimino è contraddetta palesemente da altri scritti, quale, ad esempio, quello da lui manoscritto nel quale commenta che il noto Salvatore Cancemi, ove, come da questi asserito dopo avere iniziato la collaborazione con la Giustizia, avesse fatto parte dell'organismo di vertice di "cosa nostra", avrebbe dovuto sapere della "trattativa" da questa portata avanti (v. foglio manoscritto nel quale si legge: "Se Cangemi facesse parte della Cupola doveva sapere della trattativa condotta da con la Cupola (come membro autorevole della Cupola) d'accordo coi Carabinieri''). V'è, poi, ad ulteriore riprova di quanto appena osservato, anche quel foglio manoscritto nella cui parte iniziale Vito Ciancimino fa cenno, anche in questo caso senza alcuna vera spiegazione, ad un uomo politico ed a ciò che aveva detto a Mori e De Donno, appunto, durante la "trattativa" (v. manoscritto nel quale si legge "Mafioso secondo Marchese 18-11-1992. Se avessi fatto parte di una associazione mafiosa non avrei potuto ipotizzare quella collaborazione fatta coi carabinieri (nome uomo politico PAROLA INCOMPRENSIBILE) perché sarei stato costretto a dire il nome. come ho detto durante la trattativa sia al Col. Mori che al Cap. De Donno"). Traspare, in conclusione, una chiara reticenza di Vito Ciancimino che, al di là di alcuni passaggi certi (quali, ad esempio, quelli dei ripetuti incontri con Mori e De Donno per la finalità di instaurare un contatto con i vertici mafiosi e quello conseguente dell'interlocuzione con Cinà di cui si dirà meglio più avanti esaminando anche altre risultanze) non consente di ricostruire adeguatamente, né sotto il profilo dei tempi, né sotto il profilo del contenuto, quei contatti che, comunque, tanto Mori e De Donno nelle loro prime esternazioni, quanto lo stesso Vito Ciancimino, concordemente ed esplicitamente hanno ricondotto in modo esplicito ad una "trattativa". Per meglio ricostruire tale "trattativa", pertanto, sarà necessario ricorrere ad altre risultanze, relative, da un lato, all'operato in quella fase di Subranni, Mori e De Donno e, dall'altro, all'operato dei vertici mafiosi dell'epoca, di cui si darà conto nei capitoli successivi.

Stato-mafia, Giovanni Ciancimino: ''Mio padre contattato da personaggi altolocati per trattare con l'altra sponda''. Aaron Pettinari su Antimafia duemila il 15 Ottobre 2019. Il fratello di Massimo sentito al processo d'Appello. In aula anche la deposizione dell'ex Dap Calabria. "Dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d'Amelio incontrai mio padre (Vito Ciancimino, ndr) che mi disse: 'Sono stato contattato da personaggi altolocati per trattare con l'altra sponda per porre fine a questa mattanza...'". A parlare non è Massimo Ciancimino ma il fratello Giovanni, chiamato a deporre dalla Corte d'Assise d'Appello di Palermo dopo che in primo grado si era avvalso della facoltà di non rispondere perché all'epoca proprio Massimo era imputato nel processo, oltre che per la calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, per associazione mafiosa. Già sentito in altre sedi (processo Mori-Obinu nel 2009 e al Borsellino quater nel 2014), Ciancimino ha riferito delle interlocuzioni avute con il padre nel 1992. La prima occasione fu quando andò a trovare a Roma il padre, dopo la morte del giudice Falcone: "Quel giorno era insolitamente gentile e già questa cosa mi preoccupò, non ero abituato a queste forme. Io ero molto turbato, Falcone era stato appena ucciso e io lo conoscevo. Ad un certo punto mio padre mi disse “questa mattanza deve finire. Sono stato contattato da personaggi altolocati per trattare con l'altra sponda per porre fine a questa mattanza”, facendomi capire che ne avrebbe tratto dei benefici. Io rimasi interdetto. Ci fu una litigata tremenda. A Rotello gli anni prima mi diceva che lui non c'entrava nulla con quell'altra sponda (con la mafia, ndr), “Io sono il capro espiatorio, la vittima sacrificale, l'agnello”, mi diceva. Io capii subito che questa cosa sarebbe stata foriera di guai inimmaginabili. Lui se la prese con me dicendo che volevo che si faceva dieci anni di galera e io risposi che non ero io il suo interlocutore e me ne andai". Il teste non ha mai saputo chi fossero quei "soggetti altolocati" ma, così come aveva fatto al processo Mori-Obinu, ha detto di non ritenere che questi potessero essere degli ufficiali dei Carabinieri: "Mio padre riceveva ministri, Presidenti di Regione, ogni tipo di persone, non credo che poteva riferirsi ad un Colonnello o ad un capitano dei carabinieri, con tutto rispetto per il loro ruolo. Era una cosa scellerata quella che mi disse mio padre a proposito dei personaggi altolocati. La considerai tale e non ne parlai mai con nessuno, anche dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio". Eppure dell'incontro con il capitano De Donno ed un colonnello gli parlò il fratello Massimo Ciancimino. Rispondendo alle domande del Presidente della Corte Angelo Pellino Ciancimino, avvocato, ha poi riferito del secondo incontro con il padre, avvenuto però dopo l'omicidio di Paolo Borsellino, a Palermo. "Stavamo andando verso il Monte Pellegrino - ha ricordato - Mio padre esordì con una frase odiosissima, “tu che sei avvocato”, dall'alto della sua supponenza. Mi chiese cosa fosse la revisione del processo - ricorda Giovanni Ciancimino -. Glielo spiegai e poi lui se ne uscì con quella frase da brividi, "allora è possibile anche la revisione del Maxi processo?". Io mi sentii preso dai turchi, si parlava del nulla giuridico. Mi chiese anche alcuni dettagli della Legge Rognoni-La Torre (la legge che introdusse per la prima volta il reato di associazione mafiosa, il 416 bis ndr)". Ed è in quell'occasione che, a detta del teste, don Vito avrebbe tirato fuori dalla tasca, un foglietto arrotolato: "Non me lo mostrò ma lo lesse. Lì erano annotate le richieste della trattativa, le richieste dell'altra sponda. Per lui l'altra sponda era la mafia. La chiamava così per fare una differenziazione con lui, sapevo benissimo a cosa si riferiva e la interpretavo come una sua presa di distanza. E quei due argomenti, la revisione del Maxi processo e la legge Rognoni-La Torre, erano gli elementi della trattativa". Più volte durante l'esame Giovanni Ciancimino ha fatto riferimento alle difficoltà di dialogo con il genitore che non era mai stato affettuoso e che riteneva sempre di avere ragione. Il figlio di don Vito ha anche ricordato che il padre scriveva molto e faceva fotocopie (dati che confermano anche i racconti di Massimo Ciancimino). I rapporti si ruppero dopo un terzo incontro quando chiese al figlio di fargli ottenere un passaporto. "Era una cosa assurda. Mi disse di chiedere all'avvocato Campo di fare la richiesta. Mi disse questa cosa bislacca, 'mi hanno fatto capire di chiedere il passaporto'. Ma fatto capire chi? Questa cosa mi lasciò anche stranito perché lui non era uno che scappava. Poi seppi che lui presentò ugualmente l'istanza. Gli dissi che era una pazzia, una persona condannata... il dato di fatto fu che fu arrestato e portato a Rebibbia per scontare la condanna a dieci anni. Contavo solo i giorni quando sarebbe accaduto". Prima del figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo a salire sul pretorio è stato l'ex funzionario del Dap Andrea Calabria, oggi presidente titolare della Corte d'Assise d'Appello di Roma. Anche lui è stato richiamato dalla Corte dopo la deposizione in primo grado.

L'avvicendamento ai vertici del Dap. Nella sua testimonianza Calabria ha ricordato come l'avvicendamento ai vertici del Dipartimento amministrazione penitenziaria, con la sostituzione del duo Amato-Fazioli con Capriotti e Di Maggio, fu abbastanza improvviso. "Non avemmo sentori ed avvisaglie di quell'avvicendamento, anche se poteva essere nelle cose, visto che Amato era tanti anni che era presente al Dap. Va anche detto, però, che a tutti la maniera in cui avvenne apparve brusca perché la gestione negli anni precedenti era stata positiva con Amato e Fazioli che erano riusciti ad attraversare momenti difficili come il suicidio Sindona, l'evasione da Rebibbia con alcuni elicotteri, o la rivolta di Porto Azzurro. La loro fu una gestione ottimale". Parlando delle nomine di Capriotti e Di Maggio il teste ha rappresentato come "le voci erano che quel binomio fosse riportato al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro". Mentre la scelta di Capriotti appariva più appropriata a stupire in particolare fu quella di Francesco Di Maggio, "che dovette passare per una nomina alla Presidenza del consiglio". "Noi - ha ricordato Calabria - ci aspettavamo che Capriotti nominasse come vice Giuseppe Falcone, che venne anche a vedere gli uffici. Poi non sapemmo più nulla ed arrivò Di Maggio". Parlando dei rapporti con quest'ultimo il teste ha raccontato che "non era facile rapportarti con lui. Era molto accentratore e non si fidava mai di nessuno. Interveniva anche sulle cose dell'ufficio, anche se noi non sapevamo quale fosse l'estensione dei poteri del dottor Di Maggio. Io non ho ricordo di aver mai visto una delega di Capriotti in favore di Di Maggio ma è chiaro che se lui interveniva in un certo modo era perché poteva farlo". Alla domanda del Presidente sui contrasti emersi tra l'ex vice capo del Dap e l'ufficio Calabria ha raccontato alcuni episodi: "Non so metterle sul piano cronologico ma ricordo di una volta che vi fu una richiesta per una gara di pesca a Gorgona, per ergastolani e detenuti, a cui abbiamo dato un parere negativo. Di Maggio avocò la pratica per poi dare un parere favorevole. Oppure in un'altra occasione che riguardava direttamente Totò Riina".

Riina e il telefonino a Rebibbia. L'episodio riguardante il boss corleonese sarebbe avvenuto qualche mese dopo il suo arresto, quando questi era detenuto a Roma, nel carcere di Rebibbia. "Era giunta una segnalazione riservata del ministro dell'Interno con una nota del Capo della Polizia in cui si ipotizzava che Riina, con l'ausilio di alcuni agenti penitenziari, avesse a disposizione un telefonino per parlare con l'esterno. Di Maggio non c'era e quella pratica era giunta in segreteria da qualche giorno. Io ed il consigliere Bucalo, che era il mio superiore nell'ufficio, decidemmo di trasferire Riina al Carcere di Firenze Sollicciano per procedere con gli accertamenti. Poi Di Maggio chiamò Bucalo (ex dirigente dell'ufficio, ndr) per revocare il provvedimento e Riina rimase a Rebibbia. Magari aveva ricevuto delle informazioni rassicuranti sul punto ma questo è quello che accadde". Che non vi fossero buoni rapporti tra Di Maggio e Calabria era emerso anche da alcuni documenti che Salvatore Tito Di Maggio, fratello dell’ex vicedirettore del Dap (morto nel ‘96), aveva già consegnato durante il processo. Rispetto alle tre pagine scritte su carta intestata del Ministero di Grazia e Giustizia, sotto la dicitura “Riservata-personale” (possibilmente scritta agli inizi del ’94), traspare un vero e proprio sfogo che Di Maggio aveva indirizzato a Capriotti. “Debbo constatare - scriveva l’ex vice del Dap - che da parte tua resistono nei miei confronti talune riserve che, francamente, mi è difficile comprendere. La vicenda Calabria è, in questo senso, significativa. Te ne ho scritto e parlato. Attendevo che tu mi facessi conoscere il tuo punto di vista, apparendo del tutto naturale che la questione in sé delicata, venisse trattata dal Direttore generale insieme al suo più stretto collaboratore (lo stesso Di Maggio, ndr). Non solo così non è stato, ma Calabria è stato ricevuto, per tuo tramite, dal Ministro, realizzandosi così quell'obiettiva delegittimazione che, insieme, abbiamo rimproverato proprio al Ministro in casi analoghi”. Calabria, rivolgendosi alla Corte, ha spiegato "di non aver mai parlato male esternamente di Di Maggio". "Le criticità erano state discusse casomai dentro l'ufficio ma io dal ministro andai per i saluti".

L'appunto del 26 giugno. Durante l'esame Calabria ha anche riferito in merito ad alcuni documenti che sono stati depositati agli atti del processo. Tra questi anche il famoso documento del 26 giugno ‘93, a firma Capriotti inviato al “signor capo di gabinetto dell’onorevole ministro” per spingere affinché sia dato “un segnale positivo di distensione delle carceri”. “I decreti relativi ai soggetti di media pericolosità, allo stato 373 - suggeriva il Dap -, potrebbero alla scadenza non essere rinnovati”. Sempre sul documento si legge una nota del capo di gabinetto: “Conferito col ministro, in attesa di ulteriore appunto già richiesto a Di Maggio (vice di Capriotti, ndr)”. "Non posso dire se effettivamente poi vi fu l'approfondimento con Di Maggio. Che io ricordi nel 26 giugno 1993 noi chiedevamo un orientamento. Le nostre erano valutazioni tecniche, non politiche. La bozza la realizzammo noi e si esprimeva quella possibilità di non rinnovo dei decreti perché vi erano state già delle sentenze dei Tribunali di Sorveglianza ed anche la Corte Costituzionale e c'erano delle problematiche. La norma inizialmente era emergenziale ed erano in tanti, al tempo, ad essere sottoposti a regime. Quella frase sul segnale di distensione noi la riferivamo anche al mondo penitenziario e non all'ordine pubblico esterno". Eppure va ricordato che qualche mese prima non erano mancate tensioni interne ed esterne dalle carceri. Basti pensare ad alcune lettere pervenute a vari uffici, datate 17 febbraio 1993. Nella prima, dei parenti dei detenuti del carcere di Poggio Reale, si chiedeva “che tutto torni alla normalità” indicando che “la vera Bosnia è qua”. Poi vi è la famosa lettera anonima dei sedicenti familiari dei detenuti indirizzata, tra gli altri, al Presidente Scalfaro e al Papa. Una missiva in cui si chiedeva anche di togliere proprio Nicolò Amato dal Dap.

Cosa che poi avvenne. Nonostante la nota del giugno 1993, in quell'estate, l'allora ministro Conso decise di rinnovare i 41 bis in scadenza. Cosa che diversamente fece a novembre. Rispetto a quella nuova ondata di decreti che andavano a scadenza il teste ha spiegato che "nessuno ci disse che il ministro sarebbe stato orientato a non rinnovarli. Aliquò ha detto di averlo saputo da Di Maggio? A noi Di Maggio non disse nulla". Il processo è stato rinviato al prossimo 4 novembre quando all'aula bunker dell'Ucciardone saranno sentiti Gian Carlo Caselli e Luciano Violante.

Gli incontri al Ministero della Giustizia. La Repubblica il 29 agosto 2019. E' opportuno, innanzitutto, dare conto delle risultanze riguardo all'approccio fatto da De Donno e Mori con la Dott.ssa Liliano Ferraro, già vice direttore generale e poi, dall'agosto 1992, direttore generale degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia, iniziando dalla testimonianza che quest'ultima ha reso in questo processo. Deve premettersi, però, che qui di seguito si darà conto di tutti i temi affrontati da Liliana Ferraro nel1a sua deposizione testimoniale [...], perché sin d'ora utili per formulare alcune considerazioni di carattere generale sul1e dichiarazioni nel tempo rese dalla Ferraro che non possono non suscitare, come si vedrà, forti perplessità sul1a condotta dal1a stessa tenuta nella col1aborazione richiestale per la ricostruzione processuale degli accadimenti. La teste Liliana Ferraro, esaminata il 16 giugno 2016, in sintesi, ha riferito: [...]

- di non avere avuto significativi rapporti con De Donno che aveva conosciuto in occasione di un viaggio col Dott. Falcone [...], mentre aveva avuto modo di incontrare più spesso il Col. Mori pur non avendo con lo stesso alcuna confidenza ("P.M TARTAGLIA - Sempre con riferimento a quel momento temporale, lei aveva invece rapporti di conoscenza, confidenza o altro con Mario Mori?; DICH. L. FERRARO - Di conoscenza sì, confidenza no [...]'');

- che, dopo la morte del Dott. Falcone, De Donno si recò a trovarla al Ministero informandola che stavano tentando di contattare Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo e chiedendole di informare di ciò il Ministro Martelli, cosa che ella accettò di fare anche se riteneva che il punto di riferimento di quell'iniziativa avrebbe dovuto essere l'A.G. e, specificamente, il Dott. Borsellino ("In quei giorni dopo la morte del Dottor Falcone veniva a trovarmi al Ministero una marea di gente, da persone che venivano dall'estero a persone, collaboratori del Dottor Falcone che magari non avevo neppure mai conosciuto... .. ... Uno di questi incontri... una di queste persone fu il Capitano De Donno che mi venne a salutare e che, come ho ripetuto in alcune altre occasioni, mi colpì perché piangeva, era molto commosso. Io avevo verificato in passato, l'ho ricordato prima, che era molto in confidenza con il Dottor Falcone, si davano del "tu ", mi disse che erano disperati perché non avevano punti di riferimento, ritenevano di non avere più possibilità di andare avanti, che però avrebbero fatto di tutto per tentare di scoprire gli assassini del Dottor Falcone, che in questa ottica avevano - lui usava il plurale - avuto l'idea di... poiché in passato lui aveva incontrato Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo ... aveva avuto l'idea di cercare di vedere se il padre del Ciancimino, essendo stato condannato, essendo stato ... oramai aut... voleva fare un salto di collaborazione, quindi poteva dare delle notizie a aiutare a trovare gli assassini del Dottor Falcone. Mi chiese in quella circostanza, il tempo è passato, so che molti ci lavorano e ci hanno lavorato sopra ... mi chiese di dirlo al Ministro Martelli. E io dissi che lo avrei sicuramente informato il Ministro Martelli, come era mia abitudine, per tutta quella che era l'attività che io svolgevo, che però questa loro iniziativa, che appartiene ad una iniziativa investigativa chiaramente, però aveva un unico punto di riferimento a mio avviso, che era il punto di riferimento obbligatorio. A parte l'Autorità Giudiziaria ... ma l'Autorità Giudiziaria per me era Paolo Borsellino, che era non solo l'Autorità Giudiziaria ma era diciamo quello che ... era l'erede di Giovanni Falcone, per me era automatico ... ");

- che De Donno parlò al plurale, ma non specificò cosa essi avevano già fatto, ma solo che era loro intenzione raggiungere Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo [...];

- di non ricordare più se De Donno parlò di stragi:

"P.M TARTAGLIA – Questo sul proposito, comunque sull'attività in corso, è molto importante anche che lei ci riferisca quello che le fu detto da De Donno sulla finalità di questa iniziativa .... .. ... La domanda specifica è questa, se De Donno le disse che questa iniziativa di contatto con i Ciancimino avesse dei collegamenti con la questione delle stragi;

DICH. L. FERRARO - Guardi, ci ho pensato tantissimo, questa cosa delle stragi nasce anche da una... credo di avere anche una spiegazione del perché io ho parlato di strage, quando ho riferito questa cosa … .... ....

DICH. L. FERRARO - Io non lo ricordo con precisione che cosa ... chiedo scusa, ma non ricordo con precisione se mi parlò di stragi e di omicidi … sicuramente ... credo che c'era stato un omicidio ... a parte l'omicidio Lima c'era stato l'omicidio ad Agrigento, un tenente o un carabiniere... ... . ... Parlava di varie cose, può darsi che abbia usato "stragi" ... non lo so con certezza;

P.M TARTAGLIA - .... io le chiedo di ricordare se lei ricorda che De Donno quando le fece questo discorso parlò di esigenza connessa alla strage o allo stragismo o ad altra espressione che eventualmente lei ricordi;

DICH. L. FERRARO – Non lo ricordo con precisione; P.M TARTAGLIA - E allora io su questo punto … faccio riferimento, Presidente e signori difensori, al verbale del 17 novembre del 2009 pomeridiano, si tratta in particolare del confronto tra la Dottoressa Liliana Ferraro e l'Onorevole Claudio Martelli, è la pagina 02 del verbale ... ... . .... Per quel che riguarda il contenuto del colloquio avuto col De Donno la Dottoressa Ferraro dichiara: «È possibile che abbia utilizzato in occasione delle conversazioni telefoniche da ultimo avute col Dottor Martelli il termine "fermare lo stragismo" per indicare le finalità che il R.O.S. intendeva ottenere con la collaborazione di Ciancimino, ma intendendo comunque riferirsi all'escalation di violenza, di cui peraltro parlava sempre il Dottor Falcone dopo l'omicidio Lima, che aveva portato proprio all'omicidio dell'Onorevole Lima ed alla strage di Capaci»;

DICH. L. FERRARO - Confermo nel senso che … esattamente quelle parole";

- che in tempi più recenti, nel 2009, Martelli le aveva telefonato per avere conferma del suo ricordo e lei lo aveva, però, corretto quanto alla interlocutrice che era stata, appunto, lei e non già la Dott.ssa Pomodoro […], parlando, poi, forse, di stragismo [...];

- di ricordare, comunque, che De Donno disse che intendevano acquisire elementi di conoscenza da Ciancimino [...] e che ella non chiese spiegazioni, limitandosi ad invitarlo a rivolgersi al Dott. Borsellino [...];

- che, per quel che ricorda, i Carabinieri non avevano ancora parlato con il Dott. Borsellino [...];

- che disse anche a De Donno che riteneva non necessario avvertire anche il Ministro, cosa che, comunque, avrebbe fatto [...];

- che, in sostanza, i Carabinieri volevano un sostegno politico stante la caratura del personaggio Ciancimino […], pur non avendo approfondito tale aspetto [...];

- che pur ritenendo la cosa di nessuna importanza, aveva ritenuto doveroso informare il Ministro per fargli sapere che i Carabinieri stavano facendo di tutto per scoprire gli assassini del Dott. Falcone [...]; [...]

- che è possibile che avesse parlato a Martelli del sostegno politico richiesto dai Carabinieri [...];

- di ritenere di avere, allora, riferito dettagliatamente a Martelli il colloquio con De Donno [...];

- di non ricordare quando avvenne il colloquio con De Donno, ma che dalle ricostruzioni successivamente operate questo avvenne nei giorni tra il trigesimo della strage di Capaci ed il giorno 28 giugno in cui, secondo quanto risultante da una agenda del Dott. Borsellino, aveva incontrato quest'ultimo [...];

- che De Donno non fece altri nomi, ma che ella pensò ovviamente al ROS [...];

- di ricordare di avere parlato con Martelli in quella stessa settimana probabilmente prima di parlare con il Dott. Borsellino[...];

- che il Ministro Martelli si irritò molto:

"P.M TARTAGLIA - Ricorda quale fu la reazione del Ministro Martelli quando lei riferì questa circostanza?;

DICH. L. FERRARO - Si irritò molto... ... . .. Perché lui diceva che questi si intromettevano in indagini che avrebbe dovuto fare la D.I.A. ", invitandola a parlrne con Borsellino "«Fai benissimo a parlare con Borsellino»";

- che l'incontro del 28 giugno 1992 col Dott. Borsellino fu concordato perché anche il predetto aveva necessità di parlarle [...] e, comunque, ella non aveva ravvisato particolare urgenza di riferire quanto appreso da De Donno [...];

- che l'incontro avvenne in una saletta riservata della Polizia a Fiumicino […] ed ella riferì quanto detto da De Donno ("lo ho riferito al Dottor Paolo Borsellino esattamente quello che abbiamo detto qui, quello che all'epoca ricordavo, quello che mi aveva detto il Capitano De Donno... ... . ..io ho riferito tutto al Dottor Paolo Borsellino"), anche della richiesta di sostegno politico, e Borsellino rispose che ci avrebbe pensato lui:

"P.M TARTAGLIA - Riferì anche della richiesta di sostegno politico?;

DICH. L. FERRARO - Assolutamente sì. E il Dottor Paolo Borsellino mi rispose ... questo l'ho ricordato sempre e mi colpì ... «Ci penso io»";

- che il Dott. Borsellino non disse né le fece capire se fosse stato già informato di quei fatti [...];

- che il Dott. Borsellino non le parlò di incontri avuti di recente con De Donno e Mori [...], ma le chiese di ricostruire la vicenda dell'invio al Ministero, da parte della Procura di Palermo, del rapporto "mafia-appalti" ("Lui volle che io gli raccontassi nuovamente tutto il percorso che lui aveva conosciuto attraverso quello che gli aveva detto Giovanni Falcone, dell'arrivo del rapporto al Ministero di Grazia e Giustizia. Lui sapeva che io conoscevo questo percorso perché glielo aveva detto il Dottor Falcone ... cioè questo rapporto era stato inviato ... era arrivato al Ministro Martelli e il Dottor Falcone era appena partito per Palermo, dalla segreteria del Ministro avevano avvertito il Dottor Falcone che c'era questo faldone che ... ") e si parlò anche di colloqui investigativi in relazione a Mutolo:

"P.M TARTAGLIA - Si parlò anche di colloqui investigativi?;

DICH. L. FERRARO - Col Dottor Paolo Borsellino abbiamo parlato ... gli ho riferito della visita di De Donno, del rapporto mafia - appalti, dei colloqui investigativi, ma con riferimento a Mutolo, perché c'era il problema di andare a sentire Mutolo. Mutolo voleva essere sentito soltanto dal Dottor Paolo Borsellino e il Procuratore della Repubblica di Palermo aveva invece delegato prima altro Magistrato da solo, la richiesta del Dottor Paolo Borsellino, ed era la ragione per la quale poi mi aveva chiamata, quindi mi ha spiegato che mi sollecitava a scendere a Palermo per questa ragione, cioè per andare a parlare anch'io con il Procuratore della Repubblica, che era il Dottor ... ... .... Giammanco ... che era il Dottor Giammanco, per dirgli che era opportuno che il colloquio investigativo lo facesse il Dottor Paolo Borsellino, in quanto il primo contatto con Mutolo lo aveva avuto il Dottor Falcone e aveva garantito il Dottor Falcone a Mutolo che sarebbe stato affidato a persone di fiducia";

- di essere abbastanza sicura di avere detto anche al Dott. Borsellino di avere parlato col Ministro Martelli ("lo sono abbastanza sicura di avere detto che avevo parlato col Ministro, non lo so se ho detto a Paolo Borsellino anche della reazione del Ministro Martelli. Questo non lo ricordo");

- che quell'anno, nell'autunno, ebbe altri incontri con Mori e De Donno [...], il ricordo di uno dei quali le fu sollecitato ancora da Martelli [...] e che potrebbe essere certamente quello annotato nell'agenda del Gen. Mori alla data del 21 ottobre 1992 [...] ed anche in questo caso sicuramente sollecitato dallo stesso Mori:

"P.M TARTAGLIA - Lei è in grado di ricordare innanzitutto se questo incontro fu cercato da Mori, fu cercato da altri o fu cercato da lei?;

DICH. L. FERRARO - Da me sicuramente no. Sicuramente fu cercato o da Mori o ... cioè fu cercato da loro";

- che a tale incontro era probabilmente presente anche De Donno e si parlò della richiesta di Vito Ciancimino per il rilascio del passaporto [...];

- che anche tale incontro, come il precedente, avvenne nel suo ufficio[...];

- di non ricordare in dettaglio tale richiesta, ma di avere, comunque, invitato i Carabinieri a rivolgersi alla A.G. [...];

- di non ricordare se chiese ai Carabinieri perché si rivolgessero a lei [...];

- che anche in questo caso percepì la singolarità di quella richiesta, tanto da riferirla al Ministro, anche se probabilmente i Carabinieri non la informarono che a carico di Ciancimino vi era un processo pendente [...];

- di non avere saputo nulla di quanto era avvenuto dopo l'incontro di De Donno del giugno precedente riguardo a Ciancimino, tanto che poi si stupì della richiesta di colloquio investigativo che il ROS avanzò pochi giorni dopo l'arresto di Riina (''Non ho mai saputo niente, tant'è vero che ho anche dichiarato che mi stupii anche quando dopo la cattura di Riina mi arrivò una richiesta dei R.O.S., sei giorni dopo o sette giorni dopo, di un colloquio investigativo e io mi domandai per quale ragione facessero questa cosa");

- che con Mori e De Donno si parò anche di colloqui investigativi per il fatto che essi sollecitavano che questi potessero essere estesi anche ad altri non appartenenti ai reparti specializzati del ROS, dello SCO e del GICO [...];[...]

- che ella era titolare della delega del Ministro per i colloqui investigativi ("Ebbi l'incarico del Ministro di dare i colloqui investigativi, la delega del Ministro per la concessione del colloquio investigativo") e, per tale ragione, ricevette il 20 gennaio 1993 la richiesta del ROS, a firma Subranni, di un colloquio investigativo con Vito Ciancimino [...];

- che rimase stupita da tale richiesta ("Ho già detto che mi sono stupita molto … ... .... ho detto che mi stupì moltissimo .... ... .... Perché era otto giorni dopo la cattura... ... . .. cinque giorni dopo la cattura di Riina, l'ho vissuta come la conferma che non avevano concluso niente ... ... .... Parliamo di Ciancimino, Pubblico Ministero, non parliamo della cattura di Riina. La cattura di Riina era avvenuta per quello che io avevo appreso attraverso un'operazione fatta dai Carabinieri con Di Caprio e tutto il gruppo che aveva lavorato giù a Palermo. Questo io ho saputo");

- che non era infrequente che le questioni carcerane passassero anche dall'ufficio deli Affari Penali e che, per tale ragione, espresse, nella qualità di Direttore del detto Ufficio, il 12 agosto 1992, un parere contrario alla proposta del Direttore del DAP Amato di applicazione generalizzata in alcune carceri del regime del 41 bis comma l [...];

- che probabilmente apprese già all'epoca della mancata proroga dei provvedimenti di 41 bis del novembre 1993, per quel che ricorda, attribuita all'intendimento di allentare la tensione carceraria, cui ella manifestò contrarietà [...];

- di avere conosciuto il dotto Di Maggio dopo la morte del Dott. Falcone, anche se questi, in precedenza, gli aveva prospettato di chiamarlo a collaborare con lui alla Direzione Affari Penali del Ministero, cosa che l'aveva stupita essendo a conoscenza dei trascorsi rapporti non buoni tra gli stessi [...];

- che dopo la morte del Dott. Falcone, quindi, Di Maggio si recò a trovarla al Ministero per proporsi ancora agli Affari Penali [...];

- che dopo molto tempo, nel 1993, Di Maggio tornò, dicendole, però, che si erano create le condizioni per la sua destinazione al DAP [...];

- che, per quel che ricorda, Di Maggio disse che aveva parlato col Ministro Conso [...]e che, però, anche il Presidente Scalfaro era informato [...];

- che in quel primo colloquio Di Maggio si era riferito genericamente al settore carcerario senza riferimenti al ruolo di direttore o vice direttore del DAP di cui parlò successivamente [...]; [...]

- che Di Maggio le chiese conferma della sua mancanza di titoli, o per meglio dire di anzianità, per ricoprire il ruolo di vice direttore del DAP e le chiese come ovviare [...];

- che Di Maggio le chiese di aiutarlo a preparare una bozza del provvedimento di nomina da sottoporre, poi, al Consiglio dei Ministri [...];

- che tale bozza fu, quindi, preparata nel suo ufficio con l'aiuto anche del Dott. Loris D'Ambrosio [...];

- che non vi sarebbe stato bisogno di alcunché, invece, se Di Maggio fosse andato alla Direzione degli Affari Penali o all'Ufficio Detenuti [...];

- che D'Ambrosio non le aveva mai esternato le perplessità sul provvedimento di nomina di Di Maggio cui aveva fatto cenno nella intercettazione del colloquio avuto il 25 novembre 2011 con Mancino [...];

- di avere ritenuto che fu Di Maggio a chiedere di andare al DAP poiché non v'era più Falcone agli Affari Penali [...];

- che la predisposizione della bozza del decreto di nomina le fu sollecitata soltanto da Di Maggio come favore personale [...] per il quale ella non informò alcuno [...] anche perché Di Maggio le aveva detto che aveva concordato con Conso quel trasferimento e che il Presidente Scalfaro era informato [...]; [...]

- che dopo la mancata proroga dei 41 bis del novembre 1993 aveva, quindi, chiesto spiegazioni a Di Maggio e questi le aveva detto che gli "avevano preso la mano" [...];

- che Di Maggio non specificò a chi si riferisse, ma aggiunse che erano "uno peggio dell'altro" [...];

- di essere a conoscenza che Di Maggio aveva rapporti con ufficiali già del ROS quali Bonaventura e con lo stesso Mori col quale andava a cena [...]; [...]

- che quando era stata sentita il 25 gennaio 2012 non ricordava nulla della vicenda della nomina di Di Maggio che aveva potuto ricostruire soltanto successivamente quando era divenuta pubblica e, quindi, nota, nel giugno 2012, l'intercettazione della conversazione D'Ambrosio-Mancino [...];

- di non sapere spiegare perché, dopo avere elaborato il ricordo, non si fosse spontaneamente ripresentata alla A.G. per rettificare le precedenti dichiarazioni [...];

- che quando arrivò al Ministero il plico contenente il rapporto "mafia-appalti" trasmesso dalla Procura di Palermo il Dott. Falcone la pregò di esaminarlo per riferirgli [...], ma poi la richiamò dicendole che non era più necessario perché aveva saputo di cosa si trattava e che occorreva, quindi, preparare una lettera del Ministro per restituire il plico alla Procura di Palermo [...];

- di avere riferito dell'incontro con De Donno soltanto nel 2009 perché aveva dimenticato quell'episodio, anche se precedentemente ne aveva parlato anche col Dott. Chelazzi in occasione di una testimonianza pur se in tale occasione ciò non era stato verbalizzato [...];

- che, infatti, quando il 10 maggio 2002 il Dott. Chelazzi le aveva fatto domande sulla questione carceraria, poi, il verbale era stato redatto soltanto in modo parziale e, quindi, era stato interrotto per un impegno dello stesso Dott. Chelazzi che si era, quindi, ripromesso di richiamarla un'altra volta [...];

- di non ricordare se riferì al Dott. Chelazzi anche della richiesta del passaporto per Ciancimino [...];

- che il verbale riassuntivo fu fatto subito senza alcun cenno alla vicenda De Donno per mancanza di tempo [...];

- di non sapere spiegare come mai non ebbe subito a ricordarsi della vicenda De Donno-Mori quando, durante la registrazione, il Dott. Chelazzi le fece una domanda specifica proprio sulle frequentazioni ministeriali di Mori [...];

- che nell 'incontro del 28 giugno 1992 il Dott. Borsellino le aveva fatto molte domande sulla vicenda dell'arrivo del plico con il rapporto "mafia-appalti" al Ministero [...];

- che nella stessa occasione aveva telefonato al Procuratore Giammanco per avvertirlo che voleva incontrarlo per parlargli dei colloqui investigativi [...];

- che il giorno dopo rappresentò a Giammanco l'opportunità che fosse delegato al Dott. Borsellino l'interrogatorio di Mutolo, ma Giammanco si mostrò in disaccordo, anche se, poi, aveva accettato di delegare Borsellino insieme, al Dott. Aliquò [...];

- che la notte successiva alla strage di via D'Amelio il Direttore del DAP Amato le disse che non condivideva il provvedimento di trasferimento dei detenuti nelle carceri e che non spettava a lui predisporre il decreto, tanto che dovette ella predisporre quel decreto e farlo firmare al Ministro all'aeroporto di Palermo [...];

- di avere percepito una modifica della linea tracciata dal Dott. Falcone già subito all'arrivo del Ministro Conso [...];

- che la decisione del trasferimento dei detenuti nella notte successiva alla strage di via D'Amelio fu presa con l'accordo di tutti i Ministri presenti [...];

- che soltanto Nicolò Amato espresse contrarietà [...] anche parlando personalmente col Ministro Martelli [...]; [...]

- che il tentativo di agganciare Vito Ciancimino era funzionale alla cattura degli assassini del Dott. Falcone [...];

- di non ricordare la data in cui avvenne l'incontro con i Carabinieri per la questione del passaporto di Ciancimino[...];

- che Mori in sostanza le chiese quale fosse la procedura attraverso la quale Ciancimino avrebbe potuto ottenere il passaporto [...];

- che anche se giudicò il colloquio con Mori relativo al passaporto di Ciancimino di nessuna rilevanza, ritenne, comunque, di riferirlo a Martelli perché la questione riguardava Palermo [...]; [...]

LA VALUTAZIONE DELLA TESTIMONIANZA DI LILIANA FERRARO. Prima di esaminare le risultanze delle dichiarazioni rese da Liliana Ferraro nella parte qui rilevante relativa ai due incontri del giugno e dell'autunno 1992 che ella ebbe con De Donno e Mori, rinviando, invece, al prosieguo l'esame di altre controverse questioni pur rilevanti ai fini della complessiva ricostruzione degli accadimenti, succedutisi tra il 1992 e il 1993, che è necessaria in relazione alla specifica formulazione dell'imputazione di cui al capo A) della rubrica di cui in epigrafe (tra le quali anche quello della nomina del Dott. Di Maggio quale vice direttore del D.A.P. di cui pure si tratterà approfonditamente), è opportuno formulare sin d'ora alcune considerazioni di carattere generale sulla predetta deposizione della teste Ferraro, che, per certi versi, è apparsa sorprendente soprattutto per il rapporto "storico" dalla stessa intrattenuto con il Dott. Falcone e che avrebbe dovuto portarla a fornire, tempestivamente e in modo assolutamente spontaneo, informazioni, che, quale che possa essere la loro considerazione, comunque, nell'intento degli investigatori che se ne occupavano (o le ricercavano), erano dirette a meglio ricostruire quei contesto che ha preceduto e seguito le stragi di Capaci e di via D'Amelio, oltre che le successive stragi dei 1993. Ed invece è emerso dalle contestazioni effettuate dal P.M. all'udienza del 16 giugno 2016 di cui prima si è dato conto che la Dott.ssa Ferraro soltanto il 14 novembre 2009, per la prima volta e soltanto dopo che ne aveva riferito Claudio Martelli (v. testimonianza di questi prima pure riportata), ritenne di dovere riferire gli incontri avuti con i Carabinieri del ROS nel corso dei quali si parlò di contatti con Vito Ciancimino. Né può sostenersi che quegli episodi fossero per lei privi di rilevanza e che, quindi, li avesse totalmente dimenticati sino ad allora (e, d'altra parte, che, invece, fossero ben presenti nella sua mente è dimostrato anche dal fatto che, sebbene colta alla sprovvista in strada con una telefonata, non ebbe alcuna esitazione a ricordarli, correggendo anzi il diverso ricordo di Martelli, quando questi la chiamò per avere, appunto conferma del suo ricordo: v. testimonianza Martelli sul punto già prima riportata), perché la stessa Ferraro ha riferito che le sovvennero già spontaneamente nel 2002 allorché era stata esaminata dal Dott. Chelazzi proprio su vicende evidentemente connesse. Ed occorre dire che la ricostruzione operata dalla Ferraro quando era nota soltanto la verbalizzazione riassuntiva di tale atto investigativo compiuto dinanzi al Dott. Chelazzi (secondo la quale ella ebbe, in realtà, a riferire quegli episodi a quest'ultimo ancorché gli stessi non vennero verbalizzati per mancanza di tempo) appare veramente poco credibile: dalla trascrizione della registrazione integrale ora acquisita dal P.M. e, quindi, contestata alla teste nella predetta udienza del 16 giugno 2016, emerge che già nel corso di quell'esame il Dott. Chelazzi ebbe a fare alla Ferraro dirette e specifiche domande, in generale, sulle "frequentazioni ministeriali" di Mori nel 1992 e, più specificamente, sulla visita di Mori in data 21 ottobre 1992 [...], ottenendo, a registratore acceso, una risposta assolutamente evasiva ("«Adesso io non ricordo perché venne, però io conoscevo il Colonnello Mori, tra l'altro avevo la delega per i colloqui investigativi anche, quindi può essere stato per una qualsiasi cosa, ma anche per una chiacchierata»"), così che appare inverosimile che soltanto dopo la conclusione tanto della registrazione quanto della successiva verbalizzazione riassuntiva la Ferraro, come ella ora afferma, si sia ricordata delle dette frequentazioni e le abbia riferite al Dott. Chelazzi. D'altra parte, a riprova di tale inverosimiglianza, v'è la circostanza che il Dott. Chelazzi, il cui scrupolo investigativo aveva pochi pari e che attribuiva a quelle frequentazioni ed ai contatti Mori-Ciancimino particolare importanza nel contesto delle sue indagini, non richiamò più la Ferraro per verbalizzare quelle dichiarazioni, da questa asseritamente rese in modo informale, nei molti mesi che ancora trascorsero prima del suo improvviso decesso e nonostante ancora nei giorni antecedenti a tale infausto evento si stesse occupando a tempo pieno della C.d. "trattativa" e di Mori (v., sul punto, anche le dichiarazioni del teste Alfonso Sabella). Ma ancora più eclatanti appaiono le "dimenticanze" della Ferraro quando venne esaminata dal P.M. il25 gennaio 2012. Anche in questo caso il P.M. ebbe a farle domande dirette e specifiche stavolta sulla nomina di Di Maggio a vice direttore del DAP nonostante non avesse l'anzianità professionale (essendo ancora "magistrato di tribunale") per ricoprire tale ruolo e ciò sulla base di quanto precedentemente riferito da altro teste, il magistrato Calabria, in sede di Commissione Parlamentare Antimafia (di questa vicenda, come anticipato, si parlerà ampiamente nel prosieguo). Ebbene, a fronte di tale richiesta specifica e precisa del P.M. ("Pubblico Ministero: «E questo problema di Di Maggio come venne superato?»"), la Ferraro, che, come ha poi dichiarato, era stata direttamente investita della questione dallo stesso Di Maggio ed aveva avuto un ruolo diretto e di primo piano nella sua risoluzione, addirittura ha riferito di avere appreso di come era stato superato quel problema soltanto leggendo informazioni su internet ("Ferraro: «Con ... ecco, però, ripeto, questo l'ho visto su internet»"), ribadendo di non ricordare altro nonostante le fosse stato poi chiesto se in qualche modo ella era stata coinvolta in quella vicenda ("Pubblico Ministero: «E lei ebbe in quel momento in relazione a quella soluzione di nomina del Dottor Di Maggio … .... ... Venne coinvolto in qualche modo?» Ferraro: «Che io ricordi no. Tra l'altro, ripeto, non ricordavo neppure... non ricordo, ecco, non ricordo neppure ... non ricordavo neppure e non ricordo che c'era questa perdita delle funzioni giudiziarie"). Orbene, anche in questo caso appare assolutamente incredibile che, a fronte di quelle specifiche ed inequivoche sollecitazioni, la Ferraro potesse non ricordare che, invece, come detto, era stata la principale artefice della soluzione trovata, essendo stata direttamente e personalmente investita della questione proprio da Di Maggio, e che addirittura nel suo ufficio era stata predisposta la bozza del decreto poi sottoposto alla approvazione del Consiglio dei Ministri e che, però, poi, si sia ricordata di quanto accaduto soltanto pochi mesi dopo quando era emerso che il fatto era ormai noto per averne parlato Loris D'Ambrosio in una conversazione intercettata ed a quel punto resa pubblica. D'altra parte, è significativo che la Ferraro, magistrato, che pure aveva decisamente negato il proprio coinvolgimento in quella vicenda in una testimonianza resa alla A.G. nell'ambito di importanti indagini, non si sia, a quel punto, spontaneamente presentata alla medesima o ad altra A.G. per rettificare le erronee informazioni precedentemente rese. Ora, si è ritenuto opportuno formulare le suddette considerazioni perché, pur senza volere ritenere che, come adombrato dal P.M. attraverso alcune domande, quelle reticenti dichiarazioni possano essere conseguenza del rapporto in qualche modo instaurato dalla Ferraro con i Servizi di Sicurezza di questo Paese quale consulente del competente Dipartimento presso la Presidenza del

Consiglio diretto dal Sottosegretario Gianni Letta, non v'è dubbio che traspare dalla testimonianza della Ferraro un atteggiamento complessivamente ambiguo che fa il paio con l'evidente tentativo di minimizzare gli approcci del ROS con Vito Ciancimino. Basti qui considerare, In proposito, ma di ciò si darà conto più approfonditamente più avanti, di quanto riferito riguardo alle motivazioni sia della prima sollecitazione di De Donno del giugno 1992 (far sapere al Ministro Martelli che il ROS si stava prodigando per scoprire gli assassini di Falcone, come se qualcuno potesse dubitare che, in quel momento, tutte le Forze dell'Ordine stessero profondendo il massimo impegno per raggiungere quell'obiettivo), sia, ancor più, della seconda visita fatta da Mori in cui si parlò del passaporto per Ciancimino, quasi, a sentir la Ferraro, soltanto a livello conoscitivo dell'iter della pratica necessaria e non già, come non pare possa dubitarsi perché non vi sarebbe altrimenti alcuna logica spiegazione, per sollecitare in qualche modo un intervento al fine di agevolare quel risultato. D'altra parte, se i termini dei colloqui poi riferiti dalla Ferraro a Martelli fossero stati quelli oggi raccontati e minimizzati, pur se si volesse prescindere da quanto diversamente dichiarato dallo stesso Martelli (v. sopra), non si comprenderebbe l'estrema irritazione di quest'ultimo raccontata dalla medesima Ferraro, irritazione ben comprensibile, invece, se il primo colloquio avesse avuto ad oggetto, come appunto riferito da Martelli, la richiesta di una "copertura politica" e il secondo il rilascio di un passaporto in favore di Vito Ciancimino. Ma di ciò, come detto di parlerà più diffusamente esaminando il complesso delle risultanze probatorie.

Le proposte del generale a Luciano Violante. La Repubblica il 29 Agosto 2019. Come si è visto, il teste Luciano Violante ha confermato, ripetutamente e senza titubanze, che Mori ebbe a chiedergli di incontrare in modo riservato Vito Ciancimino (v. dichiarazioni Violante sopra già riportate: " .. il Generale Mori venne a trovarmi dicendomi che Ciancimino intendeva avere un colloquio con me, ma con me, non con la Commissione, riservato .... ........ lo dissi che non facevo colloqui riservati, chi voleva essere sentito era sentito dalla, Commissione facendo una richiesta formale ... ........ Dunque, lui mi dice questo, primo che Ciancimino è libero e abita a Roma dalle parti di Piazza di Spagna. Secondo, appunto che vuole parlarmi. ma riservatamente.... .. ...... probabilmente avrebbe chiesto qualcosa ... ... ... Avrebbe chiesto qualcosa e se non erro in questo momento, insomma, sono queste le cose di fondo di questo colloquio che non fu ... ....... Non mi precisò che cosa, né io chiesi perché non avevo interesse al colloquio personale ... ....... No, perché non avevo interesse al colloquio, né avevo interesse ad approfondire una negoziazione che non mi interessava insomma .... ......... Sì, io ho il dovere di dire la verità .. ;

P. M TERESI " - Sì. Lei ricorda ... Ah, no, certo. Però nella sua difesa lei questa cosa la fa presente, che c'è una contestazione da parte sua sulla versione di Mori.. . .. .. .Io dico che Ciancimino mi voleva incontrare per un colloquio riservato, il Colonnello Mori ha detto nella sua memoria che invece Ciancimino era disponibile subito ad essere sentito in Commissione, era questa la sostanza del contrasto ... ..... E lo conferma oggi? Questo volevo sapere;

DICH. VIOLANTE "- Certo".

La richiesta di un colloquio riservato con Vito Ciancimino, è stata, invece, negata dall'imputato Mori, secondo il quale, peraltro, i documenti prodotti in allegato alle dichiarazioni spontanee rese ali 'udienza del 21 gennaio 2016, dimostrerebbero che l'On. Violante aveva appreso della richiesta di audizione di Ciancimino già prima dell'arrivo della lettera di quest'ultimo (che, infatti, venne protocollata il 29 ottobre 1992), e che, quindi, Violante era stato informato da Mori soltanto di tale volontà del Ciancimino e non già, appunto, come invece testimoniato dallo stesso Violante, di una richiesta di incontro riservato. In realtà, i documenti prodotti ed acquisiti agli atti, a parere della Corte, non sono idonei a smentire il teste Violante. La sintetica verbalizzazione della Riunione del 27 ottobre 1992 non consente, infatti, di escludere che Violante abbia informato l'Ufficio di Presidenza proprio della lettera che egli aveva ricevuto, fatto che, d'altra parte, appare già confermato dal riferimento alla rinunzia di Cianci mino alla presenza delle televisioni che effettivamente era contenuta nella lettera in questione. D'altra parte, deve rilevarsi che, come risulta dai documenti prodotti in atti, nelle due facciate della busta contenente la lettera non v'è alcun timbro di arrivo o di protocollo, che, come detto, risulta essere stato apposto, invece, direttamente sulla lettera. Inoltre, sulla detta busta non v'è alcun timbro di spedizione postale. Ne consegue che, poiché la busta era indirizzata al Presidente della Commissione e dovendosi per ciò escludere che qualcuno diverso dal destinatario possa averla aperta precedentemente, appare del tutto ovvio concludere:

- che inizialmente tale busta contenente la lettera datata 26 ottobre 1992, senza transitare dall'Ufficio Protocollo (che, altrimenti, vi avrebbe apposto il timbro di arrivo), sia stata direttamente portata a mano da un incaricato di Vito Ciancimino (nella specie, verosimilmente, il figlio Massimo Ciancimino che in quel periodo sbrigava tutte le incombenze per conto del padre), lasciandola nella portineria di Palazzo San Macuto, sede della Commissione Parlamentare Antimafia;

- che, quindi, la detta busta sia stata consegnata direttamente al Presidente Violante che ne era il destinatario;

- che, pertanto, quest'ultimo l'abbia pnma aperta e letta, informandone la Commissione nella seduta del 27 ottobre 1992;

- che, infine, soltanto successivamente la medesima lettera (si ripete, già aperta e, quindi, letta dal destinatario e da questi comunicata ali 'Ufficio di Presidenza) sia stata trasmessa all'Ufficio competente per la sua protocollazione (dovendosi escludere che tale protocollazione possa essere già stata fatta nella portineria di Palazzo San Macuto, poiché, come si è detto, nella busta non v'è indicato alcun protocollo), a quel punto avvenuta il 29 ottobre 1992, dal momento che il detto Ufficio non avrebbe di certo potuto retrodatare la sua registrazione, essendo stati, ovviamente, nel frattempo protocollati in continuità altri documenti.

Di ciò, peraltro, appare ben consapevole anche lo stesso Presidente Pisanu, il quale, infatti, nella nota inviata all'Avv. Pietro Milio, appunto, riferisce espressamente "che dell'arrivo della lettera è stata data comunicazione nell'ufficio di Presidenza del 27 ottobre 1992". Dai documenti prodotti dalla difesa dell'imputato Mori sopra citati, dunque, non può ricavarsi alcuna smentita alle dichiarazioni dell'On. Violante, risultando, anzi, rafforzata l'ipotesi che quest'ultimo ebbe ad informare l'Ufficio di Presidenza della richiesta di audizione formalmente avanzata da Vito Ciancimino a mezzo lettera e ciò indipendentemente dall'esattezza o meno del ricordo del medesimo Violante riguardo ad un secondo incontro con Mori ricompreso nel periodo tra il giorno del primo, in occasione del quale egli fu informato della richiesta di interlocuzione riservata del Ciancimino (verosimilmente il 20 ottobre 1992), e il giorno in cui gli fu consegnata la lettera di quest'ultimo (verosimilmente nella stessa data del 26 ottobre 1992 nella quale fu scritta tale lettera o, al più, il successivo giorno 27 ottobre 1992), anziché, come sostenuto da Mori sulla base di una annotazione riportata nella sua agenda, in data 28 ottobre 1992 (allorché, però, Mori ebbe a consegnare a Violante la copia della bozza del libro di Ciancimino). Ed in proposito, è opportuno evidenziare anche che nell'agenda cui si è riferito Mori per datare gli incontri con Vito Ciancimino sono ovviamente annotati gli incontri dello stesso Mori, ma non certo anche quelli che eventualmente De Donno abbia potuto avere con lo stesso Ciancimino senza la presenza di Mori ovvero i contatti che comunque, direttamente o indirettamente, lo stesso De Donno, artefice del collegamento sin dalla sua instaurazione, potrebbe avere avuto, appunto, con Vito Ciancimino, facendo, poi, da tramite tra quest'ultimo e Mori. Per completezza, poi, riguardo ancora alle dichiarazioni spontanee rese dall'imputato Mori all'udienza del 21 gennaio 2016 a proposito della testimonianza dell'On. Violante e sopra già interamente riportate, va detto che, contrariamente a quanto sostenuto dal predetto imputato, il fatto che egli abbia informato Violante dei suoi incontri con Ciancimino non necessariamente è in contraddizione con la ricostruzione accusatoria che egli contesta, poiché, nell'ipotesi, appunto, della "trattativa" segreta intavolata tramite il Ciancimino, se questi avesse chiesto - come in effetti ha chiesto secondo il teste Violante - un incontro diretto e riservato con quell'esponente delle Istituzioni, l'imputato Mori non avrebbe potuto di certo evitare di informare lo stesso Violante dei suoi incontri con Ciancimino a meno di non rinunciare a dare corso alla sollecitazione di quest'ultimo e, quindi, all'ulteriore prosieguo della "trattativa" medesima che ineludibilmente richiedeva contraccambi reciproci. Peraltro, va ricordata, in proposito, l'assoluta segretezza mantenuta da Mori sino ad allora (e che avrebbe poi mantenuto per molti anni ancora) sui suoi incontri con Vito Ciancimino verso l'Autorità Giudiziaria, tanto da non averne fatto cenno neppure quando alla Procura di Palermo era subentrato il nuovo Procuratore. In occasione della testimonianza resa il 22 gennaio 2016, Gian Carlo Caselli, infatti, ha riferito che allorché egli si era insediato quale nuovo Procuratore della Repubblica di Palermo, Mori e De Donno gli avevano soltanto segnalato che Ciancimino, nel frattempo detenuto, intendeva parlargli (" ... mi si dice il signor Ciancimino vuole parlare con lei perché ha delle cose interessanti da dire .. ") e di avere, quindi, appreso dei pregressi incontri dei predetti Mori e De Donno con Ciancimino soltanto da quest'ultimo [...], circostanza fattuale che fa venire meno la giustificazione dell'imputato Mori secondo cui egli, quando aveva incontrato Ciancimino, non si fidava della Procura di Palermo ed intendeva, quindi, attendere il nuovo Procuratore. Ed allora, non può non osservarsi che, proprio il fatto che l'imputato Mori si sia fatto portavoce del Ciancimino parlando con Violante (oltre che con gli altri "referenti politici" di cui ai paragrafi precedenti) nonostante la segretezza mantenuta sino ad allora sui suoi incontri con Ciancimino tanto da non averne fatto alcun cenno ali' Autorità Giudiziaria, rafforza inevitabilmente, anche in questo caso, la tesi che, sia pure nell'ottica di una contropartita, Mori intendeva assecondare (ed ha, di fatto, almeno in quel caso - ma v'è anche l'episodio del passaporto prima esaminato - assecondato) le richieste che gli provenivano dalla controparte. Inoltre, qui va, altresì, evidenziato il fatto che Mori, che pure dichiaratamente intendeva avvalersi delle prerogative riconosciute dall'art. 203 c.p.p. relativamente al Ciancimino, tanto, come detto, da non rivelare quei suoi contatti neppure all'Autorità Giudiziaria, pur tuttavia, ha svelato il nome del suo asserito confidente all'On. Violante e ciò, a seguire il ragionamento difensivo dell'imputato Mori, senza alcuna logica e comprensibile ragione (oltre che con un' intrinseca contraddittorietà rilevata, come si è visto sopra, anche dal suo interlocutore secondo quanto da questi pure testimoniato allorché ha osservato che quella giustificazione di Mori con riferimento all'art. 203 c.p.p. "oggettivamente appare contraddittoria, in quel contesto mi apparve, come dire, comunque io c 'ho una clausola, come dire, formale di salvaguardia, no? In ragione è questa, ma comunque una clausola formale di salvaguardia", laddove, nel contempo, Mori gli aveva detto di non avere informato l'A.G. Dei suoi incontri con Vito Ciancimino perché "si trattava di una questione politica"): se lo scopo di Vito Ciancimino fosse stato solo quello di essere formalmente audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, e non già soltanto dal suo Presidente in forma riservata, non v'era alcun motivo per il quale Mori avrebbe dovuto rivelare a Violante i suoi incontri segreti col medesimo Ciancimino, il quale ben avrebbe potuto, come poi effettivamente ha fatto, inviare direttamente la lettera con la sua richiesta, appunto, di formale audizione. In altre parole, si vuole dire che, per la sola richiesta di una formale audizione presso la Commissione Antimafia da parte di un soggetto politico ampiamente noto per i suoi rapporti con la mafia, non vi sarebbe stata alcuna logica ragione per indurre Mori a svelare a Violante la sua fonte confidenziale ed i suoi incontri con la stessa, che intendeva mantenere assolutamente in quel momento segreti tanto da non averne riferito in alcun modo - formale o informai e - alla autorità giudiziaria, al solo fine di perorare quella richiesta o, ancor meno giustificatamente, di anticipare a Violante quella richiesta poi formulata per iscritto da Ciancimino. A ciò si aggiunga, ancora, che, se solo quello fosse stato l'interesse di Mori (anticipare o perorare la richiesta di Ciancimino di formale audizione in Commissione), l'imputato avrebbe potuto attendere le determinazioni della Commissione Antimafia e, poi, semmai, se fossero state negative, intervenire per sollecitare l'accoglimento della richiesta, rinviando a questo momento, soltanto eventuale (perché non v'era ragione di ritenere che la Commissione avrebbe rifiutato l'audizione di Ciancimino una volta che questi avesse rinunziato ad imporre la presenza delle televisioni), la rivelazione dei suoi incontri segreti col Ciancimino. In conclusione, dunque, deve ritenersi provato - in forza della deposizione resa dal teste Violante, della cui attendibilità, d'altra parte, anche per la sua notoria storia personale e per il suo disinteresse nella questione, non v'è minimamente ragione di dubitare - che effettivamente Mori ebbe a sollecitare al medesimo Violante un incontro personale e riservato con Ciancimino. Ed allora, se così è, appare del tutto evidente che anche tale episodio smentisce la tesi riduttiva degli imputati sul ruolo di Vito Ciancimino e sulle dichiarate finalità dei contatti con quest'ultimo, mentre è, invece, totalmente coerente con la necessità di assecondare quell'interlocutore, non già per avere informazioni confidenziali di sorta, ma per dimostrare allo stesso che quei Carabinieri che lo avevano contattato erano in grado di (ed intendevano effettivamente) coinvolgere esponenti delle Istituzioni a vari livelli (come si è visto, Ministro della Giustizia, Presidente del Consiglio dei Ministri e Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia), così da dare credibilità alla richiesta di dialogo indirizzata, tramite Vito Ciancimino, ai vertici mafiosi.

I contatti segreti dell'estate 1992. La Repubblica il 31 agosto 2019. Si è già visto sopra nei paragrafi precedenti che dei contatti di Mori e De Donno con Vito Ciancimino non venne mai data alcuna informativa alla Autorità Giudiziaria (di Palermo o anche di altra sede). E ciò, non soltanto in modo formale (circostanza fattuale incontestata) anche eventualmente tacendo il nome dell'informatore avvalendosi della prerogativa di cui all'art. 203 c.p.p. pure più volte richiamato da Mori […], ma neppure in modo informale in colloqui riservati con magistrati della Procura di Palermo (o anche di altre Procure, quali in ipotesi, la Procura di Caltanissetta che indagava sulle stragi prima di Capaci e poi di via D'Amelio, ovvero anche la Procura di Roma stante che i contatti con Ciancimino iniziarono in tale città). L'imputato Mori ha sempre giustificato tale omissione con i rapporti non idilliaci che il R.O.S. allora aveva con la Procura di Palermo a causa delle vicende del c.d. rapporto "mafia e appalti" [...]. Tale giustificazione appare però chiaramente pretestuosa, tenuto conto che:

- neppure dopo l'insediamento del nuovo Procuratore della Repubblica Caselli e nonostante nel frattempo Vito Ciancimino fosse stato arrestato facendo così venire meno eventuali esigenze di riservatezza, venne mai redatta dal R.O.S., una informativa su tutti i contatti intrapresi con Ciancimino sin dal mese di giugno precedente e sugli sviluppi degli stessi;

- tale informativa, in realtà, neppure informai mente fu data al medesimo nuovo Procuratore della Repubblica Caselli, che, come si è già visto nel precedente paragrafo (v. dichiarazioni del teste Caselli già richiamate), infatti ebbe poi ad apprendere degli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino soltanto da quest'ultimo e nei soli limiti in cui lo stesso ritenne di informarlo, mentre né Subranni, né Mori, né De Donno mai ebbero a fornirgli una effettiva e completa informazione anche con la ricostruzione dei medesimi accadimenti dal loro (necessariamente diverso) punto di vista;

- la giustificazione addotta potrebbe riguardare, al più, soltanto la Procura della Repubblica di Palermo e non spiega, quindi, perché non furono informati altri Uffici Giudiziari, primo fra tutti la Procura di Caltanissetta, tanto più che, a detta degli imputati, da Vito Ciancimino si intendevano acquisire notizie anche sulle stragi (v., ancora, dichiarazioni spontanee di Mario Mori sopra già riportate: "... mi ripromettevo di acquisire da lui elementi che mi potessero fare progredire nelle indagini, per l'identificazione di mandanti e autori delle stragi di Capaci e Via D'Amelio..."). Già tali considerazioni rendono vana la giustificazione addotta dagli imputati ed inducono a ritenere, conseguentemente, che altra fu la ragione dell'omissione qui in esame. Ma v'è di più. Come si è visto nei paragrafi precedenti, per stessa ammissione degli imputati Mori e De Donno, la decisione di contattare Vito Ciancimino fu presa immediatamente dopo la strage di Capaci e, già durante il mese di giugno successivo, quanto meno il solo De Donno aveva, in effetti, già contattato il Ciancimino. Non solo, ma è emerso che di tali contatti De Donno ebbe a riferire a Liliana Ferraro alla fine del mese di giugno 1992 e, in particolare, in un giorno compreso tra il 23 (trigesimo della strage di Capaci) ed il 28 (giorno in cui, poi, la Ferraro aveva incontrato il Dott. Borsellino).

Ed allora, se già quei contatti, quanto meno sotto il profilo programmatico, erano già attuali in quei giorni e lasciavano presagire importanti sviluppi tanto che De Donno ritenne di parlarne alla Ferraro, non si comprende perché analoga informazione non venne data anche al Dott. Borsellino, per il quale, di certo, per la sua storia e per la sua nota ed incontestabile dirittura morale, non potevano valere quelle remore addotte da Mori riguardo al Procuratore della Repubblica dell'epoca (il Dott. Giammanco) od eventualmente anche riguardo ad altri magistrati di quell'Ufficio. Eppure tanto Mori che De Donno incontrarono personalmente il Dott. Borsellino il 25 giugno 1992 in Palermo presso la Caserma Carini ed ebbero con lo stesso un lungo colloquio (v. sopra risultanze riportate nel capitolo 4) e, tuttavia, negli stessi giorni (o forse anche successivamente al giorno) in cui già avevano ritenuto di informare la Ferraro, per stessa ammissione dei predetti imputati, nulla dissero al Dott. Borsellino riguardo a Ciancimino. Ed allora, non può che concludersi che la ragione della voluta omissione informativa qui in esame non può di certo ricondursi alla giustificazione addotta da Mori, perché di certo né quest'ultimo né altri avrebbero potuto diffidare del Dott. Borsellino, mentre ogni altra eventuale esigenza di riservatezza era già venuta meno con la informazione data alla Ferraro nonostante questa non ricoprisse alcun ruolo che la giustificasse. Se così è, ben altra deve essere stata la ragione dell'omessa informativa, non soltanto, in generale, all'autorità giudiziaria, ma persino alla persona del Dott. Borsellino. E tale ragione, quindi, logicamente ed ineludibilmente non può che individuarsi nell'intendimento sottostante a quell'iniziativa di contattare Vito Ciancimino, che, come si ricava dalle risultanze già prima esaminate nei paragrafi precedenti, non era quello di instaurare un semplice rapporto confidenziale per carpire qualche notizia e che certamente ben avrebbe potuto essere comunicata, non soltanto, ovviamente, al Dott. Borsellino, ma anche a qualsiasi Ufficio Giudiziario per l'ordinarietà di quell'attività tutt'al più tacendo il nome del "confidente-informatore" (ma è significativo che tale esigenza di riservatezza non abbia animato sicuramente gli imputati se è vero che essi fecero il nome di Vito Ciancimino a più soggetti quali la Ferraro, la Contri e Violante), ma, semmai, quella reale di instaurare, attraverso Vito Ciancimino, un dialogo con i vertici dell'associazione mafiosa "cosa nostra". Appare assolutamente evidente ed incontestabile, infatti, che un simile intendimento non avrebbe potuto essere rappresentato a magistrati di qualsiasi Ufficio giudiziario e, certamente, giammai, comunque, al Dott. Borsellino, che, insieme al Dott. Falcone, invertendo la linea che aveva caratterizzato sino al finire degli anni settanta il rapporto delle Istituzioni con l'associazione mafiosa, aveva sempre voluto, perseguito e mantenuto piuttosto una linea di assoluta intransigenza nell'azione di contrasto al fenomeno mafioso del tutto incompatibile con un'ipotesi di dialogo con i vertici mafiosi, quand'anche questo fosse stato finalizzato alla cessazione delle stragi, perché ciò, soprattutto dopo la positiva conclusione della lunga vicenda del "maxi processo", avrebbe inevitabilmente rilegittimato e, conseguentemente, perpetuato il potere di "cosa nostra". Nello stesso solco si colloca, altresì, l'omissione di Subranni, Mori e De Donno in ordine alla documentazione, anche soltanto per uso interno del R.O.S., dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino e delle attività, in conseguenza di questi, poste in essere dai Militari. Ed invero, a seguito di ordine di esibizione dei P.M. di Palermo e Caltanissetta, notificato il 16 novembre 2009 al Comandante del R.O.S., diretto ad acquisire "relazioni di servizio, annotazioni, appunti riservati o documentazione comunque afferente rapporti di qualsivoglia genere eventualmente intrattenuti da appartenenti al ROS" con alcuni soggetti, tra i quali Ciancimino Vito Calogero e Ciancimino Massimo, oltre che la documentazione a qualsiasi titolo relativa a questi ultimi, sono stati consegnati dal R.O.S., in data 19 novembre 2009, i fascicoli relativi a Vito Ciancimino ed alle stragi di Capaci e via D'Amelio esistenti presso quel Raggruppamento. Tra i documenti allora acquisiti (prodotti in copia dal P.M. all'udienza del 22 settembre 2017), v'è ne soltanto uno attinente ai fatti in esame, quello costituito dalla copia, senza intestazione e senza firma, del memoriale consegnato da Mori alla Procura di Firenze l' l agosto 1997 ed alla Procura di Caltanissetta il 23 settembre 1997 (per il contenuto v. sopra). Dunque, fino al 1997, né Mori, né De Donno hanno mai redatto alcuna relazione di servizio sui contatti con Vito Ciancimino e sulle informazioni ottenute (sul punto, si veda anche la testimonianza resa all'udienza del 31 marzo 2017 dal Gen. Giampiero Ganzer, già in servizio al R.O.S. dal febbraio 1993, vice comandante del detto Reparto dal mese di luglio 1997 e, infine, Comandante del R.O.S. dal 26 gennaio 2002 al 6 luglio 2012 [...]"), né, d'altra parte, Subranni, allora comandante del R.O.S. e, quindi, superiore dei predetti, sia se informato sin dall'inizio, sia se informato soltanto nel mese di agosto come sostenuto da Mori, ha mai sollecitato ai suoi sottoposti la redazione di apposite relazioni di servizio in ogni caso utili, per qualsiasi eventualità, a trasmettere le conoscenze acquisite da uomini del suo Raggruppamento anche ad altri investigatori se la finalità di quei contatti fosse stata effettivamente, come asserito dagli imputati, di tipo esclusivamente investigativo. Nessun Corpo investigativo d'elite, qual era ed è il R.O.S., può consentire che le conoscenze acquisite da un suo investigatore, soprattutto se, come nel caso in esame, sin dall'inizio ritenute di estrema importanza tanto da dame informale notizia al più alto livello politico (v. sopra), rimangano racchiuse esclusivamente nella mente e nella memoria dello stesso. Persino lo stesso Gen. Giampiero Ganzer, teste della difesa sentito all'udienza del 31 marzo 2017, smentendo la contraria tesi della difesa dell'imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all'udienza dei 5 aprile 2018 a proposito di asserite e presunte ragioni di sicurezza) ha dichiarato che, per norma e prassi interna al R.O.S., dovevano essere annotati gli incontri e I rapporti con i confidenti [...]. Eppure è ciò che è avvenuto nella fattispecie, laddove non v'è alcuna traccia all'interno del R.O.S. dei contatti intrapresi da due dei suoi più importanti investigatori con un personaggio altrettanto importante (ovviamente sotto un diverso profilo, quello criminale) qual era Vito Ciancimino, né della disponibilità da quest'ultimo manifestata, né, ancora, di quel cenno dello stesso Ciancimino ai contatti avuti, quanto meno, con un intermediario dei vertici mafiosi, né, infine, più in generale, di tutte le notizie, comunque, raccolte durante i colloqui con Vito Ciancimino e sulle modalità ed i tempi di tali colloqui. Di tutta questa attività nulla si sarebbe saputo se Vito Ciancimino, dopo l'arresto, non avesse deciso, sia pure con molte reticenze ed in termini alquanto generici, di informare i magistrati che si erano recati ad interrogarlo. Può trovare giustificazione una simile omissione se Vito Ciancimino fosse stato un semplice confidente-informatore? Certamente no, perché persino i Servizi di Sicurezza lasciano traccia scritta dei contatti con le proprie fonti ancorché senza rivelarne l'identità (v. deposizione del teste Giraudo di cui si dirà esaminando in conclusione la posizione individuale dell'imputato Mori), né è utile richiamare, come ha fatto la difesa dell'imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all'udienza del 5 aprile 2018) gli esempi dei rapporti confidenziali Riccio-Ilardo e Ravidà-Sturiale, dal momento che in entrambi i casi, in realtà, tali rapporti vennero documentati (per il primo, a prescindere dalle dichiarazioni di Riccio sull'invito proprio di Mori ad omettere le relazioni di servizio e dalle relazioni di servizio che, comunque, poi, furono riportate all'interno del rapporto "Grande Oriente" sottoscritto, non da Riccio, ma dal Col. Mauro Obinu, v'è quanto meno l'informativa ad uso interno del R.O.S. dell' Il marzo 1996 come meglio si vedrà in seguito esaminando la relativa vicenda nel successivo Capitolo 35; per il secondo, risulta che Ravidà relazionava regolarmente, ovviamente, ciò che Sturiale gli riferiva e non viceversa, come si ricava anche dalla testimonianza di Nicolò Marino, di cui pure si dirà meglio più avanti). V'è, poi, il caso eclatante dei contatti con Bellini, che pure sarà meglio e più approfonditamente esaminato più avanti, nel quale soltanto Mori ebbe ad omettere di lasciare traccia di tali contatti, mentre il suo omologo della D.LA. Dott. Messina, pure contattato da Bellini con modalità sostanzialmente analoghe, ebbe a redigere apposita relazione di servizio per lasciare traccia dell'accadimento (v. deposizione Messina che sarà riportata nel successivo Capitolo Il, paragrafo Il .10). Ed allora, se così è, quella totale omissione, da parte di Mori e De Donno con l'avallo del Comandante Subranni, trova adeguata giustificazione soltanto se i contatti dei predetti col Ciancimino furono diretti ad instaurare, attraverso quest'ultimo, un dialogo con i vertici di "cosa nostra", trattandosi, in questo caso, di un'attività evidentemente non esternabile, ed, infatti, ancora negata con decisione dagli imputati per gli effetti controproducenti, che, come si vedrà nel prosieguo, essa ha, poi, determinato. Altrettanto eclatante e tale da contraddire la tesi difensiva degli imputati sulla finalità meramente investigativa dei contatti con Ciancimino appare, infine, l'omissione di qualsiasi attività investigativa da parte di coloro che, via Via, appresero degli sviluppi di quei contatti sul versante di "cosa nostra". Qui, a prescindere dai tempi di acquisizione della notizia (se sin dall'inizio dei contatti ovvero, come sostenuto da Mori, soltanto dal mese di ottobre 1992), rileva la circostanza, ammessa dagli stessi imputati, che ad un certo momento essi ebbero la certezza che Vito Ciancimino aveva effettivamente interloquito, attraverso un intermediario dallo stesso non indicato (lo avrebbe poi fatto soltanto successivamente in alcuni scritti ed in occasione degli interrogatori dopo l'arresto), con i vertici di "cosa nostra" [...]. Eppure, nonostante tale certezza, nulla Subranni, Mori o De Donno fecero per tentare di sfruttare investigativamente quella notizia acquisita da Cianci mino: non fecero alcun accertamento sui pregressi eventuali spostamenti di quest'ultimo per verificare in quale momento e con quali modalità lo stesso avesse potuto instaurare quel contatto; non predisposero e non attuarono alcun successivo monitoraggio degli ulteriori contatti di Vito Ciancimino e dei movimenti dei familiari che in quel momento convivevano con lui; non richiesero alcuna attività di intercettazione e ascolto delle utenze in uso a Vito Ciancimino ed ai suoi familiari oltre che ambientale nei luoghi ove i predetti dimoravano; non disposero alcuna perquisizione (ovviamente, per non allarmare il Ciancimino, facendola eseguire ad altro reparto territoriale dei Carabinieri o altra forza di polizia e con motivazioni di comodo) per ricercare eventuali scritti in possesso di Vito Ciancimino relativi a quel contatto con l'intermediario dei vertici mafiosi. Potevano esperti investigatori, qual erano i predetti imputati, ritenere che tali attività investigative non fossero di alcuna utilità, anzi, assolutamente ineludibili per l'acquisizione di spunti investigativi di estrema importanza per qualsiasi indagine sull'organizzazione mafiosa "cosa nostra" e per l'individuazione anche di soggetti ad essa appartenenti e, in ultimo, anche per la stessa individuazione e cattura dei soggetti di vertice latitanti che essi, dichiaratamente, intendevano arrestare? Certamente no, e di ciò si rende conto lo stesso Mori, il quale, pur dopo avere respinto le critiche in più occasioni ricevute per i suoi metodi operativi (v. ancora le citate dichiarazioni spontanee: "in questa e in altre vicenda, a seconda di quali sono gli specifici interessi di chi le tratta, io e De Donno veniamo considerati alternativamente o dei fuori classe dell'investigazione, ovvero dei minus habens che procedevano nelle indagini senza la parvenza del discernimento"), già in occasione della sua prima deposizione a Firenze ebbe a preoccuparsi di giustificare l'inerzia investigativa che accompagnò i primi contatti con Ciancimino con la ristrettezza dei tempi [...]. Perché, ovviamente, non sfuggiva al Mori che una parallela attività di investigazione finalizzata al monitoraggio delle reazioni di Vito Ciancimino sarebbe stata giudicata da qualsiasi investigatore indispensabile già nel momento in cui il medesimo Ciancimino, con i primi approcci da parte di De Donno, veniva "provocato" e, pertanto, il predetto ha tentato di giustificare la sua omissione con la ristrettezza dei tempi. Sennonché è agevole rilevare che i primi approcci con Vito Ciancimino risalgono addirittura ai primi di giugno del 1992 e, comunque, - per stessa ammissione degli imputati - quanto meno al mese di luglio ancor prima della strage di via D'Amelio e sono stati poi seguiti da ulteriori incontri, anche personali con il Col. Mori, nel mese di agosto e poi ancora ad ottobre. Eppure, dal mese di giugno o, quanto meno, luglio 1992 sino al 18 ottobre 1992, quando, secondo Mori, ebbero la certezza dei contatti avuti da Vito Ciancimino con i vertici dell'associazione mafiosa o almeno con un intermediario di questi, nulla fu fatto per monitorare le reazioni di Vito Ciancimino rispetto ai numerosi precedenti incontri, omettendo sia di effettuare quei pedinamenti di cui lo stesso Mori ha parlato [...], sia, cosa certamente ancor più utile, qualsiasi attività di intercettazione ambientale e telefonica (quale quella, ad esempio, già svolta dal ROS nel mese di marzo 1992 ed inopinatamente interrotta nonostante da quelle intercettazioni fosse emersa l'esistenza, nella abitazione romana di Vito Ciancimino, di un'utenza riservata e diversa da quella già sottoposta ad intercettazione). Ed allora, la giustificazione di Mori sulla ristrettezza dei tempi e sulla imprevedibilità della reazione di Ciancimino appare, anche in questo caso, risibile, non essendo plausibile che nel lasso di oltre quattro mesi o anche soltanto di oltre un mese (se si volesse restringere il periodo a quello compreso tra l'incontro del 29 agosto e quello del 18 ottobre 1992) non ci sia stato il tempo di organizzare l'attività di monitoraggio dei movimenti e dei contatti del Ciancimino a fronte della estrema importanza che gli stessi Mori e De Donno attribuivano a quella indagine, tanto da averne dato già notizia specifica ai più alti livelli politici sin dai precedenti mesi di giugno (incontro con la Ferraro) e luglio (incontro con la Contri). Ma, in ogni caso, seppure si volesse prendere per buona la giustificazione addotta da Mori, non si comprenderebbe perché, dopo avere avuto la certezza (in data 18 ottobre 1992 secondo lo stesso Mori) che Ciancimino aveva effettivamente contattato un intermediario dei vertici mafiosi, ciò nonostante ancora nulla è stato fatto per monitorare il Ciancimino sino al 19 dicembre 1992 quando il predetto venne arrestato, e ciò neppure in prossimità di tale arresto quando, nei giorni immediatamente precedenti, il 17 dicembre 1992, Vito Ciancimino si recò a Palermo per contattare ancora l'intermediario [...]. Né, in proposito, può valere la diversa giustificazione, invece, addotta da De Donno riguardo all'omissione qui in esame. De Donno, infatti, anche lui evidentemente consapevole dell'anomalia della detta omissione investigativa, ha addotto a giustificazione il rischio di essere scoperti e di far venire meno, conseguentemente, il rapporto di fiducia con Vito Ciancimino [...]. Sennonché, non soltanto tale giustificazione è smentita da quella diversa fornita da Mori prima ricordata, poiché quest'ultimo, che ovviamente ha avuto sin dall'inizio la direzione delle operazioni a fronte del ruolo meramente esecutivo del De Donno, ha dichiarato che aveva in animo di far effettuare il pedinamento di Ciancimino (v. dichiarazioni Mori: " .. Ma io ero anche orientato eventualmente, se lui, come ritenevo, avesse portato a lungo la trattativa, di fare dei servizi di pedinamento su Ciancimino .. ") e che ciò non fu fatto, non già per il rischio di essere scoperti che, dunque, egli riteneva superabile, ma soltanto per mancanza di tempo (v. ancora dichiarazioni Mori: "Questo, poi, non è avvenuto perché ha bruciato i tempi, Ciancimino"); ma, in ogni caso, si tratta di una giustificazione che non appare credibile, essendo ben nota l'elevatissima professionalità del R.O.S. nell'effettuare indagini tecniche e di pedinamento nonostante le difficoltà degli obiettivi, mentre, d'altra parte, cosi come è accaduto per moltissime altre investigazioni del R.O.S. e di altre Forze impegnate contro la criminalità organizzata, il rischio di essere scoperti non può costituire una valida remora soprattutto a fronte dell'enorme importanza dei risultati investigativi che quell'attività di monitoraggio avrebbe potuto produrre (basti qui pensare alla conferma del ruolo di Vito Ciancimino, in quel momento ancora imputato in un processo in corso per il reato di associazione mafiosa, o ancora alla individuazione di soggetti facenti parte di tale associazione dal predetto eventualmente contattati, sino alla individuazione, in ipotesi, persino di taluno degli esponenti di vertice dell'associazione mafiosa in quel momento latitanti, quali Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, che, in virtù della comune provenienza da Corleone, certamente Ciancimino aveva avuto modo di conoscere). Ed allora, l'omissione delle investigazioni conforta ulteriormente e definitivamente la conclusione che in quel momento l'intendimento di Subranni, Mori e De Donno non fosse quello minimale della raccolta di informazioni dal "confidente" Vito Ciancimino, ma, come più volte rilevato, anche in questo caso, soltanto quello di instaurare un dialogo con i vertici dell'associazione mafiosa (v. parole testuali di Mario Mori nella testimonianza resa a Firenze: "Ma non si può parlare con questa gente?"). Mentre, infatti, nel primo caso, le investigazioni avrebbero costituito il conseguente corollario della provocazione lanciata al Ciancimino per sfruttarne la reazione ed ottenere i possibili risultati investigativi prima ipotizzati, nel secondo caso l'omissione delle investigazioni, nella consapevolezza che anche l'individuazione di tal uno degli esponenti mafiosi, anche se eventualmente di vertice, non avrebbe di certo posto termine alla strategia mafiosa stragista in corso, era, invece, strumentale alla instaurazione di quel dialogo tra parti contrapposte necessario per far cessare il "muro contro muro". E per raggiungere tale obiettivo era necessario lasciare a Vito Ciancimino i più ampi margini di libera manovra. Come si è visto, dunque, l'analisi delle condotte, sia quelle attive, sia soprattutto quelle omissive, poste in essere dagli imputati Subranni, Mori e De Donno conduce univocamente ad una sola e certa conclusione: al di là dei singoli apporti e delle ragioni che più avanti saranno esaminati, essi volevano instaurare una "trattativa" con Vito Ciancimino ed, attraverso questi, con i vertici di "cosa nostra". Ed il termine "trattativa", infatti, è stato correttamente ed appropriatamente usato sia da Mori che De Donno (oltre che, sin dali 'inizio, dal loro interlocutore primario Vito Ciancimino) sino a quando, a seguito di altre acquisizioni conoscitive (soprattutto conseguenti alla collaborazione con la Giustizia di alcuni esponenti mafiosi), essi non hanno preso consapevolezza delle conseguenze nefaste di quell'improvvida iniziativa. Essi intendevano, cioè, in quel momento, capire se vi fossero spazi di interlocuzione che potessero indurre i vertici mafiosi a recedere da quell'attacco e da quella contrapposizione frontale che era già culminata nella strage di Capaci e che tante preoccupazioni suscitava - oltre che in soggetti che per ruolo istituzionale erano stati sempre possibile bersaglio della vendetta mafiosa – ora anche in alcuni esponenti politici che temevano di dovere subire, per mano mafiosa, la stessa infausta sorte di Salvo Lima, tra i quali Calogero Mannino, che, come si è già visto sopra, si rivolse per tale ragione proprio al Gen. Subranni. Ed intendevano conoscere - o almeno ciò prospettarono a Vito Ciancimino e, di conseguenza, ciò questi comunicò ai vertici mafiosi quand'anche non fosse stata quella la reale volontà di Subranni, Mori e De Donno, ma soltanto un "bluff' per far venire allo scoperto i mafiosi responsabili della strage di Capaci prima e di via D'Amelio dopo - a quali condizioni "cosa nostra" avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione frontale "muro contro muro" (v. ancora parole testuali di Mario Mori a Firenze). In sostanza, essi, quali, si ripete, che fossero le loro intenzioni, di fatto ed in modo testualmente inequivoco ("Ma non si può parlare con questa gente?") sollecitarono espressamente a Vito Cianci mino un'interlocuzione con i vertici mafiosi per conoscere a quali condizioni si sarebbe potuto porre termine al "muro contro muro" tra lo Stato e "cosa nostra" e, quindi, inevitabilmente, nel momento in cui tale sollecitazione fosse giunta ai vertici mafiosi, l'apertura, non si vede come potrebbe diversamente definirsi, di una "trattativa". Ma una importante conferma, anche in questo caso riconducibile alle stesse parole di Mario Mori (oltre che, come si vedrà, questa volta anche di Subranni) si ricava anche da una molto più recente acquisizione probatoria di questo dibattimento di cui si dirà nel Capitolo che segue.

Manovre e baratti all'ombra delle stragi. La Repubblica l'1 settembre 2019.  All'udienza del 15 settembre 2016 il P.M. ha chiesto di acquisire (ed è stata, poi, acquisita alla successiva udienza del 30 settembre 2016) la registrazione audio della conferenza stampa tenuta a Palermo il 15 gennaio 1993 dal Gen. Giorgio Cancellieri, Comandante della Regione Sicilia, in occasione della quale il predetto ebbe, tra l'altro, a dire: "La personalità di Totò Riina è nota. Fa parte... direi della letteratura della mafia, a lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell'isola, nell'intera Nazione e anche fuori dal territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito, nei gangli vitali, la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le Istituzioni statali. E questo in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, addirittura potrebbe avere del! 'inaudito e dell'assurdo, di mettere in discussione l'Autorità istituzionale. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale". A seguito di tale acquisizione probatoria di estrema importanza perché per la prima volta, dal punto di vista della ricostruzione storico-fattuale, veniva pronunziata pubblicamente, in relazione alle vicende oggetto del presente processo, la parola "trattativa", le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno hanno chiesto di esaminare, in qualità di testimone a discarico, il Gen. Giorgio Cancellieri. Quest'ultimo, quindi, è stato esaminato all 'udienza del 9 febbraio 2017 ed in tale occasione, in sintesi, ha riferito:[…]

- che la dichiarazione che egli fece in quella conferenza stampa era stata concordata con il ROS e, in particolare, con Subranni e soprattutto Mori (''[...]DICH. CANCELLIERI GIORGIO: - .. .fu una, direi, una intervista, più che altro una risposta altre domande, che era stata preparata congiuntamente ai rappresentanti del Ros, in particolare forse c'era anche Subranni, che era venuto, ma in particolare Mori, era quello che in pratica mi aveva dato la notizia della presenza nella caserma di Corso Vittorio Emanuele di Riina. Ed era una, direi una dichiarazione concordata anche su spunti da parte del Ros ... ....... Sì, sì, era, era ... .... .... Erano dei fogli che avevo, che infatti si può vedere anche dai giornali ... ... .... Poi magari me l'ero pure preparata [...]");

- che egli non si chiese quale fosse il senso di quella dichiarazione contenuta in un foglio che gli fu passato materialmente da Mori [...];

- che egli in quella circostanza non ebbe modo di riflettere su quanto dichiarato e non chiese, dunque, alcuna spiegazione [...];

- che in quel momento egli non era a conoscenza degli incontri tra Mori e Vito Ciancimino [...];

- che quella dichiarazione non fu concordata con i magistrati presenti alla conferenza stampa [...];

- di avere poi appreso dalla stampa dei contatti tra Mori e Vito Ciancimino ("lo di questo aspetto di Ciancimino, dei contatti, debbo dire che proprio ... Ho finito quasi per leggerli sui giornali come notizie di cronaca, non come fatto reale, né come attività investigativa, anche se, come dico, il fatto che si potessero ... Che il Ros potesse ...il Ros o le Sezioni Anticrimine potessero prendere dei contatti … Ma d'altra parte questo anche... L'attività investigativa (PAROLA INCOMPRENSIBILE)"); [...].

Come si vede, dunque, il Gen. Cancellieri, chiamato dalle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno nell'intento di confutare quella risultanza della registrazione della conferenza-stampa del 15 gennaio 1993 precedentemente mai emersa, ha testimoniato che egli, in quell'occasione, ebbe a farsi portavoce, quale Ufficiale più alto in grado della Regione Sicilia, di un comunicato predisposto dal R.O.S. nelle persone di Subranni e Mori o comunque di indicazioni da questi ultimi fornitegli poco prima dell'inizio della conferenza stampa. L'estrema importanza di tale risultanza, allora, deriva dal fatto che in quell'occasione la "trattativa" citata nella conferenza stampa non venne riferita, come poi avrebbe fatto Mori nel 1997, soltanto agli incontri con Vito Ciancimino, bensì direttamente a Salvatore Riina. Ciò, innanzi tutto, comprova che Subranni e Mori già in quel momento (gennaio 1993) avevano acquisito la consapevolezza, non soltanto del fatto che effettivamente Vito Ciancimino fosse riuscito a veicolare la loro sollecitazione [...] sino al massimo vertice dell'associazione mafiosa "cosa nostra" (appunto, Salvatore Riina), ma, soprattutto, per quel che rileva in questa sede, che Riina aveva, in un certo senso, accolto quella loro sollecitazione formulando alcune richieste (rectius, condizioni) per porre termine alle stragi. V'era negli imputati Subranni e Mori, in altre parole, la consapevolezza che, a seguito della loro sollecitazione rivolta per il tramite di Vito Ciancimino [...], si era, comunque, effettivamente e di fatto, instaurata, appunto, una "trattativa", con la richiesta, da un lato (Subranni e Mori), delle condizioni per cessare, appunto, le stragi e con l'indicazione, dall'altro (Riina), dei benefici al cui ottenimento veniva condizionata la cessazione delle stragi medesime. Peraltro, in tale contesto, appare estremamente significativo che sia stato usato, nel comunicato predisposto da Subranni e Mori e letto dal Gen. Cancellieri in quella conferenza stampa, accanto alla parola "trattativa" anche il verbo "barattare" . Ciò rende ulteriormente del tutto vano il tentativo fatto in questa sede dall'imputato Mori di ridimensionare il senso della parola "trattativa" da lui e da De Donno utilizzata nella deposizione dinanzi alla A.G. di Firenze [...], poiché, escluso il lapsus per la reiterazione dell'uso di quel termine, sin dai primi momenti successivi all'arresto di Riina nel 1993, da parte di soggetti di riconosciuta levatura culturale, appare chiara ed evidente la differenza tra il semplice contatto o abboccamento, che può avere carattere anche soltanto unilaterale, e la trattativa che, nel suo significato ontologico, mira alla composizione di un contrasto con il raggiungimento di un accordo (del quale, infatti, come già osservato sopra, la trattativa - e cioè gli incontri, i colloqui, le discussioni, le proposte e le controproposte - costituisce la fase preliminare). Ed allora, se già nel gennaio 1993, Subranni e Mori parlarono senza alcuna remora di "trattativa" e di "baratto", si ripete, non con Vito Ciancimino, ma con Salvatore Riina, non può che concludersi che essi già in quel momento fossero venuti a conoscenza delle richieste avanzate dal vertice di "cosa nostra" per porre termine a quella stagione sanguinosa apertasi con l'uccisione di Salvo Lima e proseguita, passando per l'uccisione del M.llo Guazzelli, soprattutto con le stragi di Capaci e via D'Amelio. D'altra parte, non va dimenticato che lo stesso Mori ha riferito che Vito Ciancimino, ad un certo momento, ebbe a dirgli che i suoi interlocutori mafiosi (di fatto, Salvatore Riina, essendo l'unico che in quel momento aveva un effettivo potere decisionale) accettavano la "trattativa" ("Guardi. quelli accettano la trattativa"). In sostanza, v'è, a questo punto, la prova definitiva ed inconfutabile che Subranni e Mori fossero a conoscenza di quelle che, senza alcun margine di opinabilità, come si dirà meglio nel prosieguo, devono essere definite come "minacce" che l'organizzazione mafiosa, attraverso Subranni e Mori [...], inevitabilmente intendeva veicolare sino al potere esecutivo affinché questo ponesse in essere quelle iniziative dirette a soddisfare le condizioni che, a seguito della sollecitazione pervenuta tramite Vito Ciancimino, erano state poste per porre termine alle stragi. Ciò detto, rinviando, quindi, ad un momento successivo l'inquadramento della suddetta risultanza probatoria nel complesso della ricostruzione fattuale richiesta, in questa sede, appare importante, però, qui sottolineare, anche per la valutazione sulla genuinità o meno di alcune successive propalazioni di collaboranti sulla c.d. "trattativa" di cui si darà conto in un capitolo successivo, che i presenti alla conferenza stampa (e cioè sia gli altri protagonisti di questa, sia i giornalisti), a causa della mancata conoscenza, in quel momento, dei fatti che costituivano il substrato della dichiarazione predisposta da Subranni e Mori, non colsero il vero senso di quella dichiarazione, così che questa non ebbe alcun risalto sulla stampa e fu persino tagliata dalla registrazione nel servizio televisivo trasmesso quel giorno (v. testimonianza Bonferraro), tanto che soltanto in anni recenti è stato possibile recuperare la registrazione integrale grazie al prezioso archivio di Radio Radicale. Le risultanze di cui si è appena dato conto nei capitoli 5, 6 e 7 che precedono consentono di ritenere già raggiunta la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, su alcuni dati fattuali che è opportuno qui sintetizzare prima di proseguire nell'analisi delle ulteriori risultanze probatorie che condurranno fino alla valutazione delle condotte che hanno dato luogo alla contestazione di reato formulata nel presente processo (di cui, come già osservato nella premessa in questa sentenza, la "trattativa" costituisce soltanto l'antecedente fattuale). In particolare, alla stregua di quanto esposto nei Capitoli prima ricordati, può affermarsi che, sulla scorta delle stesse dichiarazioni dei protagonisti principali e di quanto oggettivamente si ricava dalle condotte da loro tenute, risultano provate, in termini di fatto, le seguenti circostanze:

- Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno e poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l'esito del "maxi processo" e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci;

- Mori e De Donno tentarono, nel contempo, di acquisire la necessaria "copertura politica" di quell'iniziativa, informando, per via mediata, il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio dei Ministri e, comunque, si accreditarono verso gli interlocutori mafiosi dicendo loro (o quanto meno facendo credere loro) di rappresentare, ai fini del chiesto dialogo, le Istituzioni dello Stato o coloro che, comunque, avrebbero avuto il potere di soddisfare eventuali richieste indicate dai vertici mafiosi quali condizioni per cessare la strategia stragi sta;

- Vito Ciancimino, forse anche inaspettatamente per Mori e De Donno, effettivamente si attivò immediatamente, informando (tramite Antonino Cinà) Salvatore Riina della sollecitazione al dialogo ricevuta dai Carabinieri;

- Salvatore Riina accettò la "trattativa", autorizzando Vito Ciancimino a proseguire quei contatti con i Carabinieri.

Totò Riina e quelli che “si erano fatti sotto”. La Repubblica il 2 settembre 2019. Nei capitoli precedenti sono stati ricostruiti, in base a ciò che è stato possibile sulla scorta delle risultanze acquisite, ma soprattutto in forza delle stesse parole dei principali protagonisti, i contatti che vi furono ali' indomani della strage di Capaci tra i Carabinieri del R.O.S., nelle persone degli odierni imputati Mori e De Donno, e Vito Ciancimino e sono state, quindi, infine sintetizzate le prime conclusioni sulle quali può ritenersi già acquisita la prova. L'ultima di tali conclusioni riguarda l'accettazione della "trattativa" da parte di Salvatore Riina e, quindi, la circostanza che effettivamente quest'ultimo fu raggiunto dalla richiesta di dialogo indirizzatagli dai Carabinieri tramite Vito Ciancimino (il quale a sua volta, per contattare Riina, si era avvalso dell'intermediazione di Antonino Cinà). Si è visto sopra, infatti, che lo stesso Ciancimino ebbe ad un certo momento a informare Mori che i vertici mafiosi da lui contattati "accettavano la trattativa", così come riferito in occasione della deposizione di Firenze dallo stesso Mori, nel contempo, dichiaratosi consapevole che effettivamente Ciancimino fosse riuscito a mettersi in contatto con Riina. Ma adesso si vuole qui evidenziare un'ulteriore - anche se non necessaria, alla stregua delle risultanze probatorie prima esaminate - conferma del fatto che Riina fu effettivamente raggiunto da una richiesta di "trattativa". Deve premettersi, in proposito, che la conferma si ricaverà, indirettamente ma univocamente, anche dal fatto che, come si vedrà, per averlo riferito, anche in tempi non sospetti, molti collaboratori di Giustizia, Riina, ad un certo momento, condizionò all'ottenimento di alcuni benefici la cessazione delle stragi e, poi, per rafforzare tale richiesta di benefici decise di eseguire ulteriori gravissime stragi. Ma di ciò si dirà più ampiamente ed approfonditamente più avanti. Qui, invece, ci si intende riferire alle dichiarazioni più propriamente e direttamente confermative della ricezione da parte di Riina della sollecitazione alla "trattativa" rese da due collaboratori di Giustizia, Cancemi Salvatore e Brusca Giovanni (quest'ultimo anche imputato nel presente processo). [...] Si intende qui valorizzare, al predetto fine confermativo, più che il contenuto delle propalazioni, la circostanza che i predetti collaboratori di Giustizia le hanno rese (Cancemi nel 1994 e Brusca nel 1996) prima che Mori e De Donno, soltanto, come si è visto, nel gennaio del 1998, ebbero pubblicamente a parlare in un processo dei contatti da essi avuti con Vito Ciancimino nel 1992 ed a pronunziare, in tale contesto, la parola "trattativa". Da ciò il rilievo delle relative propalazioni rese quando ancora la questione della "trattativa" non aveva avuto alcuna risonanza pubblica, dal momento che il generico accenno fattovi da Vito Ciancimino in interrogatori non pubblici non aveva, di fatto, avuto alcun seguito, mentre, di "trattativa", come detto, avrebbero pubblicamente parlato in un dibattimento (peraltro senza che in quella occasione i media vi prestassero particolare attenzione,) Mori e De Donno soltanto successivamente nel 1998 e, quindi, a distanza di oltre cinque anni dai fatti. Ed in proposito, infatti, a riprova del rilievo pubblico assunto dai fatti soltanto nel 1998, è significativo rilevare che, come risulta dalla minuta della nota del R.O.S. a firma del "Generale di Brigata comandante Mario Mori inviata il 25 gennaio 1998 ai Comandi Provinciali dei Carabinieri di Roma e Palermo [...], lo stesso Mori, in riferimento alle testimonianze rese, da lui e da De Donno, il 24 gennaio 1998 davanti alla Corte di Assise di Firenze, riferisce a quei Comandi che "nel corso della loro testimonianza, i due ufficiali hanno illustrato i contatti intrattenuti, negli anni 1992-1993, con Ciancimino Vito Calogero ed il figlio Massimo, volti ad acquisire spunti informativi utili alla ricerca di latitanti appartenenti a Cosa Nostra" e che "nel contesto delle dichiarazioni sono stati descritti comportamenti da cui è emersa la volontà di collaborazione con la polizia giudiziaria da parte dell'ex sindaco di Palermo" e conclude, quindi, che "il fatto potrebbe provocare riflessi negativi sulla sicurezza del Ciancimino stesso e dei suoi familiari. Tanto si segnala per gli interventi valutati opportuni nelle sedi competenti''. Si tratta, con tutta evidenza, di un documento che comprova, per bocca dello stesso Mori, che soltanto nel gennaio 1998 ebbero rilievo pubblico i contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino e la collaborazione di quest'ultimo, tanto che soltanto allora ci si preoccupò delle conseguenze che sarebbero potute derivare da tale risalto pubblico per la sicurezza dello stesso Ciancimino e dei suoi familiari. Ed allora, assume rilevanza anche l'ulteriore conferma, da parte di due soggetti che hanno ricoperto ruoli non certo secondari nell'ambito dell'associazione mafiosa, almeno della percezione, da parte di "cosa nostra", di una volontà delle Istituzioni di addivenire ad un accomodamento per interrompere la strategia stragi sta di quest'ultima e ciò perché da tale percezione, come si vedrà, è conseguita, non già una interruzione della strategia stragi sta che poi vi sarà successivamente soltanto per ragioni diverse, ma, al contrario, una intensificazione delle stragi nel corso del 1993 e sino al gennaio 1994 (quando avvenne un ulteriore tentativo di strage, però, fallito) per massimizzare l'effetto intimidatorio ed ottenere benefici ritenuti indispensabili per la stessa sopravvivenza di "cosa nostra". Delle numerose acquisizioni probatorie che riguardano questo aspetto della vicenda, quello, cioè, della intensificazione delle stragi decisa nel 1993, si dirà più avanti esaminando gli effetti della "trattativa", mentre è utile esaminare prima le risultanze, fondate su dichiarazioni di intranei alla associazione mafiosa, che, dal punto di vista di questa, confermano le risultanze sopra già tratte sulla scorta delle stesse parole dei loro principali protagonisti, Mori e De Donno da un lato e Vito Ciancimino dall'altro. Le dichiarazioni rese da Cancemi Salvatore nel corso delle indagini e dei processi per fatti connessi a quelli oggetto del presente processo sono state acquisite perché divenute irripetibili a seguito del decesso del detto dichiarante. In particolare, sono state acquisite le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Roma e Milano in data 15 marzo 1994, le dichiarazioni rese al P.M. Di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Firenze e Caltanissetta in data 23 aprile 1998, e, infine, le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento per la strage di via D'Amelio alle udienze del 17,23,24 e 29 giugno 1999. […] Nel successivo interrogatorio del 15 marzo 1994 (del quale è stato prodotto ed acquisito il relativo verbale riassuntivo), Cancemi ha affrontato temi più direttamente attinenti alle vicende qui in esame. In particolare, il Cancemi, in occasione di tale interrogatorio, per la parte che qui rileva (e, d'altra parte, il verbale acquisito appare in gran parte omissato), ha riferito che, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, Riina riteneva che lo Stato non avrebbe reagito, ma avrebbe tentato di intavolare una "trattativa" attraverso importanti soggetti estranei a "cosa nostra" (" .. in concreto, per quello che sentivo da Riina e Biondino ..... si era certi che lo Stato non avrebbe reagito ..... In sostanza. Riina ed il suo cerchio ristretto erano convinti, a mio parere, che quegli atti eclatanti avrebbero indotto lo Stato alla trattativa. Ciò, come ho detto a varie A.G., per effetto dei rapporti che loro avevano con persone esterne a cosa nostra, importanti. Ho più volte ribadito che si trattava, in questo caso,

di persone che io non posso specificare, e dei cui contatti con Riina, mi aveva parlato il Ganci, quel famoso giorno in cui tornavamo da una riunione tenutasi a Capaci in preparazione dell'attentato a Falcone ... ... ... ciò che io prima ho detto va riferito esclusivamente alle aspettative ed ai convincimenti di Riina, Provenzano, Biondino, Bagarella, Ganci, Aglieri, Greco Carlo, Tinnirello e dei Graviano, cioè quel nucleo dirigente sanguinario di cui ho già parlato. È chiaro invece che la gran parte degli affiliati a cosa nostra riteneva, al contrario, essendo estranea a quei contatti con persone importanti di Riina ed ai discorsi che all'interno di quel nucleo si facevano, che la reazione dello Stato sarebbe stata molto dura e avrebbe potuto mettere in crisi l'assetto stesso di cosa nostra"). Da segnalare, poi, riguardo a tale interrogatorio la risposta ambigua data dal Cancemi alla domanda se egli ritenesse, alla luce di quanto nel frattempo accaduto (siamo nel marzo 1994), che le aspettative di "cosa nostra" fossero andate deluse: "vedremo, Provenzano è ancora libero". Ma, appare di estrema importanza, come già anticipato, il fatto che già nel marzo 1994, ben prima, quindi, della risonanza pubblica dei contatti tra i Carabinieri e Vito Ciancimino, Cancemi abbia espressamente parlato di "trattativa", che, dopo le stragi del 1992, Riina intendeva intavolare con lo Stato. […] Nel successivo interrogatorio reso ai magistrati della Procura di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, il Cancemi parla, invece, della parallela vicenda della "trattativa" legata alla restituzione di alcune opere d'arte pure riferita da Paolo Bellini ed altri di cui si dirà più avanti separatamente. Nell'interrogatorio congiunto delle Procure di Firenze e Caltanissetta del 23 aprile 1998 (del quale sono stati depositati ed acquisiti tanto il verbale riassuntivo, quanto la trascrizione della registrazione, così che, per maggiore completezza e precisione, è opportuno riferirsi a quest'ultima), quindi, Cancemi, dopo avere iniziato il suo racconto dal 1991 allorché egli era stato convocato a casa di Guddo da Riina, il quale gli aveva detto di recarsi da Vittorio Mangano per dirgli di mettersi da parte nei rapporti con Berlusconi e Dell'Utri perché ora intendeva occuparsene direttamente (".. io devo cominciare dal '91 cedo, esatto, credo dal '91 quando Riina a me mi ha mandato a chiamare, lui personalmente, con Ganci Raffaele, e io l 'ho incontrato dietro la villa Serena, la villa di Guddo, e lui mi disse a me: «Totuccio, mi devi fare una cortesia» , ho risposto io: «anche due» , dice: «devi chiamare a Vittorio Mangano e ci devi dire che si mette da parte, questa situazione che lui ha avuto nelle mani, di Dell'Utri e Berlusconi, si deve mettere da parte perché ... ... ... si deve mettere da parte questa cosa dice, me l'ho messo nelle mani io lui mi dice, nelle mani io fa perché è un bene per tutta cosa nostra, queste sono state le parole di Riina"), cosa che egli aveva effettivamente fatto informando di ciò Vittorio Mangano [...], ha, poi, riferito che dopo qualche tempo, in occasione di un altro incontro, il Riina aveva specificato quali richieste intendeva avanzare a quelle persone ("...credo che è stato nel '92 ..... ... Riina un giorno ci siamo incontrati, io Riina, Ganci e credo Biondino Salvatore, che è venuto con una situazione di dire che, ha parlato con noi, che doveva fare sapere a queste persone di, ci doveva dare alcuni punti, di fare annullare l'ergastolo, di fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro dei beni e altre cose,[...]. Quindi i punti che io mi ricordo erano questi del fatto di fare abolire l'ergastolo, 'sta legge sui pentiti di farla scomparire, di, mi sembra che c'era anche il 41 bis, insomma erano se o sette punti diciamo che lui doveva, doveva portare .. ... .... aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. .... ..... in questa riunione dice che ci doveva fare avere queste cose a queste persone, Berlusconi e Dell'Utri, i nomi che ha fatto erano questi qua ... "). Nello stesso interrogatorio, quindi, il Cancemi, dopo avere ricordato la vicenda dei quadri che erano stati recuperati già riferita nel precedente interrogatorio del 21 gennaio 1997 e di cui, come anticipato, si dirà successivamente, ha raccontato che lo scopo delle stragi era quello di "sfiduciare" coloro che erano in quel momento al potere [...] per favorire l'ascesa di Berlusconi e Dell'Utri [...], ha riferito di non avere mai saputo di progetti di attentati ai danni di politici e del Dott. Grasso, mentre ha ricordato di un progetto per uccidere il Questore La Barbera [...], ha ricordato, quanto agli incontri con Brusca Giovanni, tra i tanti, un incontro presso la casa di Guddo in occasione del quale lo stesso Brusca aveva presentato tale Rampulla a Riina [...]. Quanto al Provenzano, invece, Cancemi ha riferito di averlo visto in occasione di qualche incontro nella stessa casa di Guddo […] e ciò anche dopo l'arresto di Riina [...] ed ha aggiunto che in occasione di tali incontri successivi all'arresto di Riina, Provenzano ebbe a tranquillizzarlo dicendogli che tutto proseguiva come stabilito dal Riina medesimo ("stai tranquillo che tutto è a posto, le cose stanno continuando per come tu sai da zio Totuccio"). […] Ebbene, non v'è dubbio che Cancemi abbia effettivamente progressivamente ampliato i suoi ricordi inserendovi anche nomi di estrema notorietà inizialmente taciuti (per tutti, Berlusconi e Dell'Utri) e da ciò derivano anche tal une delle ragioni delle criticità della sua attendibilità già evidenziate nell'apposito paragrafo (Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.5) che impongono un esame rigoroso delle sue dichiarazioni e la ricerca di sicuri riscontri. E, tuttavia, come si è già evidenziato nella Parte Terza, Capitolo 4 di questa sentenza, l'attendibilità di Cancemi ha, poi, trovato un importante riscontro - all'epoca delle sue dichiarazioni non prevedibile - riguardo alla principale delle omissioni dichiarative soltanto successivamente integrate, quella relativa alla improvvisa "premura" da parte di Riina di uccidere il Dott. Borsellino. Nelle sue iniziali dichiarazioni, infatti, Cancemi aveva affermato di non sapere nulla dell'uccisione del Dott. Borsellino, mentre successivamente ha raccontato di quella riunione nella quale Riina aveva comunicato a Raffaele Ganci la relativa decisione. Tale dichiarazione appariva come un tipico esempio di "dichiarazione a rate" ed, infatti, sul relativo ritardo e sulla contraddizione rispetto alle precedenti dichiarazioni si sono incentrate le contestazioni dei difensori degli imputati di quel processo. Sennonché, come si è già rilevato nel precedente Capitolo 4, quel racconto del Cancemi sulla improvvisa accelerazione imposta da Riina alla esecuzione dell'omicidio del Dott. Borsellino e sulla sorpresa degli interlocutori del predetto capomafia (nella specie, secondo Cancemi, Raffaele Ganci), ha trovato un inatteso e del tutto imprevedibile riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate all'interno del carcere nel 2013 (v. Capitolo 4 già richiamato). Ciò impone di riconsiderare quelle dichiarazioni del Cancemi ancorché tardive, pur non abbandonando, però, il più rigoroso criterio di valutazione di cui già si è detto. In ogni caso, quel che è utile rilevare riguardo alla questione in esame in questo Capitolo, è il nucleo delle dichiarazioni di Cancemi sostanzialmente rimasto invariato nel tempo, quello relativo al fatto che, dopo la strage di Capaci, in "cosa nostra" si iniziò a parlare di "trattativa" e che l'oggetto delle pretese di Salvatore Riina era costituito dall'ergastolo, dalla legge sui pentiti, dal sequestro dei beni e dal 41 bis, nonché, più in generale, dai detenuti mafiosi [...]. […] Anche le dichiarazioni di Giovanni Brusca, sia per la loro evoluzione nel tempo ben messa in evidenza dai difensori degli imputati in sede di controesame, sia per lo stesso ruolo di imputato che il Brusca riveste in questo processo, devono  essere esaminate con particolare vigore (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4). Non v'è ragione, però, di giungere ad una totale e pregiudiziale dichiarazione di inattendibilità intrinseca del detto dichiarante così come chiesto e sostenuto dai difensori degli altri imputati, sia perché in molti altri processi già conclusi con sentenze irrevocabili è stata riconosciuta l'importanza e la rilevanza del contributo fornito dal Brusca per la ricostruzione di vicende delittuose e per l'individuazione dei relativi responsabili (tanto che al detto odierno imputato è stata in molte occasione formalmente riconosciuta la circostanza attenuante speciale della collaborazione), sia perché anche nel presente processo sono stati acquisiti straordinari ed imprevedibili riscontri alle dichiarazioni del Brusca nelle parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all'interno del carcere ove lo stesso era detenuto. Si è già ricordata, in proposito, la conferma, nelle parole del Riina, dell'improvvisa accelerazione impressa alla esecuzione dell'omicidio del Dott. Borsellino, di cui, appunto, Brusca aveva sempre riferito per conoscenza diretta collegata all'incarico di uccidere l'On. Mannino, che egli precedentemente aveva ricevuto e stava attuando, poi, appunto, revocatogli per la sopravvenuta esigenza rappresentatagli dal Riina medesimo (v. sopra Capitolo 4). E si è già fatto cenno, nella scheda sopra dedicata al Brusca come collaboratore di Giustizia, ad un particolare, assolutamente peculiare ed originale che ha trovato conferma ancora nelle parole del Riina, riferito al tema controverso degli assetti dell'organizzazione mafiosa "cosa nostra" dopo l'arresto di Salvatore Riina. Si è visto sopra, infatti, che tra le tante dichiarazioni, Brusca ad un certo momento, riferendo, appunto, dell'assetto di "cosa nostra" dopo l'arresto di Riina e delle discussioni cui anch'egli ebbe a partecipare riguardo alle decisioni da prendere in ordine alla prosecuzione o meno della strategia mafiosa, ha riferito di una particolare frase che Bagarella ebbe a rivolgere a Provenzano a fronte del tentativo di questi di tirarsi indietro dalla strategia sino ad allora portata avanti: "Ti metti un cartellone così. prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente» " (v. dichiarazioni Brusca sopra più ampiamente riportate: "Provenzano l'unica cosa che dice: "Ed io come mi giustifico con gli altri?" Si riferiva al suo gruppo Aglieri, Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente Bagarella gli fa, dice, che ha sorpreso pure me, dice: "Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente»"). Ebbene, balza assolutamente evidente la coincidenza del racconto del Brusca con un passo di un'intercettazione effettuata all'interno del carcere nel quale era detenuto Riina allorché quest'ultimo racconta al suo interlocutore che, di fronte alle perplessità del Provenzano, egli gli aveva detto (rectius, ovviamente gli aveva mandato a dire, essendo egli, appunto, già detenuto, ma non essendo d'ostacolo di certo lo stato di isolamento dal momento che egli, comunque, effettuava i colloqui con i familiari e, pertanto, innanzitutto con la moglie, sorella di Leoluca Bagarella; […]) di mettersi un cartello al collo con la scritta "io non ne so niente" ove intendesse dissociarsi (v. intercettazione del 18 agosto 2013 del colloquio del Riina nel corso del quale quest'ultimo, ad un certo punto, dice: "invece con tutta quella, comu sacciu, con tutta quella esperienza che aveva ci rissi: ti mietti un cartellino attaccato 'nto cuoddu e dici - io non ne so niente!''). Come si vede, poiché tale intercettazione non era ancora nota quando Brusca ebbe a fare il suo racconto, si tratta di un riscontro assolutamente straordinario per importanza e rilevanza, che conferma come non sia possibile (né corretto alla stregua dei criteri generali sopra ricordati nella Parte Prima della sentenza, Capitolo 3, paragrafo 3.3) disattendere del tutto le propalazioni del Brusca per difetto di attendibilità intrinseca, seppur applicando, per le criticità che, comunque, hanno connotato la sua collaborazione, un particolare rigore nella ricerca dei riscontri (e ciò sarà fatto anche con riferimento alla intercettazioni effettuate nei confronti di Riina nelle quali si rinvengono, come si vedrà nell'apposito Capitolo in cui tali intercettazioni saranno esaminate, anche talune smentite alle propalazioni del medesimo Brusca che richiederanno una specifica analisi). Ma, ritornando al tema qui in esame, quello della ricerca della conferma della "trattativa" anche nelle parole del Brusca, è utile qui concentrarsi, come nel caso del Cancemi, soprattutto sulle dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere nell'immediatezza della sua collaborazione (dopo il superamento, però, degli iniziali depistaggi finalizzati a "salvare" alcuni soggetti a lui vicini) nel mese di agosto 1996 e, quindi, ben prima delle testimonianze di Mori e De Donno, che, appena da lui conosciute, lo hanno indotto a rielaborare e reinterpretare alcuni ricordi, aggiungendo tardivamente anche alcuni particolari, di cui, proprio per il particolare rigore che, come detto, deve applicarsi nella valutazione delle propalazioni del Brusca, non può tenersi conto in assenza di diretti ed univoci riscontri (si pensi al nome di Mancino soltanto nelle sue più recenti dichiarazioni aggiunte dal Brusca a proposito del destinatario delle richieste del Riina). Le dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere il 14 agosto 1996 sono state poste all'attenzione della Corte con le contestazioni che le difese degli altri imputati hanno mosso in sede di esame del Brusca e, tuttavia, possono essere utilizzate, oltre che per la valutazione della credibilità del dichiarante, anche nel loro contenuto nei limiti in cui, ovviamente, poi tali dichiarazioni, a seguito, appunto, delle contestazioni di cui si è detto, sono state confermate dal Brusca medesimo nell'esame reso in questa sede. Ebbene, è importante, allora, evidenziare che Brusca, già il 14 agosto 1996, prima, si ripete, che Mori e De Donno riferissero i particolari dei loro colloqui con Vito Ciancimino [...], ebbe a riferire che dopo le stragi (quelle del 1992) Riina aveva sospeso la strategia stragi sta perché aveva avuto contatti con soggetti non specificati che gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi medesime ed egli (il Riina) aveva a quel punto fatto un "papello" di richieste ritenute, però, esose dai suoi interlocutori, così come raccontato al Brusca medesimo in occasione di un incontro avvenuto nel periodo natalizio del 1992 (v. verbale dell'interrogatorio in data 14 agosto 1996 nel quale, come risulta dalla contestazione fatta al Brusca in questo dibattimento, si legge a pag. 9: [...]"Dopo le stragi di Palermo e l'incarico a me dato di un attentato al Giudice Grasso, da me non attuato per ragioni già dette, Riina aveva messo il fermo. Mi disse espressamente che aveva avuto contatti con qualcuno e questo qualcuno gli aveva detto più o meno «cosa vuoi per finire queste cose?». Riina mi disse di aver fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe. Questo discorso me lo fece sotto le feste di Natale"). Brusca ha confermato - e, poi, maggiormente dettagliato (ma, d'altra parte, quelle dichiarazioni sono riportate in un verbale riassuntivo) - anche in questo dibattimento il contenuto del colloquio avuto con Riina ("... e lui mi risponde: "Si sono fatti sotto ", stavolta con un tono contento, di soddisfazione e già era arrivato al punto, dice: "Gli ho fatto un papello così di richiesta"[...]"), modificando, però, la collocazione temporale allora data, perché, secondo il predetto dichiarante odierno imputato, quel colloquio, in realtà, avvenne alla fine di giugno 1992 e, comunque, prima della strage di via D'Amelio, così come egli ha potuto ricostruire, asseritamente, sulla base di alcuni episodi delittuosi di quei mesi, quali l'omicidio Lizio, l'omicidio Milazzo ed il tentato omicidio di Germanà. La Corte, poiché tale collocazione temporale è stata oggetto di dichiarazioni del Brusca nel tempo diverse e spesso contraddittorie, intende prescindere da tale dato (che, peraltro, come meglio si preciserà nei prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina (quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque, per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che, invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni fino a quelle rese i